Museo Nazionale - Via Salvator Rosa - Via Matteo
Renato Imbriani - Piazza De Leva - Via Conte della
Cerra - Via Gerolamo Santacroce - Via Giacinto
Gigante - Arenella - Monte Donzelli - Cappella dei
Cangiani - Camaldoli - Via San Giacomo dei Capri -
Antignano - La Collina del Vomero - San Martino -
Piazza Vanvitelli - Via Scarlatti - Via Domenico
Cimarosa - Via Aniello Falcone.
Questo itinerario ci porterà sul Vomero, che finora
abbiamo volontariamente tenuto da parte in quanto
può essere considerato una città nella città e dalla
Napoli vera e propria, volendo, può essere
considerato separato. Vi si giunge attraverso via
Salvator Rosa partendo dal Museo, o per le vie Tasso
e Aniello Falcone partendo dal corso Vittorio
Emanuele. Sarà un itinerario abbastanza lungo,
poiché dal Museo Nazionale raggiungeremo l'Arenella
e di lì faremo una breve scampagnata ai Camaldoli;
scenderemo poi per via San Giacomo dei Capri ed
entrati per Antignano al Vomero raggiungeremo San
Martino. Percorreremo quindi via Scarlatti o via
Domenico Cimarosa ed imboccando via Aniello Falcone
torneremo al centro della città.
In via Salvator Rosa, ci troveremo ben presto ad un
quadrivio costituito dall'incrocio con via Matteo
Renato Imbriani da un lato e dall'altro con un
dedalo di antiche strade, fra cui via Santa Monica
che porta in via Salvatore Tommasi e quindi a San
Potito, la via San Giuseppe dei Nudi intersecata da
via Mancinelli che ha sulla sinistra la via del
Priorato e via Francesco Saverio Correrà, chiamata
volgarmente « Cavone », che riporta in piazza Dante.
Via Salvator Rosa continua fino a piazza Mazzini,
che abbiamo già vista al termine del corso Vittorio
Emanuele; in questo secondo tratto di via Salvator
Rosa troveremo sulla destra la
Chiesa di Santa Maria
Maddalena de' Pazzi restaurata verso la fine
del secolo XVIII da Pompeo Schiantarelli:
essa non conserva
alcunché di notevole all'interno ad eccezione di un
dipinto di Luca Giordano raffigurante Santa
Maria Maddalena.
Poco più avanti vi è a sinistra l'incrocio con via
Gesù e Maria, di cui abbiamo già parlato
nell'itinerario del corso Vittorio Emanuele.
Ritorniamo quindi sui nostri passi fino al quadrivio
per imboccare, invece, via Imbriani che ci condurrà
all'Arenella. Alla sinistra di questa vi è un dedalo
di stradette che si trovano nel breve quadrato
delimitato da via Salvator Rosa, dalla via Imbriani
e dalle Rampe Nocelle, delle quali ricorderemo il
vico delle Nocelle, la via San Mandato ed il vico
San Mandato. La via Imbrianii che prosegue
incontrando a destra via Leone Marsicano e vico
Corigliano, dopo il vico Provvidenza cambia il nome
in via Salvo D'Acquisto; sorpassato poi il vico
delle Trone che incrocia il vico Paradiso alla
Salute, giunge in piazza De Leva, da cui la Salita
Due Porte conduce alla Chiesa di Santa Maria
della Salute. Tralasciando le strade alla nostra
destra che ci porterebbero nel quartiere di
Materdei, che già abbiamo visto, in un precedente
itinerario, continuiamo per via Salvo D'Acquisto
fino in piazza Canneto e di qui scendendo per via
Battistello Caracciolo, che ha sulla destra via
Poggio dei Mari, potremmo raggiungere la fine di via
Salvator Rosa ed imboccare via Gerolamo Santacroce.
In questo terzo tratto di via Salvator Rosa vi è la
Chiesa di Santa Maria della
Pazienza chiamata anche « la Cesarea »
perché fu costruita nel 1601 per desiderio del
segretario della Real Camera Annibale Cesareo.
Restaurata nel 1913 ha nell'interno un pregevole
altare maggiore, alcune tele di Giovan Battista
Lama e di Lorenzo de Caro e il Sepolcro di
Annibale Cesareo, opera di Michelangelo
Naccherino.
Ritornati sui nostri passi, da piazza Canneto
prendiamo via Giacinto Gigante, trovando sulla
destra la vie private Marino Cotronei e Annunziata
ed altre di poca importanza e sulla sinistra via
Giuseppe Orsi che intersecata dalla salita Arenella
e dalla via Blundo conduce in piazza Medaglie d'Oro;
attraverso via De Dominicis, via Ugo Niutta o via
Edgardo Cortese da questa grande piazza potremo
raggiungere piazza Muzi, nel quartiere
dell'Arenella, che ha al centro il Monumento a
Salvator Rosa. Dalla adiacente piazzetta
Arenella, per via Mazzoccolo o per via Ugo Palermo
si giunge a via Domenico Fontana e poi a un
quadrivio che ha alla destra via Massari e a
sinistra via Presutti; procedendo per la nostra
strada possiamo raggiungere Monte Donzelli ove
ancora si ammira l'antica Villa e tramite via
Castellino imboccare via D'Antona e poi via Antonio
Cardarelli dove è appunto l'Ospedale Cardarelli.
Dalla stessa via Domenico Fontana, lasciando a
sinistra la Cupa dell'angelo Raffaele alle Due Porte
e imboccando via Bernardo Cavallino che ha a
sinistra la Cupa dei Gerolomini e a destra la Cupa
Due Porte che porterebbe in piazzetta Due Porte e
poi all'ampia zona dei Colli Aminei, giungeremo
ancora in via Antonio Cardarelli. Vi è qui un
trivio, che ha sulla destra viale Colli Aminei e
sulla sinistra via Michele Pietravalle; noi
imboccheremo quest'ultima, e girando intorno
all'ospedale Cardarelli prenderemo via Sergio
Panzini, che ha a destra il Cavone delle Noci.
Attraverso questa strada o per via Montesano o per
via Mariano Semmola si può andare al Largo, detto
anche Cappella dei Cangiani, ove è la Chiesa di
Santa Maria di Costantinopoli ai Cangiani, e poi
imboccando la via Leonardo Bianchi lasceremo sulla
sinistra la strada che scende al rione Traiano a
Fuorigrotta, sorpasseremo il moderno complesso del
Nuovo Policlinico e dopo aver superato
Orsolone e i Guantai per via Nuova Camaldoli
giungeremo all'Eremo.
La parola « Camaldoli » è usata per indicare questa
collina soltanto dalla metà del secolo XVI, ma la
prima costruzione della chiesa viene attribuita al
vescovo Gaudioso che avrebbe edificata in questo
luogo una cappellina in onore della Trasfigurazione
del Salvatore. Nel 1585 vi fu poi costruito l'eremo
tuttora occupato dai frati camaldolesi, il severo
Ordine di clausura fondato da San Romualdo che vive
secondo la regola benedettina. Il primo convento di
questi religiosi fu eretto nel 1012 a spese del
conte Maldolo e
probabilmente dal nome di questo personaggio gli
eremi di questi frati si chiamarono Camaldoli, ed
essi camaldolesi. Nel secolo XVI questi eremiti a
Napoli ebbero in dono da don Giovanni d'Avalos di
Aragona, figlio del marchese del Vasto, una
magnifica magione che non vollero accettare: don
Giovanni allora donò un'ingente somma perché
potessero edificarsi una chiesa e un convento. La
chiesa fu chiamata del SS. Salvatore,
ed in breve quest'eremo, sito in uno dei più belli e
panoramici dintorni della città, divenne famoso per
la dottrina e per l'umiltà dei suoi monaci. Esso fu
protetto dai pontefici Alessandro VII e Clemente XIV
e da molti sovrani, ma nel 1806, nonostante fosse
stato molto benvoluto dai sovrani borbonici, per la
legge di Giuseppe Napoleone fu soppresso anche il
suo Ordine. Soltanto nel 1820 gli eremiti poterono
tornarvi; ancora una volta, poi, nel 1866 il
convento fu espropriato e i religiosi scacciati ma
nel 18S5 poterono ritornarvi definitivamente.
La costruzione ha una severa linea cinquecentesca:
all'ingresso, in fondo a un corridoio la Vergine
dì Lourdes riceve il visitatore. Per una rampa
sulla destra si accede poi al sagrato della chiesa,
graziosa opera rinascimentale costruita sui ruderi
della prima cappellina a cura di Domenico Fontana:
la facciata è semplice e severa, ma ha un bel
portale in pietrarsa ed una iscrizione su una lastra
di marmo che ricorda la gratitudine dei monaci per
il loro benefattore Giovanni d'Avalos. L'interno
della chiesa è ad unica navata con sei cappelle
laterali, e dieci finestroni. I pregevoli intarsi
scultorei sono opera di Salvatore Franco, come i
busti raffiguranti San Benedetto e San
Romualdo; una potente balaustra sormontata da
inferriata limita l'ingresso dei fedeli riservando
una parte della crociera ai monaci, che osservano
una stretta clausura. In fondo, vi è l'altare
maggiore la cui realizzazione si attribuisce a
Cosimo Fanzago con impiego di marmi pregiati come il
giallo antico, la breccia di Francia, quella di
Sicilia, il broccatello di Spagna, il giallo di
Siena e l'alabastro orientale. Dietro l'altare vi è
il coro, opera di Domenico Tarallo del 1792; davanti
si nota la lapide che copre il sepolcro di Giovanni
d'Avalos. Vi sono nella chiesa alcuni dipinti: la
Visione di San Romualdo di Francesco Amendola,
nella pala d'altare una Trasfigurazione del
Cristo di dubbia attribuzione a elle pareti
laterali tele ad olio del Grammatica. Pregevole
l'affresco del Mozzillo del 1792 che rappresenta la
Gloria di San Romualdo e sulla parete di
entrata L'ultima cena di Massimo Stanzione.
Nella seconda cappella notiamo una Sacra
famiglia di Ippolito Borghese, nella terza una
Assunzione della Vergine di Cesare Fracanzano
ed ancora una Deposizione di Fabrizio
Santafede; un bel dipinto di Luca Giordano sulla
parete di destra raffigura la Sacra famiglia e la
Croce. Vi sono poi
una bella Crocifissione di ignoto e una
Immacolata Concezione di Luca Giordano nella
cappella centrale; da ammirarsi anche le pile
lustrali attribuite a Cosimo Fanzago. Poiché
l'eremo è di clausura non è permesso alle donne
visitarlo: il visitatore che voglia farlo può
chiederlo, e potrà ammirare nella Sala Capitolare,
un altare in marmo policromo ed al centro un busto
raffigurante San Romualdo, e nella sacrestia,
alla quale si accede dalla porta del Capitolo, un
dipinto di Cesare Fracanzano. La spalliera della
sacrestia è opera del secentesco napoletano Gian
Domenico Amitrano e l'affresco sull'arco della porta
d'ingresso raffigurante Cristo benedicente è
del Mozzillo. Da una porta di questo vestibolo si
accede all'interno dell'eremo, spoglio e severo, le
cui celle hanno ognuna un piccolo orto recintato da
un muro, con il proprio pozzo, affinché il monaco
possa coltivare da sé quanto gli serve per il suo
mantenimento, in quanto la regola non permette loro
di mangiare carne né grassi animali. All'interno un
altarino e un lettino, uno scrittoio con sedia ed a
volte un piccolo armadietto. Interessante è la
visita alla foresteria del convento, che ha ospitato
nel passar dei secoli importanti personaggi, fra i
quali Guglielmo II di Germania e l'imperatrice
Carlotta ed anche qualche principe di Casa Savoia.
Nella parte destra vi è il refettorio, usato
soltanto nelle -occasioni solenni, per quanto,
essendo attualmente ridotti i monaci a tre o quattro
hanno ottenuto il permesso di consumare la colazione
tutti insieme; per la cena essi possono mangiare
soltanto ciò che rimane dal mattino.
Si può poi accedere al Belvedere, che è diviso in
due parti, uno per i monaci e l'altro per gli
ospiti.
Dopo aver visitato l'eremo dei Camaldoli ritorniamo
sui nostri passi e rifacendo velocemente via
Leonardo Bianchi, il largo Cangiami e via Mariano
Semmola imbocchiamo via San Giacomo dei Capri dove
ancora resistono al piccone demolitore Villa
Marsiglia, Villa Pellerano, Villa Valentino, e
la imponente Villa Lerario, mentre tutta la
zona, non molto tempo fa sito di villeggiatura, è
divenuta il solito agglomerato di orribili
palazzoni; sopravvivono pateticamente anche la
Villetta Amena e il Villino Elena.
Giungiamo quindi in via Giovan Battista Ruoppolo,
una parallela di via Arenella che ha sulla sinistra
via Maurizio de Vito Piscicelli, via Saverio
Mercadante, via Niccolò Piccinni; via Verdinois, via
Antonio Porpora, via Solario, via Nicola Iommelli,
via Florimo, via Raffaele Stasi e la via Giotto che
conduce in piazza Medaglie d'Oro. Sulla destra
troviamo invece via Sant'Anna e via Antignano che è
il proseguimento di via Arenella, parallela di via
Saverio Altamura, intersecata da via Simone Martini,
dalla traversa Pigna e via Scala. Giungiamo in
piazza degli Artisti dalla quale per via Tino di
Camaino o per via Pacio Berlini o per via Casale De
Bustis intersecate dalle vie Angelica Kauffmann,
Sebastiano Conca e Tarantino possiamo ritornare in
piazza Medaglie d'Oro. Prendendo un'altra delle
arterie che da questa piazza si dipartono a
raggiera, via Menzinger e lasciando a sinistra via
Blundo e a destra piazza Celebrano possiamo giungere
in piazza dell'Immacolata e per via Eduardo Suarez
in piazza Leonardo donde, prendendo la strada
centrale, che è via Gerolamo Santacroce, torneremmo
in via Salvator Rosa. Risaliamo via Santacroce e
prima di giungere in piazza Leonardo notiamo che
sulla sinistra vi è il viale Raffaello che si
congiunge col secondo tratto di viale Michelangelo;
sulla destra di questo, via San Gennaro ad Antignano
per via Conte della Cerra scende anch'esso verso via
Salvator Rosa. Da piazza Medaglie d'Oro parte
l'ampia via Mario Fiore che dopo aver tagliato viale
Michelangelo, via San Gennaro al Vomero, preso il
nome di via Gian Lorenzo Bernini taglia ancora via
Solimene e giunge in piazza Vanvitelli.
Tralasciamo la zona nuova, che da Antignano per via
Cilea porta al corso Europa e rimaniamo al centro
del Vomero che è la piazza Vanvitelli.
Secondo un patrio scrittore il nome di questa
collina deriverebbe dall'aratro, essendo essa
abitata da gente che aveva « vomeri e bovi », che
talvolta gareggiava a fare il solco più
rettilineo.
In piazza Vanvitelli sfociano, oltre via Gian
Lorenzo Bernini, via Alessandro Scarlatti,
un'importante arteria che nella sua continuazione
col nome di via Francesco Cilea, si collega al corso
Europa. Le strade più importanti del Vomero in
questa zona centrale sono via Luca Giordano che
parte da piazza degli Artisti, via Alessandro
Scarlatti e via Bernini: mentre la prima e l'ultima
sono parallele, via Scarlatti le taglia ambedue così
come la superiore via Kerbaker e le intermedie via
Giovanni Merliani e via Enrico Alvino. Parallele di
via Scarlatti sono via Francesco De Mura, via
Massimo Stanzione, via Solimena e, dopo piazza
Vanvitelli, via Cimarosa. Quest'ultima parte
dalla fine di via
Aniello Falcone, incontra
subito dopo via Mattia Preti, forma un quadrivio con
via Luca Giordano e costeggia il parco della villa
Floridiana, che vi ha il suo ingresso principale;
dopo la stazione terminale della funicolare di
Chiaia vi è poi l'ingresso dell'altra villa
collegata alla Floridiana, Villa Lucia.
Queste due ville sono molto importanti, oltre che
per la loro bellezza architettonica, perché nella
Villa Floridiana
vi è un prezioso Museo, quello del duca di
Martina.
Dopo la morte della consorte Maria Carolina,
avvenuta l'8 settembre del 1814, Ferdinando IV non
tardò ad allacciare una relazione con una graziosa
quarantaquattrenne, figlia del duca Vincenzo di
Floridia e di donna Dorotea Borgia, vedova del
principe Benedetto Grifeo di Partanna: erano passati
appena cinquanta giorni di lutto quando Ferdinando
IV la sposò morganaticamente, suscitando lo sdegno
dei figli, compreso il principe ereditario
Francesco. Per la sua bella, re Ferdinando acquistò
dal principe di Torella la grandiosa villa che da
un titolo della moglie, che
era duchessa di
Floridia, chiamò La Floridiana. La villa
era già stata
molto curata dai precedenti proprietari; il re, per
ampliarla, acquistò alcuni poderi limitrofi e fece
costruire l'altra palazzina, che fu chiamata, sempre
dal nome della Migliaccio, villa Lucia. Le due
proprietà furono unite da un ponte che passava su un
vallone, ideato e costruito da Antonio Niccolini,
che ne decorò la volta con il giglio
borbonico, il nome
del sovrano, l'anno di
costruzione e il nome della duchessa in lettere di
bronzo: l'architetto
provvide anche alla sistemazione di tutta la parte
boschiva.
La facciata della Floridiana è a due ordini di
balconi con graziose ringhiere e tondi e losanghe
in quadrello su un saldo basamento in pietra
vesuviana: al centro della facciata vi è una loggia
in lesene ioniche sovrastata da un arcone centrale.
Entrando da via Cimarosa ci si trova nel gran parco,
solcato da maestosi viali di cui quello centrale
porta alla villa; l'ingresso più vicino alla
Floridiana è però quello da via Aniello Falcone,
mentre da questo lato, dirigendosi a sinistra, si
raggiunge più facilmente l'altro edificio, Villa
Lucia. In questa direzione s'incontra prima il
grazioso teatro all'aperto e scendendo si giunge
alle spalle dell'edificio dal quale si può godere
uno dei più superbi panorami di Napoli. Nel
giardino, oltre il teatro all'aperto furono
costruiti un tempietto dorico, serre, fontane,
statue, uccelliere, poiché la duchessa amava abitare
nella villa quasi
tutto l'anno e darvi
sontuosi ricevimenti, fra i quali è rimasto
memorabile uno
dato nel 1819 in onore del cognato Carlo IV di
Spagna. Nella villa Floridiana è stato sistemato il
Museo Nazionale della Ceramica duca di Martina,
costituito da preziose raccolte di porcellane e
maioliche il cui nucleo principale era di proprietà
del duca di Martina Placido de' Sangro, nella
seconda metà del secolo scorso. Il nipote conte de'
Marzi accrebbe questa raccolta e infine la vedova,
donna Maria Spinelli, nel 1931 donò tutto alla ctità
di Napoli. La villa è stata restaurata ed ampliata
dopo la guerra e le collezioni sono passate allo
stato.
Appena entrati, si nota sullo scalone un busto
marmoreo di Ferdinando IV, e nel primo
pianerottolo una colonna di marmo africano e degli
arazzi francesi del secolo XVIII. Nell'anticamera si
ammira un grande ritratto della Principessa di
Floridia di Vincenzo Camuccini. Entriamo ora
nella sala I dove troveremo le porcellane di
Sassonia, di Vienna, ed impugnature di bastoni in
avorio, in cristallo di rocca, in malachite con
ceselli d'oro, in pietre dure del XVIII secolo e
ancora collezioni di bastoni. Nella sala II vi sono
le porcellane francesi del XVIII secolo, Sèvres,
Tour-nay, e un busto di biscuit di Sèvres con un
ritratto di Luigi XVIII. Si nota poi una
vetrinetta con miniature di Federico II il Grande
ed il Generale Zichen e una Figura
Muliebre di Vittorino Campana del XVIII se-solo.
Vi è poi una « consolle » in legno dorato, opera
napoletana del XVIII secolo, vasi di porcellana di
Sèvres, « bleu de roi », montati in bronzo e un
ritratto del Duca di Martina di Salvatore
Postiglione. Altre vetrinette a muro contengono
miniature, orologi e porcellane francesi di Sèvres,
Chantilly e Mennecy: interessante un arazzo di
Pietro Forlonei raffigurante il Cardinale
Aldrovandi e le miniature rappresentanti
Ferdinando II e Maria Carolina. Nella
sala III troviamo porcellane francesi di
Saint-Cloud, Sèvres, Lennecy, Chantilly,
Villeroy, un pannello di portantina, un
vaso di porcellana di Sèvres, porcellane francesi
con pezzi di Vincennes e Parigi. Nella sala IV sono
raccolte porcellane di Doccia e di Venezia e
dipinti francesi del XVIII secolo; nella V, che era
il salone da ballo, magnifiche porcellane di
Capodimonte e di Napoli. In una grande vetrina
centrale vi sono porcellane di Capodimonte di
notevole interesse, alcune eseguite sotto la
direzione di Giovanni Caselli. Scatolette,
tabacchiere, agorai, porta mentine e oggetti vari in
porcellana, o in madreperla, sono in una vetrinetta
ovale; altre piccole porcellane di Capodimonte prima
epoca (1743-1759), seconda epoca (1771-1807),
biscuits, fabbrica di Napoli, dal 1771 sono nelle
altre vetrine, di cui una centrale ospita porcellane
della fabbrica di Napoli, dal 1771. Ancora
tabacchiere, scatoline, carnets ed oggetti vari,
biscuits neo-classici, fabbrica di Napoli, dal 1771,
porcellane della fabbrica di Capodimonte, servizi
con figure classiche e un dipinto di Giacomo del Po,
rappresentante un Baccanale. Altre porcellane
di Capodimonte sono nella sala VI, insieme ad alcuni
dipinti, « consolles », una specchiera, un gruppo di
putti di porcellana del Buen Retiro (dopo il 1759) e
una vetrinetta ovale con oggetti vari. Nella sala VI
vi è la vetrina degli ori, e nella VII porcellane di
Sassonia. Nella vetrina centrale porcellane di
Meissen, grandi vasi prodotti sotto la direzione del
Bottger (1710-1719), altri con la sigla « Augustus
Rex », e figurine cinesi del periodo Herold e
Kandler. Ancora porcellane di Sassonia nella sala
Vili e dipinti, mobili, mensole, e nella vetrina
centrale interessanti porcellane di pasta dura di
Meissen fra cui emerge il gruppo del Ratto di
Proserpìna. Nella sala IX, X e XI ancora
magnifiche porcellane di Sassonia, Bottger, Herold e
Meissen, Kandler, Dietrich, Marcolini e dipinti e
mobili. Nella sala XII vi sono porcellane inglesi e
viennesi di Chelsea, di Wedgwood, di Worcester, di
Pietroburgo, periodo di Nicolaus (1825-1855); bello
il medaglione di porcellana, rappresentante
Maria Teresa d'Austria e Francesco Lotario, una
zuppiera di Vienna del periodo Sorgenthal
(1784-1804), una tazza e statuina con smalto nero, e
alcuni pezzi di Leithner (dopo il 1791). Nelle sale
XIII e XIV vi sono le porcellane tedesche di Hochst
sul Meno (1715-1794), di Zurigo (1763-1768), di
Furstenberg (Brunswich), di Berlino, di Nymphenburg
(Baviera), di Niederwiller (Lorena), di
Nymphenburg, 1758 e di Frankenthal. Ammiriamo poi
una collezione di tabacchiere e di scatole di
metallo smaltato e ancora porcellane di
Niederwiller (Lorena 1754-1827), di Ludwigs-burg
(1758). Nella sala XIV un rinfrescatoio di
porcellana di Napoli, epoca Ferdinando IV,
ceroplastiche colorate, arte siciliana del secolo
XVIII, tra cui una molto bella rappresentante
papa Clemente XI ed altre Carlo III e
Ferdinando IV. Segue la sala XV con ceramiche
varie e serrature per forzieri; la sala XVI con
maioliche abruzzesi, esemplari rari della fabbrica
di Castelli, opere di Carlantonio Grue e vasi di
farmacia di F. A. Grue della prima metà del XVIII
secolo. Segue la sala XVII con maioliche italiane e
francesi di Delft, di Milano, di Parigi, di Meissen,
« Augustus rex » e sedioloni, dipinti, comodini. La
sala XVIII contiene ancora maioliche italiane,
orientali, ispano-arabe della fabbrica di Deruta,
del XVI secolo, di Urbino, XVI secolo, veneziane,
XVIII secolo, ispano-arabe, XVI secolo, bellissimi
esemplari di Faenza, ancora maioliche ispano-arabe
di Valenza, di Malaga, di Rodi e nelle sale XIX e XX
vetri di Murano e cristalli di Boemia, specchi,
Drummont, paste vitree di Murano, cristalli di rocca
incisi. La sala XXI raccoglie avori e smalti, mentre
la sala XXII contiene smalti ed oggetti d'arte
medioevali. Le collezioni orientali sono
nell'androne e nel pianerottolo vi sono vasi e
alcuni quadri. Segue la sala XXIII con raccolta di
giade, la XXIV con bronzi, la XXV con metalli
smaltati, « cloisonnès », avori e lacche, la XXVI e
XXVII con porcellane giapponesi, e la sala XXVIII,
XXIX e XXX con porcellane cinesi di epoca K'ang-hsi
(1662-1723) dei Ming, XVII secolo, Ch'eng-hua
(1465-1487) e piatti, scodelle e vasi. Nella sala
XXXI ancora porcellane cinesi e giapponesi di
notevole interesse.
