Home
Su
La storia
A zonzo 1
A zonzo 2
A zonzo 3
A zonzo 4
A zonzo 5
A zonzo 6

 

Museo Nazionale - Via Salvator Rosa - Via Matteo Renato Im­briani - Piazza De Leva - Via Conte della Cerra - Via Gerolamo Santacroce - Via Giacinto Gigante - Arenella - Monte Donzelli - Cappella dei Cangiani - Camaldoli - Via San Giacomo dei Capri - Antignano - La Collina del Vomero - San Martino - Piazza Vanvitelli - Via Scarlatti - Via Domenico Cimarosa - Via Aniello Falcone.

Questo itinerario ci porterà sul Vomero, che finora abbiamo volontariamente tenuto da parte in quanto può essere considerato una città nella città e dalla Napoli vera e propria, volendo, può essere considerato separato. Vi si giunge attraverso via Salvator Rosa partendo dal Museo, o per le vie Tasso e Aniello Falcone partendo dal corso Vittorio Emanuele. Sarà un itinerario abba­stanza lungo, poiché dal Museo Nazionale raggiungeremo l'Arenella e di lì faremo una breve scampagnata ai Camaldoli; scen­deremo poi per via San Giacomo dei Capri ed entrati per Anti­gnano al Vomero raggiungeremo San Martino. Percorreremo quindi via Scarlatti o via Domenico Cimarosa ed imboccando via Aniello Falcone torneremo al centro della città.

In via Salvator Rosa, ci troveremo ben presto ad un quadrivio costituito dall'incrocio con via Matteo Renato Imbriani da un lato e dall'altro con un dedalo di antiche strade, fra cui via Santa Monica che porta in via Salvatore Tommasi e quindi a San Potito, la via San Giuseppe dei Nudi intersecata da via Mancinelli che ha sulla sinistra la via del Priorato e via Francesco Saverio Correrà, chiamata volgarmente « Cavone », che riporta in piazza Dante. Via Salvator Rosa continua fino a piazza Mazzini, che abbiamo già vista al termine del corso Vittorio Emanuele; in questo secondo tratto di via Salvator Rosa troveremo sulla destra la Chiesa di Santa Maria Maddalena de' Pazzi restaurata verso la fine del secolo XVIII da Pompeo Schiantarelli: essa non conserva alcunché di notevole all'interno ad eccezione di un dipinto di Luca Giordano  raffigurante  Santa Maria Maddalena.

Poco più avanti vi è a sinistra l'incrocio con via Gesù e Maria, di cui abbiamo già parlato nell'itinerario del corso Vit­torio Emanuele.

Ritorniamo quindi sui nostri passi fino al quadrivio per imboccare, invece, via Imbriani che ci condurrà all'Arenella. Alla sinistra di questa vi è un dedalo di stradette che si trovano nel breve quadrato delimitato da via Salvator Rosa, dalla via Im­briani e dalle Rampe Nocelle, delle quali ricorderemo il vico delle Nocelle, la via San Mandato ed il vico San Mandato. La via Imbrianii che prosegue incontrando a destra via Leone Marsicano e vico Corigliano, dopo il vico Provvidenza cambia il nome in via Salvo D'Acquisto; sorpassato poi il vico delle Trone che incrocia il vico Paradiso alla Salute, giunge in piazza De Leva, da cui la Salita Due Porte conduce alla Chiesa di Santa Maria della Salute. Tralasciando le strade alla nostra destra che ci portereb­bero nel quartiere di Materdei, che già abbiamo visto, in un pre­cedente itinerario, continuiamo per via Salvo D'Acquisto fino in piazza Canneto e di qui scendendo per via Battistello Caracciolo, che ha sulla destra via Poggio dei Mari, potremmo raggiungere la fine di via Salvator Rosa ed imboccare via Gerolamo Santa­croce. In questo terzo tratto di via Salvator Rosa vi è la Chiesa di Santa Maria della Pazienza chiamata anche « la Cesarea » per­ché fu costruita nel 1601 per desiderio del segretario della Real Camera Annibale Cesareo.

Restaurata nel 1913 ha nell'interno un pregevole altare maggiore, al­cune tele di Giovan Battista Lama e di Lorenzo de Caro e il Sepolcro di Annibale Cesareo, opera di Michelangelo Naccherino.

Ritornati sui nostri passi, da piazza Canneto prendiamo via Giacinto Gigante, trovando sulla destra la vie private Marino Cotronei e Annunziata ed altre di poca importanza e sulla sinistra via Giuseppe Orsi che intersecata dalla salita Arenella e dalla via Blundo conduce in piazza Medaglie d'Oro; attraverso via De Dominicis, via Ugo Niutta o via Edgardo Cortese da questa grande piazza potremo raggiungere piazza Muzi, nel quartiere dell'Arenella, che ha al centro il Monumento a Salvator Rosa. Dalla adiacente piazzetta Arenella, per via Mazzoccolo o per via Ugo Palermo si giunge a via Domenico Fontana e poi a un qua­drivio che ha alla destra via Massari e a sinistra via Presutti; procedendo per la nostra strada possiamo raggiungere Monte Donzelli ove ancora si ammira l'antica Villa e tramite via Castel­lino imboccare via D'Antona e poi via Antonio Cardarelli dove è appunto l'Ospedale Cardarelli. Dalla stessa via Domenico Fon­tana, lasciando a sinistra la Cupa dell'angelo Raffaele alle Due Porte e imboccando via Bernardo Cavallino che ha a sinistra la Cupa dei Gerolomini e a destra la Cupa Due Porte che porterebbe in piazzetta Due Porte e poi all'ampia zona dei Colli Aminei, giungeremo ancora in via Antonio Cardarelli. Vi è qui un trivio, che ha sulla destra viale Colli Aminei e sulla sinistra via Michele Pietravalle; noi imboccheremo quest'ultima, e girando intorno all'ospedale Cardarelli prenderemo via Sergio Panzini, che ha a destra il Cavone delle Noci. Attraverso questa strada o per via Montesano o per via Mariano Semmola si può andare al Largo, detto anche Cappella dei Cangiani, ove è la Chiesa di Santa Maria di Costantinopoli ai Cangiani, e poi imboccando la via Leonardo Bianchi lasceremo sulla sinistra la strada che scende al rione Traiano a Fuorigrotta, sorpasseremo il moderno complesso del Nuovo Policlinico e dopo aver superato Orsolone e i Guantai per via Nuova Camaldoli giungeremo all'Eremo.

La parola « Camaldoli » è usata per indicare questa collina soltanto dalla metà del secolo XVI, ma la prima costruzione della chiesa viene at­tribuita al vescovo Gaudioso che avrebbe edificata in questo luogo una cappellina in onore della Trasfigurazione del Salvatore. Nel 1585 vi fu poi costruito l'eremo tuttora occupato dai frati camaldolesi, il severo Ordine di clausura fondato da San Romualdo che vive secondo la regola benedet­tina. Il primo convento di questi religiosi fu eretto nel  1012 a spese del conte Maldolo e probabilmente dal nome di questo personaggio gli eremi di questi frati si chiamarono Camaldoli, ed essi camaldolesi. Nel secolo XVI questi eremiti a Napoli ebbero in dono da don Giovanni d'Avalos di Aragona, figlio del marchese del Vasto, una magnifica magione che non vollero accettare: don Giovanni allora donò un'ingente somma perché po­tessero edificarsi una chiesa e un convento. La chiesa fu chiamata del SS. Salvatore, ed in breve quest'eremo, sito in uno dei più belli e panoramici dintorni della città, divenne famoso per la dottrina e per l'umiltà dei suoi monaci. Esso fu protetto dai pontefici Alessandro VII e Clemente XIV e da molti sovrani, ma nel 1806, nonostante fosse stato molto benvoluto dai sovrani borbonici, per la legge di Giuseppe Napoleone fu soppresso anche il suo Ordine. Soltanto nel 1820 gli eremiti poterono tornarvi; ancora una volta, poi, nel 1866 il convento fu espropriato e i religiosi scacciati ma nel 18S5 poterono ritornarvi definitivamente.

La costruzione ha una severa linea cinquecentesca: all'ingresso, in fondo a un corridoio la Vergine dì Lourdes riceve il visitatore. Per una rampa sulla destra si accede poi al sagrato della chiesa, graziosa opera rinascimentale costruita sui ruderi della prima cappellina a cura di Do­menico Fontana: la facciata è semplice e severa, ma ha un bel portale in pietrarsa ed una iscrizione su una lastra di marmo che ricorda la gra­titudine dei monaci per il loro benefattore Giovanni d'Avalos. L'interno della chiesa è ad unica navata con sei cappelle laterali, e dieci finestroni. I pregevoli intarsi scultorei sono opera di Salvatore Franco, come i busti raffiguranti San Benedetto e San Romualdo; una potente balaustra sor­montata da inferriata limita l'ingresso dei fedeli riservando una parte della crociera ai monaci, che osservano una stretta clausura. In fondo, vi è l'al­tare maggiore la cui realizzazione si attribuisce a Cosimo Fanzago con impiego di marmi pregiati come il giallo antico, la breccia di Francia, quella di Sicilia, il broccatello di Spagna, il giallo di Siena e l'alabastro orientale. Dietro l'altare vi è il coro, opera di Domenico Tarallo del 1792; davanti si nota la lapide che copre il sepolcro di Giovanni d'Avalos. Vi sono nella chiesa alcuni dipinti: la Visione di San Romualdo di Francesco Amendola, nella pala d'altare una Trasfigurazione del Cristo di dubbia attribuzione a elle pareti laterali tele ad olio del Grammatica. Pregevole l'affresco del Mozzillo del 1792 che rappresenta la Gloria di San Romualdo e sulla parete di entrata L'ultima cena di Massimo Stanzione. Nella se­conda cappella notiamo una Sacra famiglia di Ippolito Borghese, nella terza una Assunzione della Vergine di Cesare Fracanzano ed ancora una Deposizione di Fabrizio Santafede; un bel dipinto di Luca Giordano sulla parete di destra raffigura la Sacra famiglia e la Croce. Vi sono poi una bella Crocifissione di ignoto e una Immacolata Concezione di Luca Gior­dano nella cappella centrale; da ammirarsi anche le pile lustrali attribuite a Cosimo Fanzago. Poiché l'eremo è di clausura non è permesso alle donne visitarlo: il visitatore che voglia farlo può chiederlo, e potrà ammirare nella Sala Capitolare, un altare in marmo policromo ed al centro un busto raffigurante San Romualdo, e nella sacrestia, alla quale si accede dalla porta del Capitolo, un dipinto di Cesare Fracanzano. La spalliera della sacrestia è opera del secentesco napoletano Gian Domenico Amitrano e l'affresco sull'arco della porta d'ingresso raffigurante Cristo benedicente è del Mozzillo. Da una porta di questo vestibolo si accede all'interno del­l'eremo, spoglio e severo, le cui celle hanno ognuna un piccolo orto re­cintato da un muro, con il proprio pozzo, affinché il monaco possa col­tivare da sé quanto gli serve per il suo mantenimento, in quanto la re­gola non permette loro di mangiare carne né grassi animali. All'interno un altarino e un lettino, uno scrittoio con sedia ed a volte un piccolo armadietto. Interessante è la visita alla foresteria del convento, che ha ospitato nel passar dei secoli importanti personaggi, fra i quali Gugliel­mo II di Germania e l'imperatrice Carlotta ed anche qualche principe di Casa Savoia. Nella parte destra vi è il refettorio, usato soltanto nelle -oc­casioni solenni, per quanto, essendo attualmente ridotti i monaci a tre o quattro hanno ottenuto il permesso di consumare la colazione tutti in­sieme; per la cena essi possono mangiare soltanto ciò che rimane dal mattino.

Si può poi accedere al Belvedere, che è diviso in due parti, uno per i monaci e l'altro per gli ospiti.

Dopo aver visitato l'eremo dei Camaldoli ritorniamo sui nostri passi e rifacendo velocemente via Leonardo Bianchi, il largo Cangiami e via Mariano Semmola imbocchiamo via San Giacomo dei Capri dove ancora resistono al piccone demolitore Villa Mar­siglia, Villa Pellerano, Villa Valentino, e la imponente Villa Lerario, mentre tutta la zona, non molto tempo fa sito di villeg­giatura, è divenuta il solito agglomerato di orribili palazzoni; sopravvivono pateticamente anche la Villetta Amena e il Villino Elena.

Giungiamo quindi in via Giovan Battista Ruoppolo, una paral­lela di via Arenella che ha sulla sinistra via Maurizio de Vito Piscicelli, via Saverio Mercadante, via Niccolò Piccinni; via Verdinois, via Antonio Porpora, via Solario, via Nicola Iommelli, via Florimo, via Raffaele Stasi e la via Giotto che conduce in piazza Medaglie d'Oro. Sulla destra troviamo invece via Sant'Anna e via Antignano che è il proseguimento di via Arenella, parallela di via Saverio Altamura, intersecata da via Simone Martini, dalla traversa Pigna e via Scala. Giungiamo in piazza degli Artisti dalla quale per via Tino di Camaino o per via Pacio Berlini o per via Casale De Bustis intersecate dalle vie Angelica Kauffmann, Sebastiano Conca e Tarantino possiamo ritornare in piazza Me­daglie d'Oro. Prendendo un'altra delle arterie che da questa piazza si dipartono a raggiera, via Menzinger e lasciando a si­nistra via Blundo e a destra piazza Celebrano possiamo giungere in piazza dell'Immacolata e per via Eduardo Suarez in piazza Leonardo donde, prendendo la strada centrale, che è via Gero­lamo Santacroce, torneremmo in via Salvator Rosa. Risaliamo via Santacroce e prima di giungere in piazza Leonardo notiamo che sulla sinistra vi è il viale Raffaello che si congiunge col secondo tratto di viale Michelangelo; sulla destra di questo, via San Gennaro ad Antignano per via Conte della Cerra scende anch'esso verso via Salvator Rosa. Da piazza Medaglie d'Oro parte l'ampia via Mario Fiore che dopo aver tagliato viale Miche­langelo, via San Gennaro al Vomero, preso il nome di via Gian Lorenzo Bernini taglia ancora via Solimene e giunge in piazza Vanvitelli.

Tralasciamo la zona nuova, che da Antignano per via Cilea porta al corso Europa e rimaniamo al centro del Vomero che è la piazza Vanvitelli.

Secondo un patrio scrittore il nome di questa collina deriverebbe dal­l'aratro, essendo essa abitata da gente che aveva « vomeri e bovi », che talvolta gareggiava  a fare  il  solco  più  rettilineo.

In piazza Vanvitelli sfociano, oltre via Gian Lorenzo Bernini, via Alessandro Scarlatti, un'importante arteria che nella sua continuazione col nome di via Francesco Cilea, si collega al corso Europa. Le strade più importanti del Vomero in questa zona centrale sono via Luca Giordano che parte da piazza degli Ar­tisti, via Alessandro Scarlatti e via Bernini: mentre la prima e l'ultima sono parallele, via Scarlatti le taglia ambedue così come la superiore via Kerbaker e le intermedie via Giovanni Merliani e via Enrico Alvino. Parallele di via Scarlatti sono via Francesco De Mura, via Massimo Stanzione, via Solimena e, dopo piazza Vanvitelli,  via  Cimarosa.  Quest'ultima  parte  dalla  fine  di  via Aniello Falcone, incontra subito dopo via Mattia Preti, forma un quadrivio con via Luca Giordano e costeggia il parco della villa Floridiana, che vi ha il suo ingresso principale; dopo la stazione terminale della funicolare di Chiaia vi è poi l'ingresso dell'altra villa collegata alla Floridiana, Villa Lucia.

Queste due ville sono molto importanti, oltre che per la loro bellezza architettonica, perché nella Villa Floridiana vi è un prezioso Museo, quello del duca di Martina.

Dopo la morte della consorte Maria Carolina, avvenuta l'8 settembre del 1814, Ferdinando IV non tardò ad allacciare una relazione con una graziosa quarantaquattrenne, figlia del duca Vincenzo di Floridia e di donna Dorotea Borgia, vedova del principe Benedetto Grifeo di Partanna: erano passati appena cinquanta giorni di lutto quando Ferdinando IV la sposò morganaticamente, suscitando lo sdegno dei figli, compreso il prin­cipe ereditario Francesco. Per la sua bella, re Ferdinando acquistò dal principe di Torella la grandiosa villa che da un  titolo  della moglie,  che era  duchessa   di   Floridia,   chiamò   La  Floridiana. La villa era già stata molto curata dai precedenti proprietari; il re, per ampliarla, acquistò al­cuni poderi limitrofi e fece costruire l'altra palazzina, che fu chiamata, sempre dal nome della Migliaccio, villa Lucia. Le due proprietà furono unite da un ponte che passava su un vallone, ideato e costruito da An­tonio  Niccolini,  che ne  decorò  la volta con  il  giglio  borbonico,  il  nome del  sovrano, l'anno di costruzione e il nome della duchessa in lettere di bronzo: l'architetto provvide anche alla sistemazione di tutta la parte bo­schiva.

La facciata della Floridiana è a due ordini di balconi con graziose rin­ghiere e tondi e losanghe in quadrello su un saldo basamento in pietra vesuviana: al centro della facciata vi è una loggia in lesene ioniche so­vrastata da un arcone centrale. Entrando da via Cimarosa ci si trova nel gran parco, solcato da maestosi viali di cui quello centrale porta alla villa; l'ingresso più vicino alla Floridiana è però quello da via Aniello Falcone, mentre da questo lato, dirigendosi a sinistra, si raggiunge più facilmente l'altro edificio, Villa Lucia. In questa direzione s'incontra prima il gra­zioso teatro all'aperto e scendendo si giunge alle spalle dell'edificio dal quale si può godere uno dei più superbi panorami di Napoli. Nel giardino, oltre il teatro all'aperto furono costruiti un tempietto dorico, serre, fon­tane, statue, uccelliere, poiché la duchessa amava abitare nella villa quasi tutto l'anno e darvi sontuosi ricevimenti, fra i quali è rimasto memorabile uno dato nel 1819 in onore del cognato Carlo IV di Spagna. Nella villa Flo­ridiana è stato sistemato il Museo Nazionale della Ceramica duca di Mar­tina, costituito da preziose raccolte di porcellane e maioliche il cui nucleo principale era di proprietà del duca di Martina Placido de' Sangro, nella seconda metà del secolo scorso. Il nipote conte de' Marzi accrebbe questa raccolta e infine la vedova, donna Maria Spinelli, nel 1931 donò tutto alla ctità di Napoli. La villa è stata restaurata ed ampliata dopo la guerra e le collezioni sono passate allo stato.

Appena entrati, si nota sullo scalone un busto marmoreo di Ferdinando IV, e nel primo pianerottolo una colonna di marmo africano e degli arazzi francesi del secolo XVIII. Nell'anticamera si ammira un grande ri­tratto della Principessa di Floridia di Vincenzo Camuccini. Entriamo ora nella sala I dove troveremo le porcellane di Sassonia, di Vienna, ed im­pugnature di bastoni in avorio, in cristallo di rocca, in malachite con ce­selli d'oro, in pietre dure del XVIII secolo e ancora collezioni di bastoni. Nella sala II vi sono le porcellane francesi del XVIII secolo, Sèvres, Tour-nay, e un busto di biscuit di Sèvres con un ritratto di Luigi XVIII. Si nota poi una vetrinetta con miniature di Federico II il Grande ed il Generale Zichen e una Figura Muliebre di Vittorino Campana del XVIII se-solo. Vi è poi una « consolle » in legno dorato, opera napoletana del XVIII secolo, vasi di porcellana di Sèvres, « bleu de roi », montati in bronzo e un ritratto del Duca di Martina di Salvatore Postiglione. Altre vetrinette a muro contengono miniature, orologi e porcellane francesi di Sèvres, Chantilly e Mennecy: interessante un arazzo di Pietro Forlonei raffigurante il Cardinale Aldrovandi e le miniature rappresentanti Ferdinando II e Maria Carolina. Nella sala III troviamo porcellane francesi di Saint-Cloud, Sèvres,   Lennecy,   Chantilly,  Villeroy,   un   pannello   di  portantina,   un  vaso di porcellana di Sèvres, porcellane francesi con pezzi di Vincennes e Pa­rigi. Nella sala IV sono raccolte porcellane di Doccia e di Venezia e di­pinti francesi del XVIII secolo; nella V, che era il salone da ballo, magni­fiche porcellane di Capodimonte e di Napoli. In una grande vetrina cen­trale vi sono porcellane di Capodimonte di notevole interesse, alcune ese­guite sotto la direzione di Giovanni Caselli. Scatolette, tabacchiere, agorai, porta mentine e oggetti vari in porcellana, o in madreperla, sono in una vetrinetta ovale; altre piccole porcellane di Capodimonte prima epoca (1743-1759), seconda epoca (1771-1807), biscuits, fabbrica di Napoli, dal 1771 sono nelle altre vetrine, di cui una centrale ospita porcellane della fabbrica di Napoli, dal 1771. Ancora tabacchiere, scatoline, carnets ed oggetti vari, biscuits neo-classici, fabbrica di Napoli, dal 1771, porcellane della fabbrica di Capodimonte, servizi con figure classiche e un dipinto di Giacomo del Po, rappresentante un Baccanale. Altre porcellane di Capodimonte sono nella sala VI, insieme ad alcuni dipinti, « consolles », una specchiera, un gruppo di putti di porcellana del Buen Retiro (dopo il 1759) e una vetrinetta ovale con oggetti vari. Nella sala VI vi è la vetrina degli ori, e nella VII porcellane di Sassonia. Nella vetrina centrale porcellane di Meissen, grandi vasi prodotti sotto la direzione del Bottger (1710-1719), altri con la sigla « Augustus Rex », e figurine cinesi del periodo Herold e Kandler. Ancora porcellane di Sassonia nella sala Vili e dipinti, mobili, mensole, e nella vetrina centrale interessanti porcellane di pasta dura di Meissen fra cui emerge il gruppo del Ratto di Proserpìna. Nella sala IX, X e XI ancora magnifiche porcellane di Sassonia, Bottger, Herold e Meissen, Kandler, Dietrich, Marcolini e dipinti e mobili. Nella sala XII vi sono porcellane inglesi e viennesi di Chelsea, di Wedgwood, di Worcester, di Pietroburgo, periodo di Nicolaus (1825-1855); bello il medaglione di porcellana, rappre­sentante Maria Teresa d'Austria e Francesco Lotario, una zuppiera di Vienna del periodo Sorgenthal (1784-1804), una tazza e statuina con smalto nero, e alcuni pezzi di Leithner (dopo il 1791). Nelle sale XIII e XIV vi sono le porcellane tedesche di Hochst sul Meno (1715-1794), di Zurigo (1763-1768), di Furstenberg (Brunswich), di Berlino, di Nymphenburg (Ba­viera), di Niederwiller (Lorena), di Nymphenburg, 1758 e di Frankenthal. Ammiriamo poi una collezione di tabacchiere e di scatole di metallo smal­tato e ancora porcellane di Niederwiller (Lorena 1754-1827), di Ludwigs-burg (1758). Nella sala XIV un rinfrescatoio di porcellana di Napoli, epoca Ferdinando IV, ceroplastiche colorate, arte siciliana del secolo XVIII, tra cui una molto bella rappresentante papa Clemente XI ed altre Carlo III e Ferdinando IV. Segue la sala XV con ceramiche varie e serrature per for­zieri; la sala XVI con maioliche abruzzesi, esemplari rari della fabbrica di Castelli, opere di Carlantonio Grue e vasi di farmacia di F. A. Grue della prima metà del XVIII secolo. Segue la sala XVII con maioliche italiane e francesi di Delft, di Milano, di Parigi, di Meissen, « Augustus rex » e sedioloni, dipinti, comodini. La sala XVIII contiene ancora maioliche italiane, orientali, ispano-arabe della fabbrica di Deruta, del XVI secolo, di Urbino, XVI secolo, veneziane, XVIII secolo, ispano-arabe, XVI secolo, bellissimi esemplari di Faenza, ancora maioliche ispano-arabe di Valenza, di Malaga, di Rodi e nelle sale XIX e XX vetri di Murano e cristalli di Boemia, spec­chi, Drummont, paste vitree di Murano, cristalli di rocca incisi. La sala XXI raccoglie avori e smalti, mentre la sala XXII contiene smalti ed oggetti d'arte medioevali. Le collezioni orientali sono nell'androne e nel pianerot­tolo vi sono vasi e alcuni quadri. Segue la sala XXIII con raccolta di giade, la XXIV con bronzi, la XXV con metalli smaltati, « cloisonnès », avori e lacche, la XXVI e XXVII con porcellane giapponesi, e la sala XXVIII, XXIX e XXX con porcellane cinesi di epoca K'ang-hsi (1662-1723) dei Ming, XVII   secolo, Ch'eng-hua (1465-1487) e piatti, scodelle e vasi. Nella sala XXXI  ancora porcellane cinesi e giapponesi di  notevole  interesse.

