Piazza Vittoria - Riviera di Chiaja - La Villa
Comunale - Piazza San Pasquale - Santa Maria in
Portico - Piazza della Repubblica - La Torretta -
Via Piedigrotta - Via Mergellina - Mergellina
Questo itinerario ci condurrà da Piazza Vittoria a
Mergellina attraverso la Riviera di Chiaja, o le
parallele Villa Comunale e via Caracciolo. La
Villa comunale, che
inizia da Piazza Vittoria, è affiancata da via
Caracciolo verso il mare e dalla Riviera di Chiaja
sul versante interno e termina a piazza della
Repubblica. Quando se ne decise la realizzazione nel
1778, Ferdinando IV dispose che tra la Riviera e la
spiaggia di Chiaja fosse creato un grande giardino,
ricco di alberi e di aiuole, dove potesse recarsi a
passeggio la famiglia reale.
Il progetto sfruttava una vecchia idea del viceré
duca di Medinacoeli, e infatti in una veduta di
Napoli del 1698 con il particolare della strada di
Chiaja già si vedevano dei giardini davanti alla
chiesa della Vittoria con aiuole, alberi e una
fontana al centro. Il re diede incarico a Carlo
Vanvitelli di progettare l'opera e, avendone
approvato immediatamente il progetto, fece iniziare
gli adempimenti preliminari: fu decretato
l'esproprio di una parte del giardino del palazzo
Satriano, la demolizione del Casino degli Invitti di
Conca e di una cappella che era stata costruita da
padre Rocco sulla spiaggia nonché l'acquisto di un
ampio tratto di terreno, in parte paludoso. Furono
eliminati la baracca della Dogana e i lavatoi
pubblici della spiaggia, cosa che suscitò le
proteste delle donne dei pescatori e marinai che
vivevano in quella zona; anche la demolizione della
cappella, che conteneva un'immagine molto venerata,
causò una certa opposizione finché il Vanvitelli
cercò di venire incontro ai desideri popolari
trasferendo i sacri arredi della cappellina in
questione in un locale del Real Orfanotrofio di San
Giuseppe a Chiaja. Fu inoltre sospesa la costruzione
di un'altra cappella che padre Rocco stava
costruendo sullo scoglio di San Leonardo.
Il progetto iniziale della Villa si fermava al punto
dove è la Cassa Armonica : e, poiché doveva essere
divisa in cinque viali, il giardiniere reale Felice
Abate vi piantò subito molti alberi, dei quali
alcuni olmi e tigli, oggi plurisecolari. La Villa fu
recinta di pilastri e griglie di ferro, ed il
Vanvitelli per arricchirla richiese dodici statue di
scavo che erano state reperite a Pozzuoli ed una
grande statua rappresentante la Flora che era stata
acquistata dal ministro Tanucci, ma la sua proposta
non fu accolta e furono commissionate alcune
sculture a Carrara, mentre le nicchie rimanevano
aperte con le sole griglie di ferro. Queste statue
non giunsero mai e solo alcune in stucco su modello
del Sammartino furono apposte su alcune fontane:
furono costruite, infatti, cinque fontane in
travertino di Caserta. Di fianco all'ingresso, che
era da piazza Vittoria, furono costruiti due
padiglioni neoclassici con porticati ornati da
coppie di lesene, uno dei quali fu dato in fitto a
botteghe e l'altro ad un caffè-ristorante; sulle
terrazze di copertura di questo furono sistemati i
tavoli per gli avventori. Furono poi costruite
contro la volontà del Vanvitelli delle botteghe dove
si vendevano oggetti di scavo e coralli ed un
casotto per un corpo di guardia, ma l'architetto nel
1801 riuscì a far spostare il locale adibito alla
guardia nell'interno della Villa ed a far demolire
le botteghe. Quando la Villa fu terminata ne fu
affidata la sopraintendenza alla Real Deputazione
dei Pubblici Spettacoli, ma il Vanvitelli rimase
addetto alla manutenzione e l'Abate fu nominato
giardiniere capo.
Per l'inaugurazione, avvenuta l’11 luglio del 1781,
fu allestita nella piazza una gran fiera che rimase
in permanenza per due mesi, fino all'8 settembre,
festa della Madonna di Piedigrotta giorno in cui il
popolo fu ammesso a passeggiare nei giardini e si
impiantò anche un piccolo teatro ove la compagnia
del San Carlino rappresentò alcune farse con
Pulcinella.
L'ingresso principale aveva ai lati due garitte per
le sentinelle: da esso partiva un grande viale
centrale che era diviso in due parti nel senso della
lunghezza da una fontana, costruita su modello del
Sammartino, con la Sirena Partenope ed il Sebeto che
versavano acqua da uno scoglio. Questa figurazione
fu sostituita nel 1791 su proposta del pittore
tedesco Hackert dal Toro Farnese, che vi
rimase sino al 1826, quando fu trasferito al Museo
Borbonico. In effetti la sistemazione nella villa
dell'imponente gruppo statuario, noto con questo
nome perché faceva parte della collezione di Casa
Farnese, suscitò molte critiche.
I due viali laterali erano fiancheggiati da tigli e
da olmi e coperti da graziosi grillages di
viti il cui raccolto veniva venduto. Dal lato del
mare fu messo un lungo parapetto perché i bambini
non corressero il rischio di cadere e furono
installati dei sedili in piperno o in travertino che
ancora oggi vi sono, purtroppo in cattive
condizioni; su questo lato vi erano molte fontane.
Il viale verso la Riviera era diviso dalla strada da
una pesante cancellata in ferro sostenuta da
pilastri; su questo lato vi erano altri due
ingressi, ed un terzo era alla fine della Villa cioè
nei pressi della Cassa Armonica dove allora ancora
si ergeva la Chiesetta di San Leonardo.
Questa Villa piacque tanto che con un bel po' di
megalomania fu chiamata « Tuglieria », in ricordo
delle Tuileries, ma poiché si ebbe poi il
buon senso di accorgersi che questo nome era un po'
esagerato, ci si attenne al nome ufficiale di Villa
Reale.
Durante i mesi estivi vi si poteva accedere anche di
notte e la nobiltà soleva riunirvisi per eleganti
diners o per gustare dei sorbetti che erano
ritenuti una vera specialità. La sera venivano dati
dei concerti dagli allievi dei conservatori
napoletani, ma il popolo doveva accontentarsi
sempre di ascoltarli dall'esterno, ad eccezione di
quell'unico giorno della festa di Piedigrotta,
quando per ventiquattr'ore la Villa restava senza
controllo e tutti potevano recarsi in chiesa
attraversandola o potevano attendere il passaggio
del Corteo Reale.
La Villa subì una triste sorte nel periodo finale
della Repubblica Partenopea, quando dalle truppe
del cardinale Ruffo fu adibita a poligono di tiro e
ad acquartieramento delle truppe, ed in ultimo vi
furono persino postati dei pezzi di artiglieria. In
seguito fu necessario rimetterla a posto e nel
secondo tratto fu progettata ad opera del Dehenhart
la costruzione di un boschetto e fu poi messa la
fontana con il gruppo di Europa di Angelo
Viva; la piccola chiesa di San Leonardo fu demolita
e sullo scoglio fu spianata una terrazzina che
divenne punto d'incontro degli innamorati.
Durante il decurionato francese la Villa venne
illuminata e dal 1825 vi furono messe alcune statue,
copie di capolavori greci, come l'Apollo del
Belvedere, il Sileno con Bacco bambino, il
Faunetto, il Gladiatore moribondo, il
Gladiatore guerriero ed altre di minore
importanza, quasi tutte opere del Violani e di
Tommaso Solari. Dopo il 1825, come abbiamo
accennato, il Toro Farnese fu trasferito al
Museo ed al suo posto fu messa un vasca di granito
sostenuta da quattro leoni, che aveva una testa di
medusa al centro: quella fontana fu diletto dei
bimbi, e dalle balie fu battezzata col nome di
Fontana delle Paparelle, perché vi furono messe
delle anatre. Ai lati vi furono sistemate le statue
raffiguranti le stagioni e più avanti i gruppi del
Ratto dì Proserpina, Ercole ed il leone Nemeo
e il Ratto delle Sabine, copia dell'originale
del francese Giambologna. Terminata questa prima
parte della Villa « Vanvitelliana », troviamo altre
copie di opere greche, il Tempietto di Virgilio,
e il Tempietto del Tasso su disegno del
Gasse; all'uscita del boschetto fu messa la copia di
una statua raffigurante Atreo e i gruppi
rappresentanti Castore e Polluce e Lucio
Papirio.
Dove oggi ha sede il Circolo della Stampa vi
era il caffé Napoli; il sodalizio che attualmente
occupa il padiglione fu fondato nel 1909 ad
iniziativa di giornalisti e professionisti tra cui
erano Giovanni Porzio, Matilde Serao, Edoardo
Scarfoglio, Ferdinando Russo, Salvatore Di Giacomo,
Roberto Bracco, e fu inaugurato con una cena
sociale alla quale furono ospiti d'onore Giosuè
Carducci ed Annie Vivanti.
La parte nuova della Villa fu iniziata nel 1834 ad
opera dell'architetto Stefano Gasse. Lungo il mare
il parapetto del Vanvitelli non fu continuato perché
si pensò di farvi un galoppatoio per i cavalieri e
le amazzoni del tempo; alla fine della prima zona,
dove era l'altro corpo di guardia, si installò il
caffé Vacca.
Dopo l'annessione del Regno di Napoli al Regno
d'Italia la Villa fu aperta al popolo e fu chiamata
Nazionale. Di lì a poco Enrico Alvino presentava il
progetto di una nuova strada che doveva costeggiarla
lungo il mare e che comprendeva il suo
rammodernamento: fu quindi realizzata via Caracciolo
e la Villa fu rimodernata anche se non proprio
secondo il progetto dell'Alvino.
Furono aggiunte altre statue, fra cui quella
raffigurante Gian Battista Vico che fu
scolpita e donata dal conte di Siracusa Leopoldo di
Borbone, il quale volle che fosse messa di fronte al
palazzo dove abitava alla Riviera; si mutò anche
l'illuminazione e i vecchi fanali furono sostituiti
con globi francesi.
Nel 1869 l'amministrazione comunale cambiò ancora
nome alla Villa chiamandola « Comunale », furono
demoliti i due padiglioni vanvitelliani all'ingresso
ed otto statue che si trovavano lungo il viale
principale furono messe nelle aiuole di questo
ingresso. L'inferriata della parte della Riviera fu
tolta e fu costruito quel padiglione in stile
pompeiano, attualmente sede della Società
Promotrice Salvator Rosa, che fu a suo tempo lo
studio del pittore Maldarelli e poi del fotografo
Lauro.
Di fronte a questo padiglione pompeiano nel 1872 il
naturalista tedesco Antonio Dohrn fece sorgere una
Stazione Zoologica per far conoscere la fauna
e la flora marina, che è tuttora una delle più
importanti d'Europa: la palazzina che la ospita fu
costruita dall'architetto Capocci. II Dohrn, che
ebbe quale suo diretto collaboratore lo scienziato
Teodoro Heuss, provvide ad impiantare un reparto di
zoologia, uno di fisiologia ed uno di biochimica per
gli studi e le ricerche di naturalisti che venivano
a Napoli. Fu costituita anche una flottiglia adibita
alla pesca per il reperimento del materiale di
studio, che viene portato in questo istituto e
conservato in vasche di acqua marina. L'Aquarium
contiene ventisei vasche con circa duecento
specie di animali marini; ha inoltre una biblioteca
che, mantenuta costantemente aggiornata, è ritenuta
una delle più importanti del mondo nel campo
biologico. Questa Stazione ha anche un laboratorio
di ecologia distaccato ad Ischia che completa la
ricerca scientifica su problemi sinecologici e
zoogeografici.
Garibaldi, quando fu dittatore a Napoli, s'interessò
di questo centro zoologico marino e lo fece
inserire nella Esposizione Internazionale Marittima
che fu organizzata a Napoli nel 1871 nell'attuale
Piazza Principe di Napoli.
La Cassa Armonica
della Villa, ancora esistente, fu costruita nel 1877
da Enrico Alvino; essa è formata da una pedana
circolare con montanti di ghisa e con il tetto a
forma poligonale, mentre colonnine di ghisa e
traliccio metallico ne costituiscono la struttura
leggera ed elegante.
Dal 1881 la Villa iniziò a prendere il suo aspetto
attuale: fu eretto il Monumento a Sigismondo
Thalberg, opera del Monteverdi, nel 1885 quello
ad Enrico Alvino di Giovan Battista Amendola
e nel 1898 vi fu sistemata davanti all'Aquarium
la secentesca Fontana di Santa Lucia, a
cui abbiamo già accennato. Essa fu costruita durante
il vicereame di don Pedro de Toledo con fondi
raccolti dal popolo, ma poiché la somma non fu
sufficiente a pagare gli artisti, il viceré
contribuì alla spesa. Due pilastri compositi
fiancheggiano l'arco elegantemente scolpito e
sostengono il frontone spezzato; una gran vasca è
sostenuta da due delfini che versano acqua dalla
bocca. Lateralmente la fontana è decorata da
bassorilievi che raffigurano Anfitrite e Nettuno
circondati da tritoni e da divinità marine che
lottano tra loro contendendosi una procace sirena.
Un'epigrafe attribuisce l'opera a Domenico D'Auria
e a Giovanni da Nola ma si ritiene invece che ne
fosse autore il fiorentino Michelangelo Naccherino,
discepolo del Giambologna e di Tommaso Montani, nel
1607; un'altra iscrizione"ricorda l'ampliamento
della Fontana Santa Lucia a spese del viceré Borgia
nel 1620; il restauro fu opera dell'architetto
Bonucci. Nella Villa Comunale ha la sua sede anche
il Circolo del Tennis, che fu fondato nel
1905 e fu chiamato poi Lawn Tennis Club, un
sodalizio tuttora molto fiorente del quale fa parte
una rappresentanza di tutti i ceti cittadini. Fu
sistemato prima in un vecchio padiglione umbertino
che aveva un unico salone con parquet in
legno, ove un pianista allietava la sera i giovani
soci. In questo circolo, oltre il tennis, si
praticava anche il pattinaggio a rotelle, molto di
moda un tempo, e per tale diporto fu costruita un
pista sulla quale la più elegante gioventù
partenopea si cimentava in grande allegria.
Nel 1911 l'antico caffé Vacca, che era quasi di
fronte alla Cassa Armonica, fu demolito per dare
spazio a quella zona accanto al parapetto del
galoppatoio dal lato della Riviera; nel 1914 la
Villa Comunale si arricchì ancora di busti di
uomini illustri, fra cui quelli di Giosuè
Carducci, di Saverio Gatto, Giovanni Bovio
e Luigi Settembrini di Domenico
Pellegrino, Giorgio Arcoleo di Francesco
Jerace che scolpì anche quello raffigurante
Gioacchino Toma; Eduardo Scarfoglio opera di
Giuseppe Semola, Francesco De Sanctis di
Achille D'Orsi, Francesco Del Giudice di
Torello Torelli. Intorno al 1936 furono eliminati i
due galoppatoi ad a sinistra la via Caracciolo venne
allargata col vasto marciapiede verso la Villa,
mentre sul lato verso la Riviera fu messa la linea
tramviaria.
Nella rotonda di via Caracciolo si erge il
Monumento al Duca della Vittoria Armando Diaz,
felicissima opera di Francesco Magni e Gino
Lancellotti.
Invece di uscire dalla nostra Villa Comunale, che
termina in Piazza della Repubblica, ci conviene
ritornare sui nostri passi a piazza Vittoria per
rifare lo stesso itinerario lungo la storica
Riviera di Chiaja.
I primi palazzi della Riviera furono costruiti nel
secolo XVI; a quell'epoca lungo il litorale non vi
erano che casette dì pescatori e di popolani, ed i
primi edifici gentilizi sorsero come residenze di
villeggiatura, benché anche sotto questo aspetto la
zona non fosse molto consigliabile, in quanto fino
allo scadere del secolo XVIII fu paludosa e malsana.
La trasformazione di queste paludi in ridenti
giardini durò a lungo, ma nel 1696 finalmente la
strada della Riviera fu lastricata, poiché ormai vi
era stato costruito un discreto numero di palazzi:
sia sulla pianta del duca di Noja del 1775 che su
quella del Marchese del 1798 si vedono queste
costruzioni, più numerose nel primo tratto che da
piazza Vittoria va alla piazza San Pasquale, anziché
da quest'ultima alla Torretta.
II primo palazzo che troviamo, in angolo con la
discesa di via Calabritto è il
Palazzo Ravaschieri di Satriano,
nel quale i proprietari ospitarono Wolfango Goethe,
che nel suo Italienische Reise decantò la
grazia e l'intelligenza della padrona di casa,
Teresa Filangieri, e l'elegante passeggiata che
aveva luogo sotto i suoi balconi, una gara di
bellezza e di raffinatezza, dove si sfoggiavano
magnifici equipaggi e sontuosi vestiti.
Poiché alla Riviera si portavano a passeggio le
fanciulle da marito, era vietato soffermarvisi alle
donnine allegre. Sotto questo palazzo vi è stato per
un certo periodo un piccolo caffé comunemente
chiamato il « caffettuccio » il cuo vero nome era il
Caffé Recupito, elegante e mondano. Quando ancora
non esistevano i café-chantants in questo
locale dopo il San Carlo si riunivano le attricette
e la jeunesse dorée maschile della città
nonché i poeti, musicisti e giornalisti che solevano
intrattenersi sino all'alba.
Il palazzo Ravaschieri fu, come abbiamo accennato,
uno dei primi ad essere costruito alla Riviera; la
sua severa facciata adorna di busti marmorei fu
eretta nel 1601. L'edificio ha un ampio cortile ed
una bella scalea settecentesca opera del Sanfelice.
La sua storia è legata ad una famiglia principesca,
quella del principe di Cariati, che l'occupava
intorno al 1662, che fu causa di un luttuoso
episodio, partito da uno stupido malinteso accaduto
durante uno dei suoi sontuosi ricevimenti.
Una sera il principe della Pietra, ospite appunto
del Cariati, nel vedere una cagnetta bastarda che
uscì abbaiando dal suo rifugio dietro una poltrona,
ebbe l'infelice idea di osservare che rassomigliava
moltissimo ad una che aveva smarrito la sua
insopportabile suocera, la principessa
di Monteaguto, che lo
infastidiva continuamente perché gliela ritrovasse.
La cagnetta rassomigliava tanto a quella perduta che
il principe della Pietra, che probabilmente doveva
aver bevuto qualche bicchierino in più, disse al suo
ospite di restituirgliela immediatamente. Il Cariati
fece l'impossibile per far comprendere al suo
ospite con le buone che la cagna era sua e quindi
non poteva essere quella dispersa dalla suocera, ma
poi una parola tirò l'altra, e il bisticcio terminò
in una sfida, e in ottemperanza al vecchio codice
cavalleresco gli sfidati scesero sul terreno non da
soli, ma con gli amici, che avevano preso partito
per l'uno o per l'altro. Lo scontro si effettuò
all'alba nell'ampio cortile del palazzo e vi perse
la vita un cavaliere, ferito dal principe della
Pietra. Nonostante le gravi conseguenze di questo
inutile duello, il viceré, poiché i responsabili
appartenevano al patriziato, non prese alcun
provvedimento contro i colpevoli e concesse la
grazia a tutti, ma, evidentemente scossi dalle
proporzioni prese da una futile lite, ben
trecentosessantadue cavalieri si impegnarono
solennemente, apponendo la loro firma a un
documento, a non far più duelli in gruppo né
tanto meno per questioni di così poca
importanza.