Usciti dal Museo e dal giardino per l'ingresso su
via Domenico Cimarosa, troveremo poco più avanti a
destra la piazza Ferdinando Fuga dalla quale partono
via Lordi e via Giacomo Puccini che si collegano con
via Donizetti, che porta a via Mancini, via
Michetti, via Luisa Sanfelice, pressappoco parallela
con via Filippo Palizzi: lateralmente a questo
gruppo di strade scendono verso il corso
Vittorio Emanuele i gradoni del Petraio.
Andando a sinistra di via Domenico Cimarosa ci
troveremmo invece in via Luca Giordano, che in
questo tratto ha sulla sinistra via Belisario
Corenzio e via Andrea Vaccaro intersecate da via
Mattia Preti, prolungamento della via Annella di
Massimo, che sbocca in piazza Antignano. Piegando a
destra per via Scarlatti e continuando, dopo piazza
Vanvitelli, per via Morghen, prima di arrivare alla
stazione terminale della funicolare di Montesanto
troveremo sulla sinistra prima via Sanchini che
collega via Morghen con piazzetta Durante e poi via
Giuseppe Bonito e sulla destra via Pirro Ligorio,
quindi imbocchiamo via D'Auria che ha sulla destra
le parallele via Maestro Colantonio e via Cotronei
intersecate da via Dalbono e girando a destra
imbocchiamo via Tito Angelini che ci conduce
all'ampia terrazza panoramica sita davanti alla
Certosa di San Martino, su cui sovrasta la mole
di
Castel Sant'Elmo.
Questo imponente castello, che domina la città ed il
golfo dall'alto della collina, è molto antico, in
quanto si ritiene che il suo primo nucleo, una
fortezza chiamata Belforte, fosse costruita intorno
al 1170. Già nel secolo X sulla collina vi era una
chiesetta dedicata a Sant'Erasmo e probabilmente
accanto a questa chiesa i normanni edificarono una
torre di vedetta.
Le prime notizie documentate che abbiamo sul forte
sono tuttavia di circa un secolo e mezzo posteriori,
quando Roberto d'Angiò, il 7 marzo 1329, scrivendo
al reggente della Vicaria, Giovanni da Haya, gli
ordinò la costruzione sulla sommità della collina di
Sant'Erasmo di un « palatium castrum ». Fu quindi
acquistato il terreno e iniziata la costruzione, che
gli architetti Francesco De Vico, Attanasio
Primario, Balduccio di Bacza e Tino di Camaino,
terminarono nel 1343 sotto il regno di Giovanna I
d'Angiò.
Come dal nome di Belforte si sia passato all'attuale
Sant'Elmo, è frutto del lento scorrere dei secoli:
nel 1348 infatti il castello veniva chiamato di
Sant'Erasmo o Sant'Eramo, evidentemente per la sua
vicinanza all'antica chiesetta: da Sant'Erasmo a
Sant'Elmo, lo scambio fra le due liquide è cosa
possibile.
Alcuni vorrebbero invece far derivare Sant'Elmo da
Sant'Antelmo o Anselmo che fu uno dei fondatori
della vicina Certosa, ipotesi che non può essere
esclusa; il Salazar poi, ritiene possibile che
Sant'Elmo derivi da San Telmo, santo spagnolo, ma in
effetti se nel secolo XV il castello era già
chiamato Sant'Ermo, è più facile che il suo nome sia
una corruzione facilitata dalla pronunzia dei
dominatori spagnoli.
Nel gennaio del 1348, in seguito all'efferato
eccidio di Andrea d'Ungheria, il Castello ebbe il
suo battesimo del fuoco, subendo il primo assedio
da parte di Ludovico d'Ungheria, giunto a Napoli per
vendicare il fratello.
La regina Giovanna, com'è noto, si rifugiò in
Provenza, dopo avere sciolto dal giuramento di
fedeltà gli uomini di tutti i castelli del regno, ma
ben presto, essendo scoppiata la peste a Napoli, re
Ludovico prudentemente rientrò in Ungheria,
lasciando acquartierati i suoi soldati nei quattro
castelli: dell'Ovo, Capuana, Nuovo e Sant'Elmo.
Al suo ritorno nel regno, dopo l'assoluzione del
Pontefice, la regina fu quindi costretta ad
assediare i castelli per riconquistarli, e fra gli
altri anche il nostro.
Nel 1381, l'implacabile re d'Ungheria, col consenso
del papa, spinse alla conquista del Regno Carlo di
Durazzo, che riuscì ad accamparsi nella piazza delle
Corregge. Il marito della sovrana, Ottone di
Brunswich," da Castel Sant'Elmo scese allora a
scontrarsi frontalmente con l'avversario, ma fu
fatto prigioniero e i suoi soldati doverono
ritirarsi in fretta nella fortezza. Mentre il 26
agosto la regina Giovanna si arrendeva, Carlo occupò
i castelli ed il cognato della regina, Baldassarre
di Brunswich, Roberto d'Artois ed il seguito, che si
erano asserragliati in Castel Sant'Elmo, furono
snidati e condotti nelle prigioni in Castel Nuovo.
Di qui Baldassarre riuscì a fuggire, ma catturato di
nuovo fu barbaramente accecato in Piazza del
Mercato, e imprigionato poi in Castel S. Elmo.
Dopo aver conquistato il Regno di Napoli, Carlo si
recò in Ungheria, per essere incoronato re anche di
quel Regno, ma lì fu assassinato. Il castello dovè
subire allora gli attacchi di Ludovico da Capua,
conteso, come tutti gli altri forti napoletani tra
la regina Margherita vedova di Carlo di Durazzo e
le truppe di Luigi II d'Angiò.
Quando la lotta, molti anni dopo, terminò con la
vittoria di Ladislao, questi, appena salito sul
trono, fece imprigionare in Castel S. Elmo il conte
di Terranova e il conte di S. Agata, che furono poi
uccisi, rei di avere ordito, per evadere, una
congiura ai danni del castellano Lucidio D'Urso.
Il castello fu anche presente nella lotta fra
Giovanna II ed il marito Giacomo di Borbone: nel
1416, poi, bisognosa di danaro, la Regina lo
vendette a Gualtieri ed a Ciarletto Caracciolo per
la somma di 2500 ducati.
Venuto Alfonso d'Aragona, ii nostro forte fu meta di
principesche comitive e di galanti ricevimenti, ma
fu poi ceduto a Renato d'Angiò tramite un tale
Giovanni Cossa che era stato inviato da Firenze.
Dopo la venuta di Carlo VIII a Napoli fu di nuovo
restaurato ed ampliato, essendosi reso necessario
un intervento dopo che gli assedi e due terremoti
ne avevano lesionato le mura.
Durante la lotta tra Francesco I e Carlo V, i
francesi al comando del generale Odetto di Foix,
visconte di Lautrec, occuparono Capua, Nola ed
Acerra, ed assediarono la capitale sperando di
sottometterla con la fame e con la sete. Fecero
pertanto tagliare le condutture dell'acquedotto
Formale, ma l'acqua nella città non mancò, perché
c'erano molti pozzi comunicanti tra loro; viceversa
il condotto tagliato provocò un allagamento nelle
pianure circostanti e l'acqua stagnante cagionò
un'epidemia malarica. II generale Lautrec pensò
allora di bombardare Napoli, ma, colto anch'egli da
malaria perniciosa, morì il 15 agosto. I Francesi,
privati del loro capo, chiesero la pace, e il
popolino, esultante per lo scampato pericolo,
attribuì l'avvenimento al patrocinio di San Gennaro
e recitò il Te Deum in Cattedrale.
In quell'occasione castel S. Elmo si rivelò così
importante dal punto di vista strategico che, alcuni
anni dopo, il viceré don Pedro de Toledo,
sollecitato anche da Carlo V, decise di farlo
ricostruire, affidando i lavori all'architetto e
maestro di campo, cavalier Pietro Luigi Scriva di
Valenza: furono innalzate le ciclopiche mura che
oggi vediamo dalla città, furono scavati fossati,
fortificata l'intera collinetta di « sancto Martino
» e piazzate le artiglierie che dovevano difendere
la città « dal sito alcto ». Maestri marmorai
fiorentini capeggiati da Niccolò Bellavante,
iniziarono i lavori di taglio della pietra e maestri
fonditori capeggiati da Bartolomeo Giordano,
Salvatore de Dia e Santillo de Santo, provvidero
alla fonditura delle bocche da fuoco.
L'opera, iniziata nel 1537, fu completata (come
attesta un'epigrafe posta sulla porta d'ingresso del
castello) in brevissimo tempo, con una celerità che
dovrebbe essere d'esempio e di lezione.
Il castello, di tipo bastionato, fu in gran parte
scavato nel monte, ma la sua costruzione sollevò
molte critiche perché non rispettava i dettami
dell'architettura militare tradizionale: destava
perplessità la sua insolita forma stellare e la
mancanza di torrioni, essendo il forte provvisto
soltanto di enormi cannoniere aperte nel fianco
delle cortine che si congiungono ad angolo
rientrante.
L'architetto fu invece molto cauto nel tener
presente la funzionalità dell'opera e il sito su cui
sorgeva: fu scavata inoltre un'enorme cisterna che
servì anche ad evitare eventuali pose di mine, ed il
risultato fu un'imponente opera di fortificazione
quasi unica per il suo tempo, una cittadella nella
isolata collina di San Martino col suo castellano e
con la truppa di presidio, con il suo cappellano, la
chiesetta ed il suo tribunale retto dal castellano
stesso, che aveva ampi poteri. Il castellano era un
omonimo cugino del viceré Pedro di Toledo, che fu
poi sepolto nella chiesetta del forte.
Il 12 dicembre del 1587 un fulmine caduto nella
polveriera, fece saltare in aria buona parte della
fortezza, tra cui la chiesa e la casa del
castellano, uccidendo 150 uomini.
La detonazione e Io spostamento d'aria furono tali
che ne furono danneggiati edifìci cittadini molto
lontani come la chiesa di Santa Maria la Nova, Santa
Chiara, San Pietro Martire, l'Annunziata e
l'Ospedale degli Incurabili.
II castellano don Garzia di Toledo e sua moglie si
salvarono, fortunatamente, perché fin dal giorno
precedente si trovavano fuori del castello.
Si susseguirono poi come castellani Hernando de
Toledo, Antonio Men-doza, Giovanni de Mendoza, il
marchese di Cirella Antonio Manriquez, don Diego
Manriquez, Martino Galiano ed altri. Con la sommossa
di Masaniello, anche questo forte entra nella storia
di Napoli; siamo nel 1647, viceré il duca d'Arcos.
Il pavido viceré per sottrarsi alle ire dei
rivoltosi, riparò prima nel monastero di San Luigi e
poi in Castel Sant'Elmo insieme a due dame di corte,
Cornelia Grimaldi e Pellina Spinola ed al conte
Sauli, ministro della Repubblica di Genova a Napoli.
Il popolo tentò di prendere la fortezza, ma il
d'Arcos per guadagnar tempo, fece spargere
astutamente la voce che senza l'approvazione sovrana
il castello non si sarebbe potuto arrendere, avendo
il castellano giurato nelle mani del re : riuscì in
tal modo a persuadere i rivoltosi che bisognava
attendere questo consenso, che si diceva sollecitato
e non lontano a giungere.
I seguaci di Masaniello, invitati a più miti
consigli dal castellano Martino Galiano, non
sospettarono nulla della tattica temporeggiatrice, e
desisterono dall'assalto che, del resto, avrebbe
anche potuto avere esito negativo.
Firmato un accordo con il popolo, approfittando
della tregua, il d'Arcos pensò subito a fortificare
i castelli Nuovo e dell'Ovo.
Dopo la morte di Masaniello, i popolani, capito
l'inganno, tornarono ad assediare la collina di San
Martino, ma questa volta il viceré ordinò che
venisse cannoneggiata la città, e solo l'intervento
del principe di Massa, l'Eletto del Popolo, spense
i bollenti spiriti e riuscì a convincere gli uomini
dell'opportunità di attendere l'accoglimento delle
richieste, che furono poi « giurate » dal viceré
nella Cappella Palatina di Santa Barbara in Castel
Nuovo, il 25 agosto del 1647.
Fu però respinta una delle richieste, la più
importante per il popolo e cioè quella di un
controllo popolare su Castel S. Elmo; il sospetto
serpeggiò nuovamente nell'animo della plebe, che,
esasperata, corse ancora all'assalto dello stellato
castello, ma prevalse poi un bisogno di pace e la
pace si ebbe, per quanto di breve durata!
Infatti il primo di ottobre ormeggiò nel porto di
Napoli una squadra navale spagnola al comando di
Giovanni d'Austria, il quale decretò che la custodia
del castello dovesse essere esercitata dalla milizia
spagnola, ed in nome del Re ordinò al popolo la
consegna delle armi; la ribellione si estese ben
presto nonostante il cannoneggiamento della città
iniziato da questo forte anche per l'avvicinarsi del
duca di Guisa.
L'ira popolare scoppiò violenta: duemila Napoletani
tornarono alle armi, mentre anche da Castel dell'Ovo
gli Spagnoli continuavano gli spietati
cannoneggiamenti sulla città: il duca di Guisa, poi,
con i suoi uomini e con le bande dei popolani
attaccò il forte, ma le artiglierie spagnole che in
principio ebbero il sopravvento, furono costrette a
cedere.
II popolo esultante nominò il Duca di Guisa
protettore della Serenissima « Real Repubblica
Napolitana »; al suono delle campane, Enrico,
cavalcando per i « quartieri » in rivolta, si
diresse al Torrione del Carmine, dove fu accolto da
Gennaro Annese, capitano generale del popolo.
II comandante dì Castel S. Elmo, certo Galiani,
forse ritenuto colpevole di aver avuti troppi
riguardi verso Giovanna di Capua, principessa di
Conca, ivi prigioniera per le sue sensuali
nefandezze, che era stata poi trovata avvelenata, fu
sostituito con Luis de Espluga. A questi successe
Giovanni Sotomayor che, dopo aver riportato la
calma, fu anche « silurato » in poche ore e
sostituito con Giovanni Buides: in seguito anche
quest'ultimo, sospettato di doppio gioco con gli
austriaci, fu sostituito dal crudele Rodrigo Correa
che dovè nel 1707 sostenere gli urti delle truppe
austriache del conte di Daun, fedele generale di
Giuseppe I.
Nel 1707, infatti, il castello, nuovamente al centro
della scena politica, venne assediato dagli
Austriaci, ma per fortuna non subì gravi danni,
poiché il conte riuscì ad ottenere la resa
prendendo come ostaggi i parenti del castellano.
Dopo pochi giorni il colonnello Kosa col reggimento
Gswindt occupò il forte e fece progioniero il
Correa; questi fu poi sostituito dal vecchio
austricante Buides. A luì successero il de Colbert e
il conte di Lo-sada, col quale il nostro forte dopo
aver subito gli aspri assalti delle truppe spagnole
del Luogotenente Generale conte di Charny, si arrese
a Carlo di Borbone.
Avendone preso possesso, gli spagnoli poterono
attaccare frontalmente la città ed espugnarono
facilmente anche Castel Nuovo.
Con Carlo di Borbone il castello ebbe un'era di pace
e di tranquillità. Durante il regno di Ferdinando
IV, invece, castellani il duca di Rebuttone ed il
marchese Francesco Pignatelli, iniziò per esso un
periodo movimentato, con la congiura del 1794 per
rovesciare il governo: furono arrestati in quel
tempo Luigi de' Medici, sospettato di aver
consegnato ai rivoluzionari le piante dei castelli,
Mario Pagano, Gennaro Serra, il conte di Ruvo Ettore
Carafa, Giuliano di Stigliano ed altri.
Nel 1799 la fortezza fu presa dal popolo che nominò
Luogotenenti Generali il duca di Roccaromana ed il
principe di Moliterno, ma i giacobini « napoletani
», mentre attendevano la venuta del generale
Championnet, cercarono di entrarvi di astuzia.
Il castello quindi passò al comando del capitano
Simeone, che era uno dei loro, senza che il capo dei
« lazzari », Brandi, potesse impedirlo: durante la
notte i « lazzari » furono scacciati ed i francesi
furono messi in possesso della fortezza. Fra i
giacobini che organizzarono questa impresa vi erano
i più bei nomi della città, come quello di Pietro
Colletta, Nicola Caracciolo di Roccaromana, Vincenzo
Pignatelli di Marsico, Nicola Verdinois, Giuseppe
Schipani, Antonio Sciardi ed Eleonora Pimentel
Fon-seca che, per l'occasione, si era travestita con
abiti maschili.
Il generale Kellerman guidato da Vincenzo Pignatelli
di Strongoli e da Eleuterio Ruggiero, travestito da
eremita, raggiunse il castello che fu il primo forte
napoletano sul quale fu innalzato il vessillo della
Repubblica Partenopea: il generale Championnet
poteva così ben dire che la Repubblica Partenopea
era nata a Sant'Elmo. Era il 21 gennaio 1799!
Dopo la spedizione del Cardinale Ruffo, il castello
fu l'ultimo a ritornare ai « vecchi amori » e ad
innalzare la bandiera realista: esso divenne poi
prigione dei vinti patrioti: Domenico Cirillo,
Francesco Pignatelli Stron, goli, Giovanni Bausan,
Giuseppe Logoteta, Gennaro Serra, il conte di Ruvo
Ettore Carafa, Giuliano Colonna di Stigliano e molti
altri. Nell'800 fu anche severa prigione di
Carbonari e fra numerosi altri, vi furono rinchiusi
il conte Giuseppe Ricciardi di Camaldoli, Mariano
d'Ayala e Carlo Poerio.
Nel '48 altri prigionieri vi languirono: Dragonetti,
Pica Barbacini, Silvio Spaventa e il patriota
Leopardi. Quando venne Garibaldi, l'8 settembre del
'60, al forte fu dato il compito di bombardare la
città per impedire l'ingresso ai garibaldini, ma i
due capitani del forte, de Marco e Favalli, si
opposero nel modo più deciso col risultato che da
comandanti della fortezza divennero « ospiti » delle
prigioni. Il giorno dopo la venuta delle truppe, una
compagnia della Guardia Nazionale prese possesso del
forte liberando tutti i prigionieri politici,
compresi i due capitani.
Il popolo avrebbe voluto distruggere « con le
proprie mani » il vecchio Castello che era un
ricordo di tanti soprusi subiti, ma Mariano D'Ayala
riuscì ad evitare tale scempio. Nel 1943, per la
seconda volta il forte corse il pericolo di essere
distrutto, poiché i tedeschi, prima di ritirarsi,
avevano deciso di farlo saltare in aria con dieci
casse di dinamite, ma una signora svizzera, vedova
d'un italiano, riuscì a convincere l'alto ufficiale
germanico a desistere dal suo proposito e la
catastrofe fu così evitata.
Ora il Castello fa parte del Demanio Militare ed è
adibito a carcere militare; con regolare permesso lo
si può visitare, ad eccezione dei locali adibiti a
prigione.
Questo castello, definito dagli architetti forte
stellato a sei punte, con fronte a tenaglia ad
angolo rientrante, costituisce per i napoletani
quasi un simbolo della città. Esso è cinto, meno che
a sud, da un fossato, scavato nella roccia,
esternamente al quale, specialmente al nord, vi sono
fortini di varia forma e diverse epoche: ognuna
delle sei punte della ciclopica costruzione
stellata sporge dalla parte centrale, chiamata
testuggine, di circa 20 metri; via Tito Angelini
fiancheggia gli spalti del bastione.
A destra, all'inizio della rampa che porta al
castello vi è la Chiesetta di Santa Maria del
Pilar, costruita dagli spagnoli nel 1682 quando
era castellano Don Luis Espluga: passando un arco e
valicando il fossato, si arriva quindi alla porta
principale del forte, che fu a suo tempo adornata da
magnifici marmi di Mino da Fiesole. Continuando il
cammino per una larga rampa coperta, si giunge
quindi al piazzale in cima al castello, al cui
centro vi sono delle costruzioni, recentemente
rifatte, adibite a carcere militare, e la
chiesetta di S. Elmo, ricostruita da Pietro
Prati dopo che quel fulmine, caduto nel 1587 nella
polveriera, fece saltare in aria gran parte della
fortezza: dietro l'altare vi è la Tomba del
castellano Pietro di Toledo, congiunto
dell'omonimo viceré e primo castellano; le altre
tombe sono dei castellani Martino Galiano, Giovanni
Buides, Francesco Vasquez. Sotto questo piazzale vi
sono due grandi cisterne di circa 30 m. x 40.