Usciti dal Museo e dal giardino per l'ingresso su via Domenico Cimarosa, troveremo poco più avanti a destra la piazza Ferdinando Fuga dalla quale partono via Lordi e via Giacomo Puccini che si collegano con via Donizetti, che porta a via Mancini, via Michetti, via Luisa Sanfelice, pressappoco parallela con via Filippo Palizzi: lateralmente a questo gruppo di strade scen­dono verso  il  corso  Vittorio  Emanuele  i  gradoni  del  Petraio.

Andando a sinistra di via Domenico Cimarosa ci troveremmo invece in via Luca Giordano, che in questo tratto ha sulla sinistra via Belisario Corenzio e via Andrea Vaccaro intersecate da via Mattia Preti, prolungamento della via Annella di Massimo, che sbocca in piazza Antignano. Piegando a destra per via Scarlatti e continuando, dopo piazza Vanvitelli, per via Morghen, prima di arrivare alla stazione terminale della funicolare di Montesanto troveremo sulla sinistra prima via Sanchini che collega via Mor­ghen con piazzetta Durante e poi via Giuseppe Bonito e sulla destra via Pirro Ligorio, quindi imbocchiamo via D'Auria che ha sulla destra le parallele via Maestro Colantonio e via Cotronei intersecate da via Dalbono e girando a destra imbocchiamo via Tito Angelini che ci conduce all'ampia terrazza panoramica sita davanti alla Certosa di San Martino, su cui sovrasta la mole di Castel Sant'Elmo.

Questo imponente castello, che domina la città ed il golfo dall'alto della collina, è molto antico, in quanto si ritiene che il suo primo nucleo, una fortezza chiamata Belforte, fosse costruita intorno al 1170. Già nel se­colo X sulla collina vi era una chiesetta dedicata a Sant'Erasmo e proba­bilmente accanto a questa chiesa i normanni edificarono una torre di vedetta.

Le prime notizie documentate che abbiamo sul forte sono tuttavia di circa un secolo e mezzo posteriori, quando Roberto d'Angiò, il 7 marzo 1329, scrivendo al reggente della Vicaria, Giovanni da Haya, gli ordinò la costruzione sulla sommità della collina di Sant'Erasmo di un « palatium castrum ». Fu quindi acquistato il terreno e iniziata la costruzione, che gli architetti Francesco De Vico, Attanasio Primario, Balduccio di Bacza e Tino di Camaino, terminarono nel 1343 sotto il regno di Giovanna I d'Angiò.

Come dal nome di Belforte si sia passato all'attuale Sant'Elmo, è frutto del lento scorrere dei secoli: nel 1348 infatti il castello veniva chia­mato di Sant'Erasmo o Sant'Eramo, evidentemente per la sua vicinanza all'antica chiesetta: da Sant'Erasmo a Sant'Elmo, lo scambio fra le due li­quide è cosa possibile.

Alcuni vorrebbero invece far derivare Sant'Elmo da Sant'Antelmo o Anselmo che fu uno dei fondatori della vicina Certosa, ipotesi che non può essere esclusa; il Salazar poi, ritiene possibile che Sant'Elmo derivi da San Telmo, santo spagnolo, ma in effetti se nel secolo XV il castello era già chiamato Sant'Ermo, è più facile che il suo nome sia una corru­zione facilitata dalla pronunzia dei dominatori spagnoli.

Nel gennaio del 1348, in seguito all'efferato eccidio di Andrea d'Un­gheria, il Castello ebbe il suo battesimo del fuoco, subendo il primo as­sedio da parte di Ludovico d'Ungheria, giunto a Napoli per vendicare il fratello.

La regina Giovanna, com'è noto, si rifugiò in Provenza, dopo avere sciolto dal giuramento di fedeltà gli uomini di tutti i castelli del regno, ma ben presto, essendo scoppiata la peste a Napoli, re Ludovico pruden­temente rientrò in Ungheria, lasciando acquartierati i suoi soldati nei quattro castelli:  dell'Ovo,  Capuana,  Nuovo e Sant'Elmo.

Al suo ritorno nel regno, dopo l'assoluzione del Pontefice, la regina fu quindi costretta ad assediare i castelli per riconquistarli, e fra gli altri anche il nostro.

Nel 1381, l'implacabile re d'Ungheria, col consenso del papa, spinse alla conquista del Regno Carlo di Durazzo, che riuscì ad accamparsi nella piazza delle Corregge. Il marito della sovrana, Ottone di Brunswich," da Castel Sant'Elmo scese allora a scontrarsi frontalmente con l'avversario, ma fu fatto prigioniero e i suoi soldati doverono ritirarsi in fretta nella fortezza. Mentre il 26 agosto la regina Giovanna si arrendeva, Carlo occupò i castelli ed il cognato della regina, Baldassarre di Brunswich, Roberto d'Artois ed il seguito, che si erano asserragliati in Castel Sant'Elmo, fu­rono snidati e condotti nelle prigioni in Castel Nuovo. Di qui Baldassarre riuscì a fuggire, ma catturato di nuovo fu barbaramente accecato in Piazza del Mercato, e imprigionato poi in Castel S. Elmo.

Dopo aver conquistato il Regno di Napoli, Carlo si recò in Ungheria, per essere incoronato re anche di quel Regno, ma lì fu assassinato. Il ca­stello dovè subire allora gli attacchi di Ludovico da Capua, conteso, come tutti gli altri forti napoletani tra la regina Margherita vedova di Carlo di Durazzo e le  truppe di Luigi II  d'Angiò.

Quando la lotta, molti anni dopo, terminò con la vittoria di Ladislao, questi, appena salito sul trono, fece imprigionare in Castel S. Elmo il conte di Terranova e il conte di S. Agata, che furono poi uccisi, rei di avere ordito, per evadere, una congiura ai danni del castellano Lucidio D'Urso.

Il castello fu anche presente nella lotta fra Giovanna II ed il marito Giacomo di Borbone: nel 1416, poi, bisognosa di danaro, la Regina lo ven­dette a Gualtieri ed a Ciarletto Caracciolo per la somma di 2500 ducati.

Venuto Alfonso d'Aragona, ii nostro forte fu meta di principesche comitive e di galanti ricevimenti, ma fu poi ceduto a Renato d'Angiò tra­mite un tale Giovanni  Cossa che era stato inviato da Firenze.

Dopo la venuta di Carlo VIII a Napoli fu di nuovo restaurato ed am­pliato, essendosi reso necessario un intervento dopo che gli assedi e due terremoti  ne avevano lesionato  le mura.

Durante la lotta tra Francesco I e Carlo V, i francesi al comando del generale Odetto di Foix, visconte di Lautrec, occuparono Capua, Nola ed Acerra, ed assediarono la capitale sperando di sottometterla con la fame e con la sete. Fecero pertanto tagliare le condutture dell'acquedotto For­male, ma l'acqua nella città non mancò, perché c'erano molti pozzi comu­nicanti tra loro; viceversa il condotto tagliato provocò un allagamento nelle pianure circostanti e l'acqua stagnante cagionò un'epidemia mala­rica. II generale Lautrec pensò allora di bombardare Napoli, ma, colto anch'egli da malaria perniciosa, morì il 15 agosto. I Francesi, privati del loro capo, chiesero la pace, e il popolino, esultante per lo scampato pe­ricolo, attribuì l'avvenimento al patrocinio di San Gennaro e recitò il Te Deum in Cattedrale.

In quell'occasione castel S. Elmo si rivelò così importante dal punto di vista strategico che, alcuni anni dopo, il viceré don Pedro de Toledo, sollecitato anche da Carlo V, decise di farlo ricostruire, affidando i lavori all'architetto e maestro di campo, cavalier Pietro Luigi Scriva di Valenza: furono innalzate le ciclopiche mura che oggi vediamo dalla città, furono scavati fossati, fortificata l'intera collinetta di « sancto Martino » e piaz­zate le artiglierie che dovevano difendere la città « dal sito alcto ». Maestri marmorai fiorentini capeggiati da Niccolò Bellavante, iniziarono i lavori di taglio della pietra e maestri fonditori capeggiati da Bartolomeo Gior­dano, Salvatore de Dia e Santillo de Santo, provvidero alla fonditura delle bocche da fuoco.

L'opera, iniziata nel 1537, fu completata (come attesta un'epigrafe posta sulla porta d'ingresso del castello) in brevissimo tempo, con una celerità che dovrebbe essere d'esempio e di lezione.

Il castello, di tipo bastionato, fu in gran parte scavato nel monte, ma la sua costruzione sollevò molte critiche perché non rispettava i dettami dell'architettura militare tradizionale: destava perplessità la sua insolita forma stellare e la mancanza di torrioni, essendo il forte provvisto sol­tanto di enormi cannoniere aperte nel fianco delle cortine che si congiun­gono ad angolo rientrante.

L'architetto fu invece molto cauto nel tener presente la funzionalità dell'opera e il sito su cui sorgeva: fu scavata inoltre un'enorme cisterna che servì anche ad evitare eventuali pose di mine, ed il risultato fu un'im­ponente opera di fortificazione quasi unica per il suo tempo, una cittadella nella isolata collina di San Martino col suo castellano e con la truppa di presidio, con il suo cappellano, la chiesetta ed il suo tribunale retto dal castellano stesso, che aveva ampi poteri. Il castellano era un omonimo cugino del viceré Pedro di Toledo, che fu poi sepolto nella chiesetta del forte.

Il 12 dicembre del 1587 un fulmine caduto nella polveriera, fece sal­tare in aria buona parte della fortezza, tra cui la chiesa e la casa del castellano,  uccidendo  150 uomini.

La detonazione e Io spostamento d'aria furono tali che ne furono danneggiati edifìci cittadini molto lontani come la chiesa di Santa Maria la Nova, Santa Chiara, San Pietro Martire, l'Annunziata e l'Ospedale degli Incurabili.

II castellano don Garzia di Toledo e sua moglie si salvarono, fortuna­tamente, perché fin dal giorno precedente si trovavano fuori del castello.

Si susseguirono poi come castellani Hernando de Toledo, Antonio Men-doza, Giovanni de Mendoza, il marchese di Cirella Antonio Manriquez, don Diego Manriquez, Martino Galiano ed altri. Con la sommossa di Masaniello, anche questo forte entra nella storia di Napoli; siamo nel 1647, viceré il duca d'Arcos.

Il pavido viceré per sottrarsi alle ire dei rivoltosi, riparò prima nel monastero di San Luigi e poi in Castel Sant'Elmo insieme a due dame di corte, Cornelia Grimaldi e Pellina Spinola ed al conte Sauli, ministro della Repubblica di Genova a Napoli.

Il popolo tentò di prendere la fortezza, ma il d'Arcos per guadagnar tempo, fece spargere astutamente la voce che senza l'approvazione sovrana il castello non si sarebbe potuto arrendere, avendo il castellano giurato nelle mani del re : riuscì in tal modo a persuadere i rivoltosi che biso­gnava attendere questo consenso, che si diceva sollecitato e non lontano a giungere.

I seguaci di Masaniello, invitati a più miti consigli dal castellano Martino Galiano, non sospettarono nulla della tattica temporeggiatrice, e desisterono dall'assalto che, del resto, avrebbe anche potuto avere esito negativo.

Firmato un accordo con il popolo, approfittando della tregua, il d'Arcos pensò subito a fortificare i castelli Nuovo e dell'Ovo.

Dopo la morte di Masaniello, i popolani, capito l'inganno, tornarono ad assediare la collina di San Martino, ma questa volta il viceré ordinò che venisse cannoneggiata la città, e solo l'intervento del principe di Mas­sa, l'Eletto del Popolo, spense i bollenti spiriti e riuscì a convincere gli uomini dell'opportunità di attendere l'accoglimento delle richieste, che furono poi « giurate » dal viceré nella Cappella Palatina di Santa Barbara in Castel Nuovo, il 25 agosto del 1647.

Fu però respinta una delle richieste, la più importante per il popolo e cioè quella di un controllo popolare su Castel S. Elmo; il sospetto ser­peggiò nuovamente nell'animo della plebe, che, esasperata, corse ancora all'assalto dello stellato castello, ma prevalse poi un bisogno di pace e la pace si ebbe, per quanto di breve durata!

Infatti il primo di ottobre ormeggiò nel porto di Napoli una squadra navale spagnola al comando di Giovanni d'Austria, il quale decretò che la custodia del castello dovesse essere esercitata dalla milizia spagnola, ed in nome del Re ordinò al popolo la consegna delle armi; la ribellione si estese ben presto nonostante il cannoneggiamento della città iniziato da questo forte anche per l'avvicinarsi del duca di Guisa.

L'ira popolare scoppiò violenta: duemila Napoletani tornarono alle armi, mentre anche da Castel dell'Ovo gli Spagnoli continuavano gli spie­tati cannoneggiamenti sulla città: il duca di Guisa, poi, con i suoi uo­mini e con le bande dei popolani attaccò il forte, ma le artiglierie spa­gnole che in principio ebbero il sopravvento, furono costrette a cedere.

II   popolo esultante nominò il Duca di Guisa protettore della Serenis­sima « Real Repubblica Napolitana »; al suono delle campane, Enrico, ca­valcando per i « quartieri » in rivolta, si diresse al Torrione del Carmine, dove fu accolto da Gennaro Annese, capitano generale del popolo.

II comandante dì Castel S. Elmo, certo Galiani, forse ritenuto colpe­vole di aver avuti troppi riguardi verso Giovanna di Capua, principessa di Conca, ivi prigioniera per le sue sensuali nefandezze, che era stata poi trovata avvelenata, fu sostituito con Luis de Espluga. A questi successe Giovanni Sotomayor che, dopo aver riportato la calma, fu anche « silu­rato » in poche ore e sostituito con Giovanni Buides: in seguito anche quest'ultimo, sospettato di doppio gioco con gli austriaci, fu sostituito dal crudele Rodrigo Correa che dovè nel 1707 sostenere gli urti delle truppe austriache del conte di Daun, fedele generale di Giuseppe I.

Nel 1707, infatti, il castello, nuovamente al centro della scena politica, venne assediato dagli Austriaci, ma per fortuna non subì gravi danni, poi­ché il conte riuscì ad ottenere la resa prendendo come ostaggi i parenti del castellano. Dopo pochi giorni il colonnello Kosa col reggimento Gswindt occupò il forte e fece progioniero il Correa; questi fu poi sostituito dal vecchio austricante Buides. A luì successero il de Colbert e il conte di Lo-sada, col quale il nostro forte dopo aver subito gli aspri assalti delle truppe spagnole del Luogotenente Generale conte di Charny, si arrese a Carlo di Borbone.

Avendone preso possesso, gli spagnoli poterono attaccare frontalmente la  città ed espugnarono facilmente anche  Castel  Nuovo.

Con Carlo di Borbone il castello ebbe un'era di pace e di tranquillità. Durante il regno di Ferdinando IV, invece, castellani il duca di Rebuttone ed il marchese Francesco Pignatelli, iniziò per esso un periodo movimen­tato, con la congiura del 1794 per rovesciare il governo: furono arrestati in quel tempo Luigi de' Medici, sospettato di aver consegnato ai rivolu­zionari le piante dei castelli, Mario Pagano, Gennaro Serra, il conte di Ruvo Ettore Carafa,  Giuliano di Stigliano ed altri.

Nel 1799 la fortezza fu presa dal popolo che nominò Luogotenenti Ge­nerali il duca di Roccaromana ed il principe di Moliterno, ma i giacobini « napoletani », mentre attendevano la venuta del generale Championnet, cercarono di entrarvi di astuzia.

Il castello quindi passò al comando del capitano Simeone, che era uno dei loro, senza che il capo dei « lazzari », Brandi, potesse impedirlo: durante la notte i « lazzari » furono scacciati ed i francesi furono messi in possesso della fortezza. Fra i giacobini che organizzarono questa im­presa vi erano i più bei nomi della città, come quello di Pietro Colletta, Nicola Caracciolo di Roccaromana, Vincenzo Pignatelli di Marsico, Nicola Verdinois, Giuseppe Schipani, Antonio Sciardi ed Eleonora Pimentel Fon-seca che, per l'occasione, si era travestita con abiti maschili.

Il generale Kellerman guidato da Vincenzo Pignatelli di Strongoli e da Eleuterio Ruggiero, travestito da eremita, raggiunse il castello che fu il primo forte napoletano sul quale fu innalzato il vessillo della Repub­blica Partenopea: il generale Championnet poteva così ben dire che la Repubblica Partenopea era nata a Sant'Elmo.  Era il 21  gennaio 1799!

Dopo la spedizione del Cardinale Ruffo, il castello fu l'ultimo a ritor­nare ai « vecchi amori » e ad innalzare la bandiera realista: esso divenne poi prigione dei vinti patrioti: Domenico Cirillo, Francesco Pignatelli Stron, goli, Giovanni Bausan, Giuseppe Logoteta, Gennaro Serra, il conte di Ruvo Ettore Carafa, Giuliano Colonna di Stigliano e molti altri. Nell'800 fu anche severa prigione di Carbonari e fra numerosi altri, vi furono rin­chiusi il conte Giuseppe Ricciardi di Camaldoli, Mariano d'Ayala e Carlo Poerio.

Nel '48 altri prigionieri vi languirono: Dragonetti, Pica Barbacini, Silvio Spaventa e il patriota Leopardi. Quando venne Garibaldi, l'8 set­tembre del '60, al forte fu dato il compito di bombardare la città per im­pedire l'ingresso ai garibaldini, ma i due capitani del forte, de Marco e Favalli, si opposero nel modo più deciso col risultato che da comandanti della fortezza divennero « ospiti » delle prigioni. Il giorno dopo la venuta delle truppe, una compagnia della Guardia Nazionale prese possesso del forte  liberando  tutti  i  prigionieri  politici,  compresi i  due  capitani.

Il popolo avrebbe voluto distruggere « con le proprie mani » il vec­chio Castello che era un ricordo di tanti soprusi subiti, ma Mariano D'Ayala riuscì ad evitare tale scempio. Nel 1943, per la seconda volta il forte corse il pericolo di essere distrutto, poiché i tedeschi, prima di ri­tirarsi, avevano deciso di farlo saltare in aria con dieci casse di dinamite, ma una signora svizzera, vedova d'un italiano, riuscì a convincere l'alto ufficiale germanico a desistere dal suo proposito e la catastrofe fu così evitata.

Ora il Castello fa parte del Demanio Militare ed è adibito a carcere militare; con regolare permesso lo si può visitare, ad ec­cezione dei locali adibiti a prigione.

Questo castello, definito dagli architetti forte stellato a sei punte, con fronte a tenaglia ad angolo rientrante, costituisce per i napoletani quasi un simbolo della città. Esso è cinto, meno che a sud, da un fossato, scavato nella roccia, esternamente al quale, specialmente al nord, vi sono fortini di varia forma e diverse epoche: ognuna delle sei punte della ci­clopica costruzione stellata sporge dalla parte centrale, chiamata testug­gine, di circa 20 metri; via Tito Angelini fiancheggia gli spalti del bastione.

A destra, all'inizio della rampa che porta al castello vi è la Chiesetta di Santa Maria del Pilar, costruita dagli spagnoli nel 1682 quando era ca­stellano Don Luis Espluga: passando un arco e valicando il fossato, si arriva quindi alla porta principale del forte, che fu a suo tempo adornata da magnifici marmi di Mino da Fiesole. Continuando il cammino per una larga rampa coperta, si giunge quindi al piazzale in cima al castello, al cui centro vi sono delle costruzioni, recentemente rifatte, adibite a carcere militare, e la chiesetta di S. Elmo, ricostruita da Pietro Prati dopo che quel fulmine, caduto nel 1587 nella polveriera, fece saltare in aria gran parte della fortezza: dietro l'altare vi è la Tomba del castellano Pietro di Toledo, congiunto dell'omonimo viceré e primo castellano; le altre tombe sono dei castellani Martino Galiano, Giovanni Buides, Francesco Vasquez. Sotto questo piazzale vi  sono due grandi  cisterne di circa 30 m. x 40.