Questo palazzo fu anche residenza vicereale: vi
abitarono il viceré marchese di Astorga ed il suo
successore marchese di Los Velez, giunto a Napoli
nel 1675 dopo essere stato viceré di Sardegna, che
vi tenne un'importantissima corte. Questo gentiluomo
spagnolo si guadagnò l'affetto dei napoletani
rifiutandosi nel 1679 di attingere alle misere borse
del popolo per il governo di Madrid. In occasione
del matrimonio di Carlo II con Maria Luisa però gli
furono richiesti trecentomila ducati e poiché non
era riuscito a racimolarli dovè imporre una tassa
sulla fabbricazione dell'acquavite. A questo
viceré, che lasciò definitivamente Napoli nel 1682,
si deve la proibizione del passeggio lungo la
Riviera alle prostitute. Il periodo in cui ospitò
la corte vicereale rappresentò il momento migliore
nella vita di questo palazzo, perché le possibilità
finanziarie dei Ravaschieri di Satriano non
avrebbero permesso loro di poter ricevere con tanta
magnificenza.
Subito dopo il Palazzo Satriano incontriamo il
vicolo omonimo, che incrocia la via intitolata al
patriota Carlo Poerio, una stretta e antica strada
parallela alla Riviera che da piazza dei Martiri,
angolo via Calabritto, conduce in piazza San
Pasquale. Questa strada era prima chiamata vico
Freddo a Chiaja in quanto i giardini che partivano
dal Palazzo di Garcxa de Toledo in Largo Ferrandina,
davano una piacevole frescura a coloro che passavano
di qui. Il prolungamento del vico Satriano, via
Bisignano, taglia via Alabardieri, così chiamata
perché vi era una caserma di questo corpo speciale
soppresso nel 1784 che di solito faceva da scorta ai
sovrani, e termina al bivio con via Cavallerizza.
Una seconda trasversale di via Carlo Poerio, via
Domenico Fiorelli, conduce poi in largo Ferrandina.
Ritornando alla Riviera, troviamo all'altro angolo
di vico Satriano il
Palazzo San Teodoro
che aveva anche un ingresso secondario nel vicolo,
chiuso da tempo.
Questo edificio nel 1826 fu restaurato ed ampliato
dall'architetto Guglielmo Bechi con una linea
neoclassica-pompeiana dopo che il duca di San
Teodoro ebbe acquistato alcune abitazioni adiacenti
dalle famiglie Pannone e de Tocco.
Seguiva il
Palazzo Ischitella,
non più esistente, che fu uno dei primi ad essere
costruito in questo primo tratto della Riviera di
Chiaja, dopo il Satriano. Appena costruito, nel
1647, poiché il proprietario, il nobile Mattia
Casanatte, era Reggente della Città in questo
critico momento storico, fu saccheggiato e quasi
distrutto dai rivoluzionari di Masaniello. Il
Casanatte, un nobile aragonese, per salvarsi la vita
fu costretto ad abbandonare il palazzo; in seguito
se ne tornò in Spagna, mentre dei suoi due figli,
uno, che era cardinale, si trasferì a Roma, e
l'altro, che per difendere il padre era stato
criticato, morì a Napoli tragicamente.
Esaminando una carta di questo tratto della Riviera
di Chiaja del 1694 ci si accorge che il palazzo fin
da allora era veramente imponente, a due piani e con
due ingressi, dotato di molte finestre con fini
decorazioni in marmo ed artistiche inferriate.
L'edifìcio poi passò ai Pinto, principi di
Ischitella, una famiglia oriunda dal Portogallo e
precisamente a quel principe che fu « scrivano di
Razione », che volle ingrandirlo e abbellirlo
nell'interno facendo decorare finemente i saloni
del piano nobile. L'ultimo di questa famiglia, che
fu proprietario del palazzo, fu il principe
Francesco Pinto, che era stato insignito anche del
marchesato di Giugliano. Dopo essere stato
dignitario di corte di re Giuseppe Bonaparte, don
Francesco partecipò da valoroso alla campagna di
Russia nell'esercito napoletano di Gioacchino Murat:
quindi dopo la triste fine del re francese, non era
facile tornare a Napoli. Egli non solo vi riuscì,
ma fu anche ripreso nell'esercito borbonico, e,
dato il suo passato di valoroso combattente e di
gran dignitario di corte, nel 1848 Ferdinando II
volle riconoscere tutti i suoi meriti nominandolo
Ministro della Guerra. Tale rimase sino al 1855,
dedicandosi alla nuova causa con grande lealtà; e
quando Garibaldi entrò con i suoi uomini a Napoli,
il principe Pinto lasciò la città e scomparve
nell'anonimato. Il palazzo passò poi al proprietario
dei caffé Europa e Donzelli che ne fece un albergo
chiamandolo prima Gran Bretagna e poi Riviera; agli
inizi di questo secolo infine vi ebbe sede un
circolo fondato da un'associazione napoletana di
carità. In seguito questo antico edificio è stato
demolito e ricostruito in una veste moderna che
guasta tutta la linea architettonica di questa
magnifica Riviera. L'attiguo vico Ischitella che
prese il nome dagli antichi proprietari del palazzo,
congiunge anch'esso la Riviera con via Carlo Poerio
ed immette direttamente ne] parco Bivona,
appartenuto alla famiglia Alvarez de Toledo. Nella
palazzina in questo parco abitò il conte di
Caltabellotta, consorte di una principessa Colonna
di Paliano, famoso perché nei suoi saloni amava dare
concerti per gli amici.
Tornando alla Riviera troviamo il
Palazzo Cioffi,
con un elegante androne adorno di statue di marmo e
quindi il
Palazzo Petagna,
appartenuto al principe Trebisaccia, che ha nel
cortile una graziosa fontana.
Incontriamo inoltre la piccola
Chiesa di San Rocco,
presso la quale era il monastero di San Sebastiano,
tenuto da monache ed officiato da quattro frati
domenicani che provvedevano anche alla riscossione
del diritto di pesca per la parte del litorale
prospiciente al monastero, che spettava a queste
monache. Questo antico diritto era stato concesso
dal duca Sergio di Napoli e riconfermato da Carlo II
d'Angiò e poi da re Roberto al convento di San
Pietro a Castello.
La chiesa originariamente doveva essere molto più
grande, con cinque altari, sul maggiore dei quali in
una nicchia di marmo vi era una miracolosa statua
del santo, protettore dei pellegrini e dei
viandanti. Nel 1819 Ferdinando IV fece aprire nel
retro un secondo ingresso concedendolo alla
Confraternita del Rosario che, pur lasciando
titolare della chiesa il santo dei pellegrini, fece
rimodernare l'edificio, forse restringendolo. Il
monastero fu venduto ai proprietari dei palazzi
limitrofi, ma la chiesetta è rimasta, anche se
incorporata in un palazzo; essa deve ritenersi una
delle prime costruzioni effettuate sulla Riviera,
poiché la sua data di edificazione si aggira
intorno al 1530.
Segue il
Palazzo Pignatelli di Strongoli
costruito nel 1829
con sobria facciata
neoclassica dall'architetto Niccolini:
l'appartamento nobile ha la fronte con balconi a
timpano e bugne paraspigoli.
Il proprietario era nel 1860 il principe di
Strongoli e conte di Melissa don Francesco
Pignatelli che sposò donna Adelaide del Balzo,
esimio letterato, noto per una elegante traduzione
dell'Eneide; la consorte fu membro
dell'Accademia Pontaniana, cosa eccezionale se si
pensa che fecero parte di questa famosa accademia
soltanto altre due donne : la duchessa d'Angri e la
professoressa Bacunin. Molto amica di Vittorio
Emanuele e Margherita di Savoia quando erano
principi di Napoli, la principessa Adelaide fu con
nomina reale creata ispettrice di vari istituti.
Qui, con piazza San Pasquale, termina il primo
tratto della Riviera di Chiaja. Dà il nome al largo
la francescana
Chiesa di San Pasquale
fatta costruire su disegno di Giuseppe Pollio da
Carlo di Borbone nella metà del secolo XVIII in
ringraziamento per la nascita del primogenito;
prima, il convento e la chiesa appartenevano ai
frati Alcantarini.
La chiesa, ultimamente restaurata nel 1970, a dire
il vero, non presenta nulla di notevole né dal lato
storico né dal Iato artistico. Potremmo segnalare
soltanto che in essa si conserva il corpo del beato
Egidio, un frate laico francescano morto in concetto
di santità, che fu molto conosciuto per i suoi
miracoli nel periodo del decurionato francese. Da
una porticina laterale si accede al convento e ad
una piccola grotta dedicata alla Madonna di Lourdes
molto venerata dai giovani e dalle giovani che vi si
soffermano prima di andare alle tante scuole che
sono in questa zona.
In questo largo sfocia la via Carlo Poerio di cui
abbiamo precedentemente parlato, e, in senso
perpendicolare alla Riviera, la via Carducci che
sale per piazza Amendola a via dei Mille, così come
la parallela via San Pasquale a Chiaja. Via
Carducci, aperta prima dell'inizio della seconda
guerra mondiale, è fiancheggiata da palazzi
moderni: in via San Pasquale, anch'essa moderna
all'inizio ma alquanto più vecchia alla fine,
ricordiamo la Chiesa Evangelica. Via San
Pasquale e via Carducci sono unite ed intersecate
da strade parallele: via A. Torelli, via Vittorio
Imbriani, via Vincenzo Cuoco e qualche altra più
piccola di scarso interesse.
In piazza San Pasquale vi era sin dagli inizi
del secolo XVIII un mercato del pesce che veniva
chiamato 'a preta 'o Pesce, ovvero la Pietra
del pesce, e poiché ogni medaglia ha il suo
rovescio, mentre vi si poteva acquistare del pesce
fresco, l'odore di questa zona non era tra i
migliori. A prescindere da questo mercato, poi,
proprio in questa direzione le donne del borgo di
Chiaja andavano a lavare i loro panni ed a buttare a
mare gli esiti dei loro bisogni corporali, e Giovan
Battista Basile nel suo Cunto de li cunti ci
racconta che da questo litorale proveniva un odore
così sgradevole che veniva detto volgarmente « la
malora di Chiaja ». Non essendovi fognature le
massaie non avevano altra scelta, nonostante i
viceré vietassero quest'usanza.
All'angolo della piazza facciamo iniziare il secondo
tratto della Riviera; qui un edificio moderno
sostituisce malamente un antico palazzo appartenuto
agli Ulloa, che era stato eretto agli inizi del '600
dal duca di Lauria Adriano Ulloa o secondo alcuni
dalla Casa degli Incurabili e poi venduto al duca.
Seguono il
Palazzo Bagnara a Chiaja,
così chiamato per distinguerlo dall'altro che
vedremo a piazza Dante ed il
Palazzo Serracapriola,
costruito verso la fine del 700, che per un certo
tempo ha ospitato il Caffè Riviera.
Questo palazzo, a differenza del precedente che non
ha nessun interesse artistico o storico, è legato
al periodo francese della storia napoletana per
un'esplosione avvenuta il 31 gennaio del 1808 che ne
causò la distruzione di una parte e alcune vittime.
Abitava allora qui il ministro di polizia Giuseppe
Cristoforo Saliceti che in questa esplosione fu
ferito, con la figliola e il genero duca di Lavello.
Poiché al piano terra della parte che andò
distrutta, quella che fa angolo con via Bausan, vi
era la bottega di uno speziale, si sospettò che
questi, un certo Onofrio Viscardi, filoborbonico,
avesse causata l'esplosione, che si pensò potesse
essere una vendetta della regina Maria Carolina
contro l'odiato Saliceti. A dire il vero fu
incolpato in principio persino il ministro delle
finanze Roederer, anch'egli in urto col ministro di
polizia, ma in seguito la sua colpevolezza fu
esclusa. L'inchiesta fatta da tre generali stabilì
che l'esplosione era stata causata da una carica di
ben cento libbre di polvere, e tutti i sospetti
ricaddero sui familiari dello speziale, che furono
costretti a dichiararsi colpevoli e confessarono
anche di essere stati istigati da alcuni messi
inviati dalla regina Maria Carolina. Si disse che
questa confessione fosse stata strappata ai Viscardi
con torture e minacce, ma, quel che è certo, la
disgraziata famiglia pagò con la forca il suo
delitto; poiché lo speziale non fu giustiziato si
sussurrò che avesse avuta salva la vita perché aveva
fatto da delatore a danno di altri, ma l'anno
seguente anch'egli morì, sembra tragicamente. Il
proprietario del palazzo, il duca di Serracapriola
Antonio Maresca Donnorso, quando avvenne
l'esplosione si trovava alla corte di Pietroburgo
quale Ministro plenipotenziario di Ferdinando IV,
dal quale era molto stimato. Il sovrano spodestato
affidava importanti negoziati al brillante
diplomatico, il quale sembra che si fosse
conquistata la simpatia di Caterina di Russia a tal
punto che l'imperatrice gli avrebbe promesso che se
fosse riuscita a debellare la Turchia con una pace
onorevole avrebbe donato al Regno di Napoli le coste
albanesi. Rimasto vedovo della prima moglie, Maria
Adelaide del Carretto di Camerano, Antonino Maresca
si risposò in Russia con la figliola del Procuratore
Generale di tutte le Russie, il principe Alessandro
Wiazemski e si mise così in vista che fu poi
prescelto per essere inviato al Congresso di Vienna
a difendere la causa del suo re. Questo congresso,
durato dal 22 settembre 1814 al 9 giugno 1815,
avrebbe dovuto determinare il nuovo assetto
dell'Europa nella ricerca di una pace duratura e di
una ripartizione equa dei territori, ma il
Metternich fece la parte del leone e l'Austria
divenne padrona di vari stati italiani; rimasero
liberi, praticamente, soltanto il Piemonte ed il
Regno di Napoli che fu restituito a Ferdinando IV.
Il sovrano borbonico sul momento fece grandi
promesse al Maresca, ma quando avvennero i moti del
1820-21 dei quali l'Austria fu indirettamente
responsabile, diede al suo diplomatico la colpa di
non essere riuscito ad evitare l'ingerenza austriaca
nel Regno. Poco dopo, nel 1822 il duca morì a
Pietroburgo.
Attualmente questo palazzo è stato sostituito da una
costruzione moderna, dopo che, a causa di un
incendio avvenuto nel 1944, era stato in parte
distrutto: anche a quell'epoca il proprietario,
Giovanni Maresca di Serracapriola, era assente, in
India, e sembra che l'incendio si sviluppasse in
alcuni saloni che le forze armate americane avevano
requisito per farvi un circolo.
Una strada sulla destra è intitolata al valoroso
ufficiale della Marina Napoletana Giovanni Bausan,
che combatté su una nave inglese con l'ammiraglio
Bodney alla battaglia di Capo San Vincenzo. Quando
Ferdinando IV di Borbone si rifugiò in Sicilia,
poiché la nave britannica su cui era il sovrano non
riusciva ad entrare in porto si chiamò a bordo il
Bausan, la cui perizia era ben nota, perché
comandasse la manovra. Nel 1808 lo troviamo
alla riconquista di Capri
e nel 1810 valoroso combattente nelle acque di
Napoli.
Questa piccola strada era prima chiamata del
Carminiello, per una chiesa intitolata alla Vergine
del Carmelo che ci risulta esistente sin dal 1619;
annesso vi era anche un convento, i cui frati nel
1714 si lamentarono presso l'autorità di polizia
perché nel vicoletto adiacente, quello
dell'Ascensione avvenivano « scandalose opere alle
quali la solitudine di detto vicolo serve di
incitamento e d'asilo ». Accanto al convento vi era
un forno molto accorsato che panificava in modo
eccellente, ma agli inizi del secolo scorso, chiesa,
convento e forno furono demoliti e qui fu costruito
il Palazzo Ludolf.
Degno di rilievo, segue il
Palazzo dei Ruffo della Scaletta,
appartenuto prima ai
principi di Belvedere e precisamente al cardinale
Diomede Carafa, per cui ancora da alcuni è chiamato
Carafa del Belvedere.
Il cardinale fece incidere sulla facciata il suo
stemma cardinalizio con un distico virgiliano; la
proprietà passò poi al principe di Bisignano Tiberio
Carafa che nel suo parco creò un giardino zoologico,
riunendovi anche delle bestie feroci, tra cui un
leone, divenuto peraltro così mansueto da essere il
divertimento dei bimbi del vicinato. Si racconta che
un giorno il principe portasse il leone con sé in
una trattoria e lo legasse ad una inferriata, e che
l'animale avendolo visto allontanarsi, per scendere
sulla strada si lanciasse nel vuoto
strangolandosi.
Nel 1832 l'edificio fu ampliato e restaurato da
Francesco Saverio Ferrari che rifece la facciata,
mentre il cortile, le scale ed i due appartamenti
nobili furono decorati da Guglielmo Bechi, lo stesso
architetto del Palazzo San Teodoro; questi provvide
anche alla sistemazione dei giardini, dei quali una
parte nel tempo passarono all'attigua Villa
Pignatelli. La scala di questo palazzo è ricordata
per un aneddoto... borbonico: il proprietario, il
principe Ruffo della Scaletta, l'aveva ridotta per
ingrandire l'appartamento al piano nobile. Poiché
una sera che ebbe l'onore di accogliere in casa re
Ferdinando, dopo aver ammirato i saloni, il sovrano
si disse spiacente di non poter fare altrettanto
per la scala, che era troppo modesta, il Ruffo pensò
bene di allargarla di nuovo. Le diede quindi tanto
spazio che quando invitò un'altra volta il re,
quegli scherzosamente osservò che la scala era molto
bella ma si era « magnato tutt' 'o palazzo ».
Anticamente il parco giungeva sino alla collina del
Vomero; nel 1825, poi, i Belvedere ne vendettero due
ettari a lord Guglielmo Drummond che a sua volta li
passò al baronetto di Aldenham Ferdinando Acton, che
per sfuggire alla persecuzione dei cattolici era
andato prima in Francia e poi si era trasferito a
Napoli. Il terreno fu acquistato per costruirvi una
villa, della quale si affidò la realizzazione ad un
allievo del Niccolini, l'architetto Pietro Valente;
le decorazioni interne e i disegni del parco furono
invece opera dell'architetto Bechi, e tutto
l'insieme fu terminato intorno al 1830. Il risultato
fu una costruzione neoclassica dalla tipica linea
inglese molto bene ambientata con il bel parco. Per
dare un certo tono all'ingresso l'architetto
concepì la costruzione di due piccoli edifici uniti
da una cancellata attraverso la quale dalla strada
si può ammirare ancora oggi la Villa Pignatelli.
Anche per questa costruzione non mancarono
critiche, poiché fu trovato sproporzionato il
rapporto tra la fronte della facciata ed il
porticato: Michele Ruggiero, ad esempio, riteneva di
riscontrare poca avvedutezza nel disegno dell'atrio
posto davanti alla casa e alle colonne, che
occupano metà della vista dei pilastri che sono
arretrati.