Nel lato settentrionale dei bastioni vi è un piccolo
cannoncino che sparava al mezzodì.
Retrocedendo nella rampa coperta, per un'apertura
chiusa da un cancello di ferro, si discende in ampi
e bui corridoi sotterranei, che dividono numerosi
tetri stanzoni scavati nel tufo che riteniamo siano
la parte più interessante del castello, poiché vi
furono incarcerati numerosi prigionieri politici:
gli stanzoni sono attorniati da piccole celle di
rigore grandi poco più di due metri quadri. Le mura
sono di uno spessore impressionante, mentre quelle
interne sono roccia.
La Chiesa
e la Certosa di S. Martino furono costruite
per desiderio di Carlo, figlio di Roberto d'Angiò,
non lungi dal castello di Belforte. Iniziata nel
1325 dopo l'immatura morte del principe ereditario,
la costruzione della chiesa fu proseguita da re
Roberto e compiuta dalla regina Giovanna (1368) con
il concorso di altri benefattori, fra i quali il
banchiere fiorentino N. Acciaiuoli.
Il senese Tino di Camaino e Francesco de Vico, o da
Vico Equense, come tanti sostengono, che costruivano
nel medesimo tempo Castel S. Elmo, ne furono gli
architetti; alla morte di Tino di Camaino,
protomastro dell'opera, gli successe il maestro
Attanasio Primario di Napoli.
Nell'ultimo ventennio del secolo XVI furono poi
iniziati lavori di ampliamento e di decorazione di
questi edifici religiosi, ad opera di Giov. Ant.
Dosio (1580-1623) e di Giov. Giac. Conforto, ai
quali successe Cosimo Fanzago; in effetti quindi
della costruzione originaria non resta che
l'ossatura della chiesa, notevolissimi avanzi nelle
fondamenta della Certosa e piccole tracce nel
chiostro.
I frati Certosini, che occuparono il convento sin
dal 1337, ne furono scacciati nel 1799, come rei di
giacobinismo, e vi ritornarono nel 1804; appena tre
anni dopo furono nuovamente espulsi per esservi
riammessi nel 1836 ed espulsi definitivamente nel
1866.
Dal portale d'ingresso si accede ad un primo
cortile, che ha sotto il portico alcuni stemmi
nobiliari in marmo: a sinistra vi è la chiesa; vi
entreremo dunque dopo averne ammirato l'elegante
pronao. La navata, iniziata dal Dosio nel 1580, fu
continuata nel 1623 da Cosimo Fanzago al quale si
deve il lavoro dei marmi nelle cappelle mediane di
ciascun lato. Ricche ed eleganti sono le
decorazioni, costituite da festoni marmorei e da
affreschi meravigliosamente incorniciati, ma
particolarmente mirabili la balaustra in marmo
tempestata di pietre dure e il pavimento di
Bonaventura Presti. Gli affreschi nella volta sono
del Lanfranco, mentre i Profeti nei triangoli
sulle arcate delle cappelle sono del Ribera, al
quale sono attribuiti anche il Mosé e
Elia ai lati della porta d'ingresso, su cui
sovrasta una magnifica Deposizione di Massimo
Stanzione. L'abside ha un bel pavimento disegnato
dal Fanzago; il coro in legno è opera del Presti
mentre la volta fu affrescata dal Cesari, ma
terminata dall'Azzolino. Vi sono dipinti di un
certo rilievo: una Natività di Guido Reni, la
Crocefissione e I frati certosini
del Lanfranco, l'Eucarestia di Carlo
Caliari, l'Ultima cena di Massimo Stanzione,
la Comunione dei SS. Apostoli ancora del
Ribera e La lavanda dei piedi di Battistello
Caracciolo; in fondo in nicchie ammiriamo una
statua del Fanzago raffigurante La mansuetudine
e una di Giuliano Finelli: L'obbedienza.
Nella sacrestia vi sono un dipinto raffigurante
San Pietro che rinnega Gesù, di un ignoto
caravaggesco ed un Crocefisso su tavola di
Giuseppe Cesari: gli affreschi sono ancora del
Cesari, e le lunette di Luca Cambiaso; gli armadi
furono eseguiti dagli ebanisti Giovan Battista
Vigilante e Nicola Ferrara, ma il loro pregevole
intarsio è opera di L. Ducha e di R. Vogel. Dalla
sacrestia si passa al tesoro, attraverso un
passaggio affrescato da Massimo Stanzione e dal De
Matteis, che contiene due tele di Luca Giordano
raffiguranti La Morte del Fariseo e La
vocazione di Pietro e Andrea. Nella cappella del
Tesoro vi è un altro affresco di Luca Giordano,
quello nella volta raffigurante Il trionfo
di Giuditta, eseguito dal pittore un anno prima
della morte e ritenuto da molti il suo canto del
cigno. Fiancheggiano la navata cinque cappelle sul
lato sinistro e quattro sul lato destro in
cui si possono ammirare dipinti di
Belisario Corenzio, di Battistello Caracciolo, di
Francesco De Mura, alcune statue del Sammartino, di
Massimo Stanzione e marmi di Domenico Antonio
Vaccaro e di Lorenzo Vaccaro. Particolarmente
interessanti sono gli affreschi di Battistello
Caracciolo raffiguranti Storie di San Gennaro,
e la Processione nell'eruzione del
Vesuvio del 16 dicembre del 1631.
Nelle cappelle dal lato opposto vi sono un altro
dipinto di Massimo Stanzione, affreschi di Belisario
Corenzio e alcuni busti di Matteo Bottiglieri.
Riteniamo degna di particolare attenzione la seconda
cappella, dedicata a San Giovanni Battista, opera
del Fanzago, che vanta la più interessante
decorazione policroma di questa chiesa: vi sono
inoltre statue di Lorenzo e Domenico Antonio
Vaccaro. Nell'ultima cappella, dedicata a San
Martino, la decorazione secentesca è arricchita da
due statue del Sammartino. Da ammirarsi due tele di
Francesco Solimena, una delle quali raffigura II
Santo che taglia in due il suo mantello per darlo ad
un povero. Dopo aver ammirato l'altare maggiore
si passa nel coro dei laici coadiutori dove si
possono ammirare nove simulacri di arazzi con
Scene del vecchio e del nuovo testamento, Vita dei
certosini di Domenico Gargiulo detto Micco
Spadaro e un bel San Michele di Andrea
Vaccaro. Si passa poi al refettorio dove dovrebbe
esserci una tela raffigurante le Nozze di Cana
di Nicola Malinconico. Da una scaletta del
chiostro si può accedere al Parlatorio dei frati,
affrescato da P. A. Avanzini con Scene della vita
di San Bruno; il passaggio che porta alla sala
seguente è affrescato nella volta da Ippolito
Borghese e contiene inoltre un quadro di Flaminio
Torelli raffigurante la Presentazione di Maria al
tempio, una Visitazione di Giuseppe
Cesari detto il Cavalier d'Arpino e sulla porta
San Giovanni che predica nel deserto di Massimo
Stanzione, Vi è poi la Sala Capitolare affrescata da
Belisario Corenzio e nelle lunette da Paolo
Finoglia; essa contiene un coro in legno del '600
di Orazio de Orio e C. Bruschettà e una
Circoncisione, un Arrivo dei Re Magi, un
Battesimo e un San Martino di
Battistello Caracciolo oltre ad una Apparizione
della Vergine a San Bruno di Simone Vouet e
Gesù fra i dottori di Francesco De Mura.
Prima di entrare nella parte della Certosa adibita a
Museo desideriamo premettere che molto
probabilmente quando il visitatore entrerà con
questa guida fra le mani, troverà che vi saranno
stati effettuati spostamenti di quadri o in
restauro, o temporaneamente trasferiti in occasione
di mostre nazionali : noi descriveremo il Museo come
lo abbiamo visto.
Esso si divide in tre parti, storica, artistica e
monumentale. Entrati nella prima sala a destra
troveremo cimeli della marina napoletana, mentre
nella galleria centrale vi sono due carrozze di
gala, quella settecentesca degli Eletti del Popolo
con dipinti su rame di Francesco Solimena e una
Berlina reale appartenuta alla regina Maria
Cristina.
Nella sala 5 vi è la donazione Orilia, composta per
la maggior parte di boiseries. Nella sala
classificata come VII ammireremo un magnifico
pavimento in mattonelle maiolicate e la Tavola
Strozzi, un dipinto di autore ignoto del '400,
che rappresenta il rientro di Ferrante d'Aragona
dalla battaglia di Ischia, importantissima perché è
in effetti la prima pianta della città: vi è poi
l'Ingresso degli Spagnoli a Napoli di ignoto
pittore secentesco. Nella sala seguente vediamo
l'Uccisione di Giuseppe Carafa di Domenico
Gargiulo detto Micco Spadaro, il Tribunale della
Vicaria di Ascanio Luciano, un Ritratto di
Masaniello di scuola fiamminga e un busto
raffigurante Tommaso d'Aquino di Achille
Tosi.
La sala Vili ha in esposizione la donazione di
Edoardo Ricciardi, costituita da una raccolta di
numismatica, medaglie, stampe ed arti minori
borboniche e francesi. La sala seguente, chiamata
anche di Carlo III, contiene materiale iconografico
relativo a questo sovrano, ad opera di Antonio
Joli, Michele Foschini ed Antonio Raffaele Mengs,
ritratti ed autografi di Bernardo Tanucci ed al
centro una maestosa opera proveniente da Capodimonte
raffigurante Ercole e Dejanira con ai piedi
Nesso. Segue la sala X chiamata anche di
Ferdinando IV, perché vi sono porcellane, miniature,
ritratti e la maschera mortuaria del sovrano. La
sala seguente offre ancora numerosi ritratti di
sovrani borbonici del Mengs e quello della duchessa
di Floridia. Segue la Cappellina del Priore e
la sala XIII, chiamata anche del 1799, che contiene
opere del Cammarano, di Angelini, di Leonardo
Guzzardi e di Angelica Kauffmann legati alla storia
dell'effimera repubblica partenopea, nonché il
notissimo quadro di Ettore Cercone raffigurante
L'Ammiraglio Caracciolo che domanda cristiana
sepoltura
e il ritratto del
Marchese Emanuele Mastelloni di Capograssi,
ministro di giustizia della repubblica partenopea.
La sala seguente è chiamata anche sala Ruffo, in
quanto vi sono tutti i ricordi del cardinale
Fabrizio Ruffo, che alla testa delle sue truppe
calabresi restituì nel 1799 il regno di Napoli a
Ferdinando IV di Borbone: questa raccolta, donata
dalla famiglia Ruffo di Calabria, comprende ritratti
di alcuni esponenti della famiglia e, in due grandi
vetrine, la bandiera e le armi del cardinale
Fabrizio Ruffo e abiti settecenteschi. La
sala XV o del decennio francese, ha al centro una
vetrina con vari oggetti tra cui una scimitarra
tolta da Gioacchino Murat a Mustafà Pascià durante
la battaglia di Abukir che fu regalata poi dal
sovrano a Giuseppe Bonaparte e da questi a Don
Francesco Carafa dei duchi di Noja; molto
interessante sulla destra un progetto di
sistemazione del Largo di Palazzo eseguito per
desiderio di re Gioacchino. Prima di passare nella
sala seguente, per una piccola scala costruita da
Cosimo Fanzago si può accedere ad un giardino dal
quale si gode il panorama della città. La sala XVI
offre ancora ricordi del decurionato francese,
mentre nella XVII, XVIII e XIX sono conservate armi,
costumi e medaglie commemorative borboniche e
pontificie. Interessanti, nella sala XVIII, le mille
figurine acquerellate raffiguranti uniformi ed
armamento dell'esercito borbonico. Le sale XX e XXI
si chiamano anche di Francesco I e di Ferdinando II
perché conservano pitture e ricordi del regno
borbonico che vanno dal 1825 al 1859 con opere del
Pellegrini, di Nicola Lemasle e di Salvatore
Fergola. Segue la sala XXII, detta del 1848, con
dipinti di Nicola Parisi, Francesco Netti,
Francesco Vervloet e Saverio Altamura; la seguente,
la XXIII, quella del Risorgimento, contiene dipinti
di Consalvo Carelli, Saverio Altamura, Vincenzo
Montefusco, Antonio Licata e Michele Lenzi e in una
imponente vetrina cimeli varii: ricordiamo il
Ritratto di Garibaldi e ai lati del dipinto
raffigurante Settembrini nel carcere di Santo
Stefano due grosse pietre alle quali si
fermavano i puntali delle catene dei carcerati in
segregazione. Segue una Galleria dalla quale si
raggiunge il belvedere.
Nella sala XXVI vi sono leggìi e poltrone
settecentesche, nonché vetrine contenenti vasi di
farmacia. Le sale che si succedono sino alla XXXI
offrono opere di documentazione topografica e
cartografica, rappresentanti un'iconografia di
estremo interesse anche perché gli autori dei
dipinti e dei disegni sono Teodoro Duclère, Consalvo
Carelli, Giacinto e Gaetano Gigante, Vincenzo
Migliaro, Filippo Hackert, Francesco Vervloet,
Desiderio Barra e Gabriele Ricciardelli. La sala
XXXII prima conteneva specchi, cristalli e
vasellame; la seguente ha un interessante pavimento
maiolicato con una Meridiana con figurazioni
di epoca secentesca. Vi sono costumi del regno di
Napoli, abiti, mantelli ed alcune opere di Pasquale
Mattei, Gaetano Gigante, L. Del Giudice e del
francese Amedeo Bourgeois. La sala XXXIV è chiamata
Perrone perché vi è stata sistemata una raccolta di
animali e pastori da presepe donata da questa
famiglia. In questa sala e poi nelle 35, 36 e 37 vi
sono circa 600 pastori, 244 animali e 369 «
finimenti »: questa parte del museo può essere
considerata una sezione a sé, essendo costituita,
oltre che dalla donazione Perrone, da quelle di
Cuciniello del 1877, Assante del 1929, De Renzis del
1942 e da alcuni legati dal 1913 al 1957. Nella sala
34 vi è un lavoro in sughero dell'ottocentesco
Lorenzo Taglioni raffigurante il tempio di Poseidone
a Paestum; poiché non sempre questo presepe è aperto
al pubblico, conviene visitarlo nei giorni festivi.
La sala 35 contiene un presepe siciliano in argento
e corallo del settecento, proveniente dalla Galleria
Estense di Modena, e poi passato alla Reggia di
Caserta: trasferito al Museo San Martino nel 1933,
nel 1960 fu restaurato da Ciro Pinto. Vi si notano
inoltre un presepe in ceramica Giustiniani, che
risente molto dell'arte settecentesca pur essendo
della metà del secolo scorso, ed un presepe
settecentesco chiamato « della chiesa », perché
proviene senz'altro da una chiesa. In una grande
vetrina vi sono pastori dei Celebrano, dei
Bottiglieri, di Francesco* Cap-piello, di Francesco
Viva, di Domenico Antonio Vaccaro e del Trilocco:
gli animali si ritengono invece opera del Vassallo,
di Gennaro Reale, di Francesco Galli, di Francesco
Di Nardo, e di Giuseppe De Luca. Nella sala
36 vi sono 18 pastori
attribuiti a Giuseppe Sammartino e 23 a Lorenzo
Mosca; vi sono poi pastori di Giuseppe Gori e di
Giovan Battista Polidoro. Molto importanti sono il
presepe di Michele Cuciniello, che è nella sala
37 e quello donato da
Edoardo Ricciardi nella sala 39. Il cavaliere
Michele Cuciniello, appassionato raccoglitore di
opere presepiali, e profondo conoscitore di
questa tipica arte napoletana, acquistava
pastori in qualsiasi parte d'Italia si trovasse e
ne comprò persino a Parigi in un periodo che vi
trascorse: egli era un commediografo, dei cui lavori
si avvalse principalmente la compagnia di Petito,
che li rappresentò in molte città. Essendo molto
amico del direttore generale dei musei napoletani,
il Cuciniello nel 1877 donò a San Martino la sua
raccolta dando però alcune disposizioni sulla
sistemazione dei pezzi, e incaricandone l'architetto
Fausto Nic-colini. Questo presepe, inaugurato il 28
dicembre 1879, può essere ritenuto il più bello
esistente a Napoli. Il secondo presepe, donato da
Edoardo Ricciardi, fu sistemato prima al Museo
Nazionale ma poi si pensò di portarlo a San
Martino, dove poteva essere maggiormente apprezzato:
non è certamente singolare come quello del
Cuciniello né i pastori sono della stessa qualità
dell'altro, e si nota, d'altronde, che non è neanche
stato ordinato con la stessa cura. Gli altri presepi
sono di minore importanza: quello del Taglioni è
interessante più che altro per la riproduzione in
sughero del tempio di Nettuno: esso fu donato dalla
baronessa Clorinda Sartorius, consorte di Lorenzo
Taglioni, che fu « regio meccanico delle dogane di
Napoli e delle due Sicilie » : i vestiti di alcuni
di questi pastori furono eseguiti dalla prima moglie
del Taglioni, Bernardina Arnaud. L'ultimo presepe è
quello che fu donato nel 1942 dalla baronessa di
Montanaro.
Le sale XXXVIII e XXXIX, attualmente chiuse per
restauro, dovrebbero contenere una ricostruzione del
palcoscenico del San Carlino e cimeli degli attori
che si sono succeduti in questo piccolo e storico
teatro napoletano; nella sala 40 vi sono dipinti
raffiguranti il teatro San Carlo ed il teatro
napoletano in genere, degli artisti Francesco
Saverio Candido, Francesco Bouchot, Gustavo
Nacciarone e Antonio Niccolini. La sala 41, dove
dovrebbero essere i gonfaloni della città, è
temporaneamente chiusa; si passa quindi nel chiostro
grande, che fu costruito su disegno del
cinquecentesco Giovanni Antonio Dosio e continuato
dal Fanzago, al quale si deve il modesto cimitero
che si trova nel quadrato centrale; vi si notano una
pregevole balaustra ed alcuni medaglioni, opera del
Fanzago, tranne uno che è invece di Lorenzo Vaccaro.
Si passa ora alla seconda parte, costituita dalla
pinacoteca, nella quale le opere sono spesso
spostate da una sala all'altra.
Iniziando dalla sala 42 troveremo subito a destra
una statua policroma in legno del 300 proveniente
dalla basilica francescana di S. Chiara che
raffigura la Vergine giacente ed alcune
tavolette del leccese Giovanni Maria Scupola con
Scene della vita di Cristo e di Maria. Nella
sala seguente, la 43, vi sono un polittico
incompleto di Jacopo Ripanda rappresentante
l'Annunciazione e la Vergine e alcune tavole a
fondo nero di Nicola di Tommaso. La sala 44 offre
dipinti del Vasari, di Battistello Caracciolo, di
Nicola De Simone e una Decollazione del Battista
di Marco Pino da Siena, opere in attesa di
restauro che probabilmente il visitatore non troverà
in esposizione. La sala seguente contiene dipinti di
Micco Spa-daro, Battistello Caracciolo e Salvator
Rosa, la 46 pregevoli tele di Luca Giordano, Mattia
Preti e di Giuseppe Ribera detto Io Spagnoletto e un
Autoritratto di Francesco Solimena. Seguono
nelle sale successive Nature morte e
Animali di Giovan Battista Ruoppolo, Gaspare
Lopez, Giuseppe Recco ed altri minori e nelle sale
52 e 53 dipinti che sono stati tolti dalla
cattedrale di Pozzuoli e salvati dall'incendio del
1964: opere del Fracanzano, del Finoglia, di
Artemisia Gentileschi, di Agostino Beltrano, di
Giovanni Lanfranco e di Luca Giordano. Nella sala 54
si ammirano un Ritratto del cardinale Ruffo
ed alcune opere di Gaetano Forte; la seguente, la
55, contiene numerosi dipinti del fiammingo
Francesco Vervloet. Nelle sale 56, 57 e 58 vi è una
rappresentanza di tutto l’800 napoletano, da De
Gregorio ai Palizzi, da Michele Cammarano a
Pratella, Gaeta, Rossano e Migliaro; nella sala 59
vi sono nature morte dì varie epoche. La 60 e 61
contengono ancora opere dell'800 napoletano di
Ercole Gigante, Michetti, Carelli, Pitloo,
Smargiassi, Franceschini e Duclère; nelle sale 62,
63, e 64, invece, vi sono lastre tombali, sarcofagi
romani, sculture di Tino dì Camaino e di scuola
francese e bassorilievi; nella 65 vi è il magnifico
frontale del XIII secolo del Pulpito di San
Lorenzo, che è stato restituito alla basilica e
il bassorilievo raffigurante Ferrante d'Aragona a
cavallo che era nel secolo XV sulla porta del
Carmine; nella 66 un busto di Sisto V, un
gruppo marmoreo di Pietro Bernini ed alcuni
sepolcri. Nelle sale 67, 69 e 70 vi sono raccolte
vesuviane e nella 68 un bozzetto in gesso
raffigurante Murai, opera di Giovan Battista
Amendola.
La Sezione Artistica comprende una sottosezione
per le arti minori,
nella quale sono molto
interessanti i ricordi della Certosa esistenti nella
sala 75; altre sale sono attualmente in restauro.
Non possiamo tralasciare la Collezione dei vetri di
questo museo, costituita quasi completamente da una
raccolta appartenuta ad un grande amatore d'arte,
Diego Bonghi, da cui lo stato la comprò. Questa
collezione contava anche porcellane, biscuits,
maioliche, pastori, ricami, avori, intarsi, pezzi di
oreficeria, lampadari ed altro e l'atto di vendita
fu costituito da due parti, una per vetri e
specchi, e l'altra per gli altri pezzi.
Vi si notano vetri veneziani di inestimabile valore
dei secoli XV, XVI, XVII e XVIII. Tra i pezzi del
nucleo più antico, abbiamo notato un bacile bleu e
una coppa viola; del secolo XVI coppe a costolatura
a spirale, piatti con figurazioni e una brocca
trasparente a smalto policromo. Del secolo XVII
indicheremo l'impareggiabile piatto a costolatura a
spirale in vetro calcedonio, di eccezionali
dimensioni. Tra i pezzi settecenteschi noteremo la
fantasia delle filigrane delle parti vitree
colorate, mentre del secolo successivo esemplari che
si riportano alla fattura classica dei secoli
rinascimentali. Fra i vetri conservati in questo
museo ve ne sono poi alcuni di produzione spagnola
e tirolese anche se alcuni sono fagon de Ve-nise.
Bellissimo è il consterò trasparente a
smalti policromi eseguito da maestranze di Murano
trasferitesi in Spagna. I vetri del Tirolo di
produzione Cassel ed Hall, sono pochi ma
classicamente fini ed estremamente eleganti. Notiamo
una fiasca bleu con graffiti, una piccola alzata,
alcuni calici e un gruppo di quattro reliquari.
Vi sono poi pezzi di altra provenienza come il
gutrolf di vetro cilestrino, un vaso viola, un
cilindro e un tricorno, opere tedesche; calici di
Boemia e di Olanda.