Nel lato settentrionale dei bastioni vi è un piccolo cannoncino che sparava al mezzodì.

Retrocedendo nella rampa coperta, per un'apertura chiusa da un can­cello di ferro, si discende in ampi e bui corridoi sotterranei, che dividono numerosi tetri stanzoni scavati nel tufo che riteniamo siano la parte più interessante del castello, poiché vi furono incarcerati numerosi prigionieri politici: gli stanzoni sono attorniati da piccole celle di rigore grandi poco più di due metri quadri. Le mura sono di uno spessore impressionante, mentre quelle  interne  sono  roccia.

La Chiesa e la Certosa di S. Martino furono costruite per desiderio di Carlo, figlio di Roberto d'Angiò, non lungi dal castello di Belforte. Iniziata nel 1325 dopo l'immatura morte del principe ereditario, la co­struzione della chiesa fu proseguita da re Roberto e compiuta dalla regina Giovanna (1368) con il concorso di altri benefattori, fra i quali il ban­chiere fiorentino N. Acciaiuoli.

Il senese Tino di Camaino e Francesco de Vico, o da Vico Equense, come tanti sostengono, che costruivano nel medesimo tempo Castel S. El­mo, ne furono gli architetti; alla morte di Tino di Camaino, protomastro dell'opera,  gli  successe  il  maestro  Attanasio  Primario  di  Napoli.

Nell'ultimo ventennio del secolo XVI furono poi iniziati lavori di ampliamento e di decorazione di questi edifici religiosi, ad opera di Giov. Ant. Dosio (1580-1623) e di Giov. Giac. Conforto, ai quali successe Cosimo Fanzago; in effetti quindi della costruzione originaria non resta che l'ossa­tura della chiesa, notevolissimi avanzi nelle fondamenta della Certosa e piccole tracce nel chiostro.

I frati Certosini, che occuparono il convento sin dal 1337, ne furono scacciati nel 1799, come rei di giacobinismo, e vi ritornarono nel 1804; appena tre anni dopo furono nuovamente espulsi per esservi riammessi nel 1836 ed espulsi definitivamente nel 1866.

Dal portale d'ingresso si accede ad un primo cortile, che ha sotto il portico alcuni stemmi nobiliari in marmo: a sinistra vi è la chiesa; vi entreremo dunque dopo averne ammirato l'elegante pronao. La navata, iniziata dal Dosio nel 1580, fu continuata nel 1623 da Cosimo Fanzago al quale si deve il lavoro dei marmi nelle cappelle mediane di ciascun lato. Ricche ed eleganti sono le decorazioni, costituite da festoni marmorei e da affreschi meravigliosamente incorniciati, ma particolarmente mirabili la balaustra in marmo tempestata di pietre dure e il pavimento di Bonaven­tura Presti. Gli affreschi nella volta sono del Lanfranco, mentre i Profeti nei triangoli sulle arcate delle cappelle sono del Ribera, al quale sono at­tribuiti anche il Mosé e Elia ai lati della porta d'ingresso, su cui sovrasta una magnifica Deposizione di Massimo Stanzione. L'abside ha un bel pavi­mento disegnato dal Fanzago; il coro in legno è opera del Presti mentre la volta fu affrescata dal Cesari, ma terminata dall'Azzolino. Vi sono di­pinti di un certo rilievo: una Natività di Guido Reni, la Crocefissione e I frati certosini del Lanfranco, l'Eucarestia di Carlo Caliari, l'Ultima cena di Massimo Stanzione, la Comunione dei SS. Apostoli ancora del Ribera e La lavanda dei piedi di Battistello Caracciolo; in fondo in nicchie ammi­riamo una statua del Fanzago raffigurante La mansuetudine e una di Giu­liano Finelli: L'obbedienza. Nella sacrestia vi sono un dipinto raffigurante San Pietro che rinnega Gesù, di un ignoto caravaggesco ed un Crocefisso su tavola di Giuseppe Cesari: gli affreschi sono ancora del Cesari, e le lunette di Luca Cambiaso; gli armadi furono eseguiti dagli ebanisti Giovan Battista Vigilante e Nicola Ferrara, ma il loro pregevole intarsio è opera di L. Ducha e di R. Vogel. Dalla sacrestia si passa al tesoro, attraverso un passaggio affrescato da Massimo Stanzione e dal De Matteis, che contiene due tele di Luca Giordano raffiguranti La Morte del Fariseo e La vocazione di Pietro e Andrea. Nella cappella del Tesoro vi è un altro affresco di Luca Giordano, quello nella volta raffigurante Il trionfo di Giuditta, ese­guito dal pittore un anno prima della morte e ritenuto da molti il suo canto del cigno. Fiancheggiano la navata cinque cappelle sul lato sinistro e quattro   sul   lato  destro  in   cui   si   possono  ammirare   dipinti   di Belisario Corenzio, di Battistello Caracciolo, di Francesco De Mura, alcune statue del Sammartino, di Massimo Stanzione e marmi di Domenico Antonio Vaccaro e di Lorenzo Vaccaro. Particolarmente interessanti sono gli affre­schi di Battistello Caracciolo raffiguranti Storie di San Gennaro, e la Pro­cessione  nell'eruzione  del Vesuvio del 16 dicembre del 1631.

Nelle cappelle dal lato opposto vi sono un altro dipinto di Massimo Stanzione, affreschi di Belisario Corenzio e alcuni busti di Matteo Botti­glieri. Riteniamo degna di particolare attenzione la seconda cappella, de­dicata a San Giovanni Battista, opera del Fanzago, che vanta la più inte­ressante decorazione policroma di questa chiesa: vi sono inoltre statue di Lorenzo e Domenico Antonio Vaccaro. Nell'ultima cappella, dedicata a San Martino, la decorazione secentesca è arricchita da due statue del Sam­martino. Da ammirarsi due tele di Francesco Solimena, una delle quali raffigura II Santo che taglia in due il suo mantello per darlo ad un po­vero. Dopo aver ammirato l'altare maggiore si passa nel coro dei laici coadiutori dove si possono ammirare nove simulacri di arazzi con Scene del vecchio e del nuovo testamento, Vita dei certosini di Domenico Gargiulo detto Micco Spadaro e un bel San Michele di Andrea Vaccaro. Si passa poi al refettorio dove dovrebbe esserci una tela raffigurante le Nozze di Cana di Nicola Malinconico. Da una scaletta del chiostro si può accedere al Parlatorio dei frati, affrescato da P. A. Avanzini con Scene della vita di San Bruno; il passaggio che porta alla sala seguente è affre­scato nella volta da Ippolito Borghese e contiene inoltre un quadro di Flaminio Torelli raffigurante la Presentazione di Maria al tempio, una Visitazione di Giuseppe Cesari detto il Cavalier d'Arpino e sulla porta San Giovanni che predica nel deserto di Massimo Stanzione, Vi è poi la Sala Capitolare affrescata da Belisario Corenzio e nelle lunette da Paolo Fino­glia; essa contiene un coro in legno del '600 di Orazio de Orio e C. Bru­schettà e una Circoncisione, un Arrivo dei Re Magi, un Battesimo e un San Martino di Battistello Caracciolo oltre ad una Apparizione della Ver­gine a San Bruno di Simone Vouet e Gesù fra i dottori di Francesco De Mura.

Prima di entrare nella parte della Certosa adibita a Museo deside­riamo premettere che molto probabilmente quando il visitatore entrerà con questa guida fra le mani, troverà che vi saranno stati effettuati spo­stamenti di quadri o in restauro, o temporaneamente trasferiti in occa­sione di mostre nazionali : noi descriveremo il Museo come lo abbiamo visto.

Esso si divide in tre parti, storica, artistica e monumentale. Entrati nella prima sala a destra troveremo cimeli della marina napoletana, men­tre nella galleria centrale vi sono due carrozze di gala, quella settecen­tesca degli Eletti del Popolo con dipinti su rame di Francesco Solimena e una Berlina reale appartenuta alla regina Maria Cristina.

Nella sala 5 vi è la donazione Orilia, composta per la maggior parte di boiseries. Nella sala classificata come VII ammireremo un magnifico pavimento in mattonelle maiolicate e la Tavola Strozzi, un dipinto di au­tore ignoto del '400, che rappresenta il rientro di Ferrante d'Aragona dalla battaglia di Ischia, importantissima perché è in effetti la prima pianta della città: vi è poi l'Ingresso degli Spagnoli a Napoli di ignoto pittore secentesco. Nella sala seguente vediamo l'Uccisione di Giuseppe Carafa di Domenico Gargiulo detto Micco Spadaro, il Tribunale della Vicaria di Ascanio Luciano, un Ritratto di Masaniello di scuola fiamminga e un busto raffigurante Tommaso  d'Aquino di Achille Tosi.

La sala Vili ha in esposizione la donazione di Edoardo Ricciardi, co­stituita da una raccolta di numismatica, medaglie, stampe ed arti minori borboniche e francesi. La sala seguente, chiamata anche di Carlo III, con­tiene materiale iconografico relativo a questo sovrano, ad opera di Anto­nio Joli, Michele Foschini ed Antonio Raffaele Mengs, ritratti ed auto­grafi di Bernardo Tanucci ed al centro una maestosa opera proveniente da Capodimonte raffigurante Ercole e Dejanira con ai piedi Nesso. Segue la sala X chiamata anche di Ferdinando IV, perché vi sono porcellane, miniature, ritratti e la maschera mortuaria del sovrano. La sala seguente offre ancora numerosi ritratti di sovrani borbonici del Mengs e quello della duchessa di Floridia. Segue la Cappellina del Priore e la sala XIII, chiamata anche del 1799, che contiene opere del Cammarano, di Angelini, di Leonardo Guzzardi e di Angelica Kauffmann legati alla storia dell'effi­mera repubblica partenopea, nonché il notissimo quadro di Ettore Cer­cone raffigurante L'Ammiraglio Caracciolo che domanda cristiana sepoltura e il ritratto del Marchese Emanuele Mastelloni di Capograssi, ministro di giustizia della repubblica partenopea. La sala seguente è chiamata anche sala Ruffo, in quanto vi sono tutti i ricordi del cardinale Fabrizio Ruffo, che alla testa delle sue truppe calabresi restituì nel 1799 il regno di Na­poli a Ferdinando IV di Borbone: questa raccolta, donata dalla famiglia Ruffo di Calabria, comprende ritratti di alcuni esponenti della famiglia e, in due grandi vetrine, la bandiera e le armi del cardinale Fabrizio Ruffo e abiti settecenteschi. La sala XV o del decennio francese, ha al centro una vetrina con vari oggetti tra cui una scimitarra tolta da Gioacchino Murat a Mustafà Pascià durante la battaglia di Abukir che fu regalata poi dal so­vrano a Giuseppe Bonaparte e da questi a Don Francesco Carafa dei duchi di Noja; molto interessante sulla destra un progetto di sistemazione del Largo di Palazzo eseguito per desiderio di re Gioacchino. Prima di pas­sare nella sala seguente, per una piccola scala costruita da Cosimo Fan­zago si può accedere ad un giardino dal quale si gode il panorama della città. La sala XVI offre ancora ricordi del decurionato francese, mentre nella XVII, XVIII e XIX sono conservate armi, costumi e medaglie com­memorative borboniche e pontificie. Interessanti, nella sala XVIII, le mille figurine acquerellate raffiguranti uniformi ed armamento dell'esercito bor­bonico. Le sale XX e XXI si chiamano anche di Francesco I e di Ferdi­nando II perché conservano pitture e ricordi del regno borbonico che vanno dal 1825 al 1859 con opere del Pellegrini, di Nicola Lemasle e di Salvatore Fergola. Segue la sala XXII, detta del 1848, con dipinti di Ni­cola Parisi, Francesco Netti, Francesco Vervloet e Saverio Altamura; la se­guente, la XXIII, quella del Risorgimento, contiene dipinti di Consalvo Carelli, Saverio Altamura, Vincenzo Montefusco, Antonio Licata e Michele Lenzi e in una imponente vetrina cimeli varii: ricordiamo il Ritratto di Garibaldi e ai lati del dipinto raffigurante Settembrini nel carcere di Santo Stefano due grosse pietre alle quali si fermavano i puntali delle catene dei carcerati in segregazione. Segue una Galleria dalla quale si rag­giunge il belvedere.

Nella sala XXVI vi sono leggìi e poltrone settecentesche, nonché ve­trine contenenti vasi di farmacia. Le sale che si succedono sino alla XXXI offrono opere di documentazione topografica e cartografica, rappre­sentanti un'iconografia di estremo interesse anche perché gli autori dei dipinti e dei disegni sono Teodoro Duclère, Consalvo Carelli, Giacinto e Gaetano Gigante, Vincenzo Migliaro, Filippo Hackert, Francesco Vervloet, Desiderio Barra e Gabriele Ricciardelli. La sala XXXII prima conteneva specchi, cristalli e vasellame; la seguente ha un interessante pavimento maiolicato con una Meridiana con figurazioni di epoca secentesca. Vi sono costumi del regno di Napoli, abiti, mantelli ed alcune opere di Pasquale Mattei, Gaetano Gigante, L. Del Giudice e del francese Amedeo Bourgeois. La sala XXXIV è chiamata Perrone perché vi è stata sistemata una rac­colta di animali e pastori da presepe donata da questa famiglia. In que­sta sala e poi nelle 35, 36 e 37 vi sono circa 600 pastori, 244 animali e 369 « finimenti »: questa parte del museo può essere considerata una se­zione a sé, essendo costituita, oltre che dalla donazione Perrone, da quelle di Cuciniello del 1877, Assante del 1929, De Renzis del 1942 e da alcuni legati dal 1913 al 1957. Nella sala 34 vi è un lavoro in sughero dell'otto­centesco Lorenzo Taglioni raffigurante il tempio di Poseidone a Paestum; poiché non sempre questo presepe è aperto al pubblico, conviene visitarlo nei giorni festivi. La sala 35 contiene un presepe siciliano in argento e corallo del settecento, proveniente dalla Galleria Estense di Modena, e poi passato alla Reggia di Caserta: trasferito al Museo San Martino nel 1933, nel 1960 fu restaurato da Ciro Pinto. Vi si notano inoltre un presepe in ceramica Giustiniani, che risente molto dell'arte settecentesca pur es­sendo della metà del secolo scorso, ed un presepe settecentesco chiamato « della chiesa », perché proviene senz'altro da una chiesa. In una grande vetrina vi sono pastori dei Celebrano, dei Bottiglieri, di Francesco* Cap-piello, di Francesco Viva, di Domenico Antonio Vaccaro e del Trilocco: gli animali si ritengono invece opera del Vassallo, di Gennaro Reale, di Francesco Galli, di Francesco Di Nardo, e di Giuseppe De Luca. Nella sala 36   vi sono 18 pastori attribuiti a Giuseppe Sammartino e 23 a Lorenzo Mosca; vi sono poi pastori di Giuseppe Gori e di Giovan Battista Polidoro. Molto importanti  sono il presepe di Michele  Cuciniello, che è nella sala 37 e quello donato da Edoardo Ricciardi nella sala 39. Il cavaliere Mi­chele Cuciniello, appassionato raccoglitore di opere presepiali, e profondo conoscitore  di   questa  tipica  arte   napoletana,  acquistava  pastori  in  qualsiasi parte d'Italia si trovasse e ne comprò persino a Parigi in un periodo che vi trascorse: egli era un commediografo, dei cui lavori si avvalse prin­cipalmente la compagnia di Petito, che li rappresentò in molte città. Essen­do molto amico del direttore generale dei musei napoletani, il Cuciniello nel 1877 donò a San Martino la sua raccolta dando però alcune disposi­zioni sulla sistemazione dei pezzi, e incaricandone l'architetto Fausto Nic-colini. Questo presepe, inaugurato il 28 dicembre 1879, può essere rite­nuto il più bello esistente a Napoli. Il secondo presepe, donato da Edoardo Ricciardi, fu sistemato prima al Museo Nazionale ma poi si pensò di por­tarlo a San Martino, dove poteva essere maggiormente apprezzato: non è certamente singolare come quello del Cuciniello né i pastori sono della stessa qualità dell'altro, e si nota, d'altronde, che non è neanche stato ordinato con la stessa cura. Gli altri presepi sono di minore importanza: quello del Taglioni è interessante più che altro per la riproduzione in sughero del tempio di Nettuno: esso fu donato dalla baronessa Clorinda Sartorius, consorte di Lorenzo Taglioni, che fu « regio meccanico delle dogane di Napoli e delle due Sicilie » : i vestiti di alcuni di questi pastori furono eseguiti dalla prima moglie del Taglioni, Bernardina Arnaud. L'ultimo presepe è quello che fu donato nel 1942 dalla baronessa di Mon­tanaro.

Le sale XXXVIII e XXXIX, attualmente chiuse per restauro, dovrebbero contenere una ricostruzione del palcoscenico del San Carlino e cimeli degli attori che si sono succeduti in questo piccolo e storico teatro napoletano; nella sala 40 vi sono dipinti raffiguranti il teatro San Carlo ed il teatro napoletano in genere, degli artisti Francesco Saverio Candido, Francesco Bouchot, Gustavo Nacciarone e Antonio Niccolini. La sala 41, dove dovreb­bero essere i gonfaloni della città, è temporaneamente chiusa; si passa quindi nel chiostro grande, che fu costruito su disegno del cinquecentesco Giovanni Antonio Dosio e continuato dal Fanzago, al quale si deve il mo­desto cimitero che si trova nel quadrato centrale; vi si notano una prege­vole balaustra ed alcuni medaglioni, opera del Fanzago, tranne uno che è invece di Lorenzo Vaccaro.

Si passa ora alla seconda parte, costituita dalla pinacoteca, nella quale le  opere  sono  spesso  spostate  da una  sala all'altra.

Iniziando dalla sala 42 troveremo subito a destra una statua policroma in legno del 300 proveniente dalla basilica francescana di S. Chiara che raffigura la Vergine giacente ed alcune tavolette del leccese Giovanni Ma­ria Scupola con Scene della vita di Cristo e di Maria. Nella sala seguen­te, la 43, vi sono un polittico incompleto di Jacopo Ripanda rappresen­tante l'Annunciazione e la Vergine e alcune tavole a fondo nero di Ni­cola di Tommaso. La sala 44 offre dipinti del Vasari, di Battistello Caracciolo, di Nicola De Simone e una Decollazione del Battista di Marco Pino da Siena, opere in attesa di restauro che probabilmente il visitatore non troverà in esposizione. La sala seguente contiene dipinti di Micco Spa-daro, Battistello Caracciolo e Salvator Rosa, la 46 pregevoli tele di Luca Giordano, Mattia Preti e di Giuseppe Ribera detto Io Spagnoletto e un Autoritratto di Francesco Solimena. Seguono nelle sale successive Nature morte e Animali di Giovan Battista Ruoppolo, Gaspare Lopez, Giuseppe Recco ed altri minori e nelle sale 52 e 53 dipinti che sono stati tolti dalla cattedrale di Pozzuoli e salvati dall'incendio del 1964: opere del Fracanzano, del Finoglia, di Artemisia Gentileschi, di Agostino Beltrano, di Giovanni Lanfranco e di Luca Giordano. Nella sala 54 si ammirano un Ritratto del cardinale Ruffo ed alcune opere di Gaetano Forte; la seguente, la 55, contiene numerosi dipinti del fiammingo Francesco Vervloet. Nelle sale 56, 57 e 58 vi è una rappresentanza di tutto l’800 napoletano, da De Gregorio ai Palizzi, da Michele Cammarano a Pratella, Gaeta, Rossano e Migliaro; nella sala 59 vi sono nature morte dì varie epoche. La 60 e 61 contengono ancora opere dell'800 napoletano di Ercole Gigante, Michetti, Carelli, Pitloo, Smargiassi, Franceschini e Duclère; nelle sale 62, 63, e 64, invece, vi sono lastre tombali, sarcofagi romani, sculture di Tino dì Camaino e di scuola francese e bassorilievi; nella 65 vi è il magnifico frontale del XIII secolo del Pulpito di San Lorenzo, che è stato restituito alla basilica e il bassorilievo raffigurante Ferrante d'Aragona a cavallo che era nel secolo XV sulla porta del Carmine; nella 66 un busto di Sisto V, un gruppo marmoreo di Pietro Bernini ed alcuni sepolcri. Nelle sale 67, 69 e 70 vi sono raccolte vesuviane e nella 68 un bozzetto in gesso raffigu­rante Murai, opera di Giovan Battista Amendola.

La  Sezione Artistica  comprende una  sottosezione  per  le  arti minori, nella quale sono molto interessanti i ricordi della Certosa esistenti nella sala 75; altre sale sono attualmente in restauro.

Non possiamo tralasciare la Collezione dei vetri di questo museo, costituita quasi completamente da una raccolta appartenuta ad un grande amatore d'arte, Diego Bonghi, da cui lo stato la comprò. Questa colle­zione contava anche porcellane, biscuits, maioliche, pastori, ricami, avori, intarsi, pezzi di oreficeria, lampadari ed altro e l'atto di vendita fu co­stituito da due parti, una per vetri e specchi, e l'altra per gli altri pezzi.

Vi si notano vetri veneziani di inestimabile valore dei secoli XV, XVI, XVII e XVIII. Tra i pezzi del nucleo più antico, abbiamo notato un bacile bleu e una coppa viola; del secolo XVI coppe a costolatura a spi­rale, piatti con figurazioni e una brocca trasparente a smalto policromo. Del secolo XVII indicheremo l'impareggiabile piatto a costolatura a spirale in vetro calcedonio, di eccezionali dimensioni. Tra i pezzi settecenteschi noteremo la fantasia delle filigrane delle parti vitree colorate, mentre del secolo successivo esemplari che si riportano alla fattura classica dei secoli rinascimentali. Fra i vetri conservati in questo museo ve ne sono poi al­cuni di produzione spagnola e tirolese anche se alcuni sono fagon de Ve-nise. Bellissimo è il consterò trasparente a smalti policromi eseguito da maestranze di Murano trasferitesi in Spagna. I vetri del Tirolo di produ­zione Cassel ed Hall, sono pochi ma classicamente fini ed estremamente eleganti. Notiamo una fiasca bleu con graffiti, una piccola alzata, alcuni calici e un gruppo di  quattro reliquari.