Ai tempi degli Acton la villa era tenuta con grande
larghezza di mezzi, ma quando morì don Ferdinando
nel 1837, la vedova, Maria Luisa Pelline D'Alberg,
dopo tre anni si risposò con il conte di Grandville,
che sarebbe divenuto un giorno il presidente della
Camera dei Lords, e decise di trasferirsi a Londra
con il figlio Giovanni Emerick. Nel 1841 quindi la
villa fu venduta: Carlo Lefebure e Francesco
Verhulet comprarono parte del terreno, mentre il
giardino, la villa vera e propria e le dipendenze
furono acquistate dal magnate della finanza
germanica barone Carlo Meyer von Rotschild che era
venuto a Napoli nel 1821 per sostenere e
finanziare le truppe austriache del Metternich. Nel
1842 i Rotschild fecero costruire i loro uffici
distaccati dalla villa, che mantennero come lussuosa
residenza. Quindi diedero incarico all'architetto
Gaetano Genovese di allargare e adattare alcune
sale, la sala Rossa e la biblioteca, mentre un
architetto francese di cui non conosciamo il nome
ebbe il compito di decorare due sale, quella per i
balli e l'altra « azzurra ». Poiché la felicità non
è di questo mondo, in questa famiglia nel 1855
morirono tre fratelli su cinque; la loro potenza
finanziaria, sin dal 1848 aveva incominciato a
declinare, forse a causa di quei moti rivoluzionari
che scossero lo stato dalle fondamenta. Quando la
famiglia Borbone lasciò Napoli, i superstiti
Rotschild vollero seguirla, e, riservandosi soltanto
i due piani dell'edificio adibito ad uffici,
vendettero nel 1867 la villa al duca di Monteleone
Aragona Pignatelli Cortes che vi trasferì la sua
residenza. II duca Diego, nel 1886, sposò la
duchessina di Amalfi Rosa Fici e dopo il suo
matrimonio rese questa villa una vera reggia.
Rimasta vedova, la principessa decise di abbandonare
la vita mondana e di dedicarsi soltanto alla cura
dell'amministrazione delle proprietà e alla
sistemazione dell'importantissimo archivio di
famiglia, che andò personalmente riordinando
nell'attiguo edificio di Santa Maria in Portico.
Questo archivio, passato oggi all'Archivio di Stato
in Napoli, contiene documenti risalenti sino al
secolo XIII. L'unica abitudine mondana che la
duchessa di Monteleone volle conservare fu quella
di far dare nei saloni della sua villa i concerti
dell'Accademia Napoletana. Alla sua morte, avvenuta
nel 1952, la villa per suo desiderio fu donata allo
Stato completa di arredamento affinché se ne
facesse un museo intitolato al principe Diego:
attualmente in un padiglione in fondo è ospitato il
Museo delle Carrozze, la cui raccolta, se
così può chiamarsi, fu donata dal Marchese di
Civitanova. La Villa è sotto la giurisdizione delia
Soprintendenza alle Gallerie e pur essendo oggi un
Museo, viene usata, a discrezione insindacabile del
sopraintendente, per manifestazioni e mostre.
Appena entrati nel portico di ingresso si ammirano
due busti del Persichetti del 1959 raffiguranti il
Principe Diego Pignatelli e la consorte
Principessa Rosina; nell'atrio vi sono quattro
vasi antico Giappone con festosi fiori ed uccelli e
sulla destra, all'inizio della scala, un busto
secentesco in bronzo raffigurante Ferdinando
Cortes. Nella Sala Rossa vi è un bel tavolo
rotondo in marmo con pietre dure e quattro angeli
porta-candelabri a fianco delle porte; si entra poi
nella Sala da Ballo ove si notano splendidi
lampadari francesi e specchiere finemente
intagliate; segue la Sala di Musica, con un vecchio
pianoforte e delle consolles sovrastate da
grandi specchiere sulle quali poggiano vasi di
porcellana policroma del Giappone; in fondo vi è un
piccolo ambiente semicircolare con decorazione in
stile pompeiano.
La sala Azzurra ha una grande consolle con
vaso di Sassonia e candelabri francesi mentre sul
camino trionfa un magnifico orologio francese
settecentesco eccezionale anche per la sua
grandezza, con figure allegoriche rappresentanti il
Tetnpo e l'Astronomia. In una vetrina
si ammirano alcune porcellane dorate di Sassonia,
due candelabri Wolfsohn di Dresda, altre figurine e
gruppetti tra i quali uno raffigurante un Ratto
di Proser-pina, un servizio da caffé decorato in
oro e una piccola zuppiera ornata dì fiori a
rilievo. Nel soffitto della Sala Rossa, tappezzata
in damasco, vi è un affresco di ignoto autore
settecentesco raffigurante l'Architettura
contornato da due genii dei quali uno impugna la
pianta della villa. Sul caminetto vi è un orologio
francese del secolo XIX e sulle ricche consolles
dei vasi policromi di Sassonia e altri di
porcellana giapponese oltre a candelabri di bronzo
dorato. La Sala Verde ha alle pareti tre pannelli
dipinti dal cinquecentesco Giovan Filippo
Criscuolo, discepolo di Andrea da Salerno e nella
vetrina a muro delle porcellane viennesi del
settecento delle quali una molto importante
raffigurante la Liberazione di Andromeda,
oltre ad alcune zuppierine ed antiche posate con
manici di porcellana. In un'altra vetrina si
ammirano porcellane di Capodimonte, di Napoli e di
Venezia, con un rarissimo vetro di Murano del secolo
XVIII, e piatti e vasi di maiolica Giustiniani e del
Vecchio, oltre a una grande zuppiera di porcellana
veneziana del settecento. Nella vetrina a sinistra
si vedono invece porcellane inglesi Chelsea e Bow,
dei puttini di Doccia, delle porcellane di Zurigo e
di Meissen, e nella vetrina opposta all'ingresso, a
sinistra, porcellane cinesi del secolo XVIII,
porcellane Gres, due vasi Ch'ien-Lung anche
del settecento, e un biscuit di Sévres,
semprecché nulla sia stato spostato dal suo
posto.
Nella vetrinetta di mogano a destra vi è un servizio
per caffelatte in porcellana di Sévres decorato a
Napoli da Giovine oltre a dei bicchieri di
porcellana decorati dallo stesso artista che
vogliono ricordare alcuni fatti del Ministero Ferri
del 1846 e un orologio settecentesco con figure
allegoriche di porcellana di Meissen. La Sala da
pranzo ha la tavola sempre apparecchiata con
argenteria, porcellane e servizio di bicchieri
inglesi del secolo scorso con Io stemma della
famiglia e due splendidi candelabri d'argento. Alle
pareti, nature morte del '700 e sui mobili zuppiere
e piatti decorati in porcellana di Sévres, di Nove e
di Napoli, oltre a coppe e vasi giapponesi. La
biblioteca è costituita da varie librerie e alle
pareti vi sono dei Piatti d'Abruzzo
raffiguranti Maria Carolina, Giuseppe Pignatelli del
pittore Carlo Labarbera, Rosina Pignatelli di
Giuseppe de Sanctis, papa Pignatelli, Innocenzo XII,
incisioni di Blondeau di G. M. Morandi e piccoli
mobili intarsiati di tartaruga e di avorio. Sulla
tavola centrale vasi di porcellana giapponese,
mentre le pareti, le poltrone e le sedie sono
rivestite di cuoio di Cordova. Nel salottino
ellittico altro busto di bronzo di papa Pignatelli,
un secrétaire Luigi Filippo, una vetrina in
mogano e tartaruga con dei biscuits di
Napoli e di Sévres, dei quali uno molto bello
raffigurante una giovane donna sdraiata, in analogia
alla figura di Carolina Bonaparte nel gruppo
dell'Aurora di Grassi che attualmente è al Museo
di Capodimonte. Vi è inoltre una vetrinetta inglese
con piccoli busti di personaggi classici e un'altra
in mogano con un magnifico servizio di porcellana di
epoca impero. L'atrio veranda ha delle copie di
statue antiche, oltre ad un busto marmoreo
raffigurante Innocenzo XII, uno di
Clemente XI, che successe al papa Pignatelli
nel 1700, ed uno del Duca di Monteleone da
antico romano, opera dello scultore siciliano
Leonardo Pennino, eseguito a Roma nel 1721. Il
giardino all'inglese contiene magnifiche araucarie
ed altre piante rare, come Magnolia grandiflora,
Rhododendron hibridum, Zamia integrifolia, Cycas
Revoluta, Chamaedorea Elegans, Kentia Foresteriana,
e Belmoreana, Sterlitzia Reginae e Augusta, Hibiscus
Sinen-sis, Camelia iaponica.
Attiguo a questa villa troviamo il
Palazzo Siracusa,
poi Caravita di Sirignano,
greve e pesante, che occupa l'area di vari
fabbricati preesistenti: esso affaccia alla Riviera,
ma ha l'ingresso principale sulla via del
Rione Sirignano.
La parte più antica di questo palazzo fu costruita
nel secolo XVI per desiderio del marchese della
Valle don Ferdinando Alarcon, un generale spagnolo
al servizio di Carlo V, assurto a grandi ricchezze e
grandi onori per essere stato uno degli amanti della
regina Giovanna d'Aragona. Questo potrebbe quindi
essere considerato il più antico dei palazzi alla
Riviera, o per lo meno lo è senz'altro quella torre
all'angolo orientale della facciata che doveva
essere di vedetta per la difesa dai pirati turchi.
Agli inizi del '700 dagli eredi Della Valle il
palazzo passò al principe Caracciolo di Torella come
bene dotale di un'unica figlia e nel 1815 fu
completamente rinnovato da Antonio Annito: nel 1838
lo acquistò poi il conte di Siracusa Leopoldo di
Borbone, noto per le sue idee liberali. Egli lo fece
rimodernare dall'architetto Fausto Niccolini e così
il palazzo di' venne il luogo di ritrovo degli
aristocratici napoletani che come lui erano in
politica all'avanguardia. In quel tempo vi erano
annessi circa quattordicimila metri quadrati di
parco, nel quale era stato creato anche un teatrino
dove il conte di Siracusa, mecenate, scultore e
filodrammatico, organizzava recite e
rappresentazioni. L'edificio passò dopo il 1860 al
barone Compagna ed infine al principe Caravita di
Sirignano che lo fece ricostruire dotandolo di una
seconda torre simmetrica a quella antica e lottizzò
poi il gran parco per costruirvi dei tetri
palazzoni. In questo palazzo abitarono il conte de
Marzi, Placido de Sangro, che donò al Museo della
Floridiana la preziosa raccolta di porcellane e un
nipote del cardinale Sisto Riario Sforza, il duca
Nicola, nei cui saloni si ammiravano gli splendidi
arazzi di Casa Doria con la raffigurazione delle
Quattro Stagioni. In questo rione dove il
verde, ahimé, è quasi completamente scomparso,
abitarono altri due noti personaggi, lo scultore
Cangiullo, illustre discepolo del Toma, ed il più
grande spadaccino italiano, il marchese Luigi
Mastel-loni di Capograssi, l'unico che riuscì a
battere il campione europeo Agesilao Greco. Questo
patrizio napoletano apparteneva alla famiglia di
quel marchese Emanuele che fu Ministro di Grazia e
Giustizia della Repubblica Partenopea del 1799,
fratello del duca di Salza don Mario.
La prossima strada a destra, via Santa Maria in
Portico, si apre tra i due
Palazzi Schioppa e Gallo,
il primo dei quali era di una famosa modista
francese e l'altro appartenne al duca Mastrilli del
Gallo, abile diplomatico presso Napoleone. La strada
prende il nome dall'antica
Chiesa di Santa Maria in Portico,
costruita all'inizio del '600 per volere della
duchessa di Gravina Felice Maria Orsini, che aveva
in questa zona una estesa proprietà costituita da
un palazzo e da giardini che giungevano sino al
Vomero. Rimasta vedova, la gentildonna, dopo essersi
consigliata con i padri gesuiti, volle trasformare
il suo palazzo in monastero. In seguito, a causa di
alcune divergenze di vedute con la loro
benefattrice, questi religiosi furono sostituiti dai
Chierici Regolari, un Ordine toscano fondato dal
beato Giovanni Leonardo. Essi provvidero
all'edificazione della chiesa, che fu dedicata alla
Vergine di Santa Maria in Portico, venerata anche a
Roma, la cui miracolosa immagine già durante la
peste del 1656 attirò grande affluenza di fedeli
nella chiesa presso la Riviera.
Attualmente questo tempio si presenta con la
facciata rifatta nel 1862 e con una graziosa cupola
sull'abside: vi si possono ammirare, nella prima
cappella a sinistra, alcuni affreschi di Luca
Giordano e una Nascita della Vergine di
Fedele Fischetti del 1766 ed in una cappella a
destra un Crocefisso in legno del secolo XV
di eccezionale bellezza. Notevole il Presepe,
con pastori a grandezza naturale, un valido esempio
di quest'arte napoletana; in legno e riccamente
vestiti, si ritiene siano della metà del secolo
XVII.
Dalla chiesa di Santa Maria in Portico, si può
imboccare la via Girolamo Piscicelli, che conduce in
largo Ascensione, oppure via Martucci, che sale a
piazza Amedeo; sulla sinistra della chiesa vi è un
dedalo di vicoli e vicoletti ove l'unica strada da
ricordare è la via Campiglione.
Dopo questa breve deviazione ritorniamo alla Riviera
e, dopo aver superato qualche palazzetto di scarso
interesse, come il
Palazzo Belgioioso
che appartenne al principe di Cerenzia, si incontra
il
Palazzo Capece Minutolo di Bugnano,
che in origine era di proprietà del Pio Monte della
Misericordia, ma nel tempo fu interamente rifatto e
adibito ad albergo. Segue il piccolo
Palazzo Como
che non ha alcun interesse artistico ma dal lato
storico-folkloristico è legato al ricordo della
famosa « mazzarella di San Giuseppe ».
I napoletani hanno spesso sentito dire la frase «
non sfrocolià 'a mazzarella 'e San Giuseppe »
passata a significare « non dar fastidio, non
svegliare i cani che dormono! » Questa espressione
solo in un secondo momento ha assunto il suo
significato scherzoso, mentre quello originale era
puramente letterale. Infatti era conservato a Napoli
un avanzo del bastone di San Giuseppe, una reliquia
non si sa come giunta dall'Inghilterra nel secolo
XVIII e custodita in una cappella dal cantante
Grimaldi, molto noto nei teatri napoletani del
secolo XVIII, nel suo appartamento alla Riviera di
Chiaja, proprio in questo palazzetto Como attiguo
alla chiesa. II giorno del santo, il 19 marzo,
mentre di fronte alla chiesa si disponevano le
bancarelle con le zeppole e in via Medina, ove era
un'altra chiesa dedicata a San Giuseppe, si
allestiva la tradizionale fiera degli uccelli, il
Grimaldi esponeva per tutto l'ottavario alla
venerazione dei fedeli e della corte la reliquia che
conservava gelosamente. Egli era però costretto a
farla sorvegliare da un suo servitore, il veneziano
Andrea Muscìano, poiché non era facile tenere a bada
i cosiddetti fedeli che per fanatismo o per
vandalismo, approfittando della ressa cercavano di
portarsi a casa un po' di « mazzarella ». E se
qualcuno allungava le mani verso la reliquia veniva
appunto ammonito: « Non sfrocoliate la mazzarella di
San Giuseppe! ». Pare però che nonostante la
sorveglianza, al termine dell'ottavario la «
mazzarella » si trovasse sempre più assottigliata e
accorciata con grande dispiacere del Grimaldi.
Alla morte del Grimaldi la reliquia passò ai suoi
discendenti e ad un certo punto fu causa di lite tra
fratelli, finché dopo lunghe questioni giudiziarie
il tribunale decise di affidarla alla badessa del
monastero di San Giuseppe de' Rossi e poi al Real
Monte e Congregazione di San Giuseppe de' Nudi in
via San Potito, ove riteniamo che quanto ne rimane
sia conservato insieme ad una parte del mantello
del Santo.
In questa zona vi erano molti « casini » di
villeggiatura, non più esistenti; oltre a quelli di
cui abbiamo già parlato ricorderemo quelli del
marchese Faxado e quello del Reggente Moles. Questo
tratto della Riviera era chiamato « il borgo di San
Leonardo », essendo nato intorno all'omonima chiesa
non più esistente che si ergeva su un lembo di terra
distaccato dalla riva sì da costituire quasi
un'isoletta: vi si accedeva attraverso una porta ad
arco varcando un piccolo ponte. Sembra che questa
chiesetta fosse stata costruita per un voto fatto
al santo di cui portava il nome da un gentiluomo
castigliano che, sorpreso da una tempesta mentre
navigava nel golfo, si sarebbe salvato toccando
terra in quel punto della spiaggia. La chiesa,
chiamata di San Leonardo ad insulam, fu
officiata prima dai monaci basiliani e poi dai
domenicani : essa ed il suo convento sono legati
alla storia del periodo aragonese e della Congiura
dei Baroni perché una nobildonna napoletana,
Mondella Gaetani, principessa di Bisignano, il cui
marito era già in galera, essendo fra quelli che
avevano congiurato contro re Ferrante, per sottrarre
i teneri figlioletti alle ire del sovrano riuscì a
rifugiarsi presso i buoni frati. Subito dopo, sempre
grazie all'aiuto dei religiosi, di lì potè
imbarcarsi su un legno romano e mettersi in salvo a
Terracina, in suolo pontificio.
Di fronte al complesso religioso, sulla spiaggia, vi
era la Taverna di Florio, ricordata da molti
napoletani. Lo scoglio di san Leonardo durante i
moti di Masaniello fu conteso fra gli spagnoli e i
rivoltosi napoletani; in seguito fu unito alla riva
ed ora non ne resta che il ricordo.
Quasi di fronte alla chiesa di San Leonardo i
gesuiti fondarono un collegio che dedicarono a San
Giuseppe, a cui furono aggregati poi un
convalescenziario e nel 1676 una chiesa, opera
dell'architetto Carrarese, un laico gesuita. Quando
questi religiosi furono espulsi dal regno di Napoli
il collegio ed il convento furono adibiti a scuola
di arte nautica finché nel 1818 Ferdinando IV vi
insediò un Ospizio per ciechi dedicato ai santi
Giuseppe e Lucia. Attualmente la
Chiesa di San Giuseppe
è chiamata a Chiaja per distinguerla da
altre dedicate allo stesso santo.
Nell'interno si possono ammirare due belle opere del
napoletano Antonio Sarnelli, una Annunciazione
ed II Sogno di Giuseppe; sull'altare
maggiore vi è una Sacra Famiglia del
seicentesco napoletano Francesco De Maria, mentre
sono opere del romano Giacomo Farelli il Transito
di San Giuseppe e l'Angelo che annuncia il
viaggio in Egitto. In sacrestia dovrebbe esservi
un dipinto del De Maria raffigurante Sant'Anna.
Avvicinandoci alla fine di questa strada notiamo
ancora il
Palazzo Guevara di Bovino,
costruito dall'architetto Moscarella che volle
imitare lo stile del fiorentino Palazzo Pitti.
L'edificio passò poi al principe di Candriano e
Matilde Serao ci racconta che vi avvenne un dramma
poiché una nobildonna vi fu sorpresa dal consorte in
intimo colloquio con un diplomatico straniero.
Il palazzo appartenne poi all'ambasciatore in Russia
principe Camillo Caracciolo di Bella che, essendo un
liberale convinto, era molto amico del conte di
Siracusa; attualmente è sede del Consolato di
Francia.
In questa zona, un po' prima di questo palazzo ve ne
era un altro appartenuto prima ad una famiglia
chiamata Scuotto, e poi passato ai Charlsworth, che
viene ricordato perché durante la sua costruzione
furono trovati dei resti di opus reticulatum.