Oltre ai vetri la raccolta Bonghi offre al
visitatore magnifici specchi, specchiere da camino,
specchi oblunghi, due imponenti sovraporte
poligonali e alcuni vetri dipinti con paesaggi.
Usciti dal Museo riprendiamo via Tito Angelini, e
scendendo per via Bonito, lasciando a sinistra via
Giaquinto, per via Torrione San Martino sulla destra
o per via Sanchini giungeremo in piazzetta Durante
e poi in via Michele Kerbaker. Attraverseremo ora di
nuovo via San Gennaro al Vomero, piazza Antignano e
via Anti-gnano lasciando sulla destra via Recco, e
per via Don Sturzo, ove sfocia la via Paisiello,
girando a sinistra ci troveremo in via Gemito,
attraverso la quale sfoceremo in piazza Quattro
Giornate, lasciando sulla sinistra via Andrea da
Salerno e via Nicola Zingarelli e lo Stadio a
destra. Lo Stadio è circondato da via Rossini, che
lascia a destra via Tilgher, vico Acitillo, via
Giuseppe Ribera e via Vincenzo Gemito, dalla quale
siamo giunti. Trovandoci in piazza Quattro Giornate
ci conviene per via Zingarelli entrare in via
Annella di Massimo, intersecata da via Fracanzano,
per giungere in via Cilea che è il proseguimento
verso il basso di via Alessandro Scarlatti. Questa
moderna strada passa con un ponte al disopra di via
Annella di Massimo e di via Mattia Preti,
incrociando sulla destra via Rossomandi e vico
Acitillo. Quest'ultimo porta alle Case Puntellate
lasciando a sinistra via Rodolfo Falvo e via A.
Longo intersecate da via Camillo de Nardis, via
Tilgher, via Luigi Galdieri, via Falcomata e via
Ruta. Tornando a via Cilea, notiamo che essa per un
po' prosegue quasi in parallelo con via Giuseppe
Ribera che invece, poi, girando sulla sinistra
finisce con lo sfociarvi. Il vico Acitillo a sua
volta, continuando sul lato sinistro di via Cilea,
per via Belvedere si collega col viale Malatesta e
via Santa Maria della Libera dov'è appunto la
Chiesa di Santa Maria della Libera. Via Cilea
termina quindi al Largo Martuscelli, nel quale
sfociano anche da sinistra via Santo Stefano che
incontra viale Winspeare, via Ricci e via Kagoshima,
e continuando come via Belvedere raggiunge via
Aniello Falcone. Partendo dalla destra di largo
Martuscelli via San Domenico passa sotto la
Tangenziale e va verso Soccavo: il proseguimento di
via Cilea, Corso Europa, incontra poi a destra via
Timavo e via Piave; via Timavo ha sulla sinistra la
cupa Torre Cervati e alcune strade nuove: gradini
Po, via Po, via Isonzo, traversa Sangro, gradini
Ofanto, via Ofanto, via Arno, via Tagliamento,
traversa Po, via Ticino, via Adige.
Il corso Europa termina quindi in piazza Europa,
dove ha sede il nuovo Istituto del Sacro Cuore,
dalla quale si diramano via Manzoni, ed a sinistra
via Tasso, che scende verso il centro di Napoli,
convogliando da sinistra il traffico di via Amelio
Falcone e incontrando via Maria Cristina di Savoia a
destra che anch'essa scende al corso Vittorio
Emanuele, dove vi è una stazione intermedia della
ferrovia Cumana.
Via Chiaja - Largo Carolina - Pizzofalcone - Monte
di Dio - Piazza dei Martiri - Piazza della Vittoria
Come abbiamo già accennato, i nostri primi itinerari
prenderanno il via da Piazza San Ferdinando, che con
la Piazza del Plebiscito consideriamo il centro
della città. Quindi di qui partiremo per
raggiungere la collina di Pizzofalcone e lungo
l'antica Strada di Chiaja, la Piazza Vittoria.
Via Chiaja
sta a cavallo tra le due piazze: subito dopo aver
seguito il lato interno del Palazzo della Prefettura
troveremo a sinistra una piccola piazzetta, chiamata
Largo Carolina non per ricordare la regina Maria
Carolina d'Austria ma la sorella del grande
Napoleone che fu regina di Napoli quale consorte di
Gioacchino Murat. Da questo largo si sale per una
strada intitolata a Gennaro Serra, già comandante
della Guardia Nazionale che fu poi arrestato per la
sua adesione alla Repubblica Partenopea del '99 ed
impiccato a Piazza Mercato il 20 agosto di
quell'anno. Si giunge così alla collina di
Pizzofalcone, così chiamata per la sua forma « come
un becco di falcone curvo », o, come alcuni
ritengono, perché nel periodo angioino vi si
praticava la caccia al falcone. Questa, chiamata
anche Monte Echia forse per corruzione del nome
Ercole o Hercli, secondo l'opinione corrente, ospitò
il primo centro di quell'abitato che diverrà poi
Napoli. A convalidare questa tesi vi è stata la
scoperta di una necropoli cumana in via Giovanni
Nicotera, la strada che da Piazza Santa Maria degli
Angeli porta sulla destra al corso Vittorio
Emanuele, che fece supporre che dopo la vittoria
contro gli etruschi avvenuta nel 524 a.C, i cumani
occupassero la roccaforte di Partenope a cui fu dato
il nome di Palepoli, dopo che fu fondata ad oriente
la città nuova o Neapolis. Su questa collina dove
era stata Palepoli, Lucullo fece costruire il suo
sontuoso Castrum, una villa fortificata i cui
giardini e dipendenze giungevano da un lato sino al
mare, comprendendo quell'isolotto di Megaride sul
quale fu poi costruito Castel dell'Ovo, e dall'altro
lato sino allo scosceso vallone che secoli dopo
doveva diventare via Chiaja. La posizione esatta di
questa sontuosissima villa romana, distrutta e
razziata durante secoli di barbarie, non è stata
trovata, poiché sulla collina non sono rimasti che
pochi ruderi nei pressi della Villa Carafa.
Monte Echia fu fortificato di nuovo ai tempi di
Valentino III, e Odoacre nel 476 tenne prigioniero
nel castrum Lucullanum l'ultimo imperatore
d'Occidente, Romolo Augustolo.
Molti secoli dopo, ai tempi di Carlo II d'Angiò,
sappiamo che vi era un oratorio chiamato di Santa
Maria a Circolo e nelle lotte fra angioini e
aragonesi, poi, vi vennero postate le artiglierie
di Re Alfonso. I re aragonesi fecero fortificare la
collina e sempre nel periodo aragonese fu costruita
quella rampa che ancora oggi porta a piazza dei
Martiri. La collina, per la sua posizione
strategica, fu sempre battuta dalle artiglierie e
adoperata come caposaldo; così, nella lotta fra
Carlo Vili e Ferrante II d'Aragona che cercava di
riconquistare Napoli, Pizzofalcone, fortificato dal
Montpensier, luogotenente di Carlo Vili, fu
attaccato dal mare. Monte Echia è ricordato anche
nei fatti d'armi che precedettero immediatamente il
vicereame spagnolo, poiché nel 1503 Pedro de Navarra
vi piazzò le sue artiglierie per puntarle contro i
francesi che erano asserragliati in Castel dell'Ovo.
In seguito vi sorsero molti palazzi e ville, alcuni
dei quali ancora oggi esistono. Fra questi palazzi
quello di Antonio Rota, figliolo del poeta
napoletano Bernardino e quello del conte di Santa
Severina Andrea Carafa della Spina che
passò in seguito al marchese di Trevico Ferrante
Loffredo, che nel 1561 offrì un suolo ai domenicani
per la costruzione del Monastero di Santo Spirito.
Fu appunto dopo la costruzione di questo imponente
complesso monastico che la collina cominciò ad
essere chiamata Monte di Dio. Sorsero in questa zona
il Palazzo del principe di Stigliano Luigi
Carafa, quello di Alarcon de Mendoza, dei
Montaldo d'Aragona e dei principi di Melfi
del Carretto Boria. Nel 1588 donn'Anna Mendoza
principessa di Stigliano fondò la
Chiesa della Annunziata
e nel 1590 la principessa di Sulmona Costanza del
Carretto Doria fece costruire a sue spese la
Chiesa di Santa Maria la
Solitaria, oggi chiamata
Santa Maria degli Angeli,
che si trova al centro della piazzetta Monte di Dio.
Questa chiesa fu affidata ai padri Teatini che la
fecero poi ingrandire da un architetto appartenente
al loro Ordine, Francesco Grimaldi. Essa è in stile
gesuitico, a croce latina a tre navate con pilastri
ed archi; le navate laterali hanno quattro cappelle
ciascuna e al centro della crociera si innalza una
bella cupola affrescata dal Benaschi con Scene
della vita della Vergine, il Paradiso e
gli Evangelisti; i dipinti del coro sono di
Francesco Maria Casenti. Notevoli i due Sepolcri
della famiglia Serra, di Tito Angelini nella
prima cappella a destra, che era sotto il patronato
del principe di Gerace. Infatti i due monumenti
sepolcrali sono quelli della principessa Maria
Antonia Grimaldi e del marito, il principe Pasquale
Serra. Nella terza cappella vi e una Sacra
Famiglia di Luca Giordano e ai lati del
transetto si notano due tele di Francesco' Caselli:
la Natività e l'Epifania. Giungendo
all'abside si ammirano il Coro finemente
intagliato e tre dipinti del Caselli, precisamente
nel fondo Santa Maria degli Angeli, a destra
Ester e a sinistra Giuditta. Sul lato
sinistro, è molto interessante una Immacolata
Concezione di Massimo Stanzione nella seconda
cappella.
Dopo la soppressione degli ordini religiosi, nel
1810 questo monastero fu trasformato in Intendenza
Militare, mentre una parte fu demolita per la
costruzione del Teatro Politeama: questo locale, per
un certo periodo, quando ne fu proprietario Enrico
Pepe, divenne un gran bazar, ma riprese poi la sua
funzione, che svolge tuttora anche se malamente
rimodernato poiché, per un incendio che lo distrusse
alcuni anni or sono, è stato completamente rifatto.
L'interesse di via Monte di Dio, che da piazza Santa
Maria degli Angeli termina alla sommità della
collina, è dovuto ai palazzi, di un certo rilievo
artistico che si susseguono lungo di essa, come il
Palazzo Ciccarelli,
quello dei
Caracciolo di Vietri,
e quello dei
Serra di Cassano
il cui ingresso principale era in via Egiziaca,
strada parallela, dove si ammira il monumentale
portale eseguito da Ferdinando Sanfelice.
L'edificio fu iniziato nella prima metà del '700 ed
il Sanfelice vi costruì un bellissimo scalone a due
rampe, ma non fu portato a termine
per la morte del
proprietario marchese Serra; danneggiato durante
l'ultima guerra, è stato restaurato. Vi sono due
cortili dei quali uno rettangolare, e quattro
ingressi nei lati minori; la facciata richiama in
parte la linea architettonica del Borromini, e le
sale nobili, decorate ed affrescate da Giacinto
Diano lo rendono uno dei più bei palazzi del
settecento napoletano.
Segue il
Palazzo Serra di Gerace
che aveva anche un magnifico parco: esso appartenne
ai principi di Gerace Giovan Battista Serra e Anna
Saluzzo di Corigliano che ai loro tempi vi davano
ricevimenti la cui eco è giunta sino a noi.
Importanti a destra sono il
Palazzo (già) Capracotta
e il
Palazzo Catemario di Quadri,
già Carafa di Noja,
con un magnifico giardino con palme e lecci. In
fondo è annidato il grazioso
Villino Wenner
che appartenne alla marchesina Vittoria Spiriti,
andata sposa al commediografo Cesare Giulio Viola;
di scarso interesse il
Palazzo Barracco.
In cima alla salita vi è una caserma della Polizia
che fu sede di un glorioso reggimento di Bersaglieri
prima della seconda guerra.
Dopo aver esaminato gli edifici più interessanti di
questa strada, troviamo a metà un arco attraverso il
quale si accede al vico Calascione, forse così
chiamato perché immette a quelle rampe Caprioli che,
come abbiamo già detto, portano giù in via Cappella
Vecchia alle spalle di piazza dei Martiri, chiamate
Calatone per la loro ripida pendenza.
Da una strada sulla destra dedicata al generale
Parisi si giunge al Collegio Militare
dell’Annunziatella, chiamato anche comunemente
Nunziatella,
con relativa chiesa del secolo XVI, restaurata nel
1736 da Ferdinando Sanfelice.
Vi si ammirano all'interno, nella volta una
Assunzione, una Bottega di San Giuseppe e
una Fuga in Egitto, tutti affreschi di
Francesco De Mura del 1751, mentre alle pareti della
navata vi sono dei mediocri dipinti di Ludovico
Mazzanti. La prima volta è decorata da Gerolamo
Cena-tiempo e quelle delle altre cappelle furono
affrescate da Giuseppe Mastroleo. Notevole la prima
cappella con una Crocefissione di Ludovico
Mazzanti, mentre a sinistra si ammira una bella
Deposizione di Pacecco de Rosa del 1646. Di
rilievo è l'altare maggiore, opera di Giuseppe
Sammartino, che eseguì i Sepolcri dei fratelli
Michele ed Andrea Giovene. L'abside è affrescato
da Francesco De Mura; interessante l'Epifania
del 1732. Poiché la chiesa fu adibita a noviziato
della Compagnia di Gesù, vi si ammirano nella prima
cappella un Santo Stanislao e nella seconda a
sinistra un Sant'Ignazio, fondatore
dell'Ordine, entrambe opere di Francesco De Mura.
Dopo l'espulsione dei Gesuiti, nei locali annessi
alla chiesa che erano stati occupati dai novizi,
venne installato il Real Collegio Ferdinandeo
dal quale i giovani uscivano col grado di
sottufficiale o di cadetto. Nel 1786, questo
collegio fu tramutato in accademia militare e vi fu
messo a capo il generale Giuseppe Parisi, che nel
1798, nella guerra contro i francesi, si distinse al
punto che la fama del suo valore spinse Giuseppe II
d'Austria ad offrirgli un alto incarico nel suo
esercito, che egli peraltro rifiutò. La scuola era
divisa in quattro brigate, ciascuna di sessanta
allievi, che vi entravano all'età di nove o dieci
anni e dopo circa dieci anni di istruzione militare
ricevevano il grado di ufficiali o potevano essere
nominati ingegneri militari.
Dopo la Repubblica Partenopea del 1799, il cardinale
Ruffo soppresse questa accademia, ma Giuseppe
Bonaparte nel 1806 la riaprì cambiandone il nome,
che divenne Scuola Politecnica Militare. Gioacchino
Murat volle denominarla invece Scuola Reale
Politecnica e Militare assegnandole il compito di
impartire agli allievi una cultura nelle scienze
matematiche, nell'arte militare, nel campo
letterario ed umanistico, nonché nozioni di
geografia, di costruzioni militari e di
fortificazioni.
Dopo il secondo rientro dei Borbone a Napoli,
l'ordinamento dato dal Murat rimase, finché nel 1816
la scuola si trasformò in Battaglione Allievi
Militari e nel 1819, in Real Collegio Militare. Nel
periodo immediatamente precedente i moti del 1848,
la scuola ebbe fra i suoi insegnanti i più noti
liberali, come Basilio Puoti, Francesco De Sanctis
ed il chimico Filippo Cassola, ma poiché vi
serpeggiavano troppe idee rivoluzionarie, nel 1855
il collegio fu trasferito a Maddaloni. Solo nel '59
Francesco II Io riportò a Napoli nella sua sede
originaria.
Retrocedendo all'inizio di via Generale Parisi, fino
a raggiungere via Egiziaca, la parallela di Monte
di Dio, troviamo in fondo, dopo un arco, uno
spazioso largo dal quale si può ammirare gran parte
della città. Dopo questa breve sosta, sempre a
destra si incontrano la
Chiesa dell'Immacolata di Pizzofalcone, di
scarso interesse artistico ed il
Palazzo Carafa di Sanseverino,
costruzione cinquecentesca ove fu allogata la
Sezione Militare dell'Archivio di Stato.
In via Egiziaca è notevole l'omonima
Chiesa di Santa Maria Egiziaca a Pizzofalcone
che fu edificata da Cosimo Fanzago nel 1651 con una
simpatica facciata convessa preceduta da una breve
scalea; nell'interno è da ammirarsi una tela di
Andrea Vaccaro sull'altare maggiore raffigurante la
Vergine titolare della chiesa.
Imboccando quella via chiamata Solitaria in ricordo
della congregazione spagnola « della Soledad », che
fu fondata nel 1581 e che qui ebbe sede , possiamo
scendere alla piazzetta intitolata a Demetrio
Salazar, patriota calabrese e distinto pittore,
mentre riportandoci nella piazza Santa Maria degli
Angeli potremmo incamminarci per l'angusta via
Giovanni Nicotera che conduce al Corso Vittorio
Emanuele. Ritornando sui nostri passi fino al largo
Carolina riprendiamo invece la Strada di Chiaja per
proseguire il nostro itinerario.
Alcuni ritengono che questa strada potesse essere in
origine un fossato a difesa della città di
Partenope o Palepoli, ma è invece più probabile che
essa fosse una naturale spaccatura tra le due
colline di Pizzofalcone e quella opposta delle
Mortelle di cui convogliava le acque verso il mare.
Nel periodo romano questo vallone cominciò ad essere
usato per raggiungere la via Puteolona, che
continuava poi verso Roma e soltanto in epoca
medioevale vi si cominciò a costruire qualche
palazzo e qualche monastero. Dopo la venuta del
viceré Pedro de Toledo, nella generale
ristrutturazione urbanistica, quella Porta
Petruccia, che stava vicino al monastero di Santa
Maria la Nova, fu spostata al termine di questa
strada, tra i Palazzi Sant'Arpino e Medici
d'Ottajano e da essa, che fu chiamata Porta
di Chiaja, partirono le murazioni fortificate
che raggiungevano a monte Castel Sant'Elmo ed a
valle il mare di Santa Lucia ed il Castel dell'Ovo.
Se si esamina la pianta del Lafrery del 1566 si nota
subito il tracciato di via Chiaja, le murazioni cui
abbiamo accennato ed il sorgere di ville e palazzi.
Dopo la costruzione del Palazzo Regio, i
cortigiani vollero abitare nelle vicinanze e quindi
il traffico della corte rese questa strada sempre
più movimentata, sicché esaminando la pianta del
Duca di Noja, del 1775, si nota che la zona era
ormai poco differente dal giorno d'oggi. Prima di
incamminarci per via Chiaja vorremmo esaminare la
collina delle Mortelle che si eleva sul Iato opposto
a quella di Pizzofalcone, così chiamata perché
anticamente vi era un bosco di questi arbusti con le
cui fronde si conciava il cuoio; ne erano
proprietari i Certosini di San Martino, che la
diedero poi in enfiteusi ai marchesi Spinelli di
Cariati. Carlo di Borbone vi fece costruire una Real
Fabbrica di Arazzi e Pietre Dure, con annessa Scuola
di Disegno. Poiché, nonostante l'estrema vicinanza
delle due alture, per raggiungere I'una dall'altra
era necessario percorrere un lungo e disagevole
sentiero, sorse l'opportunità della costruzione di
un ponte che le unisse; questa disposizione fu presa
nel 1636 dal viceré di Napoli, conte di Monterey,
ma la spesa gravò sulle borse dei complatearii,
con l'esclusione dei monasteri. Sulla destra di
via Chiaja, quindi appunto sul versante della
collina delle Mortelle vi è la salita di Sant'Anna
di Palazzo, che prende il nome da un'antica chiesa
che era frequentata dalla corte vicereale ed ancora
più avanti vi è una ripida salita che porta al Corso
Vittorio Emanuele, chiamata Gradoni di Chiaja poiché
fino a poco tempo fa era costituita da gradoni che
oggi sono stati eliminati per consentire il traffico
motorizzato. Su questi antichi gradoni vi era il
mercatino dei fiori, ma al termine di questo, la
stradina diveniva un ricettacolo di bordelli e di
case ospitali che sfruttavano la presenza delle
truppe che stazionavano nei cosiddetti Quartieri,
addossati sulla destra quasi ad angolo retto tra le
due strade di Chiaja e di Toledo.
Lungo questo primo tratto di via Chiaja non vi sono
costruzioni notevoli, ma eleganti negozi che fanno
concorrenza a quelli di Toledo; giungiamo poi al
Ponte di Chiaja,
che consta di due arcate in pietre e mattoni, di cui
la seconda è nascosta tra le case in direzione del
mare. La cittadinanza esternò la sua contentezza
per questa costruzione con uà lapide esistente
ancora, in cui ringraziava re Filippo di Spagna.
Questo ponte ebbe parte nei moti di Masaniello nel
1647, quando il Maestro di Campo Vincenzo Tuttavilla
lo fortificò; in seguito dovè essere restaurato a
cura del Tribunale delle Fortificazioni. Un secolo
dopo Carlo di Borbone fece emanare decise
disposizioni che vietavano la costruzione di
baracche e l'occupazione di suolo da parte di
venditori ambulanti che, oltre ad infestare l'intera
strada, per ripararsi dal sole o dalla pioggia si
sistemavano sotto il ponte.
Sotto Ferdinando II di Borbone, il ponte fu ancora
restaurato e la rampa che saliva dalla strada di
Chiaja alla collina di Pizzofalcone e di lì a quella
delle Mortelle fu sostituita da una scala destando
lo scontento e la disapprovazione sia da parte del
popolo che da parte dei frati domenicani. Infatti
un battagliero frate, il famoso padre Rocco,
innovatore ed interprete purissimo delle virtù
evangeliche, aveva fatto mettere su questa rampa un
crocefisso che dovè esser tolto, ma di contro
bisogna ammettere che questa stradina era in
condizioni miserevoli, sia per le immondizie che vi
venivano depositate sia per le figure oscene che
erano state disegnate alle pareti a fianco di altre
di soggetto sacro; inoltre di notte non vi era
illuminazione e passarvi costituiva un vero
pericolo.
Nel 1834 ci si accorse che il ponte aveva delle
lesioni e furono disposti lavori di rinforzo e di
restauro che furono affidati ad Orazio Angelini, al
quale si deve l'aggiunta del secondo arco della
parte inferiore. Con l'occasione il ponte fu
decorato con stemmi e bassorilievi a cura di Tito
Angelini e di Gennaro Cali; i due cavalli nella
parte occidentale sono invece opera di Tommaso
Arnaud. L'iscrizione vicereale è sotto il ponte
nella parte destra; nella parte sinistra ne fu messa
un'altra del canonico Rossi ove si esaltavano i
restauri effettuati per ordine di Ferdinando II. Lo
stemma borbonico fu poi sostituito da quella dei
Savoia dopo l'annessione del Regno di Napoli nel
1861.
Dopo il ponte vi è la
Chiesa di Sant'Orsola a Chiaja, che
apparteneva all'antico monastero di Santa Maria
della Pace, officiato dai padri Mercedari, Ordine
spagnolo fondato nel 1230, che si dedicava al
riscatto degli schiavi dietro il pagamento di una
mercede.