Vi sono poi pezzi di altra provenienza come il gutrolf di vetro cile­strino, un vaso viola, un cilindro e un tricorno, opere tedesche; calici di Boemia e di Olanda.

Oltre ai vetri la raccolta Bonghi offre al visitatore magnifici specchi, specchiere da camino, specchi oblunghi, due imponenti sovraporte poligo­nali e alcuni vetri dipinti con paesaggi.

Usciti dal Museo riprendiamo via Tito Angelini, e scendendo per via Bonito, lasciando a sinistra via Giaquinto, per via Torrione San Martino sulla destra o per via Sanchini giungeremo in piaz­zetta Durante e poi in via Michele Kerbaker. Attraverseremo ora di nuovo via San Gennaro al Vomero, piazza Antignano e via Anti-gnano lasciando sulla destra via Recco, e per via Don Sturzo, ove sfocia la via Paisiello, girando a sinistra ci troveremo in via Gemito, attraverso la quale sfoceremo in piazza Quattro Gior­nate, lasciando sulla sinistra via Andrea da Salerno e via Nicola Zingarelli e lo Stadio a destra. Lo Stadio è circondato da via Rossini, che lascia a destra via Tilgher, vico Acitillo, via Giu­seppe Ribera e via Vincenzo Gemito, dalla quale siamo giunti. Trovandoci in piazza Quattro Giornate ci conviene per via Zinga­relli entrare in via Annella di Massimo, intersecata da via Fra­canzano, per giungere in via Cilea che è il proseguimento verso il basso di via Alessandro Scarlatti. Questa moderna strada passa con un ponte al disopra di via Annella di Massimo e di via Mattia Preti, incrociando sulla destra via Rossomandi e vico Acitillo. Quest'ultimo porta alle Case Puntellate lasciando a sinistra via Rodolfo Falvo e via A. Longo intersecate da via Camillo de Nardis, via Tilgher, via Luigi Galdieri, via Falcomata e via Ruta. Tornando a via Cilea, notiamo che essa per un po' prosegue quasi in parallelo con via Giuseppe Ribera che invece, poi, girando sulla sinistra finisce con lo sfociarvi. Il vico Acitillo a sua volta, continuando sul lato sinistro di via Cilea, per via Belvedere si collega col viale Malatesta e via Santa Maria della Libera dov'è appunto la Chiesa di Santa Maria della Libera. Via Cilea termina quindi al Largo Martuscelli, nel quale sfociano anche da sinistra via Santo Stefano che incontra viale Winspeare, via Ricci e via Kagoshima, e continuando come via Belvedere raggiunge  via Aniello Falcone. Partendo dalla destra di largo Martuscelli via San Domenico passa sotto la Tangenziale e va verso Soccavo: il proseguimento di via Cilea, Corso Europa, incontra poi a destra via Timavo e via Piave; via Timavo ha sulla sinistra la cupa Torre Cervati e alcune strade nuove: gradini Po, via Po, via Isonzo, traversa Sangro, gradini Ofanto, via Ofanto, via Arno, via Tagliamento, traversa Po, via Ticino, via Adige.

Il corso Europa termina quindi in piazza Europa, dove ha sede il nuovo Istituto del Sacro Cuore, dalla quale si diramano via Manzoni, ed a sinistra via Tasso, che scende verso il centro di Napoli, convogliando da sinistra il traffico di via Amelio Falcone e incontrando via Maria Cristina di Savoia a destra che anch'essa scende al corso Vittorio Emanuele, dove vi è una sta­zione intermedia della ferrovia Cumana.

Via Chiaja - Largo Carolina - Pizzofalcone - Monte di Dio - Piazza dei Martiri - Piazza della Vittoria

Come abbiamo già accennato, i nostri primi itinerari prenderanno il via da Piazza San Ferdinando, che con la Piazza del Plebiscito consideriamo il centro della città. Quindi di qui parti­remo per raggiungere la collina di Pizzofalcone e lungo l'antica Strada di Chiaja, la Piazza Vittoria.

Via Chiaja sta a cavallo tra le due piazze: subito dopo aver seguito il lato interno del Palazzo della Prefettura troveremo a sinistra una piccola piazzetta, chiamata Largo Carolina non per ricordare la regina Maria Carolina d'Austria ma la sorella del grande Napoleone che fu regina di Napoli quale consorte di Gioac­chino Murat. Da questo largo si sale per una strada intitolata a Gennaro Serra, già comandante della Guardia Nazionale che fu poi arrestato per la sua adesione alla Repubblica Partenopea del '99 ed impiccato a Piazza Mercato il 20 agosto di quell'anno. Si giunge così alla collina di Pizzofalcone, così chiamata per la sua forma « come un becco di falcone curvo », o, come alcuni ritengono, perché nel periodo angioino vi si praticava la caccia al falcone. Questa, chiamata anche Monte Echia forse per corru­zione del nome Ercole o Hercli, secondo l'opinione corrente, ospitò il primo centro di quell'abitato che diverrà poi Napoli. A convalidare questa tesi vi è stata la scoperta di una necropoli cumana in via Giovanni Nicotera, la strada che da Piazza Santa Maria degli Angeli porta sulla destra al corso Vittorio Emanuele, che fece supporre che dopo la vittoria contro gli etruschi avve­nuta nel 524 a.C, i cumani occupassero la roccaforte di Partenope a cui fu dato il nome di Palepoli, dopo che fu fondata ad oriente la città nuova o Neapolis. Su questa collina dove era stata Palepoli, Lucullo fece costruire il suo sontuoso Castrum, una villa fortificata i cui giardini e dipendenze giungevano da un lato sino al mare, comprendendo quell'isolotto di Megaride sul quale fu poi costruito Castel dell'Ovo, e dall'altro lato sino allo sco­sceso vallone che secoli dopo doveva diventare via Chiaja. La posizione esatta di questa sontuosissima villa romana, distrutta e razziata durante secoli di barbarie, non è stata trovata, poiché sulla collina non sono rimasti che pochi ruderi nei pressi della Villa Carafa. Monte Echia fu fortificato di nuovo ai tempi di Valentino III, e Odoacre nel 476 tenne prigioniero nel castrum Lucullanum l'ultimo imperatore d'Occidente, Romolo Augustolo.

Molti secoli dopo, ai tempi di Carlo II d'Angiò, sappiamo che vi era un oratorio chiamato di Santa Maria a Circolo e nelle lotte fra angioini e aragonesi, poi, vi vennero postate le arti­glierie di Re Alfonso. I re aragonesi fecero fortificare la collina e sempre nel periodo aragonese fu costruita quella rampa che an­cora oggi porta a piazza dei Martiri. La collina, per la sua posizione strategica, fu sempre battuta dalle artiglierie e adoperata come caposaldo; così, nella lotta fra Carlo Vili e Ferrante II d'Aragona che cercava di riconquistare Napoli, Pizzofalcone, for­tificato dal Montpensier, luogotenente di Carlo Vili, fu attaccato dal mare. Monte Echia è ricordato anche nei fatti d'armi che precedettero immediatamente il vicereame spagnolo, poiché nel 1503 Pedro de Navarra vi piazzò le sue artiglierie per puntarle contro i francesi che erano asserragliati in Castel dell'Ovo. In seguito vi sorsero molti palazzi e ville, alcuni dei quali ancora oggi esistono. Fra questi palazzi quello di Antonio Rota, figliolo del poeta napoletano Bernardino e quello del conte di Santa Severina Andrea Carafa della Spina che passò in seguito al mar­chese di Trevico Ferrante Loffredo, che nel 1561 offrì un suolo ai domenicani per la costruzione del Monastero di Santo Spirito. Fu appunto dopo la costruzione di questo imponente complesso monastico che la collina cominciò ad essere chiamata Monte di Dio. Sorsero in questa zona il Palazzo del principe di Stigliano Luigi Carafa, quello di Alarcon de Mendoza, dei Montaldo d'Ara­gona e dei principi di Melfi del Carretto Boria. Nel 1588 donn'Anna Mendoza principessa di Stigliano fondò la Chiesa della Annunziata e nel 1590 la principessa di Sulmona Costanza del Carretto Doria fece costruire a sue spese la Chiesa di Santa Maria la Solitaria, oggi chiamata Santa Maria degli Angeli, che si trova al centro della piazzetta Monte di Dio.

Questa chiesa fu affidata ai padri Teatini che la fecero poi ingrandire da un architetto appartenente al loro Ordine, Francesco Grimaldi. Essa è in stile gesuitico, a croce latina a tre navate con pilastri ed archi; le navate laterali hanno quattro cappelle ciascuna e al centro della crociera si innalza una bella cupola affrescata dal Benaschi con Scene della vita della Vergine, il Paradiso e gli Evangelisti; i dipinti del coro sono di Francesco Maria Casenti. Notevoli i due Sepolcri della famiglia Serra, di Tito Angelini nella prima cappella a destra, che era sotto il patronato del principe di Gerace. Infatti i due monumenti sepolcrali sono quelli della principessa Maria Antonia Grimaldi e del marito, il principe Pasquale Serra. Nella terza cappella vi e una Sacra Famiglia di Luca Giordano e ai lati del transetto si notano due tele di Francesco' Caselli: la Natività e l'Epifania. Giungendo all'abside si ammirano il Coro finemente intagliato e tre dipinti del Caselli, precisamente nel fondo Santa Maria degli Angeli, a destra Ester e a sinistra Giuditta. Sul lato sinistro, è molto interessante una Immacolata Concezione di Massimo Stanzione nella seconda cappella.

Dopo la soppressione degli ordini religiosi, nel 1810 questo monastero fu trasformato in Intendenza Militare, mentre una parte fu demolita per la costruzione del Teatro Politeama: questo locale, per un certo periodo, quando ne fu proprietario Enrico Pepe, divenne un gran bazar, ma riprese poi la sua funzione, che svolge tuttora anche se malamente rimodernato poiché, per un incendio che lo distrusse alcuni anni or sono, è stato com­pletamente rifatto.

L'interesse di via Monte di Dio, che da piazza Santa Maria degli Angeli termina alla sommità della collina, è dovuto ai pa­lazzi, di un certo rilievo artistico che si susseguono lungo di essa, come il Palazzo Ciccarelli, quello dei Caracciolo di Vietri, e quello dei Serra di Cassano il cui ingresso principale era in via Egiziaca, strada parallela, dove si ammira il monumentale por­tale eseguito da Ferdinando Sanfelice.

L'edificio fu iniziato nella prima metà del '700 ed il Sanfelice vi costruì un bellissimo scalone a due rampe, ma non fu portato a termine per la morte del proprietario marchese Serra; danneggiato durante l'ul­tima guerra, è stato restaurato. Vi sono due cortili dei quali uno rettan­golare, e quattro ingressi nei lati minori; la facciata richiama in parte la linea architettonica del Borromini, e le sale nobili, decorate ed affre­scate da Giacinto Diano lo rendono uno dei più bei palazzi del settecento napoletano.

Segue il Palazzo Serra di Gerace che aveva anche un magni­fico parco: esso appartenne ai principi di Gerace Giovan Bat­tista Serra e Anna Saluzzo di Corigliano che ai loro tempi vi davano ricevimenti la cui eco è giunta sino a noi. Importanti a destra sono il Palazzo (già) Capracotta e il Palazzo Catemario di Quadri, già Carafa di Noja, con un magnifico giardino con palme e lecci. In fondo è annidato il grazioso Villino Wenner che appartenne alla marchesina Vittoria Spiriti, andata sposa al commediografo Cesare Giulio Viola; di scarso interesse il Pa­lazzo Barracco. In cima alla salita vi è una caserma della Polizia che fu sede di un glorioso reggimento di Bersaglieri prima della seconda guerra.

Dopo aver esaminato gli edifici più interessanti di questa strada, troviamo a metà un arco attraverso il quale si accede al vico Calascione, forse così chiamato perché immette a quelle rampe Caprioli che, come abbiamo già detto, portano giù in via Cappella Vecchia alle spalle di piazza dei Martiri, chiamate Ca­latone per la loro ripida pendenza.

Da una strada sulla destra dedicata al generale Parisi si giunge al Collegio Militare dell’Annunziatella, chiamato anche comune­mente Nunziatella, con relativa chiesa del secolo XVI, restaurata nel 1736 da Ferdinando Sanfelice.

Vi si ammirano all'interno, nella volta una Assunzione, una Bottega di San Giuseppe e una Fuga in Egitto, tutti affreschi di Francesco De Mura del 1751, mentre alle pareti della navata vi sono dei mediocri di­pinti di Ludovico Mazzanti. La prima volta è decorata da Gerolamo Cena-tiempo e quelle delle altre cappelle furono affrescate da Giuseppe Mastroleo. Notevole la prima cappella con una Crocefissione di Ludovico Maz­zanti, mentre a sinistra si ammira una bella Deposizione di Pacecco de Rosa del 1646. Di rilievo è l'altare maggiore, opera di Giuseppe Sammartino, che eseguì i Sepolcri dei fratelli Michele ed Andrea Giovene. L'abside è affrescato da Francesco De Mura; interessante l'Epifania del 1732. Poiché la chiesa fu adibita a noviziato della Compagnia di Gesù, vi si ammirano nella prima cappella un Santo Stanislao e nella seconda a sinistra un Sant'Ignazio, fondatore dell'Ordine, entrambe opere di Francesco De Mura.

Dopo l'espulsione dei Gesuiti, nei locali annessi alla chiesa che erano stati occupati dai novizi, venne installato il Real Collegio Ferdinandeo dal quale i giovani uscivano col grado di sottufficiale o di cadetto. Nel 1786, questo collegio fu tramutato in accademia militare e vi fu messo a capo il generale Giuseppe Parisi, che nel 1798, nella guerra contro i francesi, si distinse al punto che la fama del suo valore spinse Giuseppe II d'Austria ad offrirgli un alto incarico nel suo esercito, che egli peraltro rifiutò. La scuola era divisa in quattro brigate, ciascuna di sessanta allievi, che vi entravano all'età di nove o dieci anni e dopo circa dieci anni di istruzione militare ricevevano il grado di ufficiali o potevano essere nominati inge­gneri militari.

Dopo la Repubblica Partenopea del 1799, il cardinale Ruffo soppresse questa accademia, ma Giuseppe Bonaparte nel 1806 la riaprì cambiandone il nome, che divenne Scuola Politecnica Militare. Gioacchino Murat volle denominarla invece Scuola Reale Politecnica e Militare assegnandole il compito di impartire agli allievi una cultura nelle scienze matematiche, nell'arte militare, nel campo letterario ed umanistico, nonché nozioni di geografia, di costruzioni militari e di fortificazioni.

Dopo il secondo rientro dei Borbone a Napoli, l'ordinamento dato dal Murat rimase, finché nel 1816 la scuola si trasformò in Battaglione Allievi Militari e nel 1819, in Real Collegio Militare. Nel periodo immediatamente precedente i moti del 1848, la scuola ebbe fra i suoi insegnanti i più noti liberali, come Basilio Puoti, Francesco De Sanctis ed il chimico Filippo Cassola, ma poiché vi serpeggiavano troppe idee rivoluzionarie, nel 1855 il collegio fu trasferito a Maddaloni. Solo nel '59 Francesco II Io riportò a Napoli nella sua sede originaria.

Retrocedendo all'inizio di via Generale Parisi, fino a raggiun­gere via Egiziaca, la parallela di Monte di Dio, troviamo in fondo, dopo un arco, uno spazioso largo dal quale si può ammirare gran parte della città. Dopo questa breve sosta, sempre a destra si incontrano la Chiesa dell'Immacolata di Pizzofalcone, di scarso interesse artistico ed il Palazzo Carafa di Sanseverino, costruzione cinquecentesca ove fu allogata la Sezione Militare dell'Archivio di Stato.

In via Egiziaca è notevole l'omonima Chiesa di Santa Maria Egiziaca a Pizzofalcone che fu edificata da Cosimo Fanzago nel 1651 con una simpatica facciata convessa preceduta da una breve scalea; nell'interno è da ammirarsi una tela di Andrea Vaccaro sull'altare maggiore raffigurante la Vergine titolare della chiesa.

Imboccando quella via chiamata Solitaria in ricordo della congregazione spagnola « della Soledad », che fu fondata nel 1581 e che qui ebbe sede , possiamo scendere alla piazzetta intitolata a Demetrio Salazar, patriota calabrese e distinto pittore, mentre riportandoci nella piazza Santa Maria degli Angeli potremmo in­camminarci per l'angusta via Giovanni Nicotera che conduce al Corso Vittorio Emanuele. Ritornando sui nostri passi fino al largo Carolina riprendiamo invece la Strada di Chiaja per prose­guire il nostro itinerario.

Alcuni ritengono che questa strada potesse essere in origine un fos­sato a difesa della città di Partenope o Palepoli, ma è invece più probabile che essa fosse una naturale spaccatura tra le due colline di Pizzofal­cone e quella opposta delle Mortelle di cui convogliava le acque verso il mare. Nel periodo romano questo vallone cominciò ad essere usato per raggiungere la via Puteolona, che continuava poi verso Roma e soltanto in epoca medioevale vi si cominciò a costruire qualche palazzo e qualche monastero. Dopo la venuta del viceré Pedro de Toledo, nella generale ri­strutturazione urbanistica, quella Porta Petruccia, che stava vicino al mo­nastero di Santa Maria la Nova, fu spostata al termine di questa strada, tra i Palazzi Sant'Arpino e Medici d'Ottajano e da essa, che fu chiamata Porta di Chiaja, partirono le murazioni fortificate che raggiungevano a monte Castel Sant'Elmo ed a valle il mare di Santa Lucia ed il Castel dell'Ovo. Se si esamina la pianta del Lafrery del 1566 si nota subito il tracciato di via Chiaja, le murazioni cui abbiamo accennato ed il sorgere di ville e palazzi. Dopo la costruzione del Palazzo Regio, i cortigiani vollero abitare nelle vicinanze e quindi il traffico della corte rese questa strada sempre più movimentata, sicché esaminando la pianta del Duca di Noja, del 1775, si nota che la zona era ormai poco differente dal giorno d'oggi. Prima di incamminarci per via Chiaja vorremmo esaminare la collina delle Mortelle che si eleva sul Iato opposto a quella di Pizzofalcone, così chiamata perché anticamente vi era un bosco di questi arbusti con le cui fronde si conciava il cuoio; ne erano proprietari i Certosini di San Mar­tino, che la diedero poi in enfiteusi ai marchesi Spinelli di Cariati. Carlo di Borbone vi fece costruire una Real Fabbrica di Arazzi e Pietre Dure, con annessa Scuola di Disegno. Poiché, nonostante l'estrema vicinanza delle due alture, per raggiungere I'una dall'altra era necessario percor­rere un lungo e disagevole sentiero, sorse l'opportunità della costruzione di un ponte che le unisse; questa disposizione fu presa nel 1636 dal vi­ceré di Napoli, conte di Monterey, ma la spesa gravò sulle borse dei complatearii, con l'esclusione dei monasteri. Sulla destra di via Chiaja, quindi appunto sul versante della collina delle Mortelle vi è la salita di Sant'Anna di Palazzo, che prende il nome da un'antica chiesa che era frequentata dalla corte vicereale ed ancora più avanti vi è una ripida salita che porta al Corso Vittorio Emanuele, chiamata Gradoni di Chiaja poiché fino a poco tempo fa era costituita da gradoni che oggi sono stati eliminati per consentire il traffico motorizzato. Su questi antichi gradoni vi era il mer­catino dei fiori, ma al termine di questo, la stradina diveniva un ricetta­colo di bordelli e di case ospitali che sfruttavano la presenza delle truppe che stazionavano nei cosiddetti Quartieri, addossati sulla destra quasi ad angolo retto tra le due strade di Chiaja e di  Toledo.

Lungo questo primo tratto di via Chiaja non vi sono costru­zioni notevoli, ma eleganti negozi che fanno concorrenza a quelli di Toledo; giungiamo poi al Ponte di Chiaja, che consta di due arcate in pietre e mattoni, di cui la seconda è nascosta tra le case in direzione del mare. La cittadinanza esternò la sua con­tentezza per questa costruzione con uà lapide esistente ancora, in cui ringraziava re Filippo di Spagna.

Questo ponte ebbe parte nei moti di Masaniello nel 1647, quando il Maestro di Campo Vincenzo Tuttavilla lo fortificò; in seguito dovè essere restaurato a cura del Tribunale delle Fortificazioni. Un secolo dopo Carlo di Borbone fece emanare decise disposizioni che vietavano la costruzione di baracche e l'occupazione di suolo da parte di venditori ambulanti che, oltre ad infestare l'intera strada, per ripararsi dal sole o dalla pioggia si sistemavano  sotto il  ponte.

Sotto Ferdinando II di Borbone, il ponte fu ancora restaurato e la rampa che saliva dalla strada di Chiaja alla collina di Pizzofalcone e di lì a quella delle Mortelle fu sostituita da una scala destando lo scontento e la disapprovazione sia da parte del popolo che da parte dei frati dome­nicani. Infatti un battagliero frate, il famoso padre Rocco, innovatore ed interprete purissimo delle virtù evangeliche, aveva fatto mettere su questa rampa un crocefisso che dovè esser tolto, ma di contro bisogna ammet­tere che questa stradina era in condizioni miserevoli, sia per le immon­dizie che vi venivano depositate sia per le figure oscene che erano state di­segnate alle pareti a fianco di altre di soggetto sacro; inoltre di notte non vi  era  illuminazione  e  passarvi  costituiva  un  vero  pericolo.

Nel 1834 ci si accorse che il ponte aveva delle lesioni e furono di­sposti lavori di rinforzo e di restauro che furono affidati ad Orazio An­gelini, al quale si deve l'aggiunta del secondo arco della parte inferiore. Con l'occasione il ponte fu decorato con stemmi e bassorilievi a cura di Tito Angelini e di Gennaro Cali; i due cavalli nella parte occidentale sono invece opera di Tommaso Arnaud. L'iscrizione vicereale è sotto il ponte nella parte destra; nella parte sinistra ne fu messa un'altra del canonico Rossi ove si esaltavano i restauri effettuati per ordine di Ferdinando II. Lo stemma borbonico fu poi sostituito da quella dei Savoia dopo l'annes­sione del Regno di Napoli nel  1861.