Vi era anche una caserma, anch'essa non più
esistente, chiamata Cristalleria. Unito al Palazzo
Guevara da un arco vi era il Palazzo del prìncipe
dì Teora Mirelli, che diede il nome alla salita
attigua che saliva sino al Vomero prendendo più in
su il nome di Imbrecciata.
La salita dell'Arco Mirelli taglia la via Andrea
d'Isernia, la via Crispi, ed il Corso Vittorio
Emanuele. Questa via Andrea d'Isernia è intitolata
all'illustre personaggio che fu giudice della Magna
Curia nel 1290 e poi Luogotenente del Gran
Protonotario Bartolomeo di Capua.
Poiché il palazzo dei Mirelli apparteneva
precedentemente al duca di Caivano, il segretario
del regno Barile, l'arco era chiamato prima ancora
il Ponte di Caivano.
Prima di lasciare questa salita o discesa dell'Arco
Mirelli ricorderemo la
Chiesa di San Francesco degli Scarioni che si
trova su di essa a metà del primo tratto. È così
chiamata perché fu fatta costruire nel 1701, per
desiderio di un mercante toscano che aveva questo
cognome, da Giovan Battista Nauclerio, insieme al
convento che ospitava religiose toscane e fu poi di
clausura.
Sulla porta dell'atrio vi sono una statua del santo
ed una iscrizione marmorea che ricorda una visita di
Pio IX nel 1849.
Su questa salita vi è anche la bella
Chiesa dei Santi Giovanni e Teresa
attualmente monastero di clausura delle Carmelitane
Scalze, fondato nel 1746 e costruito nel giardino
della villa del Regio Consigliere Carlo Gaeta.
La chiesa, di forma ellittica, e con elegante
cupola, insieme al monastero fu messa sotto la
protezione della famiglia reale borbonica e
dichiarata di Casa Reale. Nell'interno vi sono
alcune pitture di Giuseppe Bonito di Castellammare
di Stabia, di cui ricordiamo il Calvario e
una Sacra Famiglia.
Al vico Parete, che taglia questa strada, vi è
l'antico
Palazzo Capomazza
che viene ricordato principalmente perché da qui
partivano le corse dei cavalli; le povere bestie
venivano lanciate su questa discesa, in una
competizione quanto mai difficile e pericolosa.
Questo palazzo apparteneva al marchese Emilio
Capomazza di Campolattaro che fu sindaco di Napoli e
poi deputato al Parlamento.
Ritornando sui nostri passi, osserviamo la grande
piazza che si estende per tutta la larghezza della
Riviera, della Villa Comunale, che qui termina, e di
via Caracciolo, che continua verso Mergellina. Essa,
chiamata prima piazza Umberto I e poi Principe di
Napoli, dal titolo che portava in quel tempo il
futuro Vittorio Emanuele III, ha attualmente il nome
di Piazza della Repubblica; al centro si nota il
modernissimo e poco comprensibile Monumento agli
« scugnizzi » delle Quattro Giornate.
Dopo questa piazza la Riviera di Chiaja sfocia nella
Torretta, mentre in parallelo parte il moderno viale
Elena; si chiamerà — probabilmente — viale Gramsci.
Sulla destra troviamo un'angusta strada che si
dirama poi in tre rami che confluiscono in Corso
Vittorio Emanuele e subito dopo la piccola
Chiesa di Santa Maria della Neve,
che non ha nulla di notevole se non le sue origini,
essendo stata costruita nel 1571 a spese dei
pescatori del litorale mettendo da parte il ricavato
del mercato della domenica.
Anticamente nel mese dì agosto in onore di questa
Vergine si organizzavano grandi feste durante le
quali i giovani pescatori facevano gare di velocità
con le loro barche. Nel 1697 vi era una fontana con
un'iscrizione che ricordava l'abbellimento della
piccola chiesa operato per desiderio del viceré
Luigi Francesco della Cerda, duca di Medinacoeli. La
Vergine ed un'effigie di Sant'Anna che era in questa
chiesa erano ritenute molto miracolose, e anche la
regina Carolina veniva spesso a venerarle. Questo
sito è chiamato Torretta nel ricordo di una torre
che vi fu costruita nel 1564 per volere del viceré
duca d'Alcalà Pedro Afan de Ribera, dopo una
disastrosa incursione dei saraceni. Dopo essere
sbarcati in queste vicinanze i pirati fecero
ventiquattro prigionieri e poco mancò che non
riuscissero a rapire anche la marchesa del Vasto.
Poi, asserragliati nel castello, di Ni-sida
intavolarono trattative per ottenere un riscatto.
L'emissario vicereale autorizzato alle trattative fu
lo scultore Gerolamo Santacroce, che ottenne la
liberazione dei prigionieri previo pagamento di una
considerevole somma, una parte della quale fu
versata dalla Compagnia della Redenzione dei Cattivi
che era in via San Sebastiano. Della « torretta »
nulla è rimasto ed al suo posto vi sono gli edifici
del Consolato degli Stati Uniti.
Proseguiamo imboccando via Piedigrotta che ci porta
all'omonima chiesa e alla Galleria delle Quattro
Giornate. In questa strada nel secolo XVII vi era il
Palazzo del marchese Taccone di Sitizzano,
che vi aveva raccolto una ricca biblioteca. Il
Palazzo d'Aquino di Caramanico
appartenuto ad un Bartolomeo che nel 1640 sposò una
contessa Stampa di Milano è ancora esistente, anche
se fu distrutto in parte durante i moti
insurrezionali del 1647 e nel tempo fu varie volte
ricostruito: attualmente è sede di una caserma.
Al termine di via Piedigrotta ci troviamo nella
piazzetta omonima dalla quale, scendendo sulla
sinistra, usciamo in piazza Sannazaro ove
confluiscono la via Mergellina e il viale Elena. Al
centro della piazza vi è la
Fontana della Sirena, opera di Pasquale
Buccino, composta di un gruppo di mostri e cavalli
marini su una base rocciosa sui quali domina una
sirena rappresentata con la coda attorcigliata ed
un braccio levato al cielo; questa fontana era prima
in Piazza Garibaldi. Sulla destra-vi è la
Galleria Laziale,
scavata nel 1925, che sbocca a Fuorigrotta, nuovo
rione che visiteremo in un altro itinerario.
Incamminandoci ancora per il proseguimento di via
Mergellina, a destra troviamo nell'omonima piazzetta
la Fontana del Leone.
L'acqua che nel secolo scorso scaturiva da questa
fontana, cadendo dalla bocca di un leone in una
grande vasca, era considerata la migliore della
città, tanto che Ferdinando II mandava a prenderla
per la sua mensa anche quando stava per incamminarsi
per un viaggio. Questa fonte era conosciuta sin dal
secolo XVII quando era chiamata di Mergoglino,
dal nome della contrada. All'angolo sinistro di
via Mergellina con via Caracciolo vediamo il
Palazzo Minozzi
e giungiamo infine nel largo Barbaja, prospiciente
la piccola spiaggia di Mergellina e l'omonimo
porticciuolo.
Mergellina conserva ancora molto del suo fascino,
anche se parte di esso è folklore sapientemente
dosato e indubbiamente non appaga l'occhio
smaliziato del visitatore. Tuttavia, davanti ai
moderni ed accoglienti caffé all'aperto, cinto dal
piccolo molo per imbarcazioni da diporto, il breve
tratto di spiaggia di sera accoglie ancora le barche
dei pescatori tirate a secco per la notte, e di
giorno le reti stese ad asciugare. Per chi passi
lungo il breve arco naturale fiancheggiato dai
banchi degli ostricari pacchianamente addobbati con
trofei di conchiglie, ma allietati dal verde e dal
giallo dei limoni freschi, tra il vocìo dei
venditori ed il frastuono del traffico sulla
strada, l'odore acuto del mare, che emana, più che
dal mare stesso, dalle erbe di scoglio disposte con
bell'arte a decorare i piatti di vongole, di
cannolicchi e di ostriche, è come l'aroma sottile di
un vino prezioso. Sullo sfondo antico, nobile,
indimenticabile, unico del Vesuvio, in secondo
piano, spicca sul mare azzurro, tetro e turrito,
Castel dell'Ovo.
E poi ancora mare, mare a perdita d'occhio... Anche
quest'angolo di paradiso, come più volte Mergellina
è stata chiamata, ha la sua leggenda, leggenda di
amore e di morte i cui protagonisti sono una sirena
e un modesto pescatore. A quest'ultimo appunto si
vuole che il luogo debba il suo nome, al giovane
impetuoso e ardente che, avendo visto in una notte
di plenilunio una sirena, se ne innamorò
perdutamente. Secondo un'antica leggenda riportata
da Matilde Serao, questa ammaliatrice ritornava di
tanto in tanto per rivedere il suo amoroso per poi
dileguarsi quando questi cercava di seguirla
nell'azzurro mare di Posillipo. Appunto per tentare
di raggiungere a tutti i costi la sua amata il
pescatore, pazzo d'amore, una sera nuotò fino
all'esaurimento delle forze ed annegò. La bellezza
di questo luogo fu vantata da Plinio, Seneca,
Svetonio, Tacito, Silio Italico, Stazio e dallo
stesso Virgilio, tanto innamorato di questo lembo di
mare e di cielo che volle comporre le Georgiche.
Da Giovanni Boccaccio a Jacopo Sannazzaro, il
fedelissimo di Federico d'Aragona, sino a Goethe,
Grimm, Goudar, a Gabriele D'Annunzio e Vittoria
Aganoor Pompili, scrittori e poeti cantarono la
bellezza di Mergellina.
Nel secolo XIII la località era chiamata Mìrlinum
e nel secolo XV Mergoglino o Merguglino, e
questo ad ogni modo era il nome di una torre che
stava sulla riva del mare e dalla quale un anonimo
cronista quattrocentesco vuole che avesse inizio la
fuga di Vannella Gaetani di Traietto: certo è che
nel periodo aragonese questa parte del Borgo di
Chiaja veniva chiamato Mergoglino. Secondo il
Martorelli il significato del nome sarebbe quello di
sito « molto gradito agli smergi », mentre il
Capaccio suppone che derivi dal nome « megari » dato
all'isolotto di Castel del-l'Ovo, che equivarrebbe
al mergum latino, che significa « smergo » o
uccello acquatico. Il mergurus, vale a dire
il piccolo colombo di mare, potrebbe darci la
soluzione del quesito: il diminutivo di mergus,
usato dai pescatori che si imbarcavano su questa
spiaggia, un po' per corruzione un po' per
diminuzione si sarebbe trasformato in Mergulinus
e indi Mergoglino.
Al termine di via Mergellina, a destra, si può
imboccare via Orazio, con la quale inizia la moderna
zona residenziale: un po' più avanti, sempre sulla
destra, vi è la IV Funicolare, così chiamata perché
è la più recente delle quattro funicolari
napoletane. Vediamo quindi di fronte a noi la
Chiesa di Santa Maria del
Parto, a cui si accede per un'erta scaletta.
Essa fu costruita agli inizi del secolo XVI dal
poeta Jacopo Sannazaro, a cui re Federico
d'Aragona, l'ultimo di questa famiglia che cinse la
corona di Napoli, aveva donato un ameno appezzamento
di terra proprio qui alle falde di Posillipo,
chiamato il « Mergoglino ». Il poeta dedicò questa
chiesa a quella Vergine che aveva cantata nel suo
poema De Partii
Virginis
e la donò ai frati
Serviti, detti anche Servi di Maria, un Ordine
religioso fondato da sette gentiluomini toscani. La
chiesa fu iniziata nel 1529 insieme al convento per
i frati, ai quali il Sannazzaro, oltre a donare il
terreno per l'edificazione del piccolo complesso
monastico, assegnò anche una rendita di trecento
ducati. Per giungere davanti a questa chiesa bisogna
salire, come abbiamo accennato, un'erta scalinata:
la sua facciata non differisce da quella di una
piccola parrocchia di campagna, nonostante sia stata
rifatta da Giovan Carlo Mormile ed ancora una volta
nel secolo scorso; su di essa spiccano i due tondi,
che avrebbero gran bisogno di restauro con le
fattezze di Federico d'Aragona e di Jacopo
Sannazzaro.
La chiesa è divisa in due piani, uno inferiore
dedicato alla Vergine, senza alcun interesse, e uno
superiore chiamato anche di San Nazario dal nome del
poeta. In quello inferiore, vi è sull'altare una
effige della Vergine protettrice delle partorienti.
La chiesa superiore è ad unica navata; vi si nota un
quadro raffigurante San Michele, che è
stranamente noto come « il diavolo di Mergellina ».
Esso ci mostra un giovane bellissimo che calpesta il
diavolo, al quale il pittore, Leonardo da Pistoia,
ha dato una magnifica testa di donna. Il dipinto,
secondo un'antica leggenda, adombrerebbe la
vittoria sulla tentazione del vescovo di Ariano
Diomede Ca-rafa, divenuto in seguito cardinale. Di
lui si sarebbe innamorato, incorrisposta, una bella
dama, e si vorrebbe ravvedere nella « femmina
tentatrice » Vittoria d'Avalos, il che sembra un
po' azzardato data l'intemerata reputazione di
questa aristocratica dama napoletana.
Sul pavimento c'è la lastra sepolcrale del
cardinale, che però non vi è sepolto, in quanto morì
a fu inumato a Roma nel 1560. Vi è poi un'altro
marmo sepolcrale di Fabrizio Manlio che raffigura un
giovane che, secondo la leggenda, innamorato di
Mergellina, chiese di morire vedendola e di esservi
sepolto. In questa chiesa si possono ancora ammirare
alcune delle statue lignee del presepe di Giovanni
da Nola.
Sull'altare maggiore campeggia un distico del
Sannazzaro.
L'opera più importante che conserva questa chiesa è
proprio alle spalle dell'altare maggiore: il
Sepolcro del Sannazaro, veramente di grande
rilievo artistico, un monumento che se non regge il
paragone con quello di Ladislao in San Giovanni a
Carbonara o quello di re Roberto in Santa Chiara,
desta però l'ammirazione di chi l'osserva. Una gran
base, con ai lati un Apollo e una Minerva
che recano invece i nomi di David e Iudith e due
maestose mensole reggono l'urna cineraria con il
busto del poeta e due amorini ai lati. Tra queste
due mensole vi è un quadro in rilievo sul quale
campeggiano il dio Pane, Nettuno ed una Ninfa. Sulla
base, tra due amorini e le armi del poeta vi è una
iscrizione di Pietro Bembo.
Adornano il sepolcro alcune strane ligure, come un
teschio « cornuto » e lo stemma del poeta con lo
scacchiere a quadretti rossi e oro.
Difficile è stabilire l'esatta paternità di questa
magnifica opera ma la finezza della sua fattura fa
pensare ad un grande artista del tempo. Alla base si
legge il presumibile nome dell'autore, che sarebbe
un laico servita, Giovanni Angelo Montorsoli da
Poggibonsi che fu allievo di Michelangelo. Questa
attribuzione potrebbe essere avvalorata dal fatto
che effettivamente le due statue che sono ai lati,
di Apollo e Minerva, sono michelangiolesche. Anche
il Vasari è di questa idea, anzi aggiunge che con il
frate servita collaborò Francesco Ferruccio da
Fiesole, detto il Tadda; altri, invece attribuiscono
l'opera a Michelangelo Santacroce. La cappella fu
dipinta verso la fine del '600 ed il pittore Nicola
Russo, forte del paganesimo insito nel monumento
funerario, si mantenne in carattere dipingendovi
scene raffiguranti Venere, Il Parnaso e
Mercurio e sulla facciata del coro la
Grammatica, la Retorica, la Filosofia
e l'Astrologia. Altri dipinti raffigurano
la Storia di Rachele e l'Incontro del
patriarca Abramo coi tre angeli.
Nell'edificio annesso alla chiesa furono raccolti
dai buoni frati all'inizio dell'800 gli orfanelli
del colera; molti morirono e furono sepolti insieme
ai loro benefattori.
Sotto la chiesa di Santa Maria del Parto vi era la
Villa del famoso impresario Domenico Barbaja,
nella quale dimorò a lungo Rossini, l'epicureo
compositore che nella sua imparziale passione per le
belle donne e la buona cucina finiva per trovare ben
poco tempo da dedicare alla musica.
Subito a destra della chiesa troviamo il
Palazzo del Reggente Andrea di Gennaro
della nobile famiglia del Sedile di Porto, con un
bel loggiato: appartenevano al complesso alcune
grotte che si diceva fossero collegate col mare.
Questo itinerario termina qui all'inizio di via
Posillipo, ma c'è ancora da ricordare alla fine di
via Caracciolo, la Fontana
del Sebeto.
Eretta per desiderio del viceré Manuel Zunica y
Fonseca nel 1635, l'opera è di Carlo Fanzago, che
volle raffigurare il fiumiciattolo napoletano nella
gigantesca statua di un « barbone » adagiato su una
grande valva di conchiglia sotto un arco; ai lati
due tritoni davano acqua. La fontana è stata
restaurata nel tempo. Il fiume Sebeto, del quale ci
parlò Papinio Stazio nelle sue Selve nonché
molti altri autori dell'antichità, adornò con la sua
immagine allegorica persino alcune monete del V
secolo a.C... Dopo molti secoli Giovanni Boccaccio
nel De Flumìnibus ne parlò, ma disse di aon
ricordare di averlo visto, e così il Pontano e il
Sannazzaro; riteniamo però, che attualmente tutti
siano d'accordo nel ravvisare il Sebeto in quel più
che modesto fiumiciattolo che, nato dal Monte Somma
scende al mare passando sotto una strada che porta
all'Autostrada del Sole.
Piazza Santa Caterina - Via Filangieri - Rampe
Brancaccio - Piazzetta Mondragone - Via Nicotera -
Via Vittoria Colonna - Piazza Amedeo - Via Martucci
- Via Crispi - Parco Margherita - Largo Ferrandina a
Chiaja - Via Cavallerizza - Via Carlo Poerio - Largo
Ascensione - Via Piscicelli - Arco Mirelli - Via
Michelangelo Schipa.
Questo itinerario potrebbe dirsi quello del centro
elegante di Napoli, poiché nelle vie che
attraverseremo vi sono i migliori negozi e caffè, i
più eleganti locali della città. Da piazza Santa
Caterina inizia la via Gaetano Filangieri,
intitolata all'autore della « Scienza della
Legislazione » che vi abitò. Sul primo palazzo che
è poi il
Palazzo Filangieri,
a destra una lapide ricorda che vi morì il musicista
Francesco Saverio Mercadante. Sulla nostra sinistra,
dopo una piazzetta intitolata a Giulio Rodino,
inizia la caratteristica via Cavallerizza.
Continuando lungo via Filangieri troviamo
l'imponente
Palazzo Mannaiuolo,
all'angolo con l'ampia gradinata chiamata Rampe
Brancaccio, il modesto succedaneo napoletano della
romana Trinità dei Monti, che tuttavia è stata
negli ultimi anni usata per esposizioni di pittura
moderna. Essa porta a queste rampe che prendono il
nome dalla omonima illustre famiglia napoletana che
tra la piazzetta Mondragone e la via dei Mille
possedeva immensi giardini.
Salendo queste rampe, si può giungere o a via
Giovanni Nicotera — la strada che passa sul ponte di
Chiaja —, o, dopo la piazzetta Mondragone, al Corso
Vittorio Emanuele, nei pressi del Palazzo Cariati.