Nel 1447 Alfonso d'Aragona aveva promesso che se
fosse riuscito ad ottenere la pace avrebbe dedicato
una chiesa alla Vergine della Pace;-così fu, ed il
complesso fu affidato a quest'Ordine spagnolo. Nella
metà del secolo XVI un nubifragio danneggiò così
gravemente quell'antica chiesa che i frati decisero
di costruirsi un nuovo convento appunto dove è oggi
Sant'Orsola: qui già esisteva una cappella che
sembra appartenesse al principe di Stigliano; essa
fu dedicata a Sant'Orsola, e poiché il monastero si
arricchiva per le donazioni e gli oboli che i frati
ricevevano, fu ingrandita nel 1576. Questo tempio
non ha pregi architettonici o opere degne di
rilievo, ma sono da ricordarsi un modesto dipinto
raffigurante la Vergine della Vittoria che fu
donato ai padri Mercedari da papa Pio VI e due
corone d'argento donate dall'artista
spagnolo Alfonso del Canto per l'immagine
della Vergine e del Bambino.
Sul chiostro del convento, e precisamente al centro
del piccolo cimitero monastico, fu costruito nel
1875 su disegno di Fausto Niccolini e di Antonio
Francesconi il
Teatro Sannazaro.
Esso era piccolo, ma così grazioso che veniva
definito una bomboniera; vi furono tenute
memorabili recite di grandi compagnie teatrali,
eppure si diceva che non portasse fortuna ai suoi
proprietari perché costruito su beni ecclesiastici.
Per un certo periodo il piccolo teatro ha
funzionato da cinematografo, ma recentemente, dopo
essere stato rifatto ed ampliato, è stato
nuovamente adibito a teatro per le rappresentazioni
di lavori dialettali napoletani e di novità non
sempre interessanti.
Notiamo ancora sulla destra un importante edificio,
elegante e classico nella sua severa linea
architettonica: il
Palazzo Cellamare,
che fu costruito agli inizi del secolo XVI come
residenza estiva dell'abate di Sant'Angelo di
Atella, Giovan Francesco Carata, intimo amico del
viceré Pedro de Toledo.
Questo abate, discendente di Malizia Carafa, era
nipote del conte di Ariano che ebbe il principato di
Stigliano da Carlo V; da lui il palazzo passò al
nipote Luigi, sposo di Clarice Orsini, che acquistò
poi dai Bonifacio anche il Palazzo donn'Anna a
Posillipo e divenne Grande di Spagna. Il figlio di
questo, Antonio, valoroso soldato, si distinse nella
battaglia di Lepanto, ed essendo anche letterato ed
umanista, fu amico del Tasso che molte volte fu qui
suo ospite, e che secondo alcuni, volle idealizzarlo
nel suo Tancredi, Dei vari principi di
Stigliano che furono proprietari del palazzo va
ricordato l'altro Luigi che sposò la duchessa
Isabella di Sabbioneta, anch'egli letterato e
filosofo; la consorte manteneva aderenze politiche
di una certa importanza anche fuori del regno, e
riuscì a far sposare suo figlio Antonio con Elena
Aldobrandini, nipote di papa Clemente Vili. Questo
principe fece del suo palazzo un cenacolo
letterario frequentato dai maggiori letterati
napoletani, come il poeta Basile, che nel 1612 volle
dedicargli quella favola dal titolo Avventurose
disavventure, Camillo Pellegrino ed il poeta
napoletano Gianbattista Marino, il maggiore poeta
italiano del '600, che volle ricordarlo insieme alla
sposa Isabella nelle sue rime. Con il marchese di
Manzo, il principe di Stigliano fondò l'Accademia
degli Oziosi, che annoverava fra le sue attività la
filodrammatica; a causa di queste recite sbocciò un
amore tra il principe e la sorella del poeta Giovan
Battista Basile, Adriana, che suscitò un tale
scandalo da finire col determinare un intervento del
cardinale arcivescovo. Il patrizio scriveva per la
bella attrice dei madrigali che ella recitava o
cantava dopo averli fatti musicare, ma
nonostante le attenzioni del suo potente amico, la «
canterina », quando ebbe un'occasione propizia,
prese il volo e non tornò a Napoli se non
sessantenne, accolta con tutti gli onori dal viceré
dell'epoca, il duca d'Alba. Nel 1630, sempre per le
abili manovre di donna Isabella, la nipote Anna
riuscì a sposare il viceré di Napoli don Ramiro
Guzman di Medina: donn'Anna di Stigliano fu una
viceregina dura ed energica più di quanto lo sarebbe
stata forse una straniera, ed avendo subito durante
i moti dì Masaniello alcuni affronti, riuscita a
trovare i colpevoli, li fece condannare a morte
senza pietà.
Durante la peste del 1656 il palazzo fu trasformato
in un lazzaretto con l'assistenza amorevole dei
frati Mercedari dell'attiguo convento di
Sant'Orsola: alla fine del secolo poi fu messo in
vendita ed acquistato dal principe di Cellamare
Antonio Giudice, duca del Gesso, il cui nome
conserva tuttora. Nel tempo fu apposto al grande
portale ad arco lo stemma di questa famiglia di
origine genovese con la iscrizione Antonius
Judice Iuvenatii Dux. Nel 1693 l'erede di questo
titolo sposò Anna Camilla Borghese vedova del duca
di Mirandola e fu molto amico di re Filippo V di
Spagna: distintosi nella battaglia di Suzzara, ebbe
l'incarico di viceré in Sicilia ma finì malamente
poiché, essendosi rifugiato a Gaeta durante
l'occupazione austriaca, fu arrestato e
imprigionato prima a Castel Sant'Elmo e poi a
Castel dell'Ovo. Rimesso in libertà, riacquistò il
tempo perduto, ma, nominato ambasciatore in Francia
non seppe barcamenarsi nella politica di quello
stato e preferì farsi sollevare dal suo incarico e
rientrare a Napoli. Nel 1726 fece ingrandire e
ricostruire il suo palazzo come oggi lo ammiriamo :
i saloni furono affrescati da eminenti pittori come
Giacomo Del Po, Pietro Bardellino, Giacinto Diano e
Fedele Fischetti; furono restaurati gli affreschi
già esistenti di Luigi Romano, ingrandito il cortile
interno e restaurata la cappellina dedicata alla
Vergine del Carmelo, opera di Ferdinando Fuga. Nel
1733 la figliola, andando sposa al principe
Francesco Caracciolo di Villa, che aggiunse al suo
cognome il titolo di principe di Cellamare, portò in
dote questo palazzo. Non sappiamo per qual motivo,
gli sposi ritennero però opportuno darlo in fitto al
principe di Francavilla don Michele Imperiali che
nel 1753 arricchì la sua magione di una importante
pinacoteca. Egli teneva nel palazzo una corte che
poteva competere con quella reale, e, munifico
mecenate, ebbe la presidenza della Società
Drammatica dei Gentiluomini Napoletani e di
quell'altra Accademia di Scienze e Belle Arti voluta
da Ferdinando IV di Borbone. Il principe Imperiali
era proprietario dì varie ville, di cui una a
Portici ed una a Santa Lucia che diventò poi il
Casino Reale del Chiatamone, ma non pensò mai di
acquistare questo palazzo. Vi ebbe ospiti di
eccezione come il Volkmann ed il Cochin dai quali
abbiamo avuto descrizioni della grandiosità e della
ricchezza della sua casa, delle porcellane e dei
gioielli che erano esposti in alcune bacheche dei
suoi saloni, della bellezza dei giardini e delle
serre nonché dell'importanza delle razze dei cavalli
della scuderia. Le cronache del tempo raccontarono
che questo principe, al quale nessuno poteva essere
paragonato, aveva sempre saloni aperti e tavola
imbandita ed era chiamato « ornamento della nostra
città in accogliere e complimentare tutti i
forestieri ». Lo ricordarono lo Sharp, il d'Onofrio,
Giacomo Casanova nelle sue Memorie,
l'irlandese Sarah Goudar, che si intrattiene nella
cronaca delle feste di carnevale nel palazzo e
infine Benedetto Croce nei suoi Aneddoti e
profili settecenteschi. Nel 1799 la vita mondana
del palazzo finì per la morte della principessa
Eleonora e non riprese più perché dopo tre anni morì
anche il principe e l'edificio fu preso in fitto dai
sovrani di Napoli che l'usavano come foresteria; fu
così che vi abitarono, ospiti della regina Maria
Carolina, nel 1784 Angelica Kauffmann, il pittore
paesaggista Filippo Hackert ed il fratello Giorgio,
e Wolfango Gòete. Gli eventi del 1799 fecero scempio
della bella dimora patrizia che fu occupata dai
francesi del generale Rey i quali, quando se ne
andarono, portarono via con sé i quadri che
adornavano i saloni. I sovrani al loro ritorno a
Napoli, continuarono a tenere in fitto il palazzo
per la custodia di quadri e di molte opere d'arte
che sono attualmente nei musei, ma nel 1805 lo
lasciarono libero. Durante l'occupazione francese,
poiché il duca del Gesso aveva seguito i reali in
Sicilia, il palazzo gli fu confiscato e solo al
ritorno di Ferdinando IV gli fu restituito, per
essergli nuovamente espropriato poco dopo a causa
dei debiti che aveva contratti; lo riacquistò nel
1822 la moglie duchessa di Sant'Elia donna Vittoria
d'Artois. Nel 1843 il palazzo Cellamare fu tagliato
per l'allargamento della strada.
La Strada di Chiaja prosegue nella sua dolce discesa
verso il mare; poco più avanti vi era la
Porta di Chiaja, che
nel 1608 fu rimodernata per desiderio del viceré
conte di Benavente Pi-mentel d'Herrera il quale
desiderava che fosse chiamata in suo onore «
Pimentella ».
La facciata della porta era in piperno, di ordine
attico su ordine dorico e decorata da un affresco
di Mattia Preti e da due statue raffiguranti una San
Michele e l'altra San Gaetano. Ad opera di Geronimo
d'Àuria, nel 1620 vi furono apposti gli stemmi della
famiglia reale, vicereale e della città e fu
decorata con intagli in marmo. In questo stesso anno
giungeva a Napoli come nuovo viceré il cardinale
Zapatta, che venendo da Pozzuoli desiderava che gli
Eletti del Popolo lo attendessero per riceverlo
fuori la Grotta; questi replicarono che lo avrebbero
invece atteso fuori di questa porta, e lo misero in
condizione di dover cambiare i suoi programmi per
non dimostrare di non essere riuscito ad imporre il
suo volere. Giunse quindi dal mare sbarcando nei
pressi dell'Arsenale.
La porta tu abbattuta nel 1782 previo parere di
Nicola Schioppa e di Carlo Vanvitelli, ma sino al
1872 se ne potevano ancora vedere i piloni fra i
due palazzi Sant'Arpino e Medici.
Al termine di via Chiaja all'angolo di Piazza Santa
Caterina troviamo appunto sulla destra il
Palazzo Medici di Ottajano,
già Miranda e sulla sinistra il modesto
Palazzo Sant'Arpino,
che non ha né storia né pregi artistici ma deve
essere ricordato per i suoi sotterranei, costituiti
da oscure gallerie che giungono sino a piazza del
Plebiscito.
Il Palazzo Medici fu costruito dall'architetto
Gaetano Barba ed acquistato dalla duchessa di
Miranda Gaetana Caracciolo nel 1789; passato in
eredità alla figlia Marianna, questa nel 1825 vi
fece costruire un gran loggiato a livello del piano
superiore. Nel 1830 l'architetto Tommaso Giordano
costruì altri appartamenti alle spalle della loggia,
mentre il terzo piano fu elevato per le nozze del
duca don Michele de' Medici con la duchessa di San
Cesareo Giulia Marulli avvenute nel 1842 ad opera
dell'architetto Annito e di Fausto Niccolini.
Questo palazzo ospitò un'importantissima
pinacoteca, che comprendeva tele dello Spagnoletto,
di Giacomo Palma il Vecchio, del Rubens e di Guido
Reni; anche le porte dell'appartamento dove era
raccolta la quadreria erano di valore, ad un solo
battente in legno di acero a massa con ornie dello
stesso tipo di legno, e persino le imposte dei
balconi erano su disegno del Niccolini.
Agli inizi del secolo XIX questa strada era
prediletta dalla nobiltà, che dopo aver passeggiato
per Toledo in carrozza passava di qui per giungere
al mare. Verso la metà del secolo scorso essa
inoltre si popolò di eleganti botteghe e vi fu
proibito lo stazionamento ai venditori ambulanti.
I negozi di via Chiaja, che avevano i generi di
lusso che giungevano da Parigi e da Vienna si
potevano paragonare a dei salotti, sia che
vendessero articoli di moda per uomo o per donna o
fiori o busti o cartoleria. Una bottega molto
famosa, ricordata da Salvatore Di Giacomo era quella
di un gobbo chiamato Gasparre, spiritoso e simpatico
che era riuscito a farsi un'ottima posizione
facendo il «calzettaro».
Questa strada è legata alla nostra storia ed alla
fine del regno borbonico per aver dato l'addio
all'ultimo sovrano, Francesco II: il re lasciò la
capitale dopo averla attraversata constatando con
infinita amarezza come già si cancellassero dai
negozi i gigli borbonici che distinguevano i
fornitori della Real Casa. Tolse lo stemma prima
della partenza del sovrano anche la Real Farmacia
Ignone, che era sotto il Palazzo della Foresteria,
nei pressi di quell'ingresso posteriore che è
rimasto chiuso da quando questo palazzo divenne sede
del rappresentante del governo d'Italia.
Si è detto che questa strada ha termine nel largo di
Santa Caterina, dal quale si aprono verso destra la
elegante via Gaetano Filangieri e verso il basso
Piazza dei Martiri. Noi imboccheremo quest'ultima
strada, che porta al mare, lasciando la via
Filangieri per un prossimo itinerario. Il largo
prende il nome dalla
Chiesa di Santa Caterina,
dei francescani del Terzo Ordine Regolare, costruita
nel 1582 per desiderio della famiglia de' Forti e
successivamente ingrandita a cura della principessa
di Stigliano che, come abbiamo già visto, abitava
nel Palazzo Cellamare.
Le caratteristiche architettoniche di questa chiesa
non sono tra le migliori anche perché i vari
restauri che si sono succeduti non ne hanno
migliorato la già semplice strutturazione
architettonica: la cupola del 1600, è opera di
Michele Pellegrino. All'interno vi sono alcune opere
degne di menzione, fra cui ricorderemo una Santa
Caterina di Antonio Sarnelli del
1770 e il Sepolcro di
Maria Clotilde di Francia, moglie di Carlo
Emanuele IV di Sardegna il cui interesse è più
storico che artistico. Questa principessa francese
era sorella di Luigi XVIII e di Carlo X, che come si
sa, fu l'ultimo re di Francia della dinastia
borbonica, spodestato dalla rivoluzione del 1830.
Andata sposa al principe sabaudo, dedicò la sua vita
alle opere di carità, che le fecero meritare, dopo
la morte, la proclamazione a Venerabile della
Chiesa. Il consorte, che già da tempo aveva perduto
il trono, ebbe una profonda crisi spirituale ed
entrò nella Compagnia di Gesù. Morì cieco nel 1819.
Dell'antico monastero non rimane più nulla, anzi
nelle celle del convento prese stanza in seguito un
reggimento di alabardieri che diede anche il nome
alla prima strada a destra scendendo. Di fronte a
questa, via Cappella Vecchia ci ricorda che vi era
qui una antichissima
Abbazia chiamata di Santa Maria a Cappella Vecchia
ed una meno antica chiamata, per distinguerla
dall'altra, di
Santa Maria a Cappella Nuova.
Vi era in questo luogo una miracolosa immagine della
Vergine per la quale nel 1635 l'arcivescovo di
Napoli volle far costruire una Cappella ad
opera di Pietro di Marino; questa fu ingrandita nel
1651 per desiderio del conte d'Ognatte e l'altare
maggiore fu fatto dai discepoli del Fanzago. Accanto
a questa chiesa sorsero alcune osterie di campagna,
una delle quali, come raccontano i cronisti del
tempo, fu chiusa per desiderio dei francescani di
Santa Caterina perché dava scandalo ai fedeli. Nel
1729 questa abbazia di Santa Maria a Cappella Nuova
era in grande abbandono e il duca di Monastarace
Domenico Perrelli che abitava nelle vicinanze
propose di restaurarla a patto che gliene rimanesse
il patronato. Dopo la soppressione dei conventi
avvenuta nel 1788 l'abbazia fu adibita a scuola; la
chiesa fu demolita nel 1812 e su una parte degli
orti circostanti il marchese Nunziante costruì il
suo palazzo, mentre il titolo abbaziale di Santa
Maria a Cappella passava nel 1821 alla Chiesa
delle Crocette al Chiata-mone. Da una porta
laterale di Santa Maria a Cappella Nuova si poteva
accedere alla chiesa più antica di Santa Maria a
Cappella Vecchia, che era stata costruita sul luogo
dove in epoca remotissima vi era un tempio dedicato
a Serapide, divinità adorata dagli egizi e da alcuno
greci; su questo tempio sarebbe stata poi eretta
un'edicola dedicata alla Vergine con un annesso
monastero di monaci basiliani.
Imboccando via Cappella Vecchia attualmente si
arriva ad una piazzetta che è, come tutta la zona,
legata al ricordo di monsignor Perrelli, un
personaggio storico napoletano.
Esaminiamo ora la triangolare
Piazza dei Martiri,
che ha al centro il bel monumento ed è cinta da tre
grandi e storici palazzi:
Palazzo Partanna,
il primo sulla destra scendendo,
Palazzo Calabritto,
quello verso il mare, di fronte a chi entra nella
piazza, ed il giallognolo
Palazzo Nunziante,
verso via Domenico Morelli così chiamata per
ricordare che vi abitò il grande pittore. Questa
piazza è stata denominata per il passato Largo di
Santa Maria a Cappella e poi Largo della Pace perché
dopo i moti del 1848 Ferdinando II vi fece mettere
al centro un monumento dedicato a Santa Maria della
Pace, che doveva "celebrare l'avvenuta
riconciliazione fra monarchia e popolo. Si cominciò
ad innalzarlo sotto la direzione di Luigi Catalano
nel Largo della Carità, ma quando giunse sul posto
l'alto fusto di granito grigio, si pensò che il
luogo non fosse adatto e lo si spostò quindi in
questo largo; quando poi nel 1861 avvenne
l'annessione al Regno d'Italia del Regno di Napoli,
il sindaco Giuseppe Colonna di Stigliano diede
incarico all'Alvino di usare questa colonna con
l'aggiunta di altri elementi scultorei per formare
un Monumento che ricordasse i napoletani
morti per la libertà.
La statua della Vergine fu portata nella chiesa di
San Giovanni Maggiore e il monumento fu trasformato
per simboleggiare con la Colonna dei Martiri
la Vittoria; la statua che fu messa in cima
al capitello rappresenta la Virtù dei Martiri
ed è opera di Emanuele Caggiano. Dei quattro
leoni, quello morente, opera di Antonio Busciolano,
raffigura i martiri del 1799, quello trafitto dalla
spada, opera di Stanislao Lista, i martiri del 1820;
il seguente, eseguito da Pasquale Ricca, rappresenta
i martiri del 1848 e l'ultimo, dall'aspetto feroce,
opera di Tommaso Solari, quelli del 1860;
l'epigrafe fu dettata dal Fornari.
Il Palazzo Partanna, che, come abbiamo detto
si trova sulla destra di chi scende dalla via Chiaja
è il più antico dei tre, essendo stato costruito,
in dimensioni più modeste, agli inizi del '700 da un
certo Donato Cocozza che lo vendette poi al duca di
Portanna Baldassarre Coscia, del quale tuttora
conserva il predicato; nel 1746 poi, come può
leggersi nel plinto di una delle colonne ioniche del
portone, fu rifatto da Mario Giof-fredo. In seguito
il palazzo fu acquistato da Ferdinando IV per farne
dono alla sua seconda moglie, la duchessa di
Floridìa Lucia Migliaccio, vedova del principe di
Partanna, che vi abitò dopo la morte del sovrano.
Trasformandolo in linea neo-classica, Antonio
Niccolini ne lasciò indenne il portale.
Dal 1850 il primo piano di questo palazzo fu
residenza della famiglia inglese De La Feld, che
essendo appassionata di teatro vi costruì un
palcoscenico in uno dei saloni ove nel 1857, alla
presenza di illustri personaggi, fra cui Io storico
Melchiorre Delfico ed il re di Baviera, venne dato
il Don Pasquale di Gaetano Donizetti.
Di fronte è l'importante Palazzo Calabritto,
appartenuto alla famiglia Tuttavilla duchi di
Calabritto, che fa angolo fra la piazza dei Martiri
e la discesa che porta al mare, chiamata appunto via
Calabritto. Ha doppia facciata e due ingressi, di
cui quello principale, sulla via che porta alla
Vittoria, costruito nel secolo XVII. La nuova dimora
dei Calabritto piacque tanto a Carlo di Borbone che
volle incaricare il conte di Santo Stefano di
adoperarsi affinché divenisse di sua proprietà,
pagandolo 34.700 ducati. La famiglia però dopo un
certo tempo riuscì a riaverlo per lo stesso prezzo e
diede incarico a Luigi Vanvitelli di rifare
completamente la facciata, il portale e lo scalone.
Mentre si stavano effettuando questi lavori, essendo
morto il proprietario don Francesco la proprietà
venne divisa tra gli eredi, che furono il principe
Caracciolo di Castagneto ed il marchese Antonio
Piscitelli; questi, non sapendo cosa farsene di un
palazzo così grande, ne affittarono una parte ai
pastori anglicani che vi allestirono una cappella
per i loro fedeli, dalla quale si trasferirono poi
in quella chiesa protestante che ancora esisteva
dopo la guerra in via Cappella Vecchia. Abitarono in
questo palazzo personaggi degni di menzione come il
generale Florestano Pepe e, dopo l'esilio, il
fratello Guglielmo; vi si insediò anche
l'elegantissima casa di mode di una certa Madame
Pass, ed ebbe qui la sua sede, dopo essere stato
nel palazzo Sant'Arpino in via Chiaja il Circolo
Nazionale, sul quale ci soffermeremo brevemente
quando giungeremo in Piazza Vittoria.
Il Palazzo che chiude la piazza facendo
angolo con via Domenico Morelli, conserva il nome
del suo primo proprietario, il marchese
Nunziante. Molto vasto, affaccia sul retro nella
piazzetta di Santa Maria a Cappella, un tempo
cortile dell'abbazia, ed ha una imponente facciata
su via Morelli con un basamento bugnato alto due
piani ed un corpo mediano a tre ordini. Questo
prospetto, con due portoni di ingresso, ha una linea
architettonica molto tipica nell'800 napoletano. La
costruzione fu effettuata su disegno di Enrico
Alvino ed infatti questo edificio si distacca
nettamente dalle opere del Vanvitelli e del
Niccolini. Il palazzo ha annessa una cappella nella
quale si possono ammirare una Assunta di
Domenico Morelli ed una statua raffigurante la
Vergine di Antonio Busciolano, oltre ad alcune
pitture alla maniera bizantina eseguite dal
siciliano Paolo Vetri.