Dopo il ponte vi è la Chiesa di Sant'Orsola a Chiaja, che ap­parteneva all'antico monastero di Santa Maria della Pace, officiato dai padri Mercedari, Ordine spagnolo fondato nel 1230, che si de­dicava al riscatto degli schiavi dietro il pagamento di una mercede.

Nel 1447 Alfonso d'Aragona aveva promesso che se fosse riuscito ad ottenere la pace avrebbe dedicato una chiesa alla Vergine della Pace;-così fu, ed il complesso fu affidato a quest'Ordine spagnolo. Nella metà del secolo XVI un nubifragio danneggiò così gravemente quell'antica chiesa che i frati decisero di costruirsi un nuovo convento appunto dove è oggi San­t'Orsola: qui già esisteva una cappella che sembra appartenesse al principe di Stigliano; essa fu dedicata a Sant'Orsola, e poiché il monastero si arric­chiva per le donazioni e gli oboli che i frati ricevevano, fu ingrandita nel 1576. Questo tempio non ha pregi architettonici o opere degne di rilievo, ma sono da ricordarsi un modesto dipinto raffigurante la Vergine della Vittoria che fu donato ai padri Mercedari  da papa Pio VI  e due corone d'argento  donate   dall'artista  spagnolo   Alfonso   del   Canto  per   l'immagine della Vergine e del Bambino.

Sul chiostro del convento, e precisamente al centro del piccolo cimitero monastico, fu costruito nel 1875 su disegno di Fausto Niccolini e di Antonio Francesconi il Teatro Sannazaro. Esso era piccolo, ma così grazioso che veniva definito una bom­boniera; vi furono tenute memorabili recite di grandi compagnie teatrali, eppure si diceva che non portasse fortuna ai suoi pro­prietari perché costruito su beni ecclesiastici. Per un certo pe­riodo il piccolo teatro ha funzionato da cinematografo, ma recen­temente, dopo essere stato rifatto ed ampliato, è stato nuova­mente adibito a teatro per le rappresentazioni di lavori dialettali napoletani e di novità non sempre interessanti.

Notiamo ancora sulla destra un importante edificio, elegante e classico nella sua severa linea architettonica: il Palazzo Cellamare, che fu costruito agli inizi del secolo XVI come residenza estiva dell'abate di Sant'Angelo di Atella, Giovan Francesco Ca­rata, intimo amico del viceré Pedro de Toledo.

Questo abate, discendente di Malizia Carafa, era nipote del conte di Ariano che ebbe il principato di Stigliano da Carlo V; da lui il palazzo passò al nipote Luigi, sposo di Clarice Orsini, che acquistò poi dai Bo­nifacio anche il Palazzo donn'Anna a Posillipo e divenne Grande di Spa­gna. Il figlio di questo, Antonio, valoroso soldato, si distinse nella batta­glia di Lepanto, ed essendo anche letterato ed umanista, fu amico del Tasso che molte volte fu qui suo ospite, e che secondo alcuni, volle idealizzarlo nel suo Tancredi, Dei vari principi di Stigliano che furono pro­prietari del palazzo va ricordato l'altro Luigi che sposò la duchessa Isa­bella di Sabbioneta, anch'egli letterato e filosofo; la consorte manteneva aderenze politiche di una certa importanza anche fuori del regno, e riuscì a far sposare suo figlio Antonio con Elena Aldobrandini, nipote di papa Clemente Vili. Questo principe fece del suo palazzo un cenacolo lette­rario frequentato dai maggiori letterati napoletani, come il poeta Basile, che nel 1612 volle dedicargli quella favola dal titolo Avventurose disav­venture, Camillo Pellegrino ed il poeta napoletano Gianbattista Marino, il maggiore poeta italiano del '600, che volle ricordarlo insieme alla sposa Isabella nelle sue rime. Con il marchese di Manzo, il principe di Stigliano fondò l'Accademia degli Oziosi, che annoverava fra le sue attività la filo­drammatica; a causa di queste recite sbocciò un amore tra il principe e la sorella del poeta Giovan Battista Basile, Adriana, che suscitò un tale scandalo da finire col determinare un intervento del cardinale arcivescovo. Il patrizio scriveva per la bella attrice dei madrigali che ella recitava o cantava dopo averli fatti musicare, ma nonostante le attenzioni del suo potente amico, la « canterina », quando ebbe un'occasione propizia, prese il volo e non tornò a Napoli se non sessantenne, accolta con tutti gli onori dal viceré dell'epoca, il duca d'Alba. Nel 1630, sempre per le abili ma­novre di donna Isabella, la nipote Anna riuscì a sposare il viceré di Napoli don Ramiro Guzman di Medina: donn'Anna di Stigliano fu una viceregina dura ed energica più di quanto lo sarebbe stata forse una straniera, ed avendo subito durante i moti dì Masaniello alcuni affronti, riuscita a trovare i colpevoli, li fece condannare a morte senza pietà.

Durante la peste del 1656 il palazzo fu trasformato in un lazzaretto con l'assistenza amorevole dei frati Mercedari dell'attiguo convento di Sant'Orsola: alla fine del secolo poi fu messo in vendita ed acquistato dal principe di Cellamare Antonio Giudice, duca del Gesso, il cui nome con­serva tuttora. Nel tempo fu apposto al grande portale ad arco lo stem­ma di questa famiglia di origine genovese con la iscrizione Antonius Judice Iuvenatii Dux. Nel 1693 l'erede di questo titolo sposò Anna Camilla Borghese vedova del duca di Mirandola e fu molto amico di re Filippo V di Spagna: distintosi nella battaglia di Suzzara, ebbe l'incarico di viceré in Sicilia ma finì malamente poiché, essendosi rifugiato a Gaeta durante l'occupazione  austriaca, fu arrestato e imprigionato prima a Castel  Sant'Elmo e poi a Castel dell'Ovo. Rimesso in libertà, riacquistò il tempo per­duto, ma, nominato ambasciatore in Francia non seppe barcamenarsi nella politica di quello stato e preferì farsi sollevare dal suo incarico e rien­trare a Napoli. Nel 1726 fece ingrandire e ricostruire il suo palazzo come oggi lo ammiriamo : i saloni furono affrescati da eminenti pittori come Giacomo Del Po, Pietro Bardellino, Giacinto Diano e Fedele Fischetti; fu­rono restaurati gli affreschi già esistenti di Luigi Romano, ingrandito il cortile interno e restaurata la cappellina dedicata alla Vergine del Carmelo, opera di Ferdinando Fuga. Nel 1733 la figliola, andando sposa al principe Francesco Caracciolo di Villa, che aggiunse al suo cognome il titolo di principe di Cellamare, portò in dote questo palazzo. Non sappiamo per qual motivo, gli sposi ritennero però opportuno darlo in fitto al principe di Francavilla don Michele Imperiali che nel 1753 arricchì la sua magione di una importante pinacoteca. Egli teneva nel palazzo una corte che poteva competere con quella reale, e, munifico mecenate, ebbe la presidenza della Società Drammatica dei Gentiluomini Napoletani e di quell'altra Accademia di Scienze e Belle Arti voluta da Ferdinando IV di Borbone. Il principe Imperiali era proprietario dì varie ville, di cui una a Portici ed una a Santa Lucia che diventò poi il Casino Reale del Chiatamone, ma non pensò mai di acquistare questo palazzo. Vi ebbe ospiti di eccezione come il Volkmann ed il Cochin dai quali abbiamo avuto descrizioni della grandiosità e della ricchezza della sua casa, delle porcellane e dei gioielli che erano esposti in alcune bacheche dei suoi sa­loni, della bellezza dei giardini e delle serre nonché dell'importanza delle razze dei cavalli della scuderia. Le cronache del tempo raccontarono che questo principe, al quale nessuno poteva essere paragonato, aveva sempre saloni aperti e tavola imbandita ed era chiamato « ornamento della nostra città in accogliere e complimentare tutti i forestieri ». Lo ricordarono lo Sharp, il d'Onofrio, Giacomo Casanova nelle sue Memorie, l'irlandese Sarah Goudar, che si intrattiene nella cronaca delle feste di carnevale nel palazzo e infine Benedetto Croce nei suoi Aneddoti e profili settecenteschi. Nel 1799 la vita mondana del palazzo finì per la morte della princi­pessa Eleonora e non riprese più perché dopo tre anni morì anche il principe e l'edificio fu preso in fitto dai sovrani di Napoli che l'usavano come foresteria; fu così che vi abitarono, ospiti della regina Maria Caro­lina, nel 1784 Angelica Kauffmann, il pittore paesaggista Filippo Hackert ed il fratello Giorgio, e Wolfango Gòete. Gli eventi del 1799 fecero scempio della bella dimora patrizia che fu occupata dai francesi del generale Rey i quali, quando se ne andarono, portarono via con sé i quadri che adorna­vano i saloni. I sovrani al loro ritorno a Napoli, continuarono a tenere in fitto il palazzo per la custodia di quadri e di molte opere d'arte che sono attualmente nei musei, ma nel 1805 lo lasciarono libero. Durante l'occu­pazione francese, poiché il duca del Gesso aveva seguito i reali in Sicilia, il palazzo gli fu confiscato e solo al ritorno di Ferdinando IV gli fu re­stituito, per essergli nuovamente espropriato poco dopo a causa dei de­biti che aveva contratti; lo riacquistò nel 1822 la moglie duchessa di San­t'Elia donna Vittoria d'Artois. Nel 1843 il palazzo Cellamare fu tagliato per l'allargamento  della strada.

La Strada di Chiaja prosegue nella sua dolce discesa verso il mare; poco più avanti vi era la Porta di Chiaja, che nel 1608 fu rimodernata per desiderio del viceré conte di Benavente Pi-mentel d'Herrera il quale desiderava che fosse chiamata in suo onore « Pimentella ».

La facciata della porta era in piperno, di ordine attico su ordine do­rico e decorata da un affresco di Mattia Preti e da due statue raffiguranti una San Michele e l'altra San Gaetano. Ad opera di Geronimo d'Àuria, nel 1620 vi furono apposti gli stemmi della famiglia reale, vicereale e della città e fu decorata con intagli in marmo. In questo stesso anno giungeva a Napoli come nuovo viceré il cardinale Zapatta, che venendo da Pozzuoli desiderava che gli Eletti del Popolo lo attendessero per ri­ceverlo fuori la Grotta; questi replicarono che lo avrebbero invece atteso fuori di questa porta, e lo misero in condizione di dover cambiare i suoi programmi per non dimostrare di non essere riuscito ad imporre il suo volere. Giunse quindi dal mare sbarcando nei pressi  dell'Arsenale.

La porta tu abbattuta nel 1782 previo parere di Nicola Schioppa e di Carlo Vanvitelli, ma sino al 1872 se ne potevano ancora vedere i piloni fra i  due  palazzi  Sant'Arpino  e Medici.

Al termine di via Chiaja all'angolo di Piazza Santa Caterina troviamo appunto sulla destra il Palazzo Medici di Ottajano, già Miranda e sulla sinistra il modesto Palazzo Sant'Arpino, che non ha né storia né pregi artistici ma deve essere ricordato per i suoi sotterranei, costituiti da oscure gallerie che giungono sino a piazza del Plebiscito.

Il Palazzo Medici fu costruito dall'architetto Gaetano Barba ed acqui­stato dalla duchessa di Miranda Gaetana Caracciolo nel 1789; passato in eredità alla figlia Marianna, questa nel 1825 vi fece costruire un gran log­giato a livello del piano superiore. Nel 1830 l'architetto Tommaso Gior­dano costruì altri appartamenti alle spalle della loggia, mentre il terzo piano fu elevato per le nozze del duca don Michele de' Medici con la du­chessa di San Cesareo Giulia Marulli avvenute nel 1842 ad opera dell'ar­chitetto Annito e di Fausto Niccolini. Questo palazzo ospitò un'importan­tissima pinacoteca, che comprendeva tele dello Spagnoletto, di Giacomo Palma il Vecchio, del Rubens e di Guido Reni; anche le porte dell'appar­tamento dove era raccolta la quadreria erano di valore, ad un solo bat­tente in legno di acero a massa con ornie dello stesso tipo di legno, e persino le imposte dei balconi erano su disegno del Niccolini.

Agli inizi del secolo XIX questa strada era prediletta dalla nobiltà, che dopo aver passeggiato per Toledo in carrozza passava di qui per giungere al mare. Verso la metà del secolo scorso essa inoltre si popolò di eleganti botteghe e vi fu proibito lo stazionamento ai venditori ambulanti.

I negozi di via Chiaja, che avevano i generi di lusso che giungevano da Parigi e da Vienna si potevano paragonare a dei salotti, sia che ven­dessero articoli di moda per uomo o per donna o fiori o busti o carto­leria. Una bottega molto famosa, ricordata da Salvatore Di Giacomo era quella di un gobbo chiamato Gasparre, spiritoso e simpatico che era riu­scito a farsi un'ottima posizione facendo  il «calzettaro».

Questa strada è legata alla nostra storia ed alla fine del regno borbo­nico per aver dato l'addio all'ultimo sovrano, Francesco II: il re lasciò la capitale dopo averla attraversata constatando con infinita amarezza come già si cancellassero dai negozi i gigli borbonici che distinguevano i fornitori della Real Casa. Tolse lo stemma prima della partenza del sovrano anche la Real Farmacia Ignone, che era sotto il Palazzo della Foresteria, nei pressi di quell'ingresso posteriore che è rimasto chiuso da quando questo palazzo divenne sede del rappresentante del governo d'Italia.

Si è detto che questa strada ha termine nel largo di Santa Caterina, dal quale si aprono verso destra la elegante via Gaetano Filangieri e verso il basso Piazza dei Martiri. Noi imboccheremo quest'ultima strada, che porta al mare, lasciando la via Filangieri per un prossimo itinerario. Il largo prende il nome dalla Chiesa di Santa Caterina, dei francescani del Terzo Ordine Regolare, costruita nel 1582 per desiderio della famiglia de' Forti e successi­vamente ingrandita a cura della principessa di Stigliano che, come abbiamo già visto, abitava nel Palazzo Cellamare.

Le caratteristiche architettoniche di questa chiesa non sono tra le mi­gliori anche perché i vari restauri che si sono succeduti non ne hanno migliorato la già semplice strutturazione architettonica: la cupola del 1600, è opera di Michele Pellegrino. All'interno vi sono alcune opere degne di menzione, fra cui ricorderemo una Santa Caterina di Antonio Sarnelli del 1770 e il Sepolcro di Maria Clotilde di Francia, moglie di Carlo Emanuele IV di Sardegna il cui interesse è più storico che artistico. Questa princi­pessa francese era sorella di Luigi XVIII e di Carlo X, che come si sa, fu l'ultimo re di Francia della dinastia borbonica, spodestato dalla rivo­luzione del 1830. Andata sposa al principe sabaudo, dedicò la sua vita alle opere di carità, che le fecero meritare, dopo la morte, la proclamazione a Venerabile della Chiesa. Il consorte, che già da tempo aveva perduto il trono, ebbe una profonda crisi spirituale ed entrò nella Compagnia di Gesù. Morì cieco nel 1819.

Dell'antico monastero non rimane più nulla, anzi nelle celle del convento prese stanza in seguito un reggimento di alabardieri che diede anche il nome alla prima strada a destra scendendo. Di fronte a questa, via Cappella Vecchia ci ricorda che vi era qui una antichissima Abbazia chiamata di Santa Maria a Cap­pella Vecchia ed una meno antica chiamata, per distinguerla dall'altra, di Santa Maria a Cappella Nuova.

Vi era in questo luogo una miracolosa immagine della Vergine per la quale nel 1635 l'arcivescovo di Napoli volle far costruire una Cappella ad opera di Pietro di Marino; questa fu ingrandita nel 1651 per desiderio del conte d'Ognatte e l'altare maggiore fu fatto dai discepoli del Fanzago. Accanto a questa chiesa sorsero alcune osterie di campagna, una delle quali, come raccontano i cronisti del tempo, fu chiusa per desiderio dei francescani di Santa Caterina perché dava scandalo ai fedeli. Nel 1729 questa abbazia di Santa Maria a Cappella Nuova era in grande abbandono e il duca di Monastarace Domenico Perrelli che abitava nelle vicinanze propose di restaurarla a patto che gliene rimanesse il patronato. Dopo la soppressione dei conventi avvenuta nel 1788 l'abbazia fu adibita a scuola; la chiesa fu demolita nel 1812 e su una parte degli orti circostanti il mar­chese Nunziante costruì il suo palazzo, mentre il titolo abbaziale di Santa Maria a Cappella passava nel 1821 alla Chiesa delle Crocette al Chiata-mone. Da una porta laterale di Santa Maria a Cappella Nuova si poteva accedere alla chiesa più antica di Santa Maria a Cappella Vecchia, che era stata costruita sul luogo dove in epoca remotissima vi era un tempio dedicato a Serapide, divinità adorata dagli egizi e da alcuno greci; su questo tempio sarebbe stata poi eretta un'edicola dedicata alla Vergine con un annesso monastero di monaci basiliani.

Imboccando via Cappella Vecchia attualmente si arriva ad una piazzetta che è, come tutta la zona, legata al ricordo di monsignor  Perrelli,  un  personaggio  storico  napoletano.

Esaminiamo ora la triangolare Piazza dei Martiri, che ha al centro il bel monumento ed è cinta da tre grandi e storici palazzi: Palazzo Partanna, il primo sulla destra scendendo, Palazzo Calabritto, quello verso il mare, di fronte a chi entra nella piazza, ed il giallognolo Palazzo Nunziante, verso via Do­menico Morelli così chiamata per ricordare che vi abitò il grande pittore. Questa piazza è stata denominata per il passato Largo di Santa Maria a Cappella e poi Largo della Pace perché dopo i moti del 1848 Ferdinando II vi fece mettere al centro un monumento dedicato a Santa Maria della Pace, che doveva "cele­brare l'avvenuta riconciliazione fra monarchia e popolo. Si co­minciò ad innalzarlo sotto la direzione di Luigi Catalano nel Largo della Carità, ma quando giunse sul posto l'alto fusto di granito grigio, si pensò che il luogo non fosse adatto e lo si spostò quindi in questo largo; quando poi nel 1861 avvenne l'an­nessione al Regno d'Italia del Regno di Napoli, il sindaco Giuseppe Colonna di  Stigliano diede incarico all'Alvino  di usare questa colonna con l'aggiunta di altri elementi scultorei per formare un Monumento che ricordasse i napoletani morti per la libertà.

La statua della Vergine fu portata nella chiesa di San Giovanni Mag­giore e il monumento fu trasformato per simboleggiare con la Colonna dei Martiri la Vittoria; la statua che fu messa in cima al capitello rappre­senta la Virtù dei Martiri ed è opera di Emanuele Caggiano. Dei quattro leoni, quello morente, opera di Antonio Busciolano, raffigura i martiri del 1799, quello trafitto dalla spada, opera di Stanislao Lista, i martiri del 1820; il seguente, eseguito da Pasquale Ricca, rappresenta i martiri del 1848 e l'ultimo, dall'aspetto feroce, opera di Tommaso Solari, quelli del 1860;  l'epigrafe fu dettata dal Fornari.

Il Palazzo Partanna, che, come abbiamo detto si trova sulla destra di chi scende dalla via Chiaja è il più antico dei tre, essendo stato co­struito, in dimensioni più modeste, agli inizi del '700 da un certo Donato Cocozza che lo vendette poi al duca di Portanna Baldassarre Coscia, del quale tuttora conserva il predicato; nel 1746 poi, come può leggersi nel plinto di una delle colonne ioniche del portone, fu rifatto da Mario Giof-fredo. In seguito il palazzo fu acquistato da Ferdinando IV per farne dono alla sua seconda moglie, la duchessa di Floridìa Lucia Migliaccio, vedova del principe di Partanna, che vi abitò dopo la morte del sovrano. Tra­sformandolo in linea neo-classica, Antonio Niccolini ne lasciò indenne il portale.

Dal 1850 il primo piano di questo palazzo fu residenza della fami­glia inglese De La Feld, che essendo appassionata di teatro vi costruì un palcoscenico in uno dei saloni ove nel 1857, alla presenza di illustri per­sonaggi, fra cui Io storico Melchiorre Delfico ed il re di Baviera, venne dato il Don Pasquale di Gaetano Donizetti.

Di fronte è l'importante Palazzo Calabritto, appartenuto alla famiglia Tuttavilla duchi di Calabritto, che fa angolo fra la piazza dei Martiri e la discesa che porta al mare, chiamata appunto via Calabritto. Ha doppia facciata e due ingressi, di cui quello principale, sulla via che porta alla Vittoria, costruito nel secolo XVII. La nuova dimora dei Calabritto piac­que tanto a Carlo di Borbone che volle incaricare il conte di Santo Ste­fano di adoperarsi affinché divenisse di sua proprietà, pagandolo 34.700 ducati. La famiglia però dopo un certo tempo riuscì a riaverlo per lo stesso prezzo e diede incarico a Luigi Vanvitelli di rifare completamente la facciata, il portale e lo scalone. Mentre si stavano effettuando questi lavori, essendo morto il proprietario don Francesco la proprietà venne divisa tra gli eredi, che furono il principe Caracciolo di Castagneto ed il marchese Antonio Piscitelli; questi, non sapendo cosa farsene di un pa­lazzo così grande, ne affittarono una parte ai pastori anglicani che vi allestirono una cappella per i loro fedeli, dalla quale si trasferirono poi in quella chiesa protestante che ancora esisteva dopo la guerra in via Cappella Vecchia. Abitarono in questo palazzo personaggi degni di men­zione come il generale Florestano Pepe e, dopo l'esilio, il fratello Gu­glielmo; vi si insediò anche l'elegantissima casa di mode di una certa Madame Pass, ed ebbe qui la sua sede, dopo essere stato nel palazzo Sant'Arpino in via Chiaja il Circolo Nazionale, sul quale ci soffermeremo brevemente  quando giungeremo in Piazza Vittoria.

Il Palazzo che chiude la piazza facendo angolo con via Domenico Mo­relli, conserva il nome del suo primo proprietario, il marchese Nunziante. Molto vasto, affaccia sul retro nella piazzetta di Santa Maria a Cappella, un tempo cortile dell'abbazia, ed ha una imponente facciata su via Mo­relli con un basamento bugnato alto due piani ed un corpo mediano a tre ordini. Questo prospetto, con due portoni di ingresso, ha una linea archi­tettonica molto tipica nell'800 napoletano. La costruzione fu effettuata su disegno di Enrico Alvino ed infatti questo edificio si distacca nettamente dalle opere del Vanvitelli e del Niccolini. Il palazzo ha annessa una cap­pella nella quale si possono ammirare una Assunta di Domenico Morelli ed una statua raffigurante la Vergine di Antonio Busciolano, oltre ad al­cune pitture alla maniera bizantina eseguite dal siciliano Paolo Vetri.