Dopo questa gradinata la strada cambia il nome in
quello di via dei Mille, in ricordo della famosa
spedizione che unì il regno di Napoli a quello
d'Italia. Questa elegante arteria fu voluta appunto
da Garibaldi, ma la sua costruzione fu iniziata
soltanto nel 1885 con l'esproprio di alcuni
giardini.
Il primo edificio a destra è il
Palazzo Spinelli,
oggi proprietà di una banca; vi abitò il musicista
napoletano Enrico De Leva che, insieme a Salvatore
Di Giacomo compose tante canzoni napoletane divenute
oggi parte del repertorio classico. Vi era un tempo
la sede del Circolo Italo-Britannico. Sulla destra
segue via Vetriera che conduce anch'essa alle Rampe
Brancaccio; quindi il
Palazzo Leonetti,
dopo il quale si apre un'altra stradina, il vico
Vasto a Chiaja, dal nome del bel
Palazzo
che ora incontreremo appartenuto ai marchesi
d'Avalos del Vasto,
che conduce al Largo Proto, dal cognome del duca di
Maddaloni che qui aveva alcune proprietà. Sulla
sinistra della nostra strada si apre invece la via
dedicata al patriota Nicola Nisco che per aver
partecipato ai moti del 1848 dovè scontare molti
anni di galera: compose la « Storia d'Italia », che
gli fu commissionata da Umberto I.
Il Palazzo d'Avalos, appartenuto all'illustre
famiglia, tanto legata alla storia napoletana del
periodo aragonese e spagnolo, aveva in origine un
portone con magnifici battenti in bronzo che si
vuole imitassero quelli del Pantheon. Nel secolo
XVIII fu restaurato nella forma oggi esistente
dall'architetto Mario Gioffredo che vi creò
un'ampia loggia sorretta da quattro colonne in marmo
bianco sull'ingresso. Alla fine del secolo scorso
nell'appartamento nobile, si potevano ancora
ammirare il letto cinquecentesco di Vittoria Colonna
ed alcuni arazzi regalati da Carlo V al marchese di
Pescara in ringraziamento per i servigi che gli
aveva resi nella battaglia di Pavia, dove nel 1525,
il gentiluomo era riuscito a far prigioniero il re
di Francia. I modelli dei meravigliosi arazzi erano
stati disegnati dal Tiziano mentre il Tintoretto ne
avrebbe curati gli ornati; nel 1882 la nobile
famiglia li regalò allo Stato ed oggi sono al museo
di Capodimonte. Verso il 1850 il grande palazzo fu
trasformato in villa, anche perché questa zona era
in quel tempo ancora campagna e fu recintato da
magnifici cancelli ed inferriate, opera di Achille
Pulii.
Segue quello che fu il
Palazzo Carafa di Roccella,
ora in completo abbandono, preda della attuale
speculazione edilizia e vittima della burocrazia.
Semidistrutto, non può essere ricostruito né ci si
decide ad abbatterlo perché era monumento nazionale.
Di questo palazzo si hanno notizie sin dal 1668,
quando il principe Francesco de' Sangro di
Sanseverino costruì su una collinetta comprata dai
cappuccini, un palazzetto che diede in dote alla
figlia Antonia andata sposa a Giuseppe Carafa duca
di Bruzzano, vedovo di donna Ippolita Requesens
d'Aragona. Nel 1775 l'edificio fu restaurato dalla
principessa Ippolita di Roccella e la masseria che
vi era annessa fu trasformata in magnifici
giardini. Il palazzo fu sempre dei Carafa, ma nel
1885 la principessa Lucrezia Pignatelli, vedova di
Vincenzo Maria Carafa, vendette al barone Giuseppe
Treves i giardini che furono nel tempo rivenduti per
l'edificazione di ville e palazzi dopo l'apertura di
quell'elegante strada intitolata alla regina
Margherita di Savoia. Nel 1889 i Carafa vendettero
una parte del terreno confinante col palazzo
d'Avalos. Nel 1813 il palazzo fu restaurato
dall'architetto Errichelli : esso aveva dapprima un
imponente e pregiato portale in marmo che
presentava, sino alla demolizione, due corpi
avanzati ai lati. Si ritiene che l'architetto fosse
Luca Vecchioni, un coadiutore del Vanvitelli, che
lavorò anche alla costruzione del monastero di San
Marcellino in collaborazione con Mario Gioffredo e
con Gaetano Pallante e col Vanvitelli alla
progettazione di San Vincenzo e San Gennaro dei
Poveri: quindi il palazzo era decisamente di scuola
vanvitelliana. Di fronte vi è la moderna via
dedicata a Giosuè Carducci che giunge alla Riviera
intersecando il prolungamento di via Cavallerizza.
Segue la Chiesa di Santa
Teresa a Chiaja, del secolo XVII: il
monastero, già esistente, era dedicato alla Santa ed
apparteneva ai frati Carmelitani Scalzi al
borgo di Chiaja.
I frati, avendo ricevuto un lascito ed un terreno,
costruirono l'attuale chiesa, che fu ampliata alla
fine del '600 insieme al convento annesso ad opera
dell'architetto Cosimo Fanzago con un altro lascito
offerto da donna Isabella Mastrogiudice ed aiuti in
danaro ed agevolazioni dei viceré conte di Ognatte e
conte di Penaranda. Nel 1750 i carmelitani cedettero
alcuni locali attigui al convento ad un quartiere
di guardie del Corpo, e nel 1778 fecero ampliare il
convento ad opera di Rocco Casino; furono però
costretti a cedere i giardini ad un quartiere di un
reggimento di Ussari. Alla chiesa si accede per
un'altra scala a due rampe; essa non è bella, ma ha
nell'interno dei notevoli dipinti di Luca Giordano
raffiguranti Santa Teresa e San Pietro
d'Alcantara, una Natività e
Sant'Anna che istruisce
Maria con San
Gioacchino. La
statua della Santa in marmo è opera del
Fanzago.
Di fronte alla chiesa di Santa Teresa, sulla
sinistra di via dei Mille, si apre la strada
intitolata a Mariano d'Ayala nella
quale abitò e visse lo
storico e letterato napoletano, ufficiale borbonico
stimato ed apprezzato dal generale Filangieri; fu
costretto a dimettersi dall'esercito per le sue
idee liberali, ma rientrato a Napoli nel 1860 gli fu
affidata la direzione della « Gazzetta Militare » e
fu nominato Comandante della Guardia Nazionale. In
questa strada si nota un
Palazzo
del secolo XVIII con un
grazioso portale dell'epoca: costruito dai de Vargas
y Machuca, principi di Casapesenna, è attualmente di
proprietà dei
marchesi Buccino Grimaldi,
dai quali è stato restaurato anni or sono.
Dopo via Mariano d'Ayala, via dei Mille prende il
nome di via Vittoria Colonna, in omaggio alla
poetessa consorte del marchese di Pescara il cui
palazzo, nelle vicinanze, abbiamo già esaminato.
Subito a sinistra vi è il
Palazzo Scarpetta,
costruito dal grande attore e commediografo, che è
ricordato da una lapide. Più avanti, nel grande
edifìcio, rimodernato di recente, che fa angolo con
la piazza Amedeo, abitò lungamente l'eminente
meridionalista Giustino Fortunato: esso accolse
quindi storici, letterati e scrittori insigni, che
vi convenivano per visitare l'illustre amico.
Via Vittoria Colonna termina in Piazza Amedeo, dalla
quale partono a sinistra via Martucci, a destra via
Francesco Crispi e, nella stessa direzione dalla
quale siamo venuti, ma in salita, via del Parco
Margherita. Nella piazza vi è una stazione della
Metropolitana sulla quale si affaccia di fianco il
Palazzo Balsorano, che è stato sino a poco tempo fa
sede dell'Istituto del Sacro Cuore ed è ora
abbandonato a se stesso in quanto non si sa se
quest'Ordine religioso sia riuscito a perfezionarne
la vendita.
I conti Balsorano, che erano i Lefebure, oriundi
della Francia, ebbero qui una residenza lussuosa ed
elegante: era in effetti più che un palazzo una
villa con un gran parco che giungeva sino al Corso
Vittorio Emanuele, del quale ancora si può ammirare
una parte. Prima, nel secolo XVI, la Villa era del
letterato napoletano Giovan Battista Manzo, e vi fu
ospite nel 1592 Torquato Tasso. Appunto in ricordo
di questo soggiorno l'abate Vito Fornari fece
apporre sulla facciata una sua epigrafe in ricordo
del III centenario della morte del poeta. Il Tasso
proveniva da una permanenza presso la famiglia del
principe di Conca che Io aveva tenuto quasi
prigioniero per fargli terminare la sua «
Gerusalemme Conquistata ». In seguito passarono
per i saloni della villa Manzo altri illustri
personaggi: nel 1625 Giovan Battista Marino e nel
1638 il poeta inglese Milton. Quindi può dirsi che
questo antico « casino di campagna » rappresenti
tutto un ricordo della Napoli letteraria dei secoli
passati. Vi convennero altri letterati napoletani,
come Ascanio Pignatelli, Pietro Antonio Caracciolo
ed uomini di cultura come il duca di Termoli, il
duca di Nocera, il duca di Castel di Sangro, il
marchese Sant'Agata, il principe di Venosa, il
cardinale Gesualdo.
Giunti a questo punto, se imbocchiamo la via
Martucci ritorniamo a Santa Maria in Portico, che
già abbiamo vista salendo dalla Riviera; via Crispi
e via del Parco Margherita portano entrambe al Corso
Vittorio Emanuele.
Ritorniamo per il momento alla zona compresa fra via
dei Mille e la Riviera, a via Cavallerizza che, come
abbiamo visto, comincia dal largo Rodino svolgendo
un percorso pressappoco parallelo a via dei Mille e
termina in largo Ferrandina a Chiaja. Ancora più
verso il mare, seguono in parallelo la via
Alabardieri che porta anch'essa in largo Ferrandina
e via Carlo Poerio, della quale abbiamo parlato
quando abbiamo esaminato la Riviera. Il tracciato di
via Cavallerizza è molto antico, poiché
probabilmente faceva parte della strada che portava
a Piedigrotta e quindi a Pozzuoli.
Il suo nome è dovuto al fatto che vi era una caserma
di Cavalleria che ha ospitato i gloriosi Reggimenti
Firenze Cavalleria ed Aosta, distintisi in numerose
azioni di guerra : questa stradina è simpatica per
le sue botteguccie dalle più svariate attività
commerciali e artigianali.
Essa è tagliata sulla sinistra da via Bisignano,
proseguimento del vico Satriano che qui termina dopo
aver intersecato la via Carlo Poerio e la via
Alabardieri. In questa via Cavallerizza, breve ed
angusta, notiamo il
Palazzo Bile.
Giunti nel largo Ferrandina troviamo a sinistra il
Palazzo Torella
e di fronte i rinnovati locali della vecchia
Caserma di Cavalleria, oggi sede di una scuola.
Questi antichi locali, di cui oggi quasi non rimane
che la storia, ci ricordano che qui vi era la
Villa di Alfonso II d'Aragona che passò poi al
viceré cardinale Prospero Colonna. Questi, uno di
quei porporati che poco onorano la santità di tanti
altri, era vescovo quando morì Giulio II nel 1512;
fu allora che decise di combattere la... Chiesa,
diventando l'antesignano di coloro che vollero
battersi contro il potere temporale dei papi. Nel
1527 quindi partecipò attivamente al Sacco di Roma e
volle egli stesso attizzare il fuoco a Villa Medici
e ad altri palazzi pontifici nonostante gli anatemi
del pontefice Clemente VII. Dopo essersi così
distinto (!), per sfuggire alle ire del papa chiese
protezione a Carlo V, che lo nominò Luogotenente
Generale del Regno in sostituzione del defunto
principe di Orange Filiberto di Chalon. Fu poi
nominato viceré a Napoli, dove non fu accolto con
simpatia a causa dei suoi ben noti trascorsi. Dopo
il suo arrivo le cose non migliorarono, anzi si
inimicò tutto il popolo, ricchi e poveri, in quanto,
per ingraziarsi il suo imperatore, che si era
impegolato nella guerra contro i turchi, ogni
sistema era buono per spillar danaro. I napoletani
erano così stanchi dei suoi soprusi che mandarono
un'ambasceria all'imperatore con la supplica di
liberarli dall'odioso viceré. Sembra che
l'ambasceria non avesse successo, ma i napoletani
furono ugualmente liberati dalla presenza dell'esoso
cardinale. Questi, dilettandosi di giardinaggio,
amava mostrare ai suoi visitatori i magnifici
giardini della sua villa: si raccontò che, appunto
in una di queste passeggiate, dopo aver mangiato un
fico appena colto, stramazzasse ai piedi di un suo
ospite, il conte di Policastro Pietro Antonio
Carata. Secondo alcuni scrittori dell'epoca, come
il Parrino, il frutto sarebbe stato avvelenato
precedentemente ad iniziativa di un servo francese
prezzolato da alcuni nobili che avevano tutto
l'interesse di togliersi di torno il viceré. Un
altro scrittore dell'epoca, invece, avanzò l'idea
che il cardinale fosse stato addirittura avvelenato
da una donna da lui amata che lo aveva scacciato: si
disse anche che egli avesse corteggiato Vittoria
Colonna quando la marchesa di Pescara abitava nel
vicino palazzo d'Avalos. Il suo cadavere fu tumulato
nella chiesa di Sant'Anna de' Lombardi e quando si
decise di trasferirlo non si trovò che polvere, il
che avvalorò i sospetti di avvelenamento che erano
stati ventilati all'epoca della morte. La villa
passò poi a Pedro de Toledo, che la trasformò in
palazzo e quindi al figlio Garcia, che la abbellì
con un magnifico parco. Alla morte di quest'ultimo
la villa decadde e alla fine del secolo XVII fu
trasformata in quartiere e, prima che diventasse
caserma di cavalleria, in epoca borbonica, vi
alloggiò un reggimento di svizzeri e un reggimento
di ussari.
Il gran palazzo che confina con le due stradine
parallele di via Cavallerizza e via Alabardieri,
appartenne al principe Giuseppe Caracciolo di
Torella, che aveva sposato una nipote di Gioacchino
Murat. Il principe fu anche sindaco di Napoli, ma in
seguito a peripezie politiche subì dissesti
finanziari che lo costrinsero a ritirarsi a vita
privata in campagna. Il palazzo passò poi al barone
Emanuele Calcagno che ne fece una residenza
sontuosa e mondana: tra coloro che abitarono qui
ricordiamo William Tempie, che vi presentò all'alta
società napoletana il famoso statista inglese
Guglielmo Gladstone che a solo venticinque anni era
già Ministro del Tesoro. Il Tempie non fece un
favore ai Borbone poiché nelle sue famose « Lettere
sulle persecuzioni del Governo borbonico » bollò di
infamia il loro modo di governare, definendolo «
negazione di Dio ». Questo inglese viene ricordato
anche per i suoi « Studi su Omero e sull'età
omerica » che si ritengono iniziati a Napoli.
Via Cavallerizza incontra quindi via Nisco; di qui
proseguendo in linea retta, si taglia via Carducci,
via San Pasquale e per via Santa Teresa a Chiaja,
lasciando sulla destra via Mariano d'Ayala si
giunge prima a via G. Bausan e poi a largo
Ascensione, così denominato dalla bella
Chiesa dell'Ascensione a Chiaja.
Sorta in mezzo alle paludi dette di Grasset dal nome
del proprietario ,questa chiesa veniva anche
chiamata dell'Ascensione in plaga neapolitana.
Eretta nel 1300, per conto di Nicola Alunno d'Alife
Gran Cancelliere del Regno di Roberto d'Angiò e
intimo amico di questo sovrano, la chiesa fu
officiata dai frati Celestini. Essa per
intercessione degli angioini ebbe speciali
indulgenze da Clemente VI, da Innocenzo VI, e da
Urbano VI nel 1385, ma col tempo andò in rovina
insieme al convento a causa del progressivo
allontanamento dei monaci. Nel 1662 il conte di Mola
Michele Vaaz volle rifarla per grazia ricevuta. Egli
sognò, infatti, alla vigilia della festa
dell'Ascensione, San Pietro del Morrone, papa
Celestino V, che lo invitava a restaurare la
chiesa. Svegliatosi ed uscito dal suo palazzo che
era nelle vicinanze, s'imbattè in un gruppo di
guardie del viceré duca d'Ossuna che venivano ad
arrestarlo per aver esportato del grano senza
autorizzazione. Il duca fu molto lesto, e, riuscito
a svincolarsi, raggiunse la porta della chiesa e fu
salvo per l'antico diritto d'asilo. Gli tornò allora
alla mente il sogno della notte, ed in
ringraziamento della grazia ricevuta promise ai
buoni frati non solo di restaurare il tempio ma di
dedicarlo al santo del quale portava il nome. La
chiesa quindi non fu dedicata a Celestino V ma
all'Arcangelo Michele, che si ammira in un
bellissimo dipinto di Luca Giordano sull'altare
Maggiore. Sull'altare destro un'altra opera dello
stesso autore raffigura Sant'Anna e la Vergine;
sull'altare sinistro un quadro del De Mura
rappresenta Celestino V che rinunzia al papato.
Il conte di Mola intese con quest'opera buona
riparare al male che aveva fatto, ma il suo
pentimento e la sua bontà furono di breve durata, in
quanto ci racconta Fabio Colonna di Stigliano come :
« presto egli si mostrasse assai cattivo
promettitore, si che interveniva una transazione coi
monaci nel 1655, nemmeno adempiuta dagli eredi, a
giudicarne dalle suppliche e dai ricorsi che negli
anni seguenti l'Abate dirigeva al Padre
Provinciale, e dalle liti che ne nascevano ».
Nel 1645 fu ultimata la cupola della chiesa, e fu
costruito poi il vestibolo di pietra che ne
costituisce la facciata, opera del Fanzago, ove si
può appunto leggere il dicatum a San Michele
Arcangelo. L'interno a croce è piuttosto piccolo ed
ha tre altari. Gli affreschi nei peducci della
cupola raffiguranti pontefici ed evangelisti furono
dipinti da Alfonso Spinga.
L'antico convento dei frati Celestini fu tempo dopo
utilizzato come « quartiere » e vi mise la sua
scuderia la Gendarmeria Reale.
Dopo il largo Ascensione, via Piscicelli, che
abbiamo già incontrata, riconduce a Santa Maria in
Portico passando dietro villa Pignatelli ed il rione
Sirignano. Qui si potrebbe risalire via Martucci per
riprendere in piazza Amedeo l'itinerario al punto in
cui l'abbiamo interrotto. Imbocchiamo ora via
Crispi, dove, quasi di fronte all'Istituto del Sacro
Cuore, di cui abbiamo parlato, troviamo il
Villino Colonna di Stigliano,
attualmente sede di uffici del Banco di Napoli.
Segue, sempre a sinistra, l'imponente
Palazzo Nobile
che fu sede per circa un quarto di secolo della
Compagnia degli Illusi, un circolo fondato intorno
al 1919, che aveva per scopo la promozione di
manifestazioni letterarie, artistiche e culturali.
La sua presidenza onoraria fu data a Benedetto
Croce, mentre il consiglio onorario fu costituito da
personaggi illustri come Gabriele D'Annunzio,
Salvatore Di Giacomo, Francesco Cilea, Matilde
Serao, Vincenzo Gemito e Francesco Torraca.
L'edificio, costruito agli inizi di questo secolo,
tu adibito prima ad albergo e chiamato West End; vi
abitò per moltissimo tempo il famoso marchese del
Carretto, che fu sindaco di Napoli e con Nicola
Amore ed il duca di San Donato è rimasto nella
storia come uno dei migliori amministratori della
città.