Sia proseguendo per questa strada e poi per via
Mondella Gaetani, sia scendendo per via
Calabritto si raggiunge piazza
Vittoria, sulla quale fa
angolo il terzo lato del Palazzo Calabritto, quello
da cui si affacciavano alla piazza le sale
dell'appartamento occupato dal Circolo Nazionale.
Questo sodalizio ebbe un'intensa vita mondana ed i
suoi balconi erano sempre gremiti di gentiluomini
elegantissimi appartenenti alla migliore nobiltà
napoletana; sovraintendeva alla cucina il
famosissimo « monsù Cun-fettiello »,
conosciuto per la sua bravura anche all'estero.
Purtroppo i bombardamenti del 4 agosto del 1943
distrussero questo appartamento ed il circolo
Nazionale si è poi fuso col circolo dell'Unione, del
quale abbiamo già parlato a proposito del teatro
San Carlo.
Piazza della Vittoria,
bellissima e spaziosa, è aperta su due lati, verso
il mare e verso la villa Comunale. Essa deve il suo
nome all'omonima
Chiesa, dedicata a Santa Maria della Vittoria
in ricordo della famosa battaglia navale vinta a
Lepanto contro i turchi il 7 ottobre del 1571.
Fra gli stati riuniti da Pio V nella Lega Santa vi
erano la Spagna e il vicereame di Napoli, che
partecipò con diverse migliaia di fanti su un
convoglio di duecentocinquanta navi comandato da don
Giovanni d'Austria; proprio a lui il pontefice
consegnò a Roma il vessillo da innalzare sulla nave
ammiraglia, cimelio che ancora oggi può essere
ammirato nell'antichissima cattedrale di Gaeta,
ultimo baluardo del Regno delle Due Sicilie. In
seguito a questa vittoria il pontefice volle
destinare il 7 ottobre alla festa della Vergine
delle Vittorie, ed a Napoli si volle subito
costruire questa chiesa per eternare l'avvenimento.
Infatti essa fu edificata già nel 1572, su un
terreno offerto dal marchese di Polignano alle falde
della collina di Pizzofalcone; fu poi rimaneggiata e
restaurata nel 1628 per desiderio della figlia di
don Giovanni d'Austria, Giovanna, vedova del
principe di Butera che, avendo come confessore un
teatino, volle affidarne l'officiatura a
quest'Ordine che provvide ad annettervi un
convalescenziario. L'architetto fu il teatino
Grimaldi che però non eccelse in questa
costruzione: la facciata infatti è estremamente
insignificante, come del resto l'interno, ad
eccezione di quattro colonne di marmo scuro e di un
dipinto settecentesco sull'arco del presbiterio
raffigurante La Vergine che appare a don Giovanni
d'Austria. Vi è poi il Sepolcro del principe
Camillo Massimo, generale comandante delle
poste pontificie, morto nel 1801, che partecipò al
trattato di Tolentino del 1797 tra Napoleone e Pio
VI: il figlio Camillo nel 1830 volle far mettere
una lapide sul suo sepolcro che ricordasse questo
storico evento.
Mentre ammiriamo sulle aiuole al centro della piazza
le statue raffiguranti Giovanni Nìcotera e
Nicola Amore, entrambe opere di Francesco
Jerace, notiamo che segue il
Palazzo Majo,
appartenuto al nobile Bartolomeo, che alla fine del
secolo XVII lo fece restaurare da Ferdinando
Sanfelice, il quale appose la sua firma all'opera
con una bella scalea elicoidale. Sino agli inizi di
questo secolo questo palazzo vantava due eleganti
negozi, quello del grande sarto Domenico Russo e
quello del fotografo d'arte Lauro. Segue ancora il
Palazzo Statella,
che passò poi a Roberto de Sanna, passato nella
storia napoletana per le continue polemiche contro
l'amministrazione cittadina per perorare
l'ingrandimento del porto. Appassionato di musica,
costui fu anche per un breve periodo impresario del
teatro San Cario e volle far conoscere sempre più le
belle canzoni napoletane nel vecchio Circolo
della Varietà; rimase alla storia delle
mondanità napoletane un ballo da lui offerto nel
lontano 1913 in onore della figlia Maria,
organizzato dal nobile Marcello Orilia.
Prima di lasciare questa piazza desideriamo
ricordare che vi era qui un tempo un albergo
chiamato della Vittoria che fu conosciuto da
Alessandro Dumas e da lui ricordato nel suo «
Corricolo » perché vi alloggiò per un certo periodo
un bey africano con il suo harem.
Piazza del Plebiscito - Via Cesario Console - Via
Santa Lucia -Via Nazario Sauro - Via Chiatamone -
Via Partenope - Piazza della Vittoria
Questo itinerario, partendo dalla piazza del
Plebiscito ci porterà ugualmente alla piazza
Vittoria lungo l'altra direttiva che circoscrive la
base del monte Echia. Scenderemo per la moderna via
Cesario Console, intitolata a quel figlio del duca
Sergio I di Napoli che al comando della flotta
napoletana, accorso in aiuto di Leone IV contro i
saraceni che minacciavano Roma, riuscì a sbaragliare
l'avversario ad Ostia. Rasenteremo quindi il fianco
di Palazzo Salerno, che ha qui un secondo ingresso
dal quale si accede alla Biblioteca Militare,
e imboccheremo questa ampia e luminosa discesa che
ci offre la vista del Vesuvio e della costiera
sorrentina; anticamente era chiamata Rua dei
Provenzali, poiché portava a quel porto dei
Provenzali dove attraccavano le loro navi i
cittadini di questa nazionalità; in epoca vicereale
fu denominata invece via Guzmana dal nome del viceré
che l'ampliò nel 1599. Sotto il vicereame del
cardinale Borgia la strada fu allargata ancora e nel
1620 furono abbattute modeste case popolari; il
viceré conte di Lemos vi fece costruire la «
Panatica », un edificio ove si « panificava per la
truppa marittima » press'a poco dove è oggi la sede
dell'Ammiragliato, immediatamente adiacente
all'ala laterale di Palazzo Salerno.
Quando vi fu in cima alla salita la statua del
Gigante, della quale abbiamo parlato nel primo
itinerario a proposito di Piazza Plebiscito, la
strada fu chiamata anche Salita del Gigante.
All'angolo con la sede dell'Ammiragliato possiamo
imboccare via Santa Lucia o continuare verso il
mare, ma riteniamo preferibile percorrere prima via
Santa Lucia anche perché l'altra strada fino al
secolo scorso non esisteva ed il mare lambiva le
pendici del monte Echia lungo l'attuale Santa Lucia.
Subito a sinistra troviamo qui la moderna
Chiesa di Santa Lucia,
costruita sul luogo dove si vuole fosse stata
eretta una piccola cappella da una nipote
dell'imperatore Costantino.
Questa antichissima chiesa, che diede nome a tutta
la contrada, aveva una cripta, un piano a livello di
strada che era la parte più antica, ed un altro
rialzato: essa era officiata da monaci che avevano
il loro convento sull'isolotto di San Salvatore, ma
dopo essere passata alle monache di San Pietro a
Castello nel 1588 la badessa Eusebia costruì sulla
chiesa originaria la seconda. Poiché nel secolo
scorso il livello stradale fu elevato, quello che
attualmente vediamo è il piano superiore rifatto nel
1845 e restaurato dopo l'ultima guerra.
Nella chiesa non vi è alcunché di notevole se non,
sopra la cantoria, un dipinto cinquecentesco
raffigurante il Rosario e sull'altare
maggiore una statua settecentesca in legno di
Santa Lucia.
In questa strada vi era la Fontana di Santa
Lucia, che fu poi spostata nella Villa Comunale,
per l'apertura dell'attuale via Partenope, con gran
dolore dei pescatori di questa contrada che avevano
contribuito alla spesa per la sua costruzione.
Coloro che vivono da generazioni in questa zona
della città, quasi un gruppo etnico a sé stante nel
bel mezzo della città, chiamati « luciani » dal nome
del loro quartiere, sono da generazioni e per
tradizione per la massima parte pescatori, gente che
vive con il mare. Il loro quartiere generale è
quell'accozzaglia di case cadenti che porta il nome
di Pallonetto di Santa Lucia, una strada
triste e maleodorante dove la rumorosa attività
comune a tutti i quartieri popolari napoletani non
riesce a nascondere l'infinita miseria di tuguri
malsani e di abituri desolati. In un dedalo di
angoletti e di supportici che sembra fatto apposta
per i traffici del « mercato nero » trova fertile
terreno la scuola del vizio e della criminalità,
discendenti quasi legittimi della miseria e
dell'abbandono. Eppure in questi slums,
indegni di un paese civile, nello squallore della
povertà e dell'ignoranza, germogliano fiori di
sentimento e di poesia che hanno commosso l'animo
dei nostri più grandi poeti. Vicinissimi al Palazzo
Reale, i luciani sono sempre stati per tradizione
monarchici accaniti ed hanno dimostrato in ogni modo
la fedeltà ai loro sovrani, sia di casa Borbone sia
di casa Savoia, che consideravano quasi come persone
di famiglia, cosa propria da proteggere e far
rispettare.
Dal Pallonetto di Santa Lucia parte nel mese di
agosto il corteo per la « Nzegna », una festa
in onore della Madonna della Catena che è la
protettrice dei luciani.
Ritornati a Santa Lucia, troviamo a destra la
Chiesa di Santa Maria della
Catena che fu eretta dalla pietà dei
pescatori nel 1576.
Si racconta che alla fine del secolo XIV tre
innocenti erano stati condannati ad essere
impiccati nel luogo dove oggi è la chiesa: a causa
di un violento uragano si rimandò l'esecuzione ed i
condannati passarono la notte incatenati l'uno
all'altro. Mentre i poveri derelitti, zuppi fino
all'osso, imploravano la pietà della Vergine, le
catene si spezzarono ed essi poterono fuggire. A
cura dei loro familiari fu quindi costruita qui una
cappella che fu poi ingrandita, come si è detto, nel
1576.
Vi è in questa chiesa il Sepolcro dell'Ammiraglio
Caracciolo, martire della Repubblica Partenopea
del 1799, che fu impiccato sull'albero della sua
nave perché colpevole di tradimento al suo re.
Ritornando ora a via Cesario Console, la seguiremo
fino a raggiungere il mare e la strada che lo
costeggia verso destra, via Nazario Sauro. In questa
zona modernissima, non vi è nulla di notevole se
non, in un largo a semicerchio, il Monumento ad
Umberto I di Achille d'Orsi del 1910. Tra questo
lungomare e la via Santa Lucia vi sono via Falero,
via Petronio, via Cuma, via Raffaele De Cesare, via
Marino Turchi, via Palepoli e via Lucilio, tagliate
da via Generale Orsini. Proseguendo, incontriamo a
sinistra, alla svolta, la
Fontana dell'lmmacolatella, di fronte alla
quale vi è un grande albergo cittadino.
La fontana, costituita da tre grandi archi adorni di
sirene e cariatidi, fu scolpita da Pietro Bernini e
dal Naccherino; essa fu chiamata
dell'lmmacolatella quando dalla salita del
Gigante, dove si trovava, fu trasferita presso la
Stazione Marittima dell'lmmacolatella. In seguito
anche di lì fu spostata e fu messa in questo angolo
del lungomare, dove indubbiamente, è più in vista ed
è opportunamente decorativa.
Da questo punto il lungomare perde il nome di via
Nazario Sauro per prendere quello di via Partenope.
Nello specchio di
mare prospiciente,
circoscritto dalla strada e dal ponte che unisce
alla terraferma l'isolotto del Salvatore, sul quale
è Castel dell'Ovo, vi è il piccolo porticciolo
turistico di Santa Lucia, nel quale sono ancorati
panfìli ed imbarcazioni, per la maggior parte
appartenenti ai due circoli nautici, l'Italia
e il Savoia, che hanno le loro sedi
immediatamente al disotto della strada.
Il primo e più antico tra i sodalizi nautici
napoletani è l'Italia, che fu fondato nel
1889; la sua prima sede fu alla Panatica, e sin dal
1896 incominciò ad ottenere vittorie nei campionati
velici italiani anche se solo nel 1913 furono create
la sezione velica e quella remiera. Nel 1946, quando
fu istituita la regata d'alto mare chiamata « dei
Tre Golfi », questo sodalizio si fuse col circolo
La Vela.
Il Savoia fu fondato nel 1893 col nome di
Sebezia, che fu cambiato poi in omaggio alla Casa
regnante. In questo circolo oltre allo sport
nautico sono stati praticati la scherma e il
pattinaggio, ma attualmente il sodalizio ha perduto
ogni caratteristica sportiva e si potrebbe dire
valido soltanto agli effetti di gare... di Canasta
o di Bridge, mentre per il passato le sue glorie
sportive sono state numerose. Basterebbe ricordare
che conseguì la vittoria nel primo campionato
europeo della classe « Star » del 1935 e vinse il
campionato del mare di canottaggio nel 1948.
Per raggiungere la nostra mèta, cioè piazza
Vittoria, potremo seguire il lungomare o la sua
parallela nell'interno, vìa Chiatamone.
Trovandoci già sul litorale preferiamo continuare
lungo di esso; qui sulla destra ammireremo i
lussuosi alberghi che si susseguono, e sulla
sinistra il breve ponte che congiunge alla
terraferma l'isolotto roccioso sul quale, sotto il
severo
Castel dell'Ovo,
si adagia il piccolo borgo marinaro, composto per la
maggior parte di basse casette che ospitano
ristoranti o capannoni per la riparazione ed il
rimessaggio invernale delle imbarcazioni. Via
Partenope, che porta il nome della leggendaria
sirena fondatrice della nostra città, è una delle
strade più belle di Napoli, da cui lo sguardo può
abbracciare l'intero arco del golfo: essa è una
strada relativamente recente, poiché anticamente
dal porticciuolo di Santa Lucia iniziava un lungo
banco di tufo parzialmente emergente dal mare
chiamato Chiatamone, come la strada che lo ha
sostituito.
Castel dell'Ovo,
l'antico e bieco maniero che abbiamo di fronte, ha
una lunga storia che risale ai tempi del ducato
napoletano, e, prima ancora, al castrum
Lucullanum, ed il suo nome è legato ad una
leggenda secondo la quale Virgilio, il grande poeta
latino, vi avrebbe nascosto un uovo... incantato
chiuso in un gabbia in un luogo molto remoto e non
facile a trovarsi. Si sa che a Virgilio nel medioevo
veniva attribuita la conoscenza di ogni cosa al
punto che man mano si cominciò a credere che avesse
poteri magici: gli venivano attribuiti doti
divinatorie e si raccontava che Augusto una volta
l'aveva inviato a Roma... perché curasse i suoi
cavalli. L'uovo incantato nascosto nelle strutture
del maniero avrebbe avuto quindi una funzione di
talismano: finché esso non si fosse rotto città e
castello sarebbero stati protetti da ogni tipo di
calamità, ma se qualcosa fosse accaduto all'uovo,
guai a Napoli ed ai napoletani!
Quando il Petrarca venne a Napoli ospite del re
Roberto d'Angiò, apprese anch'egli, con grande
meraviglia, la storiella di quest'uovo incantato del
castello; tuttavìa per quanto assurda, la storiella
ha... tenuto per secoli, ed il castello non ha mai
avuto altro nome.
II nucleo originario della costruzione sull'isolotto
faceva parte della splendida villa del patrizio
romano Lucio Licinio Lucullo, quel Castrum
Lucullanum che si estendeva da Pizzofalcone sino
al mare abbracciando il territorio dell'antica
Palepoli e forse anche il litorale fino a Pozzuoli.
Si diceva che il patrizio romano avesse fatto forare
il monte Echia e che per rendere più sicuro il suo
castrum avesse fatto eseguire un taglio nella
zona tufacea a cavallo delle due colline oggi unite
dal ponte di Chiaja.
Lucullo, valoroso combattente ed uomo di cultura,
era stimato anche da Cicerone; nominato console,
vinse la guerra contro Mitridate e rimase poi in
Asia per la riscossione dei tributi dai popoli
vinti. Queste operazioni gli fruttarono immense
ricchezze che egli portò con sé insieme ad oggetti
d'arte d'inestimabile valore e in questa sua
sontuosissima villa napoletana il console portò
quanto aveva di meglio, compresa una raccolta di
papiri ricordata da Cicerone per la sua importanza
ed il suo interesse. Tuttavia, Lucullo non è
passato alla storia per tutte queste sue qualità
positive di bibliofilo, uomo di cultura, diplomatico
e guerriero insigne, ma esclusivamente per i
pantagruelici pranzi che dava in questa villa, tanto
è vero che ancora oggi per indicare la raffinatezza
di un convito si usa dire che è stato un pranzo «
luculliano ». Proprio su quest'isolotto, chiamato
allora di Megaride, egli dava queste cene, ognuna
delle quali costava un patrimonio. Purtroppo della
sua dimora oggi non rimane che qualche tronco di
colonna che nel Medio Evo fu usato per sostegno di
volta nelle sale del castello.
Alla morte di Lucullo, furono nominati curatori dei
suoi beni Cicerone e Catone, ma nei secoli seguenti
la ricca dimora fu messa a sacco da vandali e
ostrogoti e poi nel V secolo fra i suoi ruderi
trovarono rifugio alcuni eremiti. Nel 476 Odoacre
tenne prigioniero in quel che rimaneva del
Castrum Lucullanum l'ultimo imperatore romano
d'occidente, Romolo Augustolo, che dopo la morte
del padre Oreste aveva preferito consegnarsi nelle
mani del vincitore, il quale, peraltro, si limitò ad
esiliarlo dandogli anche una rendita. Il primo
convento sorto su questo isolotto, fondato
dall'abate Marciano, venuto dalla Pannonia, fu
dedicato a San Severino le cui spoglie furono qui
tumulate. Per secoli la piccola, remota isoletta, fu
sede di una fervida vita cenobitica, in quanto vi
sorsero altri monasteri che alla fine del '600 si
fusero tutti nell'accettazione della regola di San
Benedetto; quindi in questi conventi cominciò un
paziente lavoro di ricerca e di copia di antichi
codici e pergamene greche e latine. Sempre in questo
secolo sbarcò sull'isolotto una nipote
dell'imperatore d'Oriente, la vergine Patrizia,
fuggita dalla sua terra per sottrarsi ai desideri
insani del potente zio. Secondo la leggenda, avendo
appreso che il congiunto era morto, la giovane
avrebbe intrapreso il viaggio di ritorno, ma una
furiosa tempesta avrebbe respinto il suo legno di
nuovo su questo lido ed ella avrebbe quindi deciso
di fondarvi un romitorio per vergini che dal suo
nome si chiamò poi di Santa Patrizia. In questo
periodo l'isolotto, sede di tanti conventi, iniziò
ad esser chiamato « del Salvatore ».
Nel secolo IX i monaci furono costretti a lasciare
l'isolotto perché attaccati dalle truppe del duca
Sergio, che saccheggiarono anche i monasteri; sotto
altri duchi invece ebbero vari privilegi. Dopo la
venuta dei Normanni l'antico cenobio che durante i
secoli, per ragioni di necessità, era diventato un
fortilizio, si ricostituì, e Ruggiero il Normanno vi
riunì per la prima volta il suo parlamento. I monaci
si ritirarono sulla terraferma ed il loro convento,
fortificato dalle dinastie che si susseguirono, fu
reggia e prigione di stato. Gli angioini vi
relegarono i figli di re Manfredi di Svevia,
Margherita figlia di Federico II e per un certo
tempo anche Filippa di Antiochia. Qui nacque nel
1271 il primogenito del principe di Salerno, Carlo
Martello, che vi trascorse la sua infanzia con
Clemenza, figlia dell'imperatore Rodolfo d'Asburgo.
Sotto il regno di re Roberto, l'isolotto fu
maggiormente fortificato con la costruzione di torri
quadrate con ampie bifore ad archi tondi che si
ritiene fossero opera del fiorentino Fuccio, mentre
la ricostruzione della parte verso il mare fu
affidata dallo stesso re all'architetto Atanasio
Primario. Anche durante il regno di re Roberto
alcuni locali furono adibiti a prigione ed
ospitarono la principessa d'Acaja, alla quale fu
imposto un matrimonio con un figliolo del re che
ella però non volle mai consumare.
Nel 1370 poiché il castello rimase gravemente
danneggiato da una tempesta marina si sparse la voce
che si fosse rotto il famoso uovo incantato; fu
tale il panico nella popolazione che, oltre a
ricostruire il castello, bisognò rassicurarla
che l'uovo era stato sostituito.
I lavori di restauro fatti a quell'epoca mutarono in
parte la primitiva linea architettonica del forte,
che divenne per la leggenda popolare il teatro delle
orge delle due regine di nome Giovanna, che
avrebbero fatto buttare a mare o cadere in oscuri
trabocchetti i loro amanti occasionali.
Durante la lotta tra aragonesi e angioini il maniero
fu conteso, preda ora dell'uno ora dell'altro
partito, e dopo la sua vittoria re Alfonso volle
parzialmente rifarlo, inaugurandolo il 6 maggio del
1456 con un banchetto a cui furono invitati gli
ambasciatori ed il patriziato. Questo re lo
predilesse; anzi sentendosi prossimo alla fine
volle farvisi trasportare, peggiorando
probabilmente il suo stato con questo inopportuno
spostamento. Dopo aver chiamato al suo capezzale
l'erede, Ferrante, per esortarlo a cercare
soprattutto la pace per il suo popolo, re Alfonso
morì, e le sue spoglie furono sepolte
temporaneamente nel castello finché fosse possibile
esaudire la sua volontà, che il suo corpo fosse
trasportato in Catalogna. Durante la Congiura dei
Baroni, Castel dell'Ovo fu completamente
saccheggiato e Ferrante per riprenderlo dovè
danneggiarlo con le sue bombarde; tutto ciò comportò
naturalmente lavori di rifacimento e di
trasformazione che fecero perdere alla costruzione
quanto rimaneva della sua originaria linea
medioevale. All'epoca della discesa di Carlo Vili,
il forte ospitò Alfonso II d'Aragona, che qui prese
le decisione di abdicare in favore del figlio
Ferrantino e di qui partì alla volta della Sicilia
con cinque galee, sulle quali cercò di mettere in
salvo la biblioteca di re Alfonso I. Dopo la venuta
di Carlo VIII il castello subì un feroce
bombardamento; e fu ulteriormente danneggiato dai
francesi di Luigi XII e dagli spagnoli di Consalvo
de Cordova comandati da Pietro Navarro, che lo
minarono per poterlo espugnare.