Sia proseguendo per questa strada e poi per via Mondella Gaetani,  sia  scendendo per via Calabritto  si  raggiunge  piazza Vittoria, sulla quale fa angolo il terzo lato del Palazzo Calabritto, quello da cui si affacciavano alla piazza le sale dell'appartamento occupato dal Circolo Nazionale.

Questo sodalizio ebbe un'intensa vita mondana ed i suoi balconi erano sempre gremiti di gentiluomini elegantissimi appartenenti alla migliore no­biltà napoletana; sovraintendeva alla cucina il famosissimo « monsù Cun-fettiello », conosciuto per la sua bravura anche all'estero. Purtroppo i bombardamenti del 4 agosto del 1943 distrussero questo appartamento ed il circolo Nazionale si è poi fuso col circolo dell'Unione, del quale ab­biamo già parlato a proposito del teatro San Carlo.

Piazza della Vittoria, bellissima e spaziosa, è aperta su due lati, verso il mare e verso la villa Comunale. Essa deve il suo nome all'omonima Chiesa, dedicata a Santa Maria della Vittoria in ricordo della famosa battaglia navale vinta a Lepanto contro i turchi il 7 ottobre del 1571.

Fra gli stati riuniti da Pio V nella Lega Santa vi erano la Spagna e il vicereame di Napoli, che partecipò con diverse migliaia di fanti su un convoglio di duecentocinquanta navi comandato da don Giovanni d'Au­stria; proprio a lui il pontefice consegnò a Roma il vessillo da innalzare sulla nave ammiraglia, cimelio che ancora oggi può essere ammirato nel­l'antichissima cattedrale di Gaeta, ultimo baluardo del Regno delle Due Sicilie. In seguito a questa vittoria il pontefice volle destinare il 7 otto­bre alla festa della Vergine delle Vittorie, ed a Napoli si volle subito co­struire questa chiesa per eternare l'avvenimento. Infatti essa fu edificata già nel 1572, su un terreno offerto dal marchese di Polignano alle falde della collina di Pizzofalcone; fu poi rimaneggiata e restaurata nel 1628 per desiderio della figlia di don Giovanni d'Austria, Giovanna, vedova del prin­cipe di Butera che, avendo come confessore un teatino, volle affidarne l'officiatura a quest'Ordine che provvide ad annettervi un convalescenziario. L'architetto fu il teatino Grimaldi che però non eccelse in questa costru­zione: la facciata infatti è estremamente insignificante, come del resto l'interno, ad eccezione di quattro colonne di marmo scuro e di un dipinto settecentesco sull'arco del presbiterio raffigurante La Vergine che appare a don Giovanni d'Austria. Vi è poi il Sepolcro del principe Camillo Mas­simo, generale comandante delle poste pontificie, morto nel 1801, che par­tecipò al trattato di Tolentino del 1797 tra Napoleone e Pio VI: il figlio Ca­millo nel 1830 volle far mettere una lapide sul suo sepolcro che ricor­dasse questo  storico evento.

Mentre ammiriamo sulle aiuole al centro della piazza le statue raffiguranti Giovanni Nìcotera e Nicola Amore, entrambe opere di Francesco Jerace, notiamo che segue il Palazzo Majo, apparte­nuto al nobile Bartolomeo, che alla fine del secolo XVII lo fece restaurare da Ferdinando Sanfelice, il quale appose la sua firma all'opera con una bella scalea elicoidale. Sino agli inizi di questo secolo questo palazzo vantava due eleganti negozi, quello del grande sarto Domenico Russo e quello del fotografo d'arte Lauro. Segue ancora il Palazzo Statella, che passò poi a Roberto de Sanna, passato nella storia napoletana per le continue pole­miche contro l'amministrazione cittadina per perorare l'ingran­dimento del porto. Appassionato di musica, costui fu anche per un breve periodo impresario del teatro San Cario e volle far conoscere sempre più le belle canzoni napoletane nel vecchio Circolo della Varietà; rimase alla storia delle mondanità napole­tane un ballo da lui offerto nel lontano 1913 in onore della figlia Maria, organizzato dal nobile Marcello Orilia.

Prima di lasciare questa piazza desideriamo ricordare che vi era qui un tempo un albergo chiamato della Vittoria che fu conosciuto da Alessandro Dumas e da lui ricordato nel suo « Corricolo » perché vi alloggiò per un certo periodo un bey africano con il suo harem.

Piazza del Plebiscito - Via Cesario Console - Via Santa Lucia -Via Nazario Sauro - Via Chiatamone - Via Partenope - Piazza della Vittoria

Questo itinerario, partendo dalla piazza del Plebiscito ci porterà ugualmente alla piazza Vittoria lungo l'altra direttiva che circoscrive la base del monte Echia. Scenderemo per la mo­derna via Cesario Console, intitolata a quel figlio del duca Sergio I di Napoli che al comando della flotta napoletana, accorso in aiuto di Leone IV contro i saraceni che minacciavano Roma, riuscì a sbaragliare l'avversario ad Ostia. Rasenteremo quindi il fianco di Palazzo Salerno, che ha qui un secondo in­gresso dal quale si accede alla Biblioteca Militare, e imboccheremo questa ampia e luminosa discesa che ci offre la vista del Vesuvio e della costiera sorrentina; anticamente era chiamata Rua dei Provenzali, poiché portava a quel porto dei Provenzali dove attraccavano le loro navi i cittadini di questa nazionalità; in epoca vicereale fu denominata invece via Guzmana dal nome del viceré che l'ampliò nel 1599. Sotto il vicereame del cardinale Borgia la strada fu allargata ancora e nel 1620 furono abbattute modeste case popolari; il viceré conte di Lemos vi fece costruire la « Panatica », un edificio ove si « panificava per la truppa marittima » press'a poco dove è oggi la sede dell'Ammiragliato, immediatamente adiacente all'ala laterale di Palazzo Salerno.

Quando vi fu in cima alla salita la statua del Gigante, della quale abbiamo parlato nel primo itinerario a proposito di Piazza Plebiscito, la strada fu chiamata anche Salita del Gigante.

All'angolo con la sede dell'Ammiragliato possiamo imboc­care via Santa Lucia o continuare verso il mare, ma riteniamo preferibile percorrere prima via Santa Lucia anche perché l'altra strada fino al secolo scorso non esisteva ed il mare lambiva le pendici del monte Echia lungo l'attuale Santa Lucia. Subito a sinistra troviamo qui la moderna Chiesa di Santa Lucia, co­struita sul luogo dove si vuole fosse stata eretta una piccola cappella da una nipote dell'imperatore Costantino.

Questa antichissima chiesa, che diede nome a tutta la contrada, aveva una cripta, un piano a livello di strada che era la parte più antica, ed un altro rialzato: essa era officiata da monaci che avevano il loro con­vento sull'isolotto di San Salvatore, ma dopo essere passata alle monache di San Pietro a Castello nel 1588 la badessa Eusebia costruì sulla chiesa originaria la seconda. Poiché nel secolo scorso il livello stradale fu ele­vato, quello che attualmente vediamo è il piano superiore rifatto nel 1845 e restaurato dopo l'ultima guerra.

Nella chiesa non vi è alcunché di notevole se non, sopra la cantoria, un dipinto cinquecentesco raffigurante il Rosario e sull'altare maggiore una statua settecentesca in legno di Santa Lucia.

In questa strada vi era la Fontana di Santa Lucia, che fu poi spostata nella Villa Comunale, per l'apertura dell'attuale via Partenope, con gran dolore dei pescatori di questa contrada che avevano contribuito alla spesa per la sua costruzione.

Coloro che vivono da generazioni in questa zona della città, quasi un gruppo etnico a sé stante nel bel mezzo della città, chiamati « luciani » dal nome del loro quartiere, sono da generazioni e per tradizione per la massima parte pescatori, gente che vive con il mare. Il loro quartiere generale è quell'accozzaglia di case cadenti che porta il nome di Pallonetto di Santa Lucia, una strada triste e maleodorante dove la rumorosa atti­vità comune a tutti i quartieri popolari napoletani non riesce a nascon­dere l'infinita miseria di tuguri malsani e di abituri desolati. In un de­dalo di angoletti e di supportici che sembra fatto apposta per i traffici del « mercato nero » trova fertile terreno la scuola del vizio e della crimina­lità, discendenti quasi legittimi della miseria e dell'abbandono. Eppure in questi slums, indegni di un paese civile, nello squallore della povertà e dell'ignoranza, germogliano fiori di sentimento e di poesia che hanno com­mosso l'animo dei nostri più grandi poeti. Vicinissimi al Palazzo Reale, i luciani sono sempre stati per tradizione monarchici accaniti ed hanno dimostrato in ogni modo la fedeltà ai loro sovrani, sia di casa Borbone sia di casa Savoia, che consideravano quasi come persone di famiglia, cosa propria da proteggere e far rispettare.

Dal Pallonetto di Santa Lucia parte nel mese di agosto il corteo per la « Nzegna », una festa in onore della Madonna della Catena che è la pro­tettrice dei luciani.

Ritornati a Santa Lucia, troviamo a destra la Chiesa di Santa Maria della Catena che fu eretta dalla pietà dei pescatori nel 1576.

Si racconta che alla fine del secolo XIV tre innocenti erano stati con­dannati ad essere impiccati nel luogo dove oggi è la chiesa: a causa di un violento uragano si rimandò l'esecuzione ed i condannati passarono la notte incatenati l'uno all'altro. Mentre i poveri derelitti, zuppi fino al­l'osso, imploravano la pietà della Vergine, le catene si spezzarono ed essi poterono fuggire. A cura dei loro familiari fu quindi costruita qui una cappella che fu poi ingrandita, come si è detto, nel 1576.

Vi è in questa chiesa il Sepolcro dell'Ammiraglio Caracciolo, martire della Repubblica Partenopea del 1799, che fu impiccato sull'albero della sua nave perché colpevole di tradimento al suo re.

Ritornando ora a via Cesario Console, la seguiremo fino a raggiungere il mare e la strada che lo costeggia verso destra, via Nazario Sauro. In questa zona modernissima, non vi è nulla di notevole se non, in un largo a semicerchio, il Monumento ad Umberto I di Achille d'Orsi del 1910. Tra questo lungomare e la via Santa Lucia vi sono via Falero, via Petronio, via Cuma, via Raffaele De Cesare, via Marino Turchi, via Palepoli e via Lu­cilio, tagliate da via Generale Orsini. Proseguendo, incontriamo a sinistra, alla svolta, la Fontana dell'lmmacolatella, di fronte alla quale vi è un grande albergo cittadino.

La fontana, costituita da tre grandi archi adorni di sirene e cariatidi, fu scolpita da Pietro Bernini e dal Naccherino; essa fu chiamata del­l'lmmacolatella quando dalla salita del Gigante, dove si trovava, fu tra­sferita presso la Stazione Marittima dell'lmmacolatella. In seguito anche di lì fu spostata e fu messa in questo angolo del lungomare, dove indubbiamente, è più in vista ed è opportunamente decorativa.

Da questo punto il lungomare perde il nome di via Nazario Sauro per prendere quello di via Partenope. Nello specchio di mare prospiciente, circoscritto dalla strada e dal ponte che uni­sce alla terraferma l'isolotto del Salvatore, sul quale è Castel dell'Ovo, vi è il piccolo porticciolo turistico di Santa Lucia, nel quale sono ancorati panfìli ed imbarcazioni, per la maggior parte appartenenti ai due circoli nautici, l'Italia e il Savoia, che hanno le loro sedi immediatamente al disotto della strada.

Il primo e più antico tra i sodalizi nautici napoletani è l'Italia, che fu fondato nel 1889; la sua prima sede fu alla Panatica, e sin dal 1896 incominciò ad ottenere vittorie nei campionati velici italiani anche se solo nel 1913 furono create la sezione velica e quella remiera. Nel 1946, quando fu istituita la regata d'alto mare chiamata « dei Tre Golfi », questo soda­lizio si fuse col circolo La Vela.

Il Savoia fu fondato nel 1893 col nome di Sebezia, che fu cambiato poi in omaggio alla Casa regnante. In questo circolo oltre allo sport nau­tico sono stati praticati la scherma e il pattinaggio, ma attualmente il sodalizio ha perduto ogni caratteristica sportiva e si potrebbe dire va­lido soltanto agli effetti di gare... di Canasta o di Bridge, mentre per il passato le sue glorie sportive sono state numerose. Basterebbe ricordare che conseguì la vittoria nel primo campionato europeo della classe « Star » del 1935 e vinse il campionato del mare di canottaggio nel 1948.

Per raggiungere la nostra mèta, cioè piazza Vittoria, potremo seguire il lungomare o la sua parallela nell'interno, vìa Chiatamone.

Trovandoci già sul litorale preferiamo continuare lungo di esso; qui sulla destra ammireremo i lussuosi alberghi che si susseguono, e sulla sinistra il breve ponte che congiunge alla terraferma l'isolotto roccioso sul quale, sotto il severo Castel dell'Ovo, si adagia il piccolo borgo marinaro, composto per la maggior parte di basse casette che ospitano ristoranti o capan­noni per la riparazione ed il rimessaggio invernale delle imbarcazioni. Via Partenope, che porta il nome della leggendaria si­rena fondatrice della nostra città, è una delle strade più belle di Napoli, da cui lo sguardo può abbracciare l'intero arco del golfo: essa è una strada relativamente recente, poiché antica­mente dal porticciuolo di Santa Lucia iniziava un lungo banco di tufo parzialmente emergente dal mare chiamato Chiatamone, come la strada che lo ha sostituito.

Castel dell'Ovo, l'antico e bieco maniero che abbiamo di fronte, ha una lunga storia che risale ai tempi del ducato napoletano, e, prima an­cora, al castrum Lucullanum, ed il suo nome è legato ad una leggenda secondo la quale Virgilio, il grande poeta latino, vi avrebbe nascosto un uovo... incantato chiuso in un gabbia in un luogo molto remoto e non facile a trovarsi. Si sa che a Virgilio nel medioevo veniva attribuita la conoscenza di ogni cosa al punto che man mano si cominciò a credere che avesse poteri magici: gli venivano attribuiti doti divinatorie e si raccon­tava che Augusto una volta l'aveva inviato a Roma... perché curasse i suoi cavalli. L'uovo incantato nascosto nelle strutture del maniero avrebbe avuto quindi una funzione di talismano: finché esso non si fosse rotto città e castello sarebbero stati protetti da ogni tipo di calamità, ma se qualcosa fosse accaduto all'uovo,  guai a Napoli ed ai napoletani!

Quando il Petrarca venne a Napoli ospite del re Roberto d'Angiò, ap­prese anch'egli, con grande meraviglia, la storiella di quest'uovo incantato del castello; tuttavìa per quanto assurda, la storiella ha... tenuto per se­coli, ed il castello non ha mai avuto altro nome.

II nucleo originario della costruzione sull'isolotto faceva parte della splendida villa del patrizio romano Lucio Licinio Lucullo, quel Castrum Lucullanum che si estendeva da Pizzofalcone sino al mare abbracciando il territorio dell'antica Palepoli e forse anche il litorale fino a Pozzuoli. Si diceva che il patrizio romano avesse fatto forare il monte Echia e che per rendere più sicuro il suo castrum avesse fatto eseguire un taglio nella zona tufacea a cavallo delle due colline oggi unite dal ponte di Chiaja.

Lucullo, valoroso combattente ed uomo di cultura, era stimato anche da Cicerone; nominato console, vinse la guerra contro Mitridate e rimase poi in Asia per la riscossione dei tributi dai popoli vinti. Queste opera­zioni gli fruttarono immense ricchezze che egli portò con sé insieme ad oggetti d'arte d'inestimabile valore e in questa sua sontuosissima villa napoletana il console portò quanto aveva di meglio, compresa una rac­colta di papiri ricordata da Cicerone per la sua importanza ed il suo in­teresse. Tuttavia, Lucullo non è passato alla storia per tutte queste sue qualità positive di bibliofilo, uomo di cultura, diplomatico e guerriero in­signe, ma esclusivamente per i pantagruelici pranzi che dava in questa villa, tanto è vero che ancora oggi per indicare la raffinatezza di un con­vito si usa dire che è stato un pranzo « luculliano ». Proprio su que­st'isolotto, chiamato allora di Megaride, egli dava queste cene, ognuna delle quali costava un patrimonio. Purtroppo della sua dimora oggi non rimane che qualche tronco di colonna che nel Medio Evo fu usato per sostegno di volta nelle sale del castello.

Alla morte di Lucullo, furono nominati curatori dei suoi beni Cice­rone e Catone, ma nei secoli seguenti la ricca dimora fu messa a sacco da vandali e ostrogoti e poi nel V secolo fra i suoi ruderi trovarono ri­fugio alcuni eremiti. Nel 476 Odoacre tenne prigioniero in quel che rima­neva del Castrum Lucullanum l'ultimo imperatore romano d'occidente, Ro­molo Augustolo, che dopo la morte del padre Oreste aveva preferito con­segnarsi nelle mani del vincitore, il quale, peraltro, si limitò ad esiliarlo dandogli anche una rendita. Il primo convento sorto su questo isolotto, fondato dall'abate Marciano, venuto dalla Pannonia, fu dedicato a San Se­verino le cui spoglie furono qui tumulate. Per secoli la piccola, remota isoletta, fu sede di una fervida vita cenobitica, in quanto vi sorsero altri monasteri che alla fine del '600 si fusero tutti nell'accettazione della re­gola di San Benedetto; quindi in questi conventi cominciò un paziente lavoro di ricerca e di copia di antichi codici e pergamene greche e latine. Sempre in questo secolo sbarcò sull'isolotto una nipote dell'imperatore d'Oriente, la vergine Patrizia, fuggita dalla sua terra per sottrarsi ai desideri insani del potente zio. Secondo la leggenda, avendo appreso che il congiunto era morto, la giovane avrebbe intrapreso il viaggio di ritorno, ma una furiosa tempesta avrebbe respinto il suo legno di nuovo su que­sto lido ed ella avrebbe quindi deciso di fondarvi un romitorio per vergini che dal suo nome si chiamò poi di Santa Patrizia. In questo periodo l'isolotto, sede di tanti conventi, iniziò ad esser chiamato « del Salvatore ».

Nel secolo IX i monaci furono costretti a lasciare l'isolotto perché at­taccati dalle truppe del duca Sergio, che saccheggiarono anche i mona­steri; sotto altri duchi invece ebbero vari privilegi. Dopo la venuta dei Normanni l'antico cenobio che durante i secoli, per ragioni di necessità, era diventato un fortilizio, si ricostituì, e Ruggiero il Normanno vi riunì per la prima volta il suo parlamento. I monaci si ritirarono sulla terra­ferma ed il loro convento, fortificato dalle dinastie che si susseguirono, fu reggia e prigione di stato. Gli angioini vi relegarono i figli di re Manfredi di Svevia, Margherita figlia di Federico II e per un certo tempo an­che Filippa di Antiochia. Qui nacque nel 1271 il primogenito del principe di Salerno, Carlo Martello, che vi trascorse la sua infanzia con Clemenza, figlia dell'imperatore Rodolfo d'Asburgo. Sotto il regno di re Roberto, l'isolotto fu maggiormente fortificato con la costruzione di torri quadrate con ampie bifore ad archi tondi che si ritiene fossero opera del fiorentino Fuccio, mentre la ricostruzione della parte verso il mare fu affidata dallo stesso re all'architetto Atanasio Primario. Anche durante il regno di re Roberto alcuni locali furono adibiti a prigione ed ospitarono la principessa d'Acaja, alla quale fu imposto un matrimonio con un figliolo del re che ella però non volle mai consumare.

Nel 1370 poiché il castello rimase gravemente danneggiato da una tempesta marina si sparse la voce che si fosse rotto il famoso uovo in­cantato; fu tale il panico nella popolazione che, oltre a ricostruire il castello,   bisognò  rassicurarla   che  l'uovo   era   stato   sostituito.

I lavori di restauro fatti a quell'epoca mutarono in parte la primi­tiva linea architettonica del forte, che divenne per la leggenda popolare il teatro delle orge delle due regine di nome Giovanna, che avrebbero fatto buttare a mare o cadere in oscuri trabocchetti i loro amanti occasionali.

Durante la lotta tra aragonesi e angioini il maniero fu conteso, preda ora dell'uno ora dell'altro partito, e dopo la sua vittoria re Alfonso volle parzialmente rifarlo, inaugurandolo il 6 maggio del 1456 con un banchetto a cui furono invitati gli ambasciatori ed il patriziato. Questo re lo pre­dilesse; anzi sentendosi prossimo alla fine volle farvisi trasportare, peg­giorando probabilmente il suo stato con questo inopportuno spostamento. Dopo aver chiamato al suo capezzale l'erede, Ferrante, per esortarlo a cercare soprattutto la pace per il suo popolo, re Alfonso morì, e le sue spoglie furono sepolte temporaneamente nel castello finché fosse possi­bile esaudire la sua volontà, che il suo corpo fosse trasportato in Cata­logna. Durante la Congiura dei Baroni, Castel dell'Ovo fu completamente saccheggiato e Ferrante per riprenderlo dovè danneggiarlo con le sue bombarde; tutto ciò comportò naturalmente lavori di rifacimento e di trasformazione che fecero perdere alla costruzione quanto rimaneva della sua originaria linea medioevale. All'epoca della discesa di Carlo Vili, il forte ospitò Alfonso II d'Aragona, che qui prese le decisione di abdicare in favore del figlio Ferrantino e di qui partì alla volta della Sicilia con cinque galee, sulle quali cercò di mettere in salvo la biblioteca di re Alfonso I. Dopo la venuta di Carlo VIII il castello subì un feroce bom­bardamento; e fu ulteriormente danneggiato dai francesi di Luigi XII e dagli spagnoli di Consalvo de Cordova comandati da Pietro Navarro, che lo minarono per poterlo espugnare.