Segue, sempre sulla sinistra, il
Villino Ruffo,
che fu costruito da Beniamino Ruffo di Calabria,
padre di quel Fulco che, con Francesco Baracca e
Gabriele D'Annunzio fu valoroso aviatore nella I
guerra mondiale. Di fronte a questa villa,
attualmente residenza del Consolato della Germania
Federale, vi è l'Istituto Francese di Grenoble.
Più avanti a sinistra vediamo
Villa Lauro,
costruita dalla famiglia Miccio e passata poi al
principe di Piedimonte Nicola Gaetani il cui figlio,
Onorato, è passato alla storia per essere stato di
guardia al dittatore Garibaldi il 7 settembre del
1860 al Palazzo d'Angri al Largo dello Spirito
Santo. Il principe Nicola fu anche deputato e
senatore del regno; alla sua morte la villa passò in
eredità alla figlia duchessa di Bovino.
Sempre proseguendo troviamo un quadrivio, o meglio
via Crispi è intersecata da via Pontano, che a
destra conduce al Corso Vittorio Emanuele, ed a
sinistra scende per un breve tratto verso la
Riviera.
Vi è poi il
Palazzo Filangieri,
appartenuto al conte Riccardo, che fu uno dei più
eminenti storici napoletani.
In questa zona vi erano nel secolo XVI la villa ed
i giardini della
poetessa napoletana Laura
Terracina, molto amica del poeta Luigi Tansillo e
di Vittoria Colonna; per onorarla fu poi dedicata
a lei una piazzetta.
Proseguendo per la nostra strada incontriamo sulla
destra il
Palazzo Crispi,
appartenuto al grande statista italiano Francesco
Crispi che vi morì nel 1901 e fu sepolto poi nel
Pantheon di San Domenico a Palermo.
Questo palazzetto, oggi sede del Consolato
d'Inghilterra, è legato allo storico personaggio che
ne fu il proprietario ed alla figlia Giuseppina che
andò sposa a Francesco Buonanno, principe di
Linguaglossa.
La via Crispi continua, ma dopo aver intersecato la
via dell'Arco Mirelli, che come abbiamo già visto
conduce alla Riviera o in salita al Corso Vittorio
Emanuele, cambia nome prendendo
quello di Michelangelo Schipa, eminente storico e
letterato napoletano. Questo tratto è completamente
moderno e l'unica cosa da rilevare è sulla sinistra
il vecchio Ospedale di Loreto.
Ritornando quindi in piazza Amedeo imbocchiamo il
Parco Margherita, una zona che era un tempo tutta
verde di giardini, mentre attualmente è gremita di
costruzioni addossate le une alle altre. All'inizio
sulla sinistra troviamo la stazione della funicolare
che conduce al Vomero, con una fermata al Corso
Vittorio Emanuele ed un'altra alla Santarella. Sulla
destra incontriamo la
Chiesa dei cattolici tedeschi, chiamata
di Santa Maria dell'Anima
ed infine, dopo aver superato ancora a destra il
grazioso
Villino Galante,
giungiamo al Corso Vittorio Emanuele.
Vico Rotto S. Carlo - Via Santa Brigida - I
Quartieri - Montecalvario - Magnocavallo - Piazza
Matteotti - Via Cesare Battisti -Piazza della Carità
- La Pignasecca - Via Tommaso Caravita -Via Forno
Vecchio - Quadrivio di Maddaloni - Via Roma - Piazza
VII Settembre (Largo dello Spirito Santo) - Via
Tarsia e Via Latilla - Via Cisterna dell'Olio -
Piazza Dante.
Ripartiremo nuovamente dalla nostra ormai ben nota
Piazza Trieste e Trento per dirigerci, questa volta,
lungo quella strada tanto cara al cuore dei
napoletani che, toponomasticamente designata come
via Roma, resta solo e sempre Toledo. Invano si è
cercato, con l'Unità d'Italia, di mutarne il nome: i
napoletani insisteranno sempre nel chiamarla col
nome del migliore viceré di Napoli, don Pedro
de Toledo.
Questi gentiluomo spagnolo, che seppe dimostrare,
quando fu necessario, un ferreo polso ed
un'autorevole personalità, affrontò con impegno ed
entusiasmo il risanamento della giustizia e la
sistemazione urbanistica della capitale. Oltre ai
lavori di stretta utilità, come la pavimentazione di
alcune strade, nell'imponente quadro dei lavori di
ampliamento e di sistemazione da lui intrapresi, il
viceré dispose l'apertura di questa nuova importante
arteria, destinata ad unire in linea retta e
dignitosamente il vecchio centro della città con il
palazzo vicereale ed il periferico borgo di Chiaja,
che si arricchiva sempre di più di belle ville e
palazzi magnatizi. La strada, che dal suo
costruttore prese il nome di via Toledo, a
differenza di come si presenta oggi, fu senza
marciapiedi sino ai principi del secolo scorso ed
essendo punto di confluenza di strade secondarie che
scendevano dalla collina di S. Eramo, l'attuale
Vomero, purtroppo quando pioveva era invasa da un
vero torrente d'acqua. Dopo l'apertura di via Toledo
la zona a monte, dove prima non esisteva che qualche
monastero, si popolò molto rapidamente, tanto più
che il governo vicereale vi fece costruire delle
caserme, o piuttosto degli edifici adibiti ad
alloggio dei militari spagnoli, che venivano
chiamati « quartieri », nome che ancora comprende
in un'unica denominazione questo insieme di vicoli.
Intorno a questo ambiente di militari, allora quasi
tutti mercenari, gente della peggiore risma,
cominciò a formarsi una cerchia di sfruttatori di
ancor peggior fama e costumi, di prostitute e
tenutari di bordelli, e il luogo divenne quindi ben
presto malfamato, a causa delle continue risse,
ruberie ed assassina che vi si perpetravano.
La prima delle strade che sale verso questi
quartieri o vicoli di Toledo è via Nardones, che
invece dovrebbe chiamarsi Mardones, poiché il suo
nome è quello di un nobile spagnolo che vi aveva la
sua opulenta dimora.
Su un palazzetto a sinistra una lapide ricorda che
vi abitò Gaetano Donizetti e per rimanere in tema di
musica noteremo che nel primo palazzo di questa
salita ha sede la Fondazione Alberto Curci, fondata
dall'insigne maestro nell'intento di offrire ai
napoletani dei buoni concerti di musica da camera.
Imboccando via Roma, sulla destra troviamo subito lo
storico
Palazzo Cirella,
così chiamato perché appartenuto alla famiglia
Catalano Gonzaga che aveva il titolo di duchi di
Cirella: esso fa parte della nostra storia per aver
partecipato attivamente ai moti rivoluzionari del
1848.
A Napoli ancora si suol dire « è succiesso 'o 48 »
per indicare che è successo un gran... « casotto »
come direbbe qualche settentrionale, tanto è ancora
vivo il ricordo di quei tragici giorni in cui il
sangue rigò le nostre strade. Vi furono delle
dimostrazioni a Toledo, da piazza della Carità fin
qui e furono erette barricate dal popolo deciso a
perdere la vita piuttosto che a cedere. Questo
palazzo, oltre che dal duca Pasquale Catalano
Gonzaga e dai figli era abitato anche da artisti del
Teatro San Carlo; tutti i Catalano, liberali,
parteciparono attivamente alla sommossa e il padre,
Gennaro, vi perse la vita. Infatti i liberali
riunitisi nel loro appartamento capeggiati dal
fratello del duca, Pietro, avevano preso posizione
sui balconi del palazzo trincerandosi con materassi
e coperte imbottite messe davanti alle ringhiere.
Tutto l'eroismo di questi piccoli gruppi di
resistenza non poteva naturalmente, impressionare il
ben armato battaglione di svizzeri che costituiva
la guardia del re, e quantunque si unissero ai
liberali napoletani alcuni francesi, ballerini del
Teatro San Carlo, le forze governative finirono
con l'avere la meglio.
Il vicolo a destra è il vico Rotto San Carlo o
Angiporto Galleria, sul quale si apre uno degli
ingressi della Galleria: il nome di questa stradina
fino al 1850 era vico Chianche, ma la piazzetta in
cui sfocia è intitolata a Matilde Serao perché vi
ebbe sede fino a poco tempo fa il quotidiano
napoletano « Il Mattino ». La grande scrittrice e
giornalista collaborò inoltre anche al « Giorno »
che aveva i suoi uffici proprio nella Galleria.
Pochi metri più avanti, sempre sulla destra,
troviamo l'ingresso alla Galleria Umberto I
costruita nel 1887 su disegno di Emanuele Rocco.
Come si è già accennato, di ingressi ve ne sono
cinque, e precisamente oltre a questo da via Roma e
quello da via Angiporto Galleria, uno da via Santa
Brigida, un altro da via Verdi ed un quinto da via
San Carlo, di fronte all'omonimo Teatro.
La Galleria, decorata da Ernesto Di Mauro, misura m.
121 x 63 x 146,80; paragonandola a quella di Milano
che è m. 196, risulta molto più piccola ed è
senz'altro meno elegante e meno importante dal punto
di vista storico. La larghezza è di m. 15,
l'altezza di m. 34,50. La cupola di ferro e di vetro
alta m .56,70, opera di Paolo Boubée è decorata da
angeli in rame dorato.
Oltre a un paio di cinematografi, vi è in Galleria
un vecchio e glorioso teatro di varietà, lo storico
— così desideriamo chiamarlo — Salone Margherita che
fu il vecchio tempio del Varietà a Napoli e fu
inaugurato nello stesso anno della nostra Galleria.
Il teatro, costruito come salone di concerti,
divenne ben presto un Café-Chantant dove gli
spettatori, consumando un « sorbetto », potevano
assistere ad un programma vario: esso fu però un
locale per elegantoni, in quanto il biglietto per
entrarvi costava ben due lire; l'orchestra stabile
aveva tra i suoi orchestrali nomi di riguardo come
quello di Ferdinando Mugnone, il fratello del grande
direttore Leopoldo, ed il maestro concertatore
tedesco Robert Felsmann; il palchettaio, poi, era un
nobile decaduto, il marchese di Franco. Il locale fu
quindi frequentato da eminenti personaggi di
quell'epoca, da Di Giacomo a Scarfoglio, da
Ferdinando Russo a Roberto Bracco, dal maestro De
Leva al maestro Mario Costa, dal ministro Crispi al
principe ereditario di Casa Savoia, a Gabriele
D'Annunzio che vi conobbe la graziosa francesina
Pierrette Butterfly, presentatagli da Edoardo
Scarfoglio. Il periodo felice del Margherita durò
fino al 1912; dopo, infatti, cominciò a decadere per
la concorrenza di altri locali.
Ritornati su via Roma vediamo, proprio di fronte
all'ingresso
della Galleria il
maestoso Palazzo Berto, già Barbaja:
questo Barbaja fu un noto impresario del teatro San
Carlo, il cui nome è legato alla storia del teatro
lirico italiano oltre che alla storia napoletana del
periodo borbonico.
L'impresario ospitò in questa sua dimora il
musicista Gioacchino Rossini, che vi compose, o
meglio vi terminò, alcune sue opere.
Circolavano in quel tempo varie storielle sulla
pigrizia del maestro che amava più i divertimenti
che il lavoro e quindi si raccontava che il Barbaja
fosse costretto a relegarlo in un grande salone
perché si dedicasse al pianoforte. Questo palazzo è
legato anche al ricordo di un noto giornale di
epoca borbonica, « l'Omnibus » e del suo direttore
Vincenzo Corelli, che fu il padre di Achille. Le
terrazze di questo edificio, poi, affacciavano sul
Palazzo Tornacela, appartenuto prima al conte
di Mola Simone Vaez; infatti le scale a sinistra
della stazione della funicolare che troveremo più
avanti, in piazzetta Duca d'Aosta, sono intitolate
al conte di Mola, così come la strada che porta a
Cariati. Il palazzo Barbaja fu rimodernato dal
Vanvitelli e fu acquistato dai Berio: divenne allora
un centro di cultura per merito del marchese Giovan
Domenico e del figlio Francesco che vi raccolsero
una ricca biblioteca invidiata persino dai Cassano e
dai Taccone che possedevano raccolte di libri
importanti. Oltre alla biblioteca, sempre aperta ai
letterati e agli studiosi, questi proprietari
avevano una pinacoteca e statue di notevoli
interesse come un gruppo del Canova raffigurante
Amore e Psiche. Il marchese ebbe quattro figlie
delle quali Carolina sposò il duca d'Ascoli,
Francesca il conte Statella, Laura il marchese
Imperiali e Giuseppina, ultima figliola, dobbiamo
ritenere che non si maritasse: parlarono di questa
dimora patrizia il Canova e lo Stendhal. L'edificio
nei suoi archi vanvitelliani aveva interessanti
negozi e botteghe alcuni dei quali, pur non
desiderando fare pubblicità, dobbiamo dire che
durano sin dal lontano 1848.
Dopo aver incontrato a sinistra la piazzetta Duca
d'Aosta con la stazione di una delle funicolari che
conducono al Vomero, troviamo a destra via Santa
Brigida che prende il nome dall'omonimo tempio. La
Chiesa di Santa Brigida
fu costruita nel 1640, e dedicata alla santa svedese
che fu regina del suo paese e venne a Napoli durante
il regno di Giovanna I d'Angiò.
Riteniamo quindi di dover fare una piccola
deviazione per intrattenerci brevemente su questa
chiesa. Fu dapprima costruito nel 1610 un oratorio e
poi questo tempio che è stato restaurato nel 1856.
L'interno, ad unica navata, ha alcuni affreschi di
Paolo Vetri raffiguranti scene della vita della
santa: la cupola, per l'abilità prospettica di Luca
Giordano, sembra molto più alta di quella che è,
mentre quando fu costruita, data la vicinanza con
Castel Nuovo, per ragioni militari le fu consentita
un'altezza massima di diciotto palmi napoletani, un
po' meno di cinque metri. L'affresco, di Luca
Giordano del 1678, raffigura l'Apoteosi di Santa
Brigida; nei peducci vi sono altri dipinti dello
stesso artista. Sempre di questo pittore è un
San Filippo nella prima cappella a destra,
mentre sull'altare maggiore vi è un dipinto di
Giacomo Farelli raffigurante Santa Brigida in
adorazione, a destra un Sant'Antonio di
Massimo Stanzione ed a sinistra un altro San
Nicola di Luca Giordano del 1655; una lapide nel
pavimento ricorda che qui fu sepolto il 13 gennaio
1705 il grande pittore Luca Giordano. Da ricordare
ancora nella prima cappella a sinistra un altro
dipinto del Giordano raffigurante Sant'Anna e
nella sagrestia alcuni affreschi- di Giuseppe
Simonelli.
Via Santa Brigida procede e, dopo aver intersecato
via Verdi, giunge a piazza Municipio: noi invece la
risaliamo lasciando sulla sinistra uno dei quattro
ingressi alla Galleria Umberto I, di cui abbiamo già
parlato, per tornare sulla nostra Toledo. Qui
troviamo ben presto, a destra, il
Palazzo Colonna di Stigliano
attualmente sede di un'importante banca, la
Commerciale Italiana.
Questo è forse l'edificio più interessante tra
quelli esistenti in via Toledo ed uno dei più belli
di tutta la città. Costruito su disegno di Cosimo
Fanzago per il duca di Ostuni, passò ben presto al
mercante fiammingo Vanderveiden che approfittando
dello sperpero del nobile nel gioco, gliene propose
l'acquisto. Questo commerciante era molto ricco ed i
suoi figli fecero degli ottimi matrimoni: Ferdinando
sposò una Piccolomini, la figlia Elisabetta il
marchese di Anzi don Carlo Carata e la figliola
Giovanna il principe di Sonnino don Giuliano
Colonna, che ebbe poi anche il predicato di
Stigliano per una successione dai Carata. Nel 1830
la vedova Colonna, donna Cecilia Ruffo, ebbe
evidentemente dei dissesti finanziari perché il
palazzo fu espropriato, ed ella rimase proprietaria
soltanto dell'ultimo piano. Proprietario
dell'appartamento verso piazza Municipio fu il duca
del Gallo, che aveva sposato una Colonna, e
acquirenti degli altri appartamenti furono i De
Picolellis ed i fratelli Forquet, bancari che si
unirono in società con i Giusso. Allora il palazzo
fu abbellito dall'architetto Guglielmo Turi; nel
1898, poi, la famiglia Forquet vendette il suo
appartamento alla banca che era stata fondata da
pochi anni a Milano e pian piano questo istituto di
credito finì con l'acquistare l'intero palazzo e ne
affidò poi il restauro all'architetto Platania che
trasformò il cortile nell'attuale salone. Nelle sale
dell'edificio si possono ammirare dipinti di
Giuseppe Cammarano raffiguranti l'Apoteosi di
Saffo e La Fedeltà e alle pareti
affreschi di Gennaro Maldarelli; la decorazione in
stucchi è di Gennaro Aveta su disegno del Turi.
Dopo via San Giacomo, che conduce in piazza del
Municipio, segue, sempre a destra, il moderno
Palazzo del Banco di Napoli,
discreto esempio di architettura contemporanea.
Compiuto nel 1939 per il quarto centenario di questo
importante istituto di credito, esso è addossato al
retro del Palazzo San Giacomo, che incontreremo in
piazza del Municipio.
Il Banco di Napoli è l'istituto di credito più
antico d'Italia, anche se ha avuta l'attuale
denominazione dopo l'unione del regno di Napoli al
Piemonte : la sua storia comincia sotto il nome di
Monte di Pietà, fondato nel lontano 1539; fu
chiamato poi « del Popolo », « dello Spirito Santo
», « di San Giacomo », « dei Poveri », e infine «
del Salvatore » e nel 1808, per volere di Gioacchino
Murat, si chiamò il Banco delle Due Sicilie. Nel
1926, con l'unificazione dell'emissione monetaria,
divenne un istituto di credito di diritto pubblico
e intensificò la sua attività a vantaggio
dell'economia nazionale. La direzione generale del
Banco di Napoli ha qui la sua sede centrale, nonché
alcune sezioni di credito agrario e fondiario; le
centinaia di filiali che ha in Italia e gli uffici e
le rappresentanze in tutte le parti del mondo lo
fanno ritenere il primo istituto di credito agrario,
fondiario ed industriale italiano.
Segue il
Palazzo Lieto
costruito da Pompeo Schiantarelli, discepolo del
Vanvitelli, per il duca di Polignano Gaetano Lieto:
la costruzione originaria, del 1754, fu poi
ingrandita dal figlio del fondatore, duca Filippo.
Il portale, molto bello per i pilastri dorici, porta
in corona una epigrafe del 1794.
Sempre sul lato destro della strada troviamo il
Palazzo Tapia, poi Capece Galeota della Regina,
costruito nel 1568 su disegno di Giovan Francesco di
Palma e rifatto nel 1832 da Stefano Gasse.
Esso appartenne ad Egidio di Tapia, presidente della
Sommaria e in seguito fu unito con un ponte ad un
altro costruito dal figlio del nostro don Egidio,
Carlo di Tapia, che fu un eminente giurista e
scrisse anche un trattato di diritto. Fu questo
cavalcavia, chiamato appunto Ponte di Tapia, a dare
il nome alla strada sottostante, che lo conserva
tuttora. I due palazzi passarono poi alla famiglia
Cala e poi il più antico di essi ai Capece Galeota:
in seguito il secondo fu abbattuto. La via Ponte di
Tapia,
erroneamente denominata
Tappia (occorrerebbe essere ortodossi
nell'ortografia spagnola), congiunge Toledo con il
largo Francesco Torraca: essa ospitava per il
passato un mercato molto fiorente mentre oggi non vi
è rimasto che qualche negozio di primizie e finezze
gastronomiche.