Nel periodo del vicereame spagnolo, il castello non
fu più usato come fortezza ma ... per la macina del
grano, e infatti furono impiantati sull'isolotto
dei mulini a vento. Il viceré duca d'Alba però
decise di fortificarlo di nuovo nel 1665, e, poiché
riassunse anche le sue funzioni di prigione, vi fu
incarcerato il filosofo Tommaso Campanella prima di
essere condannato a morte. Durante i moti di
Masaniello il castello ebbe il compito di
bombardare una parte della città, e quando giunse
Giovanni d'Austria con ben ventotto vascelli,
nessuno comprese che si trattava di navi francesi e
le artiglierie, credendo che fossero spagnole,
spararono a salve per salutarle.
Castel dell'Ovo come gli altri forti della città fu
presente nei moti della Repubblica Partenopea del
1799: gli fu dato il compito di sparare per
intimorire la popolazione e fu ancora una volta
fortificato dal conte Francesco Anguissola, ma
quando giunsero le truppe del cardinale Ruffo subì
dei violenti attacchi fino ad essere costretto a
capitolare, mentre i suoi difensori che non
riuscirono a porsi in salvo furono fatti
prigionieri.
Sotto il decurionato francese sull'isolotto furono
costruite casematte e piazzole per artiglieria e
quando nel golfo di Napoli nel 1809 avvenne la
battaglia navale tra la Marina napoletana e quella
anglo-borbonica, il castello si dimostrò all'altezza
della situazione. Dopo il loro ritorno definitivo i
Borbone fortificarono ancor più la piccola isola con
batterie e due ponti levatoi impiantandovi anche una
polveriera e un deposito di munizioni; in seguito,
col tempo, il forte fu adibito soltanto a prigione e
vide tra i suoi ospiti Francesco De Sanctis, Carlo
Poerio, Luigi Settembrini e tanti altri.
Recentemente sono stati fatti alcuni progetti per
valorizzare questo antico castello, e ci auguriamo
che vengano portati ... in porto.
All'inizio del nostro secolo su questo isolotto
sorsero alcuni « Café-Chantants » ove si
davano piacevoli spettacoli di varietà che a volte
duravano la notte intera. Il variété giunse
a Napoli ai tempi della destra storica di Pasquale
Stanislao Mancini e della sinistra storica del De
Pretis e del Nicotera, ed ai suoi spettacoli non
mancavano di venire, oltre ai soliti « viveurs
», personaggi come Edoardo Scarfoglio, Salvatore
Di Giacomo, Ferdinando Russo e Roberto Bracco ed
una volta anche il ministro Francesco Crispi e,
separatamente, il principe ereditario di Casa
Savoia.
I locali sotto il castello erano due, l'Eldorado
e il Santa Lucia. Il primo, un vero
salotto, aveva i camerini delle canzonettiste e
delle ballerine prospicienti il mare; vi era
annesso uno stabilimento balneare ed era diretto da
un tale chiamato Gabriele Valanzano che aveva in
gestione anche le fonti termali di Santa Lucia.
Disponiamoci ora a visitare il castello, dopo aver
percorso il ponte, che termina davanti a un portale
sormontato da tre cannoniere ed affiancato da un
rivellino.
A sinistra la strada procede fra il castello e il
mare, sul quale si spinge il pontile delle
imbarcazioni e si affacciano alcuni ristoranti;
quindi, girando a destra, una stradina in salita ci
conduce all'ingresso e oltrepassando un vestibolo si
entra nella cinta fortificata e si vedono subito
sulla destra, i ruderi della Chiesa del
Salvatore.
Dalla sinistra si può accedere alla Torre Maestra, e
poi ad una sala adibita a prigione dalla quale,
salendo per una scaletta, si possono visitare le
celle dei monaci che risultano scavate nella roccia.
Scendendo ancora a sinistra per una rampa coperta si
attraversa un cortile e di qui si entra in una gran
sala che doveva essere il refettorio dei monaci,
dove si possono ammirare cinque filari di colonne
appartenute alla villa di Lucullo. A destra vi è una
loggia medioevale che fu adibita nel secolo scorso a
chiesa; vi sono poi l'altra torre chiamata Normandia
ed il torrione circolare. Ritornando all'ingresso
del castello si possono raggiungere i bastioni
cinquecenteschi, quindi una casa dalla quale si
accede ad una caverna che si articola in vari
corridoi, probabilmente sfruttata per le
fortificazioni nel medio Evo: essa si trova
pressappoco al centro dell'isolotto.
Proseguendo per via Partenope, la strada degli
alberglù eleganti, giungeremmo a Piazza Vittoria.
Torniamo invece indietro a riprendere la via Santa
Lucia dove continua col nome di Strada del
Chiatamone.
L'etimologia di questo nome, indubbiamente greca,
indica un litorale roccioso con caverne, come
appunto doveva essere anticamente l'aspetto di
questo tratto di scogliera fino alla spiaggia di
Chiaja. Molti si sono affaticati a dare altre
interpretazioni a questo nome, ma riteniamo non vi
siano più dubbi sul suo significato. Infatti qui la
scogliera di tufo era un tempo ricca di cavità
naturali, alcune delle quali tuttora esistenti,
scavate dalla corrosione delle onde marine, che
venivano chiamate appunto grotte « pìatamoniae
». Col passare dei secoli alcuni di questi
anfratti naturali dovettero essere modificati dalla
mano dell'uomo, che le prescelse a proprio rifugio;
infatti in alcune di queste caverne sono stati
trovati indizi in base ai quali si è potuto dedurre
che erano abitate in epoca anteriore alla romana.
In seguito alcune di queste grotte furono usate come
santuari per il culto di Mitra e Serapide e qualche
studioso vi ha voluto ritrovare il campo d'azione
delle avventure degli eroi del « Satyricon »
di Petronio Arbitro. Ancora in epoca vicereale
approfittavano dei recessi di questi oscuri antri
per i loro incontri clandestini donne di malaffare e
malviventi, tanto che il viceré don Pedro de Toledo
ritenne necessario farne murare l'ingresso. Nel
tempo queste cavità sotterranee furono usate come
cave di pietra.
Le fonti di acqua termale, che ancora esistono e
possono essere visitate, si trovano sulla sinistra
all'imbocco di via Chiatamone. Nel '600 erano
considerate medicinali, ma riteniamo che la loro
acqua solfurea e ferrata, che tuttora viene venduta
nei chioschi degli acquafrescai e che viene servita
anche in piccoli recipienti di creta chiamati «
mummarelle », di medicinale abbia ben poco; alla
fine del '700 l'affluenza del pubblico ad attingere
quest'acqua era tale che Ferdinando IV dispose che
la distribuzione fosse quotidiana e gratuita. Nel
secolo scorso ed ancora all'inizio di questo le
acque erano sfruttate da appositi stabilimenti
termali che erano nei pressi dell'Eldorado.
La strada del Chiatamone fu costruita in epoca
aragonese e, distrutta dal mare, fu rifatta dal
viceré Toledo nel 1563; fu basolata e rifatta nel
1725 dal viceré cardinale d'Althan e vi fu messa
anche una Fontana che fu chiamata delle
Crocette.
Questa, una vasca di piperno sorretta da pilastri
scorniciati su cui erano scolpiti dei leoni, lo
stemma di Spagna e quello della città, fu fatta poi
ingrandire da Ferdinando II a cura degli architetti
Luigi Giura e Vincenzo Lenci. Sempre in questa
strada fu costruita la Chiesa dei Crociferi,
l'Ordine religioso istituito per l'assistenza agli
ammalati, che ebbe a capo San Camillo De Lellis. La
costruzione, che sorse su un appezzamento di
terreno che era stato donato da donna Giulia delle
Castelle,
iniziata nel 1607, fu terminata nel 1627 con
l'annessione di un monastero: la chiesa fu
affrescata da Paolo De Matteis che volle esservi
sepolto. Benché dedicata all'Immacolata Concezione è
oggi chiamata volgarmente « delle Crocelle ».
Immediatamente adiacente vi è il
Palazzo Fusco,
appartenuto a questa famiglia, il cui fondatore,
Niccolò, nel 1715 volle far riparare a sue spese il
parapetto sul mare di fronte alla sua casa. Il
palazzo passò poi al duca di Campochiaro che lo
abbellì con un magnifico giardino.
Tutta la zona fu chiamata delle « crocelle » a causa
della croce che avevano, ed hanno tuttora sulla
tonaca, i frati Crociferi che officiavano la chiesa,
ed era chiamata appunto « delle Crocelle » anche una
locanda che era qui vicina, divenuta storica e
famosa per aver ospitato Giacomo Casanova nel 1770;
altri ospiti illustri furono il conte Shawronskj,
Ministro plenipotenziario di Russia, il principe
Michele di Galitzin, il Nunzio di Parigi monsignor
Bognoni, i duchi di Curlandia. La locanda era di
proprietà dei frati Crociferi, ma era gestita da
tale Rosa Dupré.
Segue il
Palazzo d'Aquino di Caramanico,
tuttora esistente, mentre non vi è più la villa del
principe Michele Imperiali di Francavilla, quello
stesso principe che abitò al Palazzo Cellamare.
Questa villa, o casino, come si diceva allora, dopo
la sua morte passò alla corte reale e Ferdinando IV
la abbellì e la destinò a foresteria di personaggi
stranieri. L'ultimo dell'anno del 1814 vi fu data
una gran festa in onore dei reali, e dopo l'unità
d'Italia fu dimora di Alessandro Dumas e poi del
patriota sacerdote e poeta Francesco dall'Ongaro che
venne dall'esilio di Firenze a Napoli.
La via del Chiatamone, proseguendo di qui senza
alcun interesse storico, né artistico, né
turistico, incontra sulla destra lo sbocco della
Galleria della Vittoria, e continua a sinistra con
via Giorgio Arcoleo. La
Galleria della Vittoria, scavata sotto il
monte Echia, fu progettata da Antonio Niccolini per
collegare, ai tempi di Ferdinando II, la zona del
Largo di Palazzo con Chiaja.
Enrico Alvino in seguito ingrandì ed attuò il
progetto, sempre allo scopo di difendere la Reggia
in caso di necessità facendo spostare rapidamente
le truppe accasermate in via Morelli, largo
Ferrandina e San Pasquale. La galleria fu ultimata
nel 1855 e il re volle percorrerla.
Sulla sinistra, subito dopo dello sbocco del tunnel
vi è la sede del quotidiano « Il Mattino », e
superato il quadrivio, troviamo l'imponente
Caserma del Comando Divisione Carabinieri, che
fu progettata da Enrico Alvino. La via Giorgio
Arcoleo ha sulla sinistra via Ugo Foscolo che porta
in Piazza Vittoria dove confluisce anche via
Partenope. Continuando in linea retta si
raggiungerebbe di nuovo piazza dei Martiri
attraverso via Morelli, di cui abbiamo già parlato
nel precedente itinerario.
Museo Nazionale - Via Foria - Piazza Cavour - La
Stella - I Cristallini - La Sanità - I Miracoli - I
Vergini - Piazzetta San Carlo all'Arena - Via Cesare
Rossaroll - La Veterinaria - Piazza Carlo III - Via
Mazzocchi - L'Arenaccia - Corso Malta - Corso
Garibaldi - Piazza Volturno - Piazza Principe
Umberto - Il Vasto La Doganella - Via Don Bosco -
Viale Umberto Maddalena -Capodichino - Piazza Carlo
III
Dal Museo Archeologico Nazionale, che abbiamo già
visitato, imbocchiamo via Foria, che ha sulla
sinistra dei giardini con aiuole dove vi sono i
busti di Giuseppe Mazzini, Matteo Renato Imbriani
che fu al seguito di Garibaldi e poi deputato di
sinistra nel 1889 e Mariano Semmola, un
insigne clinico che fu senatore nel 1886: costeggia
il giardino il vico Gagliardi. Sulla destra
possiamo notare soltanto il
Palazzo de Montemajor
di epoca impero, con un grazioso cortile dove due
colonne neoclassiche sorreggono una volta ad arco e
una solenne sfinge di marmo è di guardia all'ampia
scalinata.
Giunti in piazza Cavour, l'antico largo delle Pigne,
faremo una diversione obbligata e superato il largo
della Madonna delle Grazie imboccheremo la Salita
Stella che è il cuore del quartiere omonimo: essa
prosegue, dopo la piazzetta Stella, per via S.
Margherita Fonseca e per vico Noce e vico Cimitile
raggiunge Santa Teresa al Museo. Dal lato opposto il
quartiere si dirama in un dedalo di vicoli che hanno
il nome di via Vincenzo de Monte, via Santa Maria
del Pozzo ed altri minori. Le strade che sfociano da
sinistra su piazza Cavour, dopo la Stella, sono via
Antonio Villari e via Mario Pagano, che salgono
verso i Cristallini e l'altro quartiere della
Sanità. Noi cercheremo di seguire un po' alla
lontana questi tortuosi budelli dove il visitatore
non potrebbe non rimanere sconcertato e che in fin
dei conti, non riservano alcunché di veramente
interessante. Questo quartiere si chiama Stella
perché nei pressi vi è la
Chiesa di Santa Maria della Stella, molto
antica, che in origine non era che una cappelletta
nella quale si conservava una miracolosa effige
della Vergine che aveva sul capo una stella
luminosa.
Nel 1553, quando il viceré Pedro de Toledo allargò
la cinta delle mura, questa edicola fu demolita e fu
costruita al suo posto una chiesa che, fu poi
benedetta dall'arcivescovo Carata ed affidata ai
frati Minimi di San Francesco di Paola. L'architetto
fu Carlo Fontana, a cui si deve anche la costruzione
del convento, dal quale i frati furono espulsi nel
1862. Questa chiesa ha subito danni dalle incursioni
alleate dell'ultima guerra e ha dovuto avere quindi
dei restauri; l'interno ad unica navata ha
nell'abside un pregevole dipinto di Giovanbattista
Caracciolo raffigurante la Vergine Immacolata e i
SS. Domenico e Francesco. Sull'altare vi è
riprodotta in affresco l'effige della miracolosa
Vergine Maria della Stella che durante le
pestilenze del secolo XVI fu molto venerata dal
popolo napoletano.
A via Mario Pagano vi è un'altra
Chiesa, quella della Madonna del Rosario,
chiamata anticamente del Rosario al Largo delle
Pigne, dove un frate domenicano fondò la
Congregazione del Rosario.
La chiesa fu ingrandita con le donazioni di
benefattori, fra i quali va ricordato il fiammingo
Gaspare Roomer e vi fu costruito anche un
conservatorio: il complesso fu ingrandito e rifatto
su disegno di Arcangelo Guglielmelli.
Riportandoci sulla nostra piazza troveremo a destra
la Porta San Gennaro,
una delle più antiche della città in quanto la
troviamo nominata sin dal 928.
Essa aveva ai lati due torri fortificate ed era nei
pressi del monastero di Santa Maria del Gesù delle
Monache, ma fu spostata nel luogo dove è attualmente
nel 1573, per l'ampliamento della cinta muraria
effettuato dal viceré Toledo: il nome di Porta San
Gennaro deriva dal fatto che di qui partiva la
strada che portava alle Catacombe del santo. Nel
1656, quando Mattia Preti ebbe l'incarico di
affrescare le porte della città, anche questa fu
decorata con un affresco, che, per quanto sbiadito e
bisognoso di restauro, esiste tuttora. L'attuale
piazza Cavour anticamente era una vallata nella
quale si raccoglievano le acque piovane che
scendevano dalla collina di Capodimonte, della
Stella e dei Vergini: in seguito, nel 1460,
essendovi cresciuti un buon numero di pini, il largo
fu chiamato Largo delle Pigne; questi alberi l'anno
1730 furono abbattuti e nello spiazzo vi fu poi una
« cavallerizza », ovvero quella che oggi chiameremmo
una scuola di equitazione.
Facciamo adesso una diversione a destra imboccando
via Porta San Gennaro per visitare la
Chiesa del Gesù delle
Monache,
detta anche San
Giovanni in Porto.
Essa fu costruita con l'annesso monastero nel 1507 e
l'arcivescovo dell'epoca vi mise delle monache
francescane, ma nel 1511, dopo che presero il velo
due nobildonne napoletane, la duchessa Lucrezia
Capece e la contessa Antonia Monforte, le
francescane divennero Clarisse di clausura. Il
monastero fu molto protetto da Giovanna III
d'Aragona, moglie di Ferrante I e sorella di
Ferdinando il Cattolico che alla sua morte lasciò in
eredità a questo complesso quasi tutti i suoi averi
e dispose che le sue spoglie vi fossero tumulate,
esprimendo la volontà che questa chiesa divenisse un
« cemeterium » aragonese: queste disposizioni
testamentarie furono però completamente ignorate
nonostante le monache reclamassero presso Carlo V.
La chiesa fu restaurata nel '700 da Arcangelo
Guglielmelli, che le diede Fattuale facciata e
provvide alla decorazione interna: vi si può
ammirare un dipinto raffigurante il Trionfo di
Santa Chiara, una Annunciazione, Lo
sposalizio della Vergine, e in sacrestia un
San Giovanni Battista, tutte opere di Francesco
Solimena e nella seconda cappella a sinistra una
Vergine tra santi di Luca Giordano.
Ripresa la nostra strada, subito a sinistra troviamo
la via Crocelle a Porta San Gennaro che ci condurrà
a via Vergini e quindi all'altro quartiere dei
Vergini.
L'etimologia di questo strano nome risale a tempi
antichissimi, quando in questa zona, come attestano
alcune iscrizioni che sono state trovate in un
sepolcreto, si riunivano i fedeli del dio Eunosto,
dio della temperanza, una specie di setta che faceva
voto di castità evitando qualsiasi contatto con
l'altro sesso.
Proseguendo per via Vergini, lasciando a destra il
Supportico Lopez troveremo la
Chiesa di Santa Maria
Succurre Miserìs, molto
antica, poiché risale al
secolo XIV, quando fu dedicata a Sant'Antonio di
Padova.
Fu poi rifatta a cura dei monaci benedettini di
Casamari e nel 1613 fu ingrandita e vi fu annesso un
monastero con un « ritiro » per le donne che pentite
di un passato burrascoso decidevano di indossare il
saio francescano. La chiesa fu rifatta ancora da
Ferdinando Sanfelice, a cui si ritiene debba
attribuirsi il portale; di recente sono affiorati
affreschi della primitiva chiesa trecentesca.
Questa è una zona di antiche chiese e vecchi
palazzi, ma cercheremo di soffermarci ed indirizzare
il visitatore esclusivamente verso le opere che
abbiano un vero interesse.
Andando avanti sulla destra troveremo la
Chiesa dei Missionari di
San Vincenzo de' Paoli costruita nel 1788 da
Michele Giustiniani su disegno di Luigi Vanvitelli.
Di notevole nell'interno vi sono dei dipinti
raffiguranti San Vincenzo de' Paoli di
Francesco De Mura, Gesù tra gli apostoli e la
Conversione di San Paolo di Giovanni
Sarnelli.
Ancora lungo il nostro cammino troveremo la
Chiesa di Santa Maria dei
Vergini che, officiata fin dal 1334 dai frati
Crociferi, passò poi ai padri della Missione che ne
rinnovarono la struttura interna; la
Chiesa di Sant'Aspreno ai
Vergini, dedicata al primo vescovo di Napoli,
che fu officiata anch'essa nel secolo XVII dai frati
Crociferi.
Fu poi ricostruita ed ingrandita nel 1760 per
desiderio del letterato e matematico Antonio
Monforte su disegno di Luca Vecchione: l'interno
offre dei dipinti di Domenico Mondo che raffigurano
il Battesimo del Santo e La morte di San
Giuseppe. A sinistra troviamo via-Arena alla
Sanità che tocca il quartiere della Sanità
avvicinandosi nel contempo a quello chiamato dei
Miracoli.
Queste zone denominate la Stella, i Vergini, i
Miracoli, i Cristallini, non sono dei veri e propri
quartieri, almeno nel senso amministrativo, ma delle
zone che gravitano intorno a una determinata chiesa,
o stradina, o palazzo, che conservano questa
denominazione da secoli.
Lungo la stradina che abbiamo presa vi è
l'interessante
Palazzo Sanfelice
che fu costruito dal famoso architetto come sua
residenza:
esso ha due cortili ai quali si accede attraverso
due portoni ornati da sirene in rilievo che
sostengono un balcone. Nelle due eleganti scale
l'architetto espresse tutta la sua estrosa
genialità, eccedendo forse in bizzarria. Il
palazzo, che aveva ampi giardini nella parte
posteriore, passò poi al marchese di Lucito ed ai
nobili Vigo: la galleria era tutta affrescata da
Francesco Solimena, che era stato maestro del
Sanfelice.
Se continuiamo per la via della Sanità giungeremo in
piazza di Santa Maria della Sanità ove domina la
Chiesa di San Vincenzo
alla Sanità o di
Santa Maria della Sanità.
Essa fu costruita nel 1602 dai frati domenicani su
disegno di un loro confratello, Giuseppe Donzelli
detto Fra' Nuvolo, con magnifica cupola con
mattonelle maiolicate ed un bel campanile:
l'interno, a croce greca, con dodici cupolette e
ventiquattro pilastri si presenta in graziosa forma
asimmetrica. In questa chiesa si conservano molte
opere d'arte e accompagneremo quindi il visitatore
iniziando dal lato destro e dalla prima cappella,
nella speranza che non vi siano stati spostamenti.
Troveremo subito i dipinti di Luca Giordano
raffiguranti i SS. Nicola Ambrogio e Lodovico
Bertrando e nella terza cappella, dello stesso
autore, un San Vincenzo Ferreri, il santo
domenicano che i napoletani chiamano volgarmente «
o' munacone » perché è ritenuto tanto potente e
tanto grande da meritare... un accrescitivo; nella
cappella che segue vediamo la Vergine del
Rosario ed i misteri di Giovan Bernardo
Azzolino del 1612. Si accede quindi per due belle
scalinate all'altare maggiore dove si può ammirare
il Tabernacolo, opera del domenicano Azaria;
interessante il coro in legno di Giovan
Battista Nubila, che fu lavorato nel 1618 da
Arcangelo Cecere e Leonardo Bozzaotra. Al di sopra
dell'altare maggiore vi è una scultura di
Michelangelo Naccherino raffigurante la Vergine
con Bambino. Riprendendo ad esaminare il lato
sinistro vi troviamo un'altra opera di Luca Giordano
raffigurante Maria Maddalena e la Croce e
nella quinta cappella un San Tommaso d'Aquino
di Pacecco De Rosa nonché un'antichissima sedia
vescovile che è stata qui trasferita dalle
catacombe di San Gaudioso. Si attraversa poi un
corridoio affrescato da Giovan Battista di Pino e
nella terza cappella si ammira un'altra bella opera
dell'Azzolino del 1629 raffigurante
l'Annunciazione; in quella che segue troviamo
una Vergine con i SS. Giacinto e Caterina di
Luca Giordano e nell'ultima cappella un San
Biagio tra San Domenico ed il pontefice Pio V di
Agostino Beltramo. Si può quindi visitare la cripta
che è il « Cemeterium » di San Gaudioso, del V
secolo, trasformato in chiesa nel secolo XVI dai
domenicani : vi sono un affresco molto antico e
molto venerato della Vergine ed altri di
Bernardino Fera. Da questa cappella cimiteriale si
può accedere alle Catacombe di San Gaudioso,
un santo africano che, secondo la tradizione,
cacciato dalla sua terra da Genserico e abbandonato
su una barca in balia delle onde sarebbe approdato
sulle nostre spiagge. Con alcuni suoi discepoli il
santo fondò un monastero e quando morì, intorno al
450, fu sepolto in questo « cemeterium ». Gli
affreschi esistenti sono molto posteriori alla
catacomba, eseguiti, si ritiene, intorno al
600-700; in fondo sotto un arcosolio si venera la
tomba del santo, e sotto un altro arcosolio si
ritiene debba essere stato sepolto San Nostriano
che fu espulso da Genserico insieme a San Gaudioso.