Nel periodo del vicereame spagnolo, il castello non fu più usato come fortezza ma ... per la macina del grano, e infatti furono impiantati sul­l'isolotto dei mulini a vento. Il viceré duca d'Alba però decise di forti­ficarlo di nuovo nel 1665, e, poiché riassunse anche le sue funzioni di pri­gione, vi fu incarcerato il filosofo Tommaso Campanella prima di essere condannato a morte. Durante i moti di Masaniello il castello ebbe il com­pito di bombardare una parte della città, e quando giunse Giovanni d'Au­stria con ben ventotto vascelli, nessuno comprese che si trattava di navi francesi e le artiglierie, credendo che fossero spagnole, spararono a salve per salutarle.

Castel dell'Ovo come gli altri forti della città fu presente nei moti della Repubblica Partenopea del 1799: gli fu dato il compito di sparare per intimorire la popolazione e fu ancora una volta fortificato dal conte Fran­cesco Anguissola, ma quando giunsero le truppe del cardinale Ruffo subì dei violenti attacchi fino ad essere costretto a capitolare, mentre i suoi difensori che non riuscirono a porsi in salvo furono fatti prigionieri.

Sotto il decurionato francese sull'isolotto furono costruite casematte e piazzole per artiglieria e quando nel golfo di Napoli nel 1809 avvenne la battaglia navale tra la Marina napoletana e quella anglo-borbonica, il castello si dimostrò all'altezza della situazione. Dopo il loro ritorno defi­nitivo i Borbone fortificarono ancor più la piccola isola con batterie e due ponti levatoi impiantandovi anche una polveriera e un deposito di muni­zioni; in seguito, col tempo, il forte fu adibito soltanto a prigione e vide tra i suoi ospiti Francesco De Sanctis, Carlo Poerio, Luigi Settembrini e tanti altri.

Recentemente sono stati fatti alcuni progetti per valorizzare questo antico castello, e ci auguriamo che vengano portati ... in porto.

All'inizio del nostro secolo su questo isolotto sorsero alcuni « Café-Chantants » ove si davano piacevoli spettacoli di varietà che a volte dura­vano la notte intera. Il variété giunse a Napoli ai tempi della destra sto­rica di Pasquale Stanislao Mancini e della sinistra storica del De Pretis e del Nicotera, ed ai suoi spettacoli non mancavano di venire, oltre ai soliti « viveurs », personaggi come Edoardo Scarfoglio, Salvatore Di Gia­como, Ferdinando Russo e Roberto Bracco ed una volta anche il ministro Francesco Crispi  e,  separatamente,  il  principe  ereditario  di Casa  Savoia.

I locali sotto il castello erano due, l'Eldorado e il Santa Lucia. Il primo, un vero salotto, aveva i camerini delle canzonettiste e delle balle­rine prospicienti il mare; vi era annesso uno stabilimento balneare ed era diretto da un tale chiamato Gabriele Valanzano che aveva in gestione an­che le fonti termali di Santa Lucia.

Disponiamoci ora a visitare il castello, dopo aver percorso il ponte, che termina davanti a un portale sormontato da tre cannoniere ed affiancato da un rivellino.

A sinistra la strada procede fra il castello e il mare, sul quale si spinge il pontile delle imbarcazioni e si affacciano alcuni ristoranti; quindi, girando a destra, una stradina in salita ci conduce all'ingresso e oltrepassando un vestibolo si entra nella cinta fortificata e si vedono subito sulla destra, i ruderi della Chiesa del Salvatore.

Dalla sinistra si può accedere alla Torre Maestra, e poi ad una sala adibita a prigione dalla quale, salendo per una scaletta, si possono visitare le celle dei monaci che risultano scavate nella roccia. Scendendo ancora a sinistra per una rampa coperta si attraversa un cortile e di qui si entra in una gran sala che doveva essere il refettorio dei monaci, dove si possono ammirare cinque filari di colonne appartenute alla villa di Lucullo. A destra vi è una loggia medioevale che fu adibita nel secolo scorso a chiesa; vi sono poi l'altra torre chiamata Normandia ed il tor­rione circolare. Ritornando all'ingresso del castello si possono raggiun­gere i bastioni cinquecenteschi, quindi una casa dalla quale si accede ad una caverna che si articola in vari corridoi, probabilmente sfruttata per le fortificazioni nel medio Evo: essa si trova pressappoco al centro dell'iso­lotto.

Proseguendo per via Partenope, la strada degli alberglù eleganti, giungeremmo a Piazza Vittoria.

Torniamo invece indietro a riprendere la via Santa Lucia dove continua col nome di Strada del Chiatamone.

L'etimologia di questo nome, indubbiamente greca, indica un litorale roccioso con caverne, come appunto doveva essere anticamente l'aspetto di questo tratto di scogliera fino alla spiaggia di Chiaja. Molti si sono af­faticati a dare altre interpretazioni a questo nome, ma riteniamo non vi siano più dubbi sul suo significato. Infatti qui la scogliera di tufo era un tempo ricca di cavità naturali, alcune delle quali tuttora esistenti, sca­vate dalla corrosione delle onde marine, che venivano chiamate appunto grotte « pìatamoniae ». Col passare dei secoli alcuni di questi anfratti na­turali dovettero essere modificati dalla mano dell'uomo, che le prescelse a proprio rifugio; infatti in alcune di queste caverne sono stati trovati in­dizi in base ai quali si è potuto dedurre che erano abitate in epoca ante­riore alla romana. In seguito alcune di queste grotte furono usate come santuari per il culto di Mitra e Serapide e qualche studioso vi ha voluto ritrovare il campo d'azione delle avventure degli eroi del « Satyricon » di Petronio Arbitro. Ancora in epoca vicereale approfittavano dei recessi di questi oscuri antri per i loro incontri clandestini donne di malaffare e malviventi, tanto che il viceré don Pedro de Toledo ritenne necessario farne murare l'ingresso. Nel tempo queste cavità sotterranee furono usate come cave di pietra.

Le fonti di acqua termale, che ancora esistono e possono essere visi­tate, si trovano sulla sinistra all'imbocco di via Chiatamone. Nel '600 erano considerate medicinali, ma riteniamo che la loro acqua solfurea e ferrata, che tuttora viene venduta nei chioschi degli acquafrescai e che viene ser­vita anche in piccoli recipienti di creta chiamati « mummarelle », di me­dicinale abbia ben poco; alla fine del '700 l'affluenza del pubblico ad at­tingere quest'acqua era tale che Ferdinando IV dispose che la distribu­zione fosse quotidiana e gratuita. Nel secolo scorso ed ancora all'inizio di questo le acque erano sfruttate da appositi stabilimenti termali che erano nei pressi dell'Eldorado.

La strada del Chiatamone fu costruita in epoca aragonese e, distrutta dal mare, fu rifatta dal viceré Toledo nel 1563; fu basolata e rifatta nel 1725 dal viceré cardinale d'Althan e vi fu messa anche una Fontana che fu  chiamata  delle  Crocette.

Questa, una vasca di piperno sorretta da pilastri scorniciati su cui erano scolpiti dei leoni, lo stemma di Spagna e quello della città, fu fatta poi ingrandire da Ferdinando II a cura degli architetti Luigi Giura e Vincenzo Lenci. Sempre in questa strada fu costruita la Chiesa dei Croci­feri, l'Ordine religioso istituito per l'assistenza agli ammalati, che ebbe a capo San Camillo De Lellis. La costruzione, che sorse su un appezza­mento  di   terreno che era stato donato da donna Giulia delle Castelle,

iniziata nel 1607, fu terminata nel 1627 con l'annessione di un monastero: la chiesa fu affrescata da Paolo De Matteis che volle esservi sepolto. Benché dedicata all'Immacolata Concezione è oggi chiamata volgarmente « delle Crocelle ».

Immediatamente adiacente vi è il Palazzo Fusco, appartenuto a questa famiglia, il cui fondatore, Niccolò, nel 1715 volle far riparare a sue spese il parapetto sul mare di fronte alla sua casa. Il palazzo passò poi al duca di Campochiaro che lo abbellì con un magnifico giardino.

Tutta la zona fu chiamata delle « crocelle » a causa della croce che avevano, ed hanno tuttora sulla tonaca, i frati Crociferi che officiavano la chiesa, ed era chiamata appunto « delle Crocelle » anche una locanda che era qui vicina, divenuta storica e famosa per aver ospitato Giacomo Casa­nova nel 1770; altri ospiti illustri furono il conte Shawronskj, Ministro ple­nipotenziario di Russia, il principe Michele di Galitzin, il Nunzio di Parigi monsignor Bognoni, i duchi di Curlandia. La locanda era di proprietà dei frati Crociferi, ma era gestita da tale Rosa Dupré.

Segue il Palazzo d'Aquino di Caramanico, tuttora esistente, mentre non vi è più la villa del principe Michele Imperiali di Francavilla, quello stesso principe che abitò al Palazzo Cellamare.

Questa villa, o casino, come si diceva allora, dopo la sua morte passò alla corte reale e Ferdinando IV la abbellì e la destinò a foresteria di personaggi stranieri. L'ultimo dell'anno del 1814 vi fu data una gran festa in onore dei reali, e dopo l'unità d'Italia fu dimora di Alessandro Dumas e poi del patriota sacerdote e poeta Francesco dall'Ongaro che venne dal­l'esilio  di  Firenze a Napoli.

La via del Chiatamone, proseguendo di qui senza alcun inte­resse storico, né artistico, né turistico, incontra sulla destra lo sbocco della Galleria della Vittoria, e continua a sinistra con via Giorgio Arcoleo. La Galleria della Vittoria, scavata sotto il monte Echia, fu progettata da Antonio Niccolini per collegare, ai tempi di Ferdinando II, la zona del Largo di Palazzo con Chiaja.

Enrico Alvino in seguito ingrandì ed attuò il progetto, sempre allo scopo di difendere la Reggia in caso di necessità facendo spostare rapi­damente le truppe accasermate in via Morelli, largo Ferrandina e San Pasquale. La galleria fu ultimata nel 1855 e il re volle percorrerla.

Sulla sinistra, subito dopo dello sbocco del tunnel vi è la sede del quotidiano « Il Mattino », e superato il quadrivio, tro­viamo l'imponente Caserma del Comando Divisione Carabinieri, che fu progettata da Enrico Alvino. La via Giorgio Arcoleo ha sulla sinistra via Ugo Foscolo che porta in Piazza Vittoria dove confluisce anche via Partenope. Continuando in linea retta si raggiungerebbe di nuovo piazza dei Martiri attraverso via Mo­relli, di cui abbiamo già parlato nel precedente itinerario.

Museo Nazionale - Via Foria - Piazza Cavour - La Stella - I Cri­stallini - La Sanità - I Miracoli - I Vergini - Piazzetta San Carlo all'Arena - Via Cesare Rossaroll - La Veterinaria - Piazza Carlo III - Via Mazzocchi - L'Arenaccia - Corso Malta - Corso Garibaldi - Piazza Volturno - Piazza Principe Umberto - Il Vasto La Doganella - Via Don Bosco - Viale Umberto Maddalena -Capodichino - Piazza Carlo III

Dal Museo Archeologico Nazionale, che abbiamo già visitato, imbocchiamo via Foria, che ha sulla sinistra dei giardini con aiuole dove vi sono i busti di Giuseppe Mazzini, Matteo Renato Imbriani che fu al seguito di Garibaldi e poi deputato di sinistra nel 1889 e Mariano Semmola, un insigne clinico che fu senatore nel 1886: costeggia il giardino il vico Gagliardi. Sulla destra pos­siamo notare soltanto il Palazzo de Montemajor di epoca impero, con un grazioso cortile dove due colonne neoclassiche sorreggono una volta ad arco e una solenne sfinge di marmo è di guardia all'ampia scalinata.

Giunti in piazza Cavour, l'antico largo delle Pigne, faremo una diversione obbligata e superato il largo della Madonna delle Grazie imboccheremo la Salita Stella che è il cuore del quartiere omonimo: essa prosegue, dopo la piazzetta Stella, per via S. Mar­gherita Fonseca e per vico Noce e vico Cimitile raggiunge Santa Teresa al Museo. Dal lato opposto il quartiere si dirama in un dedalo di vicoli che hanno il nome di via Vincenzo de Monte, via Santa Maria del Pozzo ed altri minori. Le strade che sfociano da sinistra su piazza Cavour, dopo la Stella, sono via Antonio Villari e via Mario Pagano, che salgono verso i Cristallini e l'altro quartiere della Sanità. Noi cercheremo di seguire un po' alla lontana questi tortuosi budelli dove il visitatore non potrebbe non rimanere sconcertato e che in fin dei conti, non riservano alcunché di veramente interessante. Questo quartiere si chiama Stella perché nei pressi vi è la Chiesa di Santa Maria della Stella, molto antica, che in origine non era che una cappelletta nella quale si conservava una miracolosa effige della Vergine che aveva sul capo una stella luminosa.

Nel 1553, quando il viceré Pedro de Toledo allargò la cinta delle mura, questa edicola fu demolita e fu costruita al suo posto una chiesa che, fu poi benedetta dall'arcivescovo Carata ed affidata ai frati Minimi di San Francesco di Paola. L'architetto fu Carlo Fontana, a cui si deve anche la costruzione del convento, dal quale i frati furono espulsi nel 1862. Questa chiesa ha subito danni dalle incursioni alleate dell'ultima guerra e ha dovuto avere quindi dei restauri; l'interno ad unica navata ha nell'abside un pregevole dipinto di Giovanbattista Caracciolo raffigurante la Vergine Immacolata e i SS. Domenico e Francesco. Sull'altare vi è riprodotta in affresco l'effige della miracolosa Vergine Maria della Stella che durante le pestilenze del secolo XVI  fu molto venerata dal popolo napoletano.

A via Mario Pagano vi è un'altra Chiesa, quella della Ma­donna del Rosario, chiamata anticamente del Rosario al Largo delle Pigne, dove un frate domenicano fondò la Congregazione del Rosario.

La chiesa fu ingrandita con le donazioni di benefattori, fra i quali va ricordato il fiammingo Gaspare Roomer e vi fu costruito anche un con­servatorio: il complesso fu ingrandito e rifatto su disegno di Arcangelo Guglielmelli.

Riportandoci sulla nostra piazza troveremo a destra la Porta San Gennaro, una delle più antiche della città in quanto la tro­viamo nominata sin dal 928.

Essa aveva ai lati due torri fortificate ed era nei pressi del monastero di Santa Maria del Gesù delle Monache, ma fu spostata nel luogo dove è attualmente nel 1573, per l'ampliamento della cinta muraria effettuato dal viceré Toledo: il nome di Porta San Gennaro deriva dal fatto che di qui partiva la strada che portava alle Catacombe del santo. Nel 1656, quando Mattia Preti ebbe l'incarico di affrescare le porte della città, anche que­sta fu decorata con un affresco, che, per quanto sbiadito e bisognoso di restauro, esiste tuttora. L'attuale piazza Cavour anticamente era una vallata nella quale si raccoglievano le acque piovane che scendevano dalla collina di Capodimonte, della Stella e dei Vergini: in seguito, nel 1460, essendovi cresciuti un buon numero di pini, il largo fu chiamato Largo delle Pigne; questi alberi l'anno 1730 furono abbattuti e nello spiazzo vi fu poi una « cavallerizza », ovvero quella che oggi chiameremmo una scuola di equi­tazione.

Facciamo adesso una diversione a destra imboccando via Porta San Gennaro per visitare la Chiesa del Gesù delle Monache, detta anche San Giovanni in Porto.

Essa fu costruita con l'annesso monastero nel 1507 e l'arcivescovo del­l'epoca vi mise delle monache francescane, ma nel 1511, dopo che presero il velo due nobildonne napoletane, la duchessa Lucrezia Capece e la con­tessa Antonia Monforte, le francescane divennero Clarisse di clausura. Il monastero fu molto protetto da Giovanna III d'Aragona, moglie di Fer­rante I e sorella di Ferdinando il Cattolico che alla sua morte lasciò in eredità a questo complesso quasi tutti i suoi averi e dispose che le sue spoglie vi fossero tumulate, esprimendo la volontà che questa chiesa divenisse un « cemeterium » aragonese: queste disposizioni testamentarie furono però completamente ignorate nonostante le monache reclamassero presso Carlo V. La chiesa fu restaurata nel '700 da Arcangelo Gugliel­melli, che le diede Fattuale facciata e provvide alla decorazione interna: vi si può ammirare un dipinto raffigurante il Trionfo di Santa Chiara, una Annunciazione, Lo sposalizio della Vergine, e in sacrestia un San Giovanni Battista, tutte opere di Francesco Solimena e nella seconda cappella a sinistra una Vergine tra santi di Luca Giordano.

Ripresa la nostra strada, subito a sinistra troviamo la via Crocelle a Porta San Gennaro che ci condurrà a via Vergini e quindi all'altro quartiere dei Vergini.

L'etimologia di questo strano nome risale a tempi antichissimi, quando in questa zona, come attestano alcune iscrizioni che sono state trovate in un sepolcreto, si riunivano i fedeli del dio Eunosto, dio della temperanza, una specie di setta che faceva voto di castità evitando qualsiasi contatto con l'altro sesso.

Proseguendo per via Vergini, lasciando a destra il Supportico Lopez troveremo la Chiesa di Santa Maria Succurre Miserìs, molto antica, poiché risale al secolo XIV, quando fu dedicata a Sant'An­tonio di Padova.

Fu poi rifatta a cura dei monaci benedettini di Casamari e nel 1613 fu ingrandita e vi fu annesso un monastero con un « ritiro » per le donne che pentite di un passato burrascoso decidevano di indossare il saio francescano. La chiesa fu rifatta ancora da Ferdinando Sanfelice, a cui si ri­tiene debba attribuirsi il portale; di recente sono affiorati affreschi della primitiva chiesa trecentesca.

Questa è una zona di antiche chiese e vecchi palazzi, ma cercheremo di soffermarci ed indirizzare il visitatore esclusivamente verso le opere che abbiano un vero interesse.

Andando avanti sulla destra troveremo la Chiesa dei Missionari di San Vincenzo de' Paoli costruita nel 1788 da Michele Giustiniani su disegno di Luigi Vanvitelli.

Di notevole nell'interno vi sono dei dipinti raffiguranti San Vincenzo de' Paoli di Francesco De Mura, Gesù tra gli apostoli e la Conversione di San Paolo di Giovanni Sarnelli.

Ancora lungo il nostro cammino troveremo la Chiesa di Santa Maria dei Vergini che, officiata fin dal 1334 dai frati Crociferi, passò poi ai padri della Missione che ne rinnovarono la strut­tura interna; la Chiesa di Sant'Aspreno ai Vergini, dedicata al primo vescovo di Napoli, che fu officiata anch'essa nel secolo XVII dai frati Crociferi.

Fu poi ricostruita ed ingrandita nel 1760 per desiderio del letterato e matematico Antonio Monforte su disegno di Luca Vecchione: l'interno offre dei dipinti di Domenico Mondo che raffigurano il Battesimo del Santo e La morte di San Giuseppe. A sinistra troviamo via-Arena alla Sanità che tocca il quartiere della Sanità avvicinandosi nel contempo a quello chia­mato dei Miracoli.

Queste zone denominate la Stella, i Vergini, i Miracoli, i Cristallini, non sono dei veri e propri quartieri, almeno nel senso amministrativo, ma delle zone che gravitano intorno a una determinata chiesa, o stradina, o palazzo, che conservano questa denominazione da secoli.

Lungo la stradina che abbiamo presa vi è l'interessante Palazzo Sanfelice che fu costruito dal famoso architetto come sua residenza:

esso ha due cortili ai quali si accede attraverso due portoni ornati da sirene in rilievo che sostengono un balcone. Nelle due eleganti scale l'architetto espresse tutta la sua estrosa genialità, eccedendo forse in biz­zarria. Il palazzo, che aveva ampi giardini nella parte posteriore, passò poi al marchese di Lucito ed ai nobili Vigo: la galleria era tutta affrescata da  Francesco  Solimena,  che  era  stato  maestro  del  Sanfelice.

Se continuiamo per la via della Sanità giungeremo in piazza di Santa Maria della Sanità ove domina la Chiesa di San Vin­cenzo alla Sanità o di Santa Maria della Sanità.

Essa fu costruita nel 1602 dai frati domenicani su disegno di un loro confratello, Giuseppe Donzelli detto Fra' Nuvolo, con magnifica cupola con mattonelle maiolicate ed un bel campanile: l'interno, a croce greca, con dodici cupolette e ventiquattro pilastri si presenta in graziosa forma asimmetrica. In questa chiesa si conservano molte opere d'arte e accom­pagneremo quindi il visitatore iniziando dal lato destro e dalla prima cappella, nella speranza che non vi siano stati spostamenti. Troveremo subito i dipinti di Luca Giordano raffiguranti i SS. Nicola Ambrogio e Lo­dovico Bertrando e nella terza cappella, dello stesso autore, un San Vin­cenzo Ferreri, il santo domenicano che i napoletani chiamano volgarmente « o' munacone » perché è ritenuto tanto potente e tanto grande da meri­tare... un accrescitivo; nella cappella che segue vediamo la Vergine del Ro­sario ed i misteri di Giovan Bernardo Azzolino del 1612. Si accede quindi per due belle scalinate all'altare maggiore dove si può ammirare il Taber­nacolo, opera del domenicano Azaria; interessante il coro in legno di Gio­van Battista Nubila, che fu lavorato nel 1618 da Arcangelo Cecere e Leonardo Bozzaotra. Al di sopra dell'altare maggiore vi è una scultura di Michelangelo Naccherino raffigurante la Vergine con Bambino. Riprendendo ad esaminare il lato sinistro vi troviamo un'altra opera di Luca Giordano raffigurante Maria Maddalena e la Croce e nella quinta cappella un San Tommaso d'Aquino di Pacecco De Rosa nonché un'antichissima sedia ve­scovile che è stata qui trasferita dalle catacombe di San Gaudioso. Si at­traversa poi un corridoio affrescato da Giovan Battista di Pino e nella terza cappella si ammira un'altra bella opera dell'Azzolino del 1629 raffigurante l'Annunciazione; in quella che segue troviamo una Vergine con i SS. Gia­cinto e Caterina di Luca Giordano e nell'ultima cappella un San Biagio tra San Domenico ed il pontefice Pio V di Agostino Beltramo. Si può quindi visitare la cripta che è il « Cemeterium » di San Gaudioso, del V secolo, trasformato in chiesa nel secolo XVI dai domenicani : vi sono un affresco molto antico e molto venerato della Vergine ed altri di Bernardino Fera. Da questa cappella cimiteriale si può accedere alle Catacombe di San Gau­dioso, un santo africano che, secondo la tradizione, cacciato dalla sua terra da Genserico e abbandonato su una barca in balia delle onde sa­rebbe approdato sulle nostre spiagge. Con alcuni suoi discepoli il santo fondò un monastero e quando morì, intorno al 450, fu sepolto in questo « cemeterium ». Gli affreschi esistenti sono molto posteriori alla catacom­ba, eseguiti, si ritiene, intorno al 600-700; in fondo sotto un arcosolio si venera la tomba del santo, e sotto un altro arcosolio si ritiene debba es­sere stato sepolto San Nostriano che fu espulso da Genserico insieme a San Gaudioso. Vi si osservano ancora due immagini del Salvatore, una del VI e un'altra del IV o V secolo e un Cristo morto lavorato nel tufo di fronte al cubicolo. In un corridoio scavato nel secolo XVII vi sono dei ca­daveri che per una macabra consuetudine erano messi qui ad essiccare seduti su sedili di pietra; in seguito venivano murati e ne rimaneva vi­sìbile soltanto il teschio mentre il  resto  dello  scheletro veniva  dipinto.