Ritornati su via Roma troviamo, un paio di isolati
più avanti, un'importante trasversale, via Diaz, che
scende verso piazza della Borsa dalla quale si
dipartono a destra e a sinistra strade moderne che
la collegano con la piazza del Municipio e con via
Cesare Battisti, che poi vedremo. La moderna zona
alla nostra destra è stata costruita previa
demolizione di tutto un quartiere, che era chiamato
dei Guantai; l'unico edificio superstite è la
Chiesa greca ortodossa,
che però è rimasta chiusa tra palazzoni moderni. In
questa zona, divenuta la City napoletana, ricordiamo
via Roberto Bracco che dalla nostra via Diaz conduce
al largo Francesco Torraca, intitolato ad un
eminente cattedratico di letteratura italiana della
nostra Università: da questo largo torna indietro
via Cervantes che sbocca in piazza Matteotti,
circondata dal
Palazzo della Posta Centrale,
dal
Palazzo della Provincia
e quello della
Questura.
Noi ritorneremo ancora una volta a via Roma
tralasciando di nominare quel dedalo di viuzze a
monte che fanno sempre parte dei cosiddetti
Quartieri, poco interessanti se non dal punto di
vista folkloristico. Vi pullulano piccole
trattorie, case « d'appuntamento », bassi, un
floridissimo mercato nero, una situazione insomma
che dal '600 ad oggi non è mutata di molto.
Ci avventureremo soltanto per via Montecalvario, che
si apre fra una chiesa ed il palazzo di un grande
magazzino, di fronte al moderno edificio che ospita
la Banca Nazionale del Lavoro. La
Chiesa di Santa Maria delle
Grazie, è di forme neoclassiche, essendo
stata costruita nel 1835. Sulla sinistra di via
Montecalvario, troveremo invece la chiesa omonima
costruita nel 1560 e restaurata nel 1857, nel cui
interno si possono ammirare una « Deposizione » del
Criscuolo e un trittico cinquecentesco raffigurante
la « Vergine del Rosario ». Nell'attigua via
Concezione a Montecalvario vi è poi la
Chiesa della Concezione,
che fu completamente rifatta nel 700 da Domenico
Antonio Vaccaro a pianta ottagonale.
Terminata la nostra breve escursione in questa zona
dei « quartieri », rivolgiamo la nostra attenzione
al palazzo che fa angolo col lato sinistro di via
Montecalvario. Attualmente sede di un grande
magazzino, esso era il
Palazzo De Curtis,
e appartenne agli inizi del secolo XVII a questa
illustre famiglia, poi al Monte dei Poveri
Vergognosi e durante il decurionato francese, fu
adibito a Tribunale di Commercio. Fu acquistato poi
dalla famiglia Buono ed infine da Bocconi da cui
passò alla « Rinascente ». Procedendo verso piazza
Carità incontriamo, sempre a sinistra il
Palazzo Cavalcanti,
che fu costruito dall'architetto Mario Gioffredo nel
1762, e fu residenza gentilizia del marchese Angelo
Cavalcanti che vi fece apporre sul portale il suo
nome ed il suo titolo.
Sul basamento in piperno si ergono i pilastri ionici
per la decorazione del piano nobile mentre il
portone, di ordine dorico, è decorato da due colonne
isolate e in un pezzo solo.
Subito dopo, un edificio che ospita un albergo
occupa il luogo dove era il
Palazzo del Nunzio Apostolico
presso la Corte Borbonica.
Siamo giunti così in piazza Carità, che ha un intero
lato occupato dal
Palazzo dell' I.N.A.,
al centro il moderno
Monumento a Salvo d'Acquisto,
a sinistra il settecentesco
Palazzo Mastelloni
e la piccola
chiesa di San Liborio,
presso la quale ha inizio l'omonima via che conduce
alla Pignasecca.
Il Palazzo Mastelloni, appartenuto ai duchi di Salza
e principi di Volturara, conserva il portale
dell'epoca: esso ci ricorda il duca Emanuele, che tu
ministro di Grazia e Giustizia dell'effimera
Repubblica Partenopea del 1799 e l'arresto di Luisa
Sanfelice, la sfortunata patriota napoletana che
finì sul patibolo. Segue, sempre a sinistra,
l'imbocco della popolarissima Pignasecca che
conduce in piazza Montesanto, dove è una stazione
della Ferrovia Cumana e nella piazzetta
dell'Olivella, dove c'è invece una stazione
intermedia della Metropolitana. Lo strano nome di
questa piazzetta sembrerebbe attribuito dai patrii
scrittori ad un grande oliveto che vi esisteva nel
secolo XVI. Questa zona è un dedalo di strade,
stradine e stradette di nessun interesse, che
riteniamo inutile nominare anche perché al turista
nulla possono offrire. La strada della Pignasecca è
così chiamata perché quando faceva parte degli orti
dei duchi di Monteleone non vi mancavano i pini :
secondo gli antichi scrittori, poi, su uno di questi
alberi degli uccelli ladri chiamati piche avrebbero
depositato oggetti che avevano rubato ed essendo gli
autori di questi furti irreperibili l'arcivescovo
li scomunicò. Successe quindi che l'albero di
pino... scomunicato, seccò, dando il nome alla
nostro folkloristica Pignasecca.
Lungo questa strada riteniamo doveroso ricordare
soltanto il grande Ospedale dei Pellegrini
con annessa chiesa, un importante complesso fondato
nel '500 che tuttora esplica la sua attività. La
Chiesa della Trinità
ha la facciata principale nell'ampio cortile
dell'ospedale e l'ingresso a doppia rampa di
scale.
Iniziata nel 1769 da Luigi Vanvitelli e rimasta
incompiuta per la morte del grande architetto, fu
terminata dal figlio e dagli architetti Barba e
Cappelli. L'interno offre delle pregevoli opere tra
cui un Calvario di Andrea Vaccaro, un
Transito di San Giuseppe del Fracanzano, una
Trinità di Francesco De Mura.
Ritornando sui nostri passi, incontriamo sulla
sinistra la piazzetta Fabrizio Pignatelli con la
piccola
Chiesa di Santa Maria Mater Domini,
opera cinquecentesca che ha sulla piccola facciata
una Vergine del secolo XV ed il Ritratto
del fondatore, opera del Naccherino.
Ritornati in piazza Carità, troviamo subito a
sinistra, all'angolo con via Roma, il
Palazzo di Giovan Battista della Porta,
sul quale una lapide apposta a cura
dell'amministrazione comunale nel 1884 ricorda la
data di nascita e quella di morte di questo illustre
napoletano. Segue la Chiesa
di San Nicola alla Carità, la cui facciata è
opera del Solimena. Iniziata nel 1647 ad opera di
Onofrio Gisolfi, fu continuata da Cosimo Fanzago e
restaurata nel 1843.
In questa chiesa, a croce latina a tre navate, vi
sono dei buoni dipinti settecenteschi, poiché la
volta fu affrescata dal Solimena nel 1701 e il
dipinto sull'ingresso raffigurante San Nicola che
libera un ossesso è opera di Paolo De Matteis.
Sono da ammirarsi nella prima cappella a destra
Scene della vita di Tobia di Giacinto Diano, un
magnifico Crocefisso del 1695 nella seconda
cappella, sull'altare della terza un San Liborio
di Francesco de Mura del 1773 e ai Iati San
Raffaele e San Michele. Giunti
alla crociera vediamo a destra i Santi Francesco
e Antonio ed a sinistra la Vergine con gli
Apostoli Pietro e Paolo, entrambe opere di
Francesco Solimena, mentre la Natività e la
Visitazione ai lati dell'altare maggiore sono
di Vincenzo De Mita; nell'abside un dipinto di Paolo
De Matteis riproduce la Morte di San Nicola.
Usciti dalla chiesa,
ci troviamo di fronte via Tommaso Caravita, prima
chiamata via Nuova Monteoliveto perché fu aperta nel
1749 a spese dei frati Olivetani del vicino
monastero: il nome attuale della strada è quello di
un giurista napoletano morto nel 1744. Il nostro
scopo, nell'imboccare questa breve ed angusta
trasversale di via Roma, non è però quello di
trattenerci lungo di essa, ma quello di raggiungere
la chiesa che si intravede di fronte. È la
Chiesa di Santa Maria di Monte Oliveto, chiamata di
Sant'Anna de' Lombardi,
che è una delle più interessanti di Napoli,
costituendo un vero museo di arte rinascimentale.
Lasciamo sulla destra il largo Morgantini, dove
troviamo la Caserma dei Carabinieri che occupa
attualmente una parte dell'antico convento dei
frati Olivetani: questo largo ci riporterebbe in
piazza della Carità, mentre la Chiesa di Santa Maria
di Monte Oliveto è proprio di fronte a noi.
L'attuale facciata, anche se uguale a quella
originaria, è stata rifatta dopo i danni subiti dai
bombardamenti del '43. Le lontane origini di questo
tempio napoletano risalgono agli inizi del 1400,
quando fu costruito dov'era già una chiesetta, per
desiderio del Protonotario del Regno di re Ladislao,
Gurello Orilia, nobile del sedile di Porto. Il
ministro, dopo averla edificata, la affidò alle cure
dei frati Olivetani di Firenze, o meglio di San
Miniato, Ordine che ancora officia la bella chiesa
sull'amenissimo colle fiorentino. Le famiglie
d'Avalos e Piccolomini e dopo re Alfonso d'Aragona
vollero contribuire alla costruzione, che prevedeva
anche un convento. Questo si estese fino a via del
Chiostro, alla salita di Monteoliveto ed ebbe ben
quattro chiostri oltre a vasti giardini, una
biblioteca ed una foresteria affrescata dal Vasari
che ospitò nel 1558 Torquato Tasso che vi compose
gran parte del suo poema immortale. In un'ala di
questo complesso nel 1741 Carlo di Borbone decise di
installare un tribunale che fu chiamato « misto »
perché costituito da giudici laici e religiosi :
dopo la Costituzione, Ferdinando II vi fece
sistemare il Parlamento napoletano ed attualmente è
adibito a caserma dei Carabinieri.
La prima pietra di questa chiesa fu posta dunque nel
1411. Nel secolo successivo i lombardi che vivevano
a Napoli chiesero di lasciare una chiesetta che
avevano chiamata appunto Sant'Anna dei Lombardi e di
potersi trasferire qui con la loro confraternita:
ecco perché questa chiesa è anche chiamata così. La
facciata con arco catalano, come si è già detto fu
rifatta nel 1943; nell'atrio rettangolare, sulla
destra, vediamo il Sepolcro dell'architetto
Domenico Fontana ed a sinistra quello del
Comandante Supremo delle Truppe Reali dì Filippo V,
Giuseppe Trivulsì: la porta lignea dell'epoca è
stata ricostruita magistralmente nel 1955 da
Salvatore Vecchione. L'interno, che si presenta ad
unica navata, nel secolo XVII fu trasformato
dall'architetto Sacco nel modo come si presenta
oggi, con le cappelle ai lati : fu rifatto l'altare
maggiore, che era opera di Giovanni da Nola, fu
trasformato in sagrestia il refettorio, che era
affrescato dal Vasari, e il soffitto fu fatto a
cassettoni su disegno di Mario Cartaro.
Cominciamo la visita della chiesa da un Altare
a destra della porta maggiore, opera del 1532 di
Giovanni Merliano da Nola con decorazioni del
Rossellino e di Benedetto da Majano. Esso appartenne
alla nobile famiglia Ligorio del Sedile di Porta
Nova. A sinistra della porta maggiore vi è un altro
Altare, quasi eguale al precedente,
appartenuto alla famiglia del Pezzo di Caianiello,
che fu eseguito invece da Gerolamo Santacroce e tra
i due altari notiamo il grande Organo
costruito nel 1497 ma trasformato nel 1697, la cui
decorazione barocca è del settecentesco napoletano
Alessandro Fabbro.
Sulla destra vediamo la Cappella Mastrogiudice,
composta da due ambienti, che appartenne sin dal
1490 alla famiglia sorrentina dei Correale e poi ai
Mastrogiudice marchesi di San Mango: i Monumenti
sepolcrali sono opera di Geronimo d'Auria mentre
l'altare, con la pala suddivisa in tre parti, è di
Benedetto da Majano e fu eseguito a Firenze. La
cappella mostra altri bassorilievi ed un pavimento
con varie lapidi; a destra vi è un sediale che
convalida il diritto della cappella ai Correale.
Segue la cappella Corcione con un dipinto del 1611
raffigurante Santa Francesca Romana del
bolognese Baldassarre Aldovisi e la volta affrescata
da Giuseppe Simonelli. Quella successiva è la
cappella Nauclerio il cui altare è attribuito da
alcuni a Giovanni da Nola e da altri a Girolamo
Santacroce: molto espressivo il bassorilievo nel
paliotto che raffigura Sant'Antonio che parla ai
pesci. Del comasco Tommaso Malvito si ammira il
Monumento sepolcrale di Giovanni Nauclerio ed
a sinistra quello di Tommaso Nauclerio dove
spicca un magnifico bassorilievo raffigurante la
Vergine col Bambino; Nicola Malinconico,
pittore del secolo XVIII, ha affrescato la volta.
Segue la cappella del Crocefisso, con affreschi
ancora del Malinconico ed alcuni monumenti
cinquecenteschi opere di Francesco Scala. La
cappella Bosco offre un magnifico dipinto del
Solimena raffigurante San Cristoforo e nella
volta gli splendidi affreschi di Giuseppe Simonelli;
a sinistra vi è il Monumento funebre di Cesare
Bosco, poi, attraversato un corridoio, troviamo
sulla destra il Monumento a Giorgio Sicard
del 1837 di Gennaro de Crescenzo. Ci immettiamo
così nella cappella Orefice ove può ammirarsi il
Monumento sepolcrale di Antonio Orefice,
protonotario di Carlo V e poi di Filippo II. Questa
bella cappella, del 1596, è opera di Geronimo
d'Auria e di Cristoforo Monterosso mentre le
decorazioni ed il pavimento, del 1597 sono opera del
Sarti, del Marasi ed ancora del Monterosso. Di Luigi
Ro-driguez sono gli affreschi della cupoletta, ai
pennacchi ed alle pareti. Sempre a destra troviamo
la cappella Fiodo con opere sepolcrali dei senesi
Bernardo Moro e Giuseppe Bono. I dipinti sono del
Sellitto, ed il Monumento ad Antonio
d'Alessandro è del Malvito; di questa opera,
scolpita nel '600, restano soltanto l'urna e le
figure di due personaggi; molto bello è anche il
sediale diviso in tre riquadri; segue la cappella
del Santo Sepolcro, della famiglia Orilia, che
consta di due ambienti con cupoletta ellittica ed
affreschi del Polidorino; sull'altare, il cui
paliotto mostra un magnifico bassorilievo, vi è un
Calvario attribuito al Solimena. In questa
cappella si ammira la Deposizione di Guido
Mazzoni, in terracotta, costituita da ben sette
figure in origine policrome, eseguite nel 1492, che
furono restaurate nel 1882 ed ancora recentemente
da Salvatore Gatto. Queste figure, raffiguranti dei
personaggi della storia sacra, sono il ritratto di
alcuni contemporanei dell'artista come il re
Alfonso II, Giovanni Pontano ed il Sannazaro. Alla
destra di questa cappella vi è un'opera in marmo di
Geronimo d'Auria raffigurante la Deposizione
e dello stesso artista, sulla sinistra, il
Monumento funebre dei Maia. Se torniamo indietro
e giriamo subito a destra vi è la cappella
dell'Assunta appartenuta alla famiglia de' Sangro
che serve comunque da accesso alle due sagrestie. La
cappella, decorata dal Naccherino ha una magnifica
Assunta di Francesco Santafede ed affreschi
dello stesso pittore mentre a sinistra spicca un
Frate Olivetano di Giorgio Vasari; accanto a
quest'ultimo non fanno gran bella figura una
Ascensione ed una Vergine del Santafede.
Giungiamo così alla sagrestia vecchia, un tempo
refettorio dei frati, poi oratorio della
confraternita, e in seguito deposito di arredi
sacri: oggi essa è sala di riunione dei confratelli
dell'Arciconfraternita di Sant'Anna de' Lombardi.
Nella volta vi sono degli affreschi del Vasari;
altrettanto notevoli sono gli stalli di Giovanni da
Verona del 1506 dove sono raffigurati egregiamente
Castelnuovo e la città di Napoli, San Pietro che
subisce il martirio e la Facciata dell'antica
chiesa di Monteoliveto, raffigurazioni di
estremo interesse. Tutto l'ambiente fu restaurato
nel 1860: sull'altare vi è una tela del seicentesco
Sellitto che raffigura San Carlo Borromeo ed
un'altra con l'Angelus Domini del romano
Giovan Battista Cavagni. Di fronte è l'altra
sagrestia che, pur essendo chiamata nuova, è la più
vecchia; sull'altare vi è un Crocefisso di
Giuseppe Mastroleo, oltre ad una Santa Francesca
Romana di un discepolo di Luca Giordano.
Si entra poi nel presbiterio e nell'abside che
conservano affreschi seicenteschi di scarso
interesse mentre in fondo vi è un gran dipinto di
Angelo Mozzillo del 1784 raffigurante San
Gioacchino e Sant'Anna; ai lati due cenotafi,
uno di Alfonso II e l'altro di Gurello
Orilia. Alle pareti vi sono nicchioni e ricordi
marmorei, e sulla destra si notano alcuni
monumenti. Notevole è il Coro, opera di
Angelo da Verona su disegno del Cavagni del 1591.
L'altare maggiore, che non è più quello di Giovanni
Mer-liano da Nola, bensì un'opera del fratelli
Pietro e Bartolomeo Ghetti che lavorarono su disegno
di Domenico Vinaccia conserva del precedente il solo
paliotto attribuito ad un discepolo di Giovanni da
Nola.
A destra incontriamo la cappella Savarese che prende
il nome dalla famiglia che ne era proprietaria; fu
dedicata a San Michele per una graziosa statua
rinvenuta sotto una lastra tombale. Segue la
cappella Tolosa fatta costruire nel 1500 dal
mercante spagnolo Paolo Tolosa ad opera di Giuliano
da Majano, con una cupoletta che ricorda le opere
del Brunelleschi; i dipinti, attribuiti al
Pinturicchio, presentano scene ricordanti la vita
del senese Bernardo Tolomei, fondatore dell'Ordine
degli Olivetani: si vuole che i personaggi
inginocchiati siano Alfonso d'Aragona e San Pietro e
quelli di fronte ai primi San Benedetto e San Paolo;
gli Evangelisti nei quattro tondi ai
pennacchi sono opera di discepoli dei Della Robbia.