Vi si osservano ancora due immagini del
Salvatore, una del VI e un'altra del IV o V
secolo e un Cristo morto lavorato nel tufo di
fronte al cubicolo. In un corridoio scavato nel
secolo XVII vi sono dei cadaveri che per una
macabra consuetudine erano messi qui ad essiccare
seduti su sedili di pietra; in seguito venivano
murati e ne rimaneva visìbile soltanto il teschio
mentre il resto dello scheletro veniva dipinto.
Questo quartiere è chiamato la Sanità perché si
riteneva che nella valle sottostante la collina di
Capodimonte l'aria fosse particolarmente buona e che
giovasse alla salute: questa non è tuttavia l'unica
spiegazione, perché secondo un'altra tesi « la
Sanità » degli abitanti di questa zona sarebbe
frutto dei miracoli che i santi qui sepolti facevano
a coloro che andavano a pregarli. Da questa chiesa
parte, il giorno di San Vincenzo, una processione,
ed il quartiere festeggia il suo santo protettore
con spettacoli pirotecnici, luminarie e allegre
scorpacciate: in epoca borbonica solevano
intervenire alla processione anche i reali.
Questa popolare zona è delimitata sulla sinistra
dalla Via S. Teresa degli Scalzi, dal corso Amedeo
di Savoia Duca d'Aosta e dal proseguimento di via
Vergini che cambia nome prendendo quello di via
Cristallini, uno strano appellativo del quale non si
conosce il significato. Da piazza S. Maria alla
Sanità si dirama un dedalo di stradette: esse sono
via San Severo a Capodimonte, il vico Maresca e il
vico dei Laminatori, dal termine napoletano che
indica coloro che fabbricano l'amido e che per il
passato avevano qui la loro industria.
La prima strada conduce all'omonima piazza dove è la
piccola
Chiesa di San Severo alla Sanità
che fu edificata sul sepolcro, scavato nella roccia,
di questo santo che fu vescovo per ben quarantasei
anni a cavallo tra il secolo IV e il secolo V: molti
cristiani vollero essere sepolti accanto al loro
santo e si formò
così la Catacomba di
San Severo che però, quando il corpo del santo
nel secolo IX fu trasportato nella Chiesa di San
Giorgio, fu abbandonata.
Vi è poi il vicoletto dei Cinesi, così chiamato per
un Ordine fondato dal sacerdote Matteo Ripa, che si
proponeva di dare assistenza agli orientali, a
qualsiasi religione appartenessero; porta alla
Salita di Capodimonte. Noi imboccheremo invece via
Santa Maria Antesecula, che è intersecata sulla
sinistra da vico Carrette, vico Canale ai
Cristallini, vico Carlotta e sulla destra dal vico
Palma, dal vico Cangiani e dal vico Sanfelice che
per via Cristallini ci riporta in via Vergini e
quindi nuovamente a via Foria. Qui troveremo sulla
destra via Duomo e sulla sinistra la via dei
Miracoli che ha questo appellativo, come l'omonima
piazzetta, dalla
Chiesa di Santa Maria dei Miracoli.
Questa aveva un monastero annesso che accolse poi un
educandato femminile e fu trasformato su disegno di
Francesco Antonio Picchiatti nel 1662 per desiderio
del Reggente Camillo Cacace. L'interno della chiesa,
a croce latina e ad unica navata, è affrescato da
Andrea Malinconico e contiene un dipinto di
Francesco Solimena o secondo altri della sua scuola
raffigurante Santa Maria dei Miracoli, uno di
Andrea Vaccaro raffigurante la Trinità, la
Vergine e San Giuseppe e sull'altare del
transetto sinistro una bella Immacolata di
Luca Giordano. Dalla piazza dei Miracoli si può
imboccare la salita Miradois, il cui nome è la
corruzione di quello di Giulio Minadois, che fu un
presidente della Regia Camera della Sommaria.
Questa strada, come la sua parallela, la salita
della Miccia, conduce in cima al colle di Miradois
all'Osservatorio
Astronomico
fondato nel 1819 dall'astronomo Giuseppe Piazzi e
modificato dall'altro astronomo Federico Zuccari:
l'osservatorio
napoletano, sorto per volontà di Ferdinando IV di
Borbone, fu il primo in tutta Europa. Vi si accede
attraverso un grazioso vestibolo di linea dorica e
vi si può ammirare, nella sala centrale, un
interessante bassorilievo raffigurante Urania
seguita da Cerere che incorona il sovrano: vi
sono delle sale da studio ed una importante
biblioteca. L'osservatorio del 1868 è ancora
efficiente e vi si effettuano tuttora studi di
astronomia posizionale e servizi meteorologici.
Dopo questa lunga digressione ritorniamo sui nostri
passi e lasciando sulla sinistra il vico Pacella ai
Miracoli, la via Ottavio Morisani che intersecando
la via Montagnola ci condurrebbe alla Veterinaria, e
a destra il vico Gianbattista Alfano, ritorniamo
verso via Foria. In ultimo sulla destra c'è un
vicolo insignificante, il vico Fate, il cui nome
risale al ricordo di un tempio che vi era in epoca
romana, dedicato alle Parche, Tria Fata.
Ripreso il cammino in via Foria, lasciamo sulla
destra via Cirillo, che ci riporterebbe in via San
Giovanni a Carbonara, e osserviamo sulla sinistra,
nella piazzetta San Carlo all'Arena, l'omonima
Chiesa di San Carlo all'Arena,
costruita dai monaci Cistercensi nel 1631 su disegno
di fra' Nuvolo.
L'Arena era chiamata questa strada, allora di
campagna, che, solcata d'inverno dalle acque
piovane, d'estate rimaneva coperta di sabbia. La
chiesa fu dedicata in un primo momento ai SS. Carlo
e Bernardo ma il suo dicatum fu poi
trasformato in quello attuale, vale a dire, a San
Carlo Borromeo; è stata in parte rifatta nel 1837 e
dopo un incendio subito nel 1923 è stata
completamente restaurata. Di pianta ellittica
all'interno, contiene un interessante
Crocefisso in bronzo, copia di un'opera di
Michelangelo Naccherino in marmo; un San Carlo
di Giuseppe Mancinelli, un San Gennaro di
Michele Foggia, un San Giuseppe Calasanzio di
Gennaro Maldarelli e un San Francesco di Paola
di Michele De Napoli.
Proseguendo lungo via Foria, troviamo ancora via
Cesare Rossaroll, intitolata al patriota napoletano
condannato prima a morte e poi all'ergastolo, una
larga arteria che conduce in piazza San Francesco di
Paola, dove è la Pretura, e quindi in piazza
Principe Umberto, intersecata da via Casanova che
raggiunge piazza Nazionale e da via Nuova
Poggioreale. Risalendola verso Foria, troveremo
sulla destra la piazzetta dei Lepri e il vico Lepre
che sfocia in via Sant'Antonio Abate e nel borgo
omonimo, un dedalo di stradine che ospitano un
fiorente mercato ortofrutticolo all'aperto:
nomineremo il vico Pergole, via Giustiniani, via
Lettieri, vico Martiri d'Otranto, vico Crispano, via
Nicola Rocco, via Morelli e via Albino. Risalendo
per via S. Maria Avvocata e tagliando l'omonimo
vico, attraverso via Nuova San Ferdinando possiamo
raggiungere il Teatro San Ferdinando. Di qui
o ancora per via Fossi a Pontenuovo e via Pontenuovo
ci ritroveremo ancora in via Foria, lasciandoci alle
spalle la vecchia Caserma Garibaldi, oggi in
restauro, che ha ai lati due torri delle antiche
mura rinascimentali. Giungiamo quindi all'altezza di
via Michele Tenore che è ai confini dell'Orto
Botanico, ed è dedicata appunto al fondatore di
quest'opera che fu rettore dell'Università
napoletana nel 1844. Ci siamo lasciati indietro
sulla sinistra via Giuseppe Piazzi, via Purità a
Foria, vico Santa Maria a Lanzati, vico Sacramento,
via Montagnola che con via Morisani conducono,
parallelamente alla via Michele Tenore, alla
cosiddetta Veterinaria, una zona così chiamata
perché vi si esercitava molto empiricamente questo
mestiere.
La vera scuola di veterinaria sorse a Napoli nel
1796, ma soltanto nel 1815 la sua sede si trasferì
nell'ex convento di Santa Maria alle Croci. La
Chiesa di Santa Maria degli Angeli alle Croci fu
costruita nel 1638 da Cosimo Fanzago che provvide
altresì alla scultura raffigurante San Francesco
al centro della facciata, ed è chiamata « alle
Croci » perché i frati francescani che la
officiavano, gli Osservanti, usavano mettere delle
croci dove erano i loro conventi. La chiesa,
infatti, era stata edificata nel 1581 con un
monastero annesso dai francescani, ma l'intero
complesso fu poi concesso nel 1639 da Urbano Vili ai
frati Riformati, che sovvenzionati dal viceré Guzman
e dal tesoriere di Filippo IV, Bartolomeo d'Aquino,
la fecero ristrutturare da Cosimo Fanzago, alla cui
opera si devono anche il grazioso atrio e le
colonne, La decorazione in marmo dell'interno, a
croce latina, è sempre del Fanzago, col quale
collaborò il figlio Carlo. Da ammirare una tavola
quattrocentesca su fondo oro raffigurante
Sant'Antonio da Padova, opera del Maestro di San
Giovanni da Capistrano, alcune statue in legno
secentesche, che furono intagliate da un frate,
Diego da Carreri, e raffigurano Santa Elisabetta,
Santa Chiara, Cristo in Croce e San
Francesco.
Nel convento ha sede attualmente la Facoltà di
Veterinaria dell'Università e se ne può ammirare il
chiostro, che fu affrescato dal Corenzio.
Prima di lasciare la Veterinaria imboccheremo a
sinistra il vico Paradisiello, così chiamato
dall'antico nome della contrada e poi ancora a
sinistra il vico S. Eframo Vecchio che porta
nell'omonima strada. Ritornando sui nostri passi,
prima di raggiungere via Foria troveremo sul lato
opposto via Guadagno, che conduce in piazza
Gianbattista Vico. Usciti di nuovo sulla nostra
direttiva principale, soffermiamoci all'ingresso
dell'Orto
Botanico,
che fu voluto da re Giuseppe Bonaparte nel 1807 ed
attualmente ospita anche uffici e sale della
Facoltà di Scienze dell'Università.
Quest'orto botanico fu costruito con il sistema
Linneo e Jussieu ma venne poi trasformato con
l'applicazione dì nuovi criteri biologici e divenne
così un bosco di arbusti e piante rarissime. Nel
1928 per disposizione del Ministero dell'Agricoltura
vi fu istituita una stazione sperimentale e vi
furono raccolte collezioni di piante varie in vaso,
in acqua e in serra. All'interno una moderna
costruzione ospita l'Istituto Botanico con una
preziosa biblioteca ed un erbario rappresentante
l'insieme di varie collezioni donate da Michele
Tenore e dai botanici Terracino e Gussone.
Poco più avanti dell'orto botanico, di fronte,
vedremo il Largo Sant'Antonio Abate con la
trecentesca
Chiesa di Sant'Antonio Abate,
che si vuole fondata con l'annesso ospedale da
Giovanna I d'Angiò sebbene costruita su una
chiesetta già esistente per volere di Roberto
d'Angiò dall'inizio del '300. L'ospedale ricoverava
soltanto gli affetti da «fuoco sacro », più
conosciuto come « l'infiammazione cutanea », per i
quali i monaci che li curavano avevano ideato un
farmaco a base di grasso di maiale, l'animale
prediletto dal santo, che veniva allevato
all'interno del monastero. Si trattava del
cosiddetto « fuoco 'e Sant'Antuono » che ha sempre
interessato la medicina, se si pensa che ne parla
Rodolfo nel suo « De Incendiis » del 993. Questi
monaci si occuparono dell'ospedale fino a quando non
arrivarono gli aragonesi, che li bandirono perché
erano... troppo francesi; e così nel 1480 la chiesa
e l'ospedale furono affidati al cardinale Giuliano
della Rovere, fin quando Clemente XIV non concesse
tutto il complesso ai frati Costantiniani.
La chiesa, originariamente gotica, ora si presenta
brutta e paesana per il pessimo restauro voluto nel
1769 dal cardinale Antonio Sersale ed eseguito
dall'architetto Tommaso Senese. È ancora visibile
sulla destra l'antico portale gotico che immetteva
al convento, ora in parte chiuso da un muro ed in
parte abbattuto, sul quale si notano i resti di un
affresco settecentesco raffigurante la Vergine
col Bambino. Lo stemma di Gregorio XI, sotto il
cui pontificato era stata eretta la chiesa, fu
sostituito dallo stemma dei Sersale.
Il portale di ingresso alla chiesa è del secolo XIV,
e si vuole fosse eseguito per munificenza del Gran
Siniscalco di Giovanna I, Roberto Ca-passo e di
Giacomo Capano, consigliere di re Roberto. Esso è in
marmo bianco con graziosi stipiti sorreggenti un
architrave con lunetta a sesto acuto nel quale si
può intravedere un affresco settecentesco
raffigurante Sant'Antonio Abate : ai lati vi
sono gli stemmi del cardinale Cantelmo e di papa
Innocenzo XII. I battenti della porta sono divisi in
numerosi scompartimenti con lo stemma crociato
dell'Ordine e quello della famiglia Durazzo.
La chiesa si presenta ad unica navata; essa fu
restaurata nel 1477 da fra' Bernardo Roberto, nel
1699 dal cardinale Cantelmo, nel 1825 da fra'
Giovanni della Porta, nel 1888, nel 1906 ed ancora
dopo i noti eventi del 1943.
Nell'interno è interessante notare: un gruppo in
marmo rappresentante la Vergine col Bambino
che si vuole sia il ritratto di Giovanna d'Angiò
della scuola di Niccolò Pisano; affreschi di
Domenico Viola, che fu discepolo di Mattia Preti,
di Luca Giordano, di ignoti del secolo XIV ed uno
di scuola giottesca rappresentante la Vergine
che allatta il Bambino.
Usciti dalla chiesa, e tralasciando sulla destra
il borgo di Sant'Antonio Abate, a cui abbiamo già
accennato, giungiamo al termine di via Foria in
piazza Carlo III, che ha sul lato più lungo
l'imponente costruzione denominata
Albergo dei poveri.
Benché il largo sia stato intitolato sin dal 1891 al
monarca borbonico, sia la piazza che l'albergo dei
poveri vengono chiamati dai napoletani « il
reclusorio » perché qui erano « reclusi i poveri per
i quali la bontà di re Carlo aveva tatto costruire
questo albergo chiamandolo popolarmente reclusorio
». Questo edificio, per quanto enorme, tu costruito
dall'illuminato sovrano con la sproporzionata
ambizione che potesse bastare a dare asilo ... a
tutti i poveri del regno. Purtroppo invece i poveri
erano tanti, e gli orfani raccolti nei più luridi
vicoli della città così ribelli e indisciplinati
che il loro convitto fu soprannominato « il
serraglio », come se fossero degli animali feroci!
Questa istituzione, tuttora esistente, mira ad
insegnare un mestiere a questi ragazzi, parte dei
quali sono sordomuti: l'edificio ospita inoltre
anche il Tribunale dei Minorenni. La colossale
costruzione dell'Albergo dei Poveri, iniziata da
Ferdinando Fuga nel 1751, fu terminata soltanto nel
1829 e la sua estesissima facciata, di 357 metri, fu
peraltro di gran lunga inferiore a quella
contemplata dal progetto, che ne prevedeva
la lunghezza in 600 metri.
In piazza Carlo III confluiscono, oltre via Foria,
quattro strade, delle quali la prima, a destra
della direzione da cui siamo venuti, è il corso
Giuseppe Garibaldi, la seconda via S. Alfonso Maria
de' Liguori, la terza via Alessio Mazzocchi, e la
quarta, che continua nella stessa direzione di Foria
verso Capodichino, via Don Bosco. Di questa
ragnatela di strade, inizieremo a descrivere il
centro, determinato dalla seconda e dalla terza
strada e poi, prendendo la prima, cioè il corso
Garibaldi, compiremo un lungo giro per ritornare
nella piazza dalla direzione opposta.
Via Mazzocchi, il cui proseguimento prende il nome
di via Colonnello Lahalle, interseca la via
Arenacela che, chiamandosi poi corso Novara giunge
in piazza Garibaldi. Via Lahalle è intersecata da
via Generale Pinto, via Generale Calà Ulloa, via
Colonnello Pepe, via Generale Pianelli, a loro
volta tagliate da via Piazzolla, via Generale
Carrascosa, via Marchese Palmieri, tutte parallele
alla via Lahalle, che porta a destra al Campo
Sportivo Militare Generale Albricci e poi in
corso Malta da cui si può imboccare via Nuova
Poggioreale. Via Mazzocchi ha invece sulla destra la
via Gaetano Argento, intersecata da via Pecchia, la
via Sant'Attanasio, intersecata da via Pietro
Giannone e la via S. Alfonso Maria de' Liguori che
partendo da piazza Carlo III ci conduce in piazza
Poderico e continuando col nome di via Acquaviva in
piazza Nazionale. In questa piazza affluiscono anche
la via Generale Francesco Pignatelli che parte
dalla via Colonnello Lahalle e che ha sulla destra
via Geronimo Carata, via Polveriera, via Federico
Persico, via Alfonso d'Avalos, a loro volta tagliate
da via Loffredo.
Tutta questa zona viene chiamata Arenaccia come il
campo sportivo, che sin dal '500 era un grande
spiazzo « pretiato », ossia ricoperto di sassi e
sabbia sul quale si svolgevano giostre e tornei
talvolta così violenti e crudeli da sfiorare
l'assassinio.
Il corso Garibaldi conduce in linea retta alla
piazza omonima: esso forma alla sua sinistra con via
Casanova, via Arenaccia, piazza Poderico e via
Sant'Alfonso un triangolo dove si intersecano molte
stradine: ricorderemo la via Lorenzi, che giunge in
piazza Giannone, a sua volta tagliata dalla omonima
strada; da questa piazzetta parte la via Felice
Cavallotti che ha alla sua sinistra via Andrea
Cantelmo e alla sua destra via Carafa, via della
Gatta e via Eleonora Pimentel, intersecate da vìa
Nicola Rocco, vico Tutti i Santi, via Camillo Porzio,
via Benedetto Cai-roli. Il corso Garibaldi si slarga
poi in piazza Volturno alla cui sinistra vi è la
piazzetta di Santa Maria della Fede, il Cimitero
dei Protestanti delimitato dal vico Miraglia e
la via Abba che conduce in via S. Maria della Fede
intersecata da via Martiri d'Otranto: prosegue
quindi lasciando sulla sinistra il vico Casanova a
sua volta tagliato da via Galante, via S. Maria
della Fede, via Dogliolo, via degli Incarnati, via
Zingari, vico 1° Casanova e dall'altro lato da via
Borrelli, via Sapri, e via Benevento. Tornati sul
corso incontriamo sulla sinistra l'ampia via
Casanova che dopo l'incrocio di via Arenaccia con
corso Novara cambia nome in Calata Ponte Casanova e
giunge in piazza Nazionale. Questa strada delimita
con via Casanova e Calata Ponte Casanova, corso
Giuseppe Garibaldi, piazza Garibaldi, corso
Meridionale, corso Porzio, via Nuova Poggioreale e
piazza Nazionale, un quartiere che è chiamato il
Vasto. Sembra che questo nome sia una corruzione di
« Guasto », che si ritiene dovuto al fatto che
questa parte della città fu completamente devastata
dal Generale Lautrec nel 1528. Le strade di questo
rione hanno tutte nomi di città: esse sono
intersecate dal corso Novara e da via Nazionale,
proveniente dalla piazza omonima, che entrambi
sfociano in corso Meridionale. Abbiamo così tra il
corso Garibaldi e il corso Novara, via Venezia, via
Milano, via Torino, via Bologna, via Firenze e via
Palermo, e dal corso Novara al corso Porzio, via
Aquila, via Parma, via Pavia, via Ferrara, via Bari,
via Rimini, via Cosenza, via Pisa, via Foggia, via
Chieti, via Otranto, piazza Salerno, via Brindisi,
via Genova. Il corso Meridionale per via Taddeo da
Sessa lasciando a sinistra la Fiat e a destra un
fabbricato di uffici postali adiacente alle
ferrovie dello Stato, conduce fuori città.
Ritorniamo quindi al nostro corso Garibaldi che,
dopo piazza Principe Umberto, giunge nella piazza
omonima. Qui, fatto il giro della piazza, lasceremo
sulla destra la Stazione Centrale delle Ferrovie
imboccando il corso Meridionale e dopo averne
percorso un tratto piegheremo a sinistra per il
corso Porzio che dopo il quadrivio di via Nuova
Poggioreale si tramuta in corso Malta. Lasciando
sulla destra la via Aquileia, intersecata da via
Zara, e la via Fiume, giungeremo dove sfocia la via
Colonnello Lahalle e dopo aver superato a destra la
caserma Marselli ed a sinistra il Distretto militare
giungeremo alla Centrale del latte, che ha sulla
destra una piccola zona molto popolare chiamata la
Siberia, la strada Cannola al Trivio, e la via
Fontanelle al Trivio da cui comincia il Cimitero
Vecchio. Sulla sinistra più avanti incontreremo
invece via Notar Giacomo e giungeremo infine alla
Doganella e in via Don Bosco, che a destra con via
Nuova del Campo costeggia i cimiteri cattolico e
protestante e termina nel largo Santa Maria del
Pianto, in via Santa Maria del Pianto, in via del
Riposo; dal Largo S. Maria del Pianto inizia la via
Maddalena, intitolata al valoroso aviatore, con la
quale confinano gli Aeroporti Militare e Civile.
Girando a sinistra per via Don Bosco, lasceremo alle
nostre spalle il quadrivio di Capodichino che sin
dal medioevo rappresentava la confluenza dell'antica
strada che portava a Capua e a Benevento: il nome
latino di questo luogo era « Caput de clivo ».
Ripresa via Don Bosco e dopo aver lasciato sulla
sinistra la Stazione Ferroviaria Alifana giungeremo
di nuovo in piazza Carlo III. |