Questo quartiere è chiamato la Sanità perché si riteneva che nella valle sottostante la collina di Capodimonte l'aria fosse particolarmente buona e che giovasse alla salute: questa non è tuttavia l'unica spiegazione, perché secondo un'altra tesi « la Sanità » degli abitanti di questa zona sarebbe frutto dei miracoli che i santi qui sepolti facevano a coloro che andavano a pregarli. Da questa chiesa parte, il giorno di San Vincenzo, una processione, ed il quartiere festeggia il suo santo protettore con spet­tacoli pirotecnici, luminarie e allegre scorpacciate: in epoca borbonica solevano intervenire alla processione anche i reali.

Questa popolare zona è delimitata sulla sinistra dalla Via S. Teresa degli Scalzi, dal corso Amedeo di Savoia Duca d'Aosta e dal proseguimento di via Vergini che cambia nome prendendo quello di via Cristallini, uno strano appellativo del quale non si conosce il significato. Da piazza S. Maria alla Sanità si dirama un dedalo di stradette: esse sono via San Severo a Capodimonte, il vico Maresca e il vico dei Laminatori, dal termine napoletano che indica coloro che fabbricano l'amido e che per il passato ave­vano qui la loro industria.

La prima strada conduce all'omonima piazza dove è la piccola Chiesa di San Severo alla Sanità che fu edificata sul sepolcro, scavato nella roccia, di questo santo che fu vescovo per ben quarantasei anni a cavallo tra il secolo IV e il secolo V: molti cristiani vollero essere sepolti accanto al loro santo e si formò così la Catacomba di San Severo che però, quando il corpo del santo nel secolo IX fu trasportato nella Chiesa di San Giorgio, fu abbandonata.

Vi è poi il vicoletto dei Cinesi, così chiamato per un Ordine fondato dal sacerdote Matteo Ripa, che si proponeva di dare assistenza agli orientali, a qualsiasi religione appartenessero; porta alla Salita di Capodimonte. Noi imboccheremo invece via Santa Maria Antesecula, che è intersecata sulla sinistra da vico Carrette, vico Canale ai Cristallini, vico Carlotta e sulla destra dal vico Palma, dal vico Cangiani e dal vico Sanfelice che per via Cristallini ci riporta in via Vergini e quindi nuovamente a via Foria. Qui troveremo sulla destra via Duomo e sulla sinistra la via dei Miracoli che ha questo appellativo, come l'omonima piazzetta, dalla Chiesa di Santa Maria dei Miracoli.

Questa aveva un monastero annesso che accolse poi un educandato femminile e fu trasformato su disegno di Francesco Antonio Picchiatti nel 1662 per desiderio del Reggente Camillo Cacace. L'interno della chiesa, a croce latina e ad unica navata, è affrescato da Andrea Malinconico e con­tiene un dipinto di Francesco Solimena o secondo altri della sua scuola raffigurante Santa Maria dei Miracoli, uno di Andrea Vaccaro raffigurante la Trinità, la Vergine e San Giuseppe e sull'altare del transetto sinistro una bella Immacolata di Luca Giordano. Dalla piazza dei Miracoli si può imboccare la salita Miradois, il cui nome è la corruzione di quello di Giu­lio Minadois, che fu un presidente della Regia Camera della Sommaria.

Questa strada, come la sua parallela, la salita della Miccia, conduce in cima al colle di Miradois all'Osservatorio Astronomico fondato nel 1819 dall'astronomo Giuseppe Piazzi e modificato dal­l'altro astronomo Federico Zuccari: l'osservatorio napoletano, sorto per volontà di Ferdinando IV di Bor­bone, fu il primo in tutta Europa. Vi si accede attraverso un grazioso vestibolo di linea dorica e vi si può ammirare, nella sala centrale, un interessante bassorilievo raffigurante Urania seguita da Cerere che incorona il sovrano: vi sono delle sale da studio ed una importante biblioteca. L'osservatorio del 1868 è ancora efficiente e vi si effettuano tuttora studi di  astronomia  posizionale  e  servizi  meteorologici.

Dopo questa lunga digressione ritorniamo sui nostri passi e lasciando sulla sinistra il vico Pacella ai Miracoli, la via Ottavio Morisani che intersecando la via Montagnola ci condurrebbe alla Veterinaria, e a destra il vico Gianbattista Alfano, ritorniamo verso via Foria. In ultimo sulla destra c'è un vicolo insignificante, il vico Fate, il cui nome risale al ricordo di un tempio che vi era in epoca romana, dedicato alle Parche, Tria Fata.

Ripreso il cammino in via Foria, lasciamo sulla destra via Cirillo, che ci riporterebbe in via San Giovanni a Carbonara, e osserviamo sulla sinistra, nella piazzetta San Carlo all'Arena, l'omonima Chiesa di San Carlo all'Arena, costruita dai monaci Cistercensi nel 1631 su disegno di fra' Nuvolo.

L'Arena era chiamata questa strada, allora di campagna, che, solcata d'inverno dalle acque piovane, d'estate rimaneva coperta di sabbia. La chiesa fu dedicata in un primo momento ai SS. Carlo e Bernardo ma il suo dicatum fu poi trasformato in quello attuale, vale a dire, a San Carlo Borromeo; è stata in parte rifatta nel 1837 e dopo un incendio subito nel 1923 è stata completamente restaurata. Di pianta ellittica all'interno, con­tiene  un  interessante  Crocefisso  in  bronzo, copia di un'opera di Michelangelo Naccherino in marmo; un San Carlo di Giuseppe Mancinelli, un San Gennaro di Michele Foggia, un San Giuseppe Calasanzio di Gennaro Maldarelli e un San Francesco di Paola di Michele De Napoli.

Proseguendo lungo via Foria, troviamo ancora via Cesare Rossaroll, intitolata al patriota napoletano condannato prima a morte e poi all'ergastolo, una larga arteria che conduce in piazza San Francesco di Paola, dove è la Pretura, e quindi in piazza Principe Umberto, intersecata da via Casanova che raggiunge piazza Nazionale e da via Nuova Poggioreale. Risalendola verso Foria, troveremo sulla destra la piazzetta dei Lepri e il vico Lepre che sfocia in via Sant'Antonio Abate e nel borgo omonimo, un dedalo di stradine che ospitano un fiorente mercato ortofrut­ticolo all'aperto: nomineremo il vico Pergole, via Giustiniani, via Lettieri, vico Martiri d'Otranto, vico Crispano, via Nicola Rocco, via Morelli e via Albino. Risalendo per via S. Maria Avvocata e ta­gliando l'omonimo vico, attraverso via Nuova San Ferdinando pos­siamo raggiungere il Teatro San Ferdinando. Di qui o ancora per via Fossi a Pontenuovo e via Pontenuovo ci ritroveremo ancora in via Foria, lasciandoci alle spalle la vecchia Caserma Garibaldi, oggi in restauro, che ha ai lati due torri delle antiche mura rinascimentali. Giungiamo quindi all'altezza di via Michele Te­nore che è ai confini dell'Orto Botanico, ed è dedicata appunto al fondatore di quest'opera che fu rettore dell'Università napoletana nel 1844. Ci siamo lasciati indietro sulla sinistra via Giuseppe Piazzi, via Purità a Foria, vico Santa Maria a Lanzati, vico Sacra­mento, via Montagnola che con via Morisani conducono, paralle­lamente alla via Michele Tenore, alla cosiddetta Veterinaria, una zona così chiamata perché vi si esercitava molto empiricamente questo mestiere.

La vera scuola di veterinaria sorse a Napoli nel 1796, ma soltanto nel 1815 la sua sede si trasferì nell'ex convento di Santa Maria alle Croci. La Chiesa di Santa Maria degli Angeli alle Croci fu costruita nel 1638 da Cosimo Fanzago che provvide altresì alla scultura raffigurante San Fran­cesco al centro della facciata, ed è chiamata « alle Croci » perché i frati francescani che la officiavano, gli Osservanti, usavano mettere delle croci dove erano i loro conventi. La chiesa, infatti, era stata edificata nel 1581 con un monastero annesso dai francescani, ma l'intero complesso fu poi concesso nel 1639 da Urbano Vili ai frati Riformati, che sovvenzionati dal viceré Guzman e dal tesoriere di Filippo IV, Bartolomeo d'Aquino, la fecero ristrutturare da Cosimo Fanzago, alla cui opera si devono anche il grazioso atrio e le colonne, La decorazione in marmo dell'interno, a croce latina, è sempre del Fanzago, col quale collaborò il figlio Carlo. Da ammirare una tavola quattrocentesca su fondo oro raffigurante Sant'Antonio da Padova, opera del Maestro di San Giovanni da Capistrano, alcune sta­tue in legno secentesche, che furono intagliate da un frate, Diego da Carreri, e raffigurano Santa Elisabetta, Santa Chiara, Cristo in Croce e San Francesco.

Nel convento ha sede attualmente la Facoltà di Veterinaria dell'Università e se ne può ammirare il chiostro, che fu affrescato dal Corenzio.

Prima di lasciare la Veterinaria imboccheremo a sinistra il vico Paradisiello, così chiamato dall'antico nome della contrada e poi ancora a sinistra il vico S. Eframo Vecchio che porta nel­l'omonima strada. Ritornando sui nostri passi, prima di raggiun­gere via Foria  troveremo  sul lato opposto via  Guadagno, che conduce in piazza Gianbattista Vico. Usciti di nuovo sulla nostra direttiva principale, soffermiamoci all'ingresso dell'Orto Botanico, che fu voluto da re Giuseppe Bonaparte nel 1807 ed attual­mente ospita anche uffici e sale della Facoltà di Scienze del­l'Università.

Quest'orto botanico fu costruito con il sistema Linneo e Jussieu ma venne poi trasformato con l'applicazione dì nuovi criteri biologici e divenne così un bosco di arbusti e piante rarissime. Nel 1928 per disposizione del Ministero dell'Agricoltura vi fu istituita una stazione sperimentale e vi furono raccolte collezioni di piante varie in vaso, in acqua e in serra. Al­l'interno una moderna costruzione ospita l'Istituto Botanico con una pre­ziosa biblioteca ed un erbario rappresentante l'insieme di varie collezioni donate da Michele Tenore e dai botanici Terracino e Gussone.

Poco più avanti dell'orto botanico, di fronte, vedremo il Largo Sant'Antonio Abate con la trecentesca Chiesa di Sant'An­tonio Abate, che si vuole fondata con l'annesso ospedale da Giovanna I d'Angiò sebbene costruita su una chiesetta già esi­stente per volere di Roberto d'Angiò dall'inizio del '300. L'ospe­dale ricoverava soltanto gli affetti da «fuoco sacro », più cono­sciuto come « l'infiammazione cutanea », per i quali i monaci che li curavano avevano ideato un farmaco a base di grasso di maiale, l'animale prediletto dal santo, che veniva allevato al­l'interno del monastero. Si trattava del cosiddetto « fuoco 'e Sant'Antuono » che ha sempre interessato la medicina, se si pensa che ne parla Rodolfo nel suo « De Incendiis » del 993. Questi monaci si occuparono dell'ospedale fino a quando non arrivarono gli aragonesi, che li bandirono perché erano... troppo francesi; e così nel 1480 la chiesa e l'ospedale furono affidati al cardinale Giuliano della Rovere, fin quando Clemente XIV non concesse tutto il complesso ai frati Costantiniani.

La chiesa, originariamente gotica, ora si presenta brutta e paesana per il pessimo restauro voluto nel 1769 dal cardinale Antonio Sersale ed eseguito dall'architetto Tommaso Senese. È ancora visibile sulla destra l'antico portale gotico che immetteva al convento, ora in parte chiuso da un muro ed in parte abbattuto, sul quale si notano i resti di un affresco settecentesco raffigurante la Vergine col Bambino. Lo stemma di Grego­rio XI, sotto il cui pontificato era stata eretta la chiesa, fu sostituito dallo stemma dei Sersale.

Il portale di ingresso alla chiesa è del secolo XIV, e si vuole fosse eseguito per munificenza del Gran Siniscalco di Giovanna I, Roberto Ca-passo e di Giacomo Capano, consigliere di re Roberto. Esso è in marmo bianco con graziosi stipiti sorreggenti un architrave con lunetta a sesto acuto nel quale si può intravedere un affresco settecentesco raffigurante Sant'Antonio Abate : ai lati vi sono gli stemmi del cardinale Cantelmo e di papa Innocenzo XII. I battenti della porta sono divisi in numerosi scom­partimenti con lo stemma crociato dell'Ordine e quello della famiglia Durazzo.

La chiesa si presenta ad unica navata; essa fu restaurata nel 1477 da fra' Bernardo Roberto, nel 1699 dal cardinale Cantelmo, nel 1825 da fra' Giovanni della Porta, nel 1888, nel 1906 ed ancora dopo i noti eventi del 1943.

Nell'interno è interessante notare: un gruppo in marmo rappresen­tante la Vergine col Bambino che si vuole sia il ritratto di Giovanna d'An­giò della scuola di Niccolò Pisano; affreschi di Domenico Viola, che fu di­scepolo di Mattia Preti, di Luca Giordano, di ignoti del secolo XIV ed uno di  scuola giottesca rappresentante la Vergine che allatta il Bambino.

Usciti  dalla  chiesa, e  tralasciando  sulla destra il  borgo  di Sant'Antonio Abate, a cui abbiamo già accennato, giungiamo al termine di via Foria in piazza Carlo III, che ha sul lato più lungo l'imponente costruzione  denominata Albergo dei poveri.

Benché il largo sia stato intitolato sin dal 1891 al monarca borbo­nico, sia la piazza che l'albergo dei poveri vengono chiamati dai napole­tani « il reclusorio » perché qui erano « reclusi i poveri per i quali la bontà di re Carlo aveva tatto costruire questo albergo chiamandolo po­polarmente reclusorio ». Questo edificio, per quanto enorme, tu costruito dall'illuminato sovrano con la sproporzionata ambizione che potesse ba­stare a dare asilo ... a tutti i poveri del regno. Purtroppo invece i poveri erano tanti, e gli orfani raccolti nei più luridi vicoli della città così ri­belli e indisciplinati che il loro convitto fu soprannominato « il serraglio », come se fossero degli animali feroci! Questa istituzione, tuttora esistente, mira ad insegnare un mestiere a questi ragazzi, parte dei quali sono sor­domuti: l'edificio ospita inoltre anche il Tribunale dei Minorenni. La colos­sale costruzione dell'Albergo dei Poveri, iniziata da Ferdinando Fuga nel 1751, fu terminata soltanto nel 1829 e la sua estesissima facciata, di 357 metri, fu peraltro di gran lunga inferiore a quella contemplata dal pro­getto,   che   ne   prevedeva  la  lunghezza  in  600  metri.

In piazza Carlo III confluiscono, oltre via Foria, quattro stra­de, delle quali la prima, a destra della direzione da cui siamo venuti, è il corso Giuseppe Garibaldi, la seconda via S. Alfonso Maria de' Liguori, la terza via Alessio Mazzocchi, e la quarta, che continua nella stessa direzione di Foria verso Capodichino, via Don Bosco. Di questa ragnatela di strade, inizieremo a descri­vere il centro, determinato dalla seconda e dalla terza strada e poi, prendendo la prima, cioè il corso Garibaldi, compiremo un lungo giro per ritornare nella piazza dalla direzione opposta.

Via Mazzocchi, il cui proseguimento prende il nome di via Colonnello Lahalle, interseca la via Arenacela che, chiamandosi poi corso Novara giunge in piazza Garibaldi. Via Lahalle è inter­secata da via Generale Pinto, via Generale Calà Ulloa, via Colon­nello Pepe, via Generale Pianelli, a loro volta tagliate da via Piazzolla, via Generale Carrascosa, via Marchese Palmieri, tutte paral­lele alla via Lahalle, che porta a destra al Campo Sportivo Mili­tare Generale Albricci e poi in corso Malta da cui si può imboc­care via Nuova Poggioreale. Via Mazzocchi ha invece sulla destra la via Gaetano Argento, intersecata da via Pecchia, la via San­t'Attanasio, intersecata da via Pietro Giannone e la via S. Alfonso Maria de' Liguori che partendo da piazza Carlo III ci conduce in piazza Poderico e continuando col nome di via Acquaviva in piazza Nazionale. In questa piazza affluiscono anche la via Gene­rale Francesco Pignatelli che parte dalla via Colonnello Lahalle e che ha sulla destra via Geronimo Carata, via Polveriera, via Federico Persico, via Alfonso d'Avalos, a loro volta tagliate da via Loffredo.

Tutta questa zona viene chiamata Arenaccia come il campo sportivo, che sin dal '500 era un grande spiazzo « pretiato », ossia ricoperto di sassi e sabbia sul quale si svolgevano giostre e tornei talvolta così violenti e crudeli da sfiorare l'assassinio.

Il corso Garibaldi conduce in linea retta alla piazza omonima: esso forma alla sua sinistra con via Casanova, via Arenaccia, piazza Poderico e via Sant'Alfonso un triangolo dove si interse­cano molte stradine:  ricorderemo la via Lorenzi, che giunge in

piazza Giannone, a sua volta tagliata dalla omonima strada; da questa piazzetta parte la via Felice Cavallotti che ha alla sua sinistra via Andrea Cantelmo e alla sua destra via Carafa, via della Gatta e via Eleonora Pimentel, intersecate da vìa Nicola Rocco, vico Tutti i Santi, via Camillo Porzio, via Benedetto Cai-roli. Il corso Garibaldi si slarga poi in piazza Volturno alla cui sinistra vi è la piazzetta di Santa Maria della Fede, il Cimitero dei Protestanti delimitato dal vico Miraglia e la via Abba che conduce in via S. Maria della Fede intersecata da via Martiri d'Otranto: prosegue quindi lasciando sulla sinistra il vico Casa­nova a sua volta tagliato da via Galante, via S. Maria della Fede, via Dogliolo, via degli Incarnati, via Zingari, vico 1° Casanova e dall'altro lato da via Borrelli, via Sapri, e via Benevento. Tornati sul corso incontriamo sulla sinistra l'ampia via Casanova che dopo l'incrocio di via Arenaccia con corso Novara cambia nome in Calata Ponte Casanova e giunge in piazza Nazionale. Questa strada delimita con via Casanova e Calata Ponte Casanova, corso Giuseppe Garibaldi, piazza Garibaldi, corso Meridionale, corso Porzio, via Nuova Poggioreale e piazza Nazionale, un quartiere che è chiamato il Vasto. Sembra che questo nome sia una corru­zione di « Guasto », che si ritiene dovuto al fatto che questa parte della città fu completamente devastata dal Generale Lautrec nel 1528. Le strade di questo rione hanno tutte nomi di città: esse sono intersecate dal corso Novara e da via Nazionale, pro­veniente dalla piazza omonima, che entrambi sfociano in corso Meridionale. Abbiamo così tra il corso Garibaldi e il corso No­vara, via Venezia, via Milano, via Torino, via Bologna, via Firenze e via Palermo, e dal corso Novara al corso Porzio, via Aquila, via Parma, via Pavia, via Ferrara, via Bari, via Rimini, via Co­senza, via Pisa, via Foggia, via Chieti, via Otranto, piazza Sa­lerno, via Brindisi, via Genova. Il corso Meridionale per via Taddeo da Sessa lasciando a sinistra la Fiat e a destra un fab­bricato di uffici postali adiacente alle ferrovie dello Stato, conduce fuori città.

Ritorniamo quindi al nostro corso Garibaldi che, dopo piazza Principe Umberto, giunge nella piazza omonima. Qui, fatto il giro della piazza, lasceremo sulla destra la Stazione Centrale delle Ferrovie imboccando il corso Meridionale e dopo averne percorso un tratto piegheremo a sinistra per il corso Porzio che dopo il quadrivio di via Nuova Poggioreale si tramuta in corso Malta. Lasciando sulla destra la via Aquileia, intersecata da via Zara, e la via Fiume, giungeremo dove sfocia la via Colonnello Lahalle e dopo aver superato a destra la caserma Marselli ed a sinistra il Distretto militare giungeremo alla Centrale del latte, che ha sulla destra una piccola zona molto popolare chiamata la Siberia, la strada Cannola al Trivio, e la via Fontanelle al Trivio da cui comincia il Cimitero Vecchio. Sulla sinistra più avanti incontre­remo invece via Notar Giacomo e giungeremo infine alla Doganella e in via Don Bosco, che a destra con via Nuova del Campo costeggia i cimiteri cattolico e protestante e termina nel largo Santa Maria del Pianto, in via Santa Maria del Pianto, in via del Riposo; dal Largo S. Maria del Pianto inizia la via Madda­lena, intitolata al valoroso aviatore, con la quale confinano gli Aeroporti Militare e Civile. Girando a sinistra per via Don Bosco, lasceremo alle nostre spalle il quadrivio di Capodichino che sin dal medioevo rappresentava la confluenza dell'antica strada che portava a Capua e a Benevento: il nome latino di questo luogo era « Caput de clivo ». Ripresa via Don Bosco e dopo aver lasciato sulla sinistra la Stazione Ferroviaria Alifana giungeremo di nuovo in piazza Carlo III.

Home La storia A zonzo 1 A zonzo 2 A zonzo 3 A zonzo 4 A zonzo 5 A zonzo 6

Ultimo aggiornamento:  12-11-08