Segue la cappella Bartucci sul cui altare,
attribuito a Giovanni da Nola, è un San Giovanni
Battista tra San Gerolamo e San Gaetano, mentre
nel paliotto fa bella mostra di sé una Pietà
di Gerolamo Santacroce. Di scarso interesse è la
cappella che segue con alcune tele del Malinconico;
dello stesso pittore sono gli affreschi della
cappella Cabanilla che presenta altresì dipinti del
De Matteis che raffigurano San Matteo e
San Placido; di Iacopo della Pila è il
Monumento a Garda Cabanilla del 1470 mentre di
Giovanni da Nola è la Flagellazione. Segue la
cappella Celentano appartenuta un tempo alla
famiglia d'Avalos del Vasto: la cupoletta è
affrescata da Giovanni Antonio Arditi,
VAnnunciazione e la Fuga in Egitto sono
opere di Antonio Sarnelli e la Vergine tra San
Benedetto e San Tommaso è di Fabrizio
Santafede. Troviamo infine la cappella Piccolomini
della famiglia ducale di Amalfi, ramo cadetto della
grande famiglia senese, una magnifica opera
rinascimentale. Notiamo subito di fronte all'arco
d'ingresso un rilievo raffigurante Cristo in
Croce del 1550, opera di Giulio Mazzoni, mentre
a destra, attribuiti da alcuni a Riccardo
Quartataro e da altri a Silvestro Buono, vi sono
un'Ascensione ed i Santi Nicola e Sebastiano
del 1492. Molto belli il pavimento a mosaico ed
il grazioso Presepe sull'altare, il tutto
opera del 1475 di Antonio Rossellino. Attribuiti a
Matteo del Pollaiolo i Santi Giacomo e Giovanni
e i due Profeti; il Monumento a Maria
d'Aragona figlia naturale di Ferrante I e
principessa di Amalfi che sposò il nipote di Pio II
Antonio Piccolomini, iniziato e concepito dal
Rossellino fu però ultimato da Benedetto da Majano
nel 1479. Sulla destra si ammira un dipinto
raffigurante l’Annunciazione, attribuito a
Piero della Francesca.
Dopo aver visitato questa imponente chiesa, torniamo
alla nostra via Toledo dove, poco più avanti di via
Tommaso Caravita, troviamo il quadrivio detto di
Maddaloni, così chiamato dal predicato della nobile
famiglia proprietaria dell'omonimo palazzo che
occupa tutta la strada sul lato destro. Dalla
sinistra di Toledo si dipartono invece via Forno
Vecchio e l'altra intitolata a Pasquale Scura, che
conducono entrambe alla Pignasecca. Soffermiamoci
quindi brevemente sullo storico
Palazzo Maddaloni
che, pur avendo l'ingresso dall'omonima strada, ha
la facciata laterale sulla via che stiamo
percorrendo.
L'opera, imponente più che bella, fu costruita nel
1582 dal marchese d'Avalos del Vasto su un terreno
che gli era stato venduto dalla famiglia Pignatelli
di Monteleone e precisamente su un gran giardino
chiamato Biancomangiare: il palazzo era delimitato
poi dalla parte opposta dal vico Carogioiello, così
chiamato dal nome di un altro giardino sempre
appartenuto ai Pignatelli che è divenuto via
Tommaso Senise. Il d'Avalos, ancora insoddisfatto
dell'appezzamento di terreno che aveva acquistato,
volle comprarne dell'altro dagli Olivetani del
convento omonimo e cominciò a costruire il suo
palazzo, ma poi, essendovi attiguo un palazzetto
della famiglia Stefanellis, cercò di acquistare
anche questo, riuscendovi con grande difficoltà in
quanto questa famiglia era contraria a vendere. Fu
quindi necessario un intervento poco ortodosso del
viceré che ne decretò l'esproprio. Dopo aver
costruito questo palazzo con tanta cura e
accanimento, il marchese finì col cederlo ad un
mercante fiammingo, il Roomer che gli diede in
cambio una villa a Barra. Il nuovo proprietario
abbellì l’edificio provvedendolo di un grazioso
parco, di spaziose terrazze e logge; in seguito egli
lo vendette al duca di Carafa di Maddaloni che lo
pagò in parte in denaro e parte con due palazzetti
che aveva alla Stella ed a Po-sillipo. Il Maddaloni
diede il compito di affrescare gli appartamenti a
Fedele Fischetti ed a Giacomo Del Po; arricchì lo
scalone e la terrazza con statue di pregio
provenienti da scavi ed interpellò infine anche
l'architetto Cosimo Fanzago perché il suo palazzo
divenisse una delle più belle residenze gentilizie
napoletane. Il duca Carlo, che aveva sposato la
duchessa di Bovino donna Vittoria Guevara, fece
della sua residenza un centro mondano nel quale fu
di casa Giacomo Casanova, e contemporaneamente anche
un centro di cultura in quanto spesso vi ospitava
letterati dell'epoca tra i quali è doveroso
menzionare almeno Pietro Napoli Signorelli. Dopo la
morte del proprietario, la duchessa si risposò col
principe di Caramanico e l'unico erede, che fu poi
l'ultimo dei Carafa di Maddaloni, dopo aver
sperperato i suoi averi, nel 1765 fu costretto a
vendere anche questo palazzo.
Dopo via Maddaloni, Toledo sfocia nella piazzetta
VII Settembre, data che vuol ricordare il giorno in
cui Garibaldi, da un balcone dell'edifìcio alla
nostra destra, proclamò l'unione del Regno delle Due
Sicilie a quello d'Italia. Il
Palazzo
in questione è il
Boria d'Angri;
trapezoidale, esso ha la base minore sul largo e
quella maggiore su via Maddaloni dove vi è anche un
secondo ingresso, sempre chiuso. A sinistra, come
abbiamo visto, via Roma: sulla sua destra termina
via S. Anna de' Lombardi, proveniente dall'omonima
piazzetta.
Questo palazzo, disegnato da Luigi Vanvitelli, fu
costruito soltanto nel 1775 dal figlio Carlo, poiché
essendo sorta nel 1753 una vertenza tra il principe
Doria e la congrega dei Bianchi, la lite andò tanto
per le lunghe che l'architetto morì e dovè esser
sostituito dal figlio che però rispettò il disegno
paterno; l'ingresso ha ai fianchi quattro colonne
che sorreggono la grande balconata.
Questa piazzetta, nella quale ci siamo attualmente
fermati, è più comunemente chiamata dai napoletani
Largo dello Spirito Santo, a cagione della chiesa
che vediamo alla nostra sinistra, la
Chiesa dello Spirito Santo,
costruita, nella sua prima edizione, intorno al 1569
ad opera di Pietro di Giovanni, fiorentino, per la
Confraternita degli Illuminati dello Spirito Santo,
una Congregazione fondata nel 1555, che si riuniva
precedentemente in altre chiese napoletane.
Questa confraternita nel 1561 acquistò un suolo per
costruirvi una chiesetta e nel 1562 ottenne anche il
permesso di fondare due conservatori, uno per
vergini bisognose e l'altro per le figlie dei
confratelli. Poco tempo dopo, per l'allargamento
della strada, la piccola chiesa fu espropriata e fu
demolita; ma col danaro dell'esproprio i
confratelli, acquistato un terreno attiguo, nel 1569
la fecero prontamente ricostruire. Nel 1590 i
governatori della confraternita degli Illuminati
dello Spirito Santo ebbero il permesso di aprire
anche un banco che accettava depositi in denaro da
impiegare poi in prestiti su pegno : non era questo
il primo banco sorto a Napoli ma l'avvenimento fu
cosa molto importante. Nel 1774 la chiesa fu
restaurata dal Gioffredo che le diede la brutta
facciata in stucco che purtroppo ancora oggi
conserva, al limite tra il barocco moderno e il
classicismo. Internamente la chiesa è quasi nuda,
ma può piacere per la sua semplicità; conserva però
alcune opere di un certo interesse come dei
monumenti funebri, dei dipinti di Fedele Fischetti e
di Francesco De Mura ed una Madonna del Soccorso
di Fabrizio Santafede. Mentre la chiesa veniva
rifatta, l'amministrazione fu divisa fra due
confraternite che furono chiamate, dal colore del
saio, quella dei Bianchi e quella dei Verdi allo
Spirito Santo, delle quali riteniamo sia rimasta
solo la prima. Adiacente
alla chiesa fu costruito
il palazzo per il conservatorio, con un vasto
cortile in parte ancora esistente. C'è poi sulla
destra della chiesa, nel vico chiamato appunto dei
Bianchi dello Spirito Santo, l'oratorio della
confraternita.
Proseguendo, si giunge in via Pignatelli, che si
collega sulla destra con via Tarsia ed a sinistra
con la Pignasecca. Da questa strada laterale si
accedeva alla redazione del giornale « Don Marzio »
i cui uffici occupavano le due stanzette che
affacciavano in via Roma sopra all'antico caffè
Caflisch, non più esistente. Dopo la chiesa troviamo
a sinistra il
Palazzo De Rosa
la cui proprietaria è attualmente la duchessa Laura
di Carosino De Rosa; esso fu acquistato dal cavalier
Francesco, duca di Carosino, verso la fine del
secolo XVIII e verso il 1826 fu restaurato da Pietro
Valente, che certamente non fece un'opera d'arte.
Furono trasformati ì cortili, i due portali e vi
furono aggiunti tre piani, sull'ultimo dei quali si
ricavarono delle terrazze panoramiche: anche le due
scale, che potrebbero essere attribuite al
Sanfelice, furono opera del Valente. Il palazzo è
imponente, ma artisticamente insignificante.
In questo largo, fra il palazzo De Rosa che abbiamo
visto e il
Palazzo Petagna,
esisteva una porta chiamata « dell'Olio », o «
Toledo » o « dello Spirito Santo », o anche Porta
Reale Nuova, essendo stata costruita, dopo lo
spostamento della cìnta muraria, con gli elementi di
una preesistente in una posizione più arretrata che
aveva questo nome.
Essa era larga sedici palmi e sulla parte che
guardava verso piazza Dante, fra le due torrette, vi
fu apposta l'aquila bicipite di Carlo V, lo stemma
del viceré e quello della città. Nel tempo vi furono
apposte delle iscrizioni; nel 1656, poi, gli Eletti
del popolo diedero incarico a Mattia Preti di
affrescare anche questa porta come tutte le altre e
vi fecero porre alla sommità una statua di San
Gaetano. Col passare degli anni, essendo divenuta
pericolosa per il passaggio delle carrozze, fu
demolita per ordine di Ferdinando IV: la statua di
S. Gaetano fu messa su Port'Alba e le iscrizioni
furono murate nella facciata di palazzo Petagna.
Sulla destra del largo ricordiamo via Cisterna
dell'Olio, così chiamata perché dove è oggi il
Palazzo Giannini
vi erano appunto delle cisterne per la conservazione
dell'olio.
Quattro furono costruite dall'architetto Vincenzo
Della Monica nel 1588 e altre quattro furono scavate
nel 1731, dedicate non sappiamo per quale motivo a
Sant'Emiddio, Santa Irene, San Francesco Borgia ed
all'Immacolata Concezione. Questa strada conduce in
via Domenico Capitelli.
Ritornati su via Roma, ci troviamo ad un altro
quadrivio che ha a destra via Carcere Sanfelice, con
la tabella viaria errata in quanto il nome è diviso
in due parti come se la strada fosse intitolata al
Santo... mentre lo è all'architetto. La strada a
sinistra è la salita Tarsia, con il
Palazzo del principe di Tarsia
ancora oggi esistente: dopo la confluenza con la
breve via Latilla, vi è il
Palazzo Latilla
dove abitò per un certo tempo il letterato Francesco
D'Ovidio; via Tarsia giunge sino a piazza Montesanto
dove confluisce dal lato opposto la Pignasecca.
Siamo ormai giunti alla fine del nostro itinerario:
via Toledo, fra il vico Mastelloni a sinistra e la
Chiesa di San Michele
a destra, termina in piazza Dante.
Al termine di questo itinerario, daremo uno sguardo
al passato ricordando gli eleganti locali che erano
lungo questa strada e che tanta parte hanno avuta
nella storia napoletana del secolo scorso e degli
inizi di questo secolo XX: i caffè della Belle
Epoque, a Napoli, capitale del più grande regno
italiano, ebbero i loro validi rappresentanti quasi
tutti lungo questa importante arteria cittadina.
Del più noto, Gambrinus abbiamo già parlato:
ricorderemo che nel vico Rotto San Carlo, dove
anticamente sfociava un altro vicolo, chiamato delle
Campane, prima che si provvedesse alla demolizione
di questa zona per far posto alla Nuova Galleria
Umberto I, c'era il famoso Cafè d' 'o Cecato,
luogo di ritrovo della malavita napoletana. E mentre
nel Gambrinus si riunivano gli aristocratici e gli
intellettuali, qui si riunivano i grossi calibri
della camorra. Toledo, che era allora la strada più
importante della capitale, pullulava di caffé, tra
i quali ci sembra doveroso ricordare il Caffé
sotto a Buono, così chiamato perché era sito nel
Palazzo Buono, nel quale si riunivano i liberali di
Napoli. Di fronte alla Chiesa della Madonna delle
Grazie vi era invece il Caffè Costituzionale
che insieme al Caffé De Angelis, che era al
largo della Carità, era preferito dai borbonici che
non ammettevano nel modo più assoluto alcuna idea
antigovernativa. Altrettanto famosi erano il
Caffè Testa d'oro che eccelleva per i gelati al
pistacchio, il Caffè Ancora d'oro, il
Caffè delle isole Ionie, che non sappiamo
proprio per quale motivo si chiamasse in tal modo,
il Caffè dell'Aurora dove gli avventori
potevano anche leggere i giornali che venivano
offerti gratuitamente dal gestore. All'angolo
dell'antica Taverna Penta vi era il Caffè
Donzelli, famoso per i suoi gelati; il Caffè
delle tre porte era all'angolo con il vico
Carminiello e, quasi nello stesso angolo era il
Caffè di Napoli chiamato prima Della
Vittoria. Ricorderemo il Caffè veneziano,
il Caffè della colomba d'oro, il Gran
Caffè e poi quel Caffè d'Europa che era
di fronte al Gambrinus, frequentato dal duca di
Maddaloni Francesco Proto e dal marchese di
Caccavone, oltre che da stranieri, dato che vi si
riuniva l'ex clientela del Caffè d'Italia.
Via Toledo era frequentatissima anche per le
botteghe ben fornite e perché vi si effettuava la «
rituale » passeggiata della nobiltà napoletana che
risiedeva nei palazzi prospicienti o in piazza della
Carità, o al Gesù Nuovo, o in piazza Dante o nella
vecchia Spaccanapoli. Le migliori pasticcerie si
distinguevano per i loro prodotti e non possiamo non
nominare — anche se facciamo della pubblicità
gratuita — la Pasticceria Pintauro, ancora
oggi esistente, che con le sue classiche
sfogliatelle ricce e frolle attira ancora nella sua
modesta e piccola bottega, forse richiamata
dall'odore della vainiglia, gran folla di persone.
Questo locale è conosciuto in molte parti del mondo
anche se il suo prodotto non è certamente quello
rinomato del secolo scorso. Non possiamo dimenticare
il Caffè Van Boi e Feste con la sua sala
stretta bislunga nella quale si riuniva la
jeunesse dorée napoletana; la Boulangerie
Francaise, che era gestita dalla moglie del
pittore Didelot, e fu poi trasformata in un caffè
moderno. Ancora oggi resiste — ed è anzi da
considerarsi una delle aziende più floride della
città in questo campo — la pasticceria Caflisch,
sita nel palazzo Berio di fronte alla Galleria
Umberto; essa fu fondata dallo svizzero Luigi
Caflisch, venuto a Napoli nel 1791, come semplice
garzone di pasticceria. E poiché ci troviamo di
nuovo davanti alla Galleria diremo che qui vi era un
altro locale, il Caffè Cai-zona, frequentato
da agenti teatrali, da orchestrali e da attori.
Anche qui si davano spettacoli di varietà e per
pochi centesimi si poteva sorbire un buon caffè ed
assistere anche a delle rappresentazioni. Legati
alla nostra storia sono anche il Caffè Corfinio,
dove Gabriele D'Annunzio attese nervoso l'esito
del debutto della sua Figlia di Jorio ai
teatro Fiorentini; il Pilsen in via Santa
Brigida, nelle cui sale si poteva anche pranzare; il
Caffè d'Italia in via San Giacomo, che aveva
preso il nome di quello più antico di cui abbiamo
già parlato. Questo locale aveva una sala riservata
alle signore, ed ospitò Giacomo Leopardi che
abitando in via Santa Teresa al Museo soleva fare
qualche passeggiata per Toledo, nonché il duca di
Sandonato che fu il primo sindaco di Napoli ad avere
idee chiare sulla futura urbanistica della città. A
volte egli, come primo cittadino, presiedeva la sua
giunta in questo caffè, e si può dire quindi che vi
amministrasse la città. Accanto a questo locale
era il Caffè Balena che vendeva
tutti i « coloniali » che
si potevano trovare in commercio anche perché il
proprietario, che si chiamava appunto Emilio Balena,
era reduce dal Brasile: questo caffè era
frequentato dallo storico Michelangelo Schipa.
Ancora in questa strada vi era il Caffè Croce di
Savoia, che acquistò fama subito dopo l'unione
del Regno di Napoli al Piemonte, aperto ventiquattro
ore su ventiquattro in quanto anche di notte non
mancavano giornalisti e nottambuli. Ricorderemo
ancora il Caffè Pizzicato, amato dal nostro
grande Eduardo Scarpetta, tanto che il suo ritratto
era in una tabella pubblicitaria del proprietario
don Michele Pizzicato con alcuni versi dell'attore
poeta. In piazza della Carità c'era un tempo anche
il Caffè di Vito Pinto, il cui gestore per la
sua abilità come gelatiere fu fatto barone da
Ferdinando II.
Museo Nazionale - Santa Maria di Costantinopoli - La
Sapienza - Sant'Amelio a Caponapoli - L'Anticaglia -
Via Pisanelli - Gli Incurabili - Largo Avellino -
Via Duomo - Largo Donnaregina -Largo SS. Apostoli -
Via di Santa Sofia - Via San Giovanni a Carbonara -
Via Alessandro Poerio - Piazza Garibaldi.
Ripartendo dal Museo Nazionale, imbocchiamo via
Santa Maria di Costantinopoli, e giunti all'altezza
della Chiesa di San Giovanni delle Monache,
che ha di fronte l'altra Chiesa della Sapienza,
deviamo a sinistra per via Sapienza, dove sulla
destra vediamo subito alcuni edifici del complesso
del Policlinico che occupa il suolo sul quale vi era
prima il Monastero della Croce di Lucca. Ben
presto si giunge ad un quadrivio con la via del Sole
a destra e sulla sinistra via Luigi de Crecchio, che
ricorda un senatore di Lanciano che fu rettore
dell'Università napoletana fino al 1894.
Questa strada anticamente era chiamata del Settimo
Cielo, per corruzione popolare dal nome « Settimio
Celio », patronimico di San Gaudioso, un vescovo che
nel V secolo vi fondò un monastero; secondo altri
studiosi invece, la strada si sarebbe chiamata così
perché quando morì l'abate Sant'Agnello vi apparvero
gli archi dell'iride. Questo colle è stato chiamato
« collina di Sant'Amelio » e «Capo di Napoli»,
essendo il luogo più alto della città antica.
Salendo per questa strada si incontrerebbe il
complesso universitario « di Sant'Andrea delle Dame
», che consta di alcune cliniche della nostra
Università delle quali una parte si è trasferita
nella nuova sede universitaria di Cappella dei
Cangiani. Questo complesso fu costruito come
monastero da quattro sorelle, figlie di un ricco
notaio di Vico Equense, che decisero di riunirsi in
clausura con l'assistenza spirituale dei PP.
Teatini: nel 1580 papa Gregorio XII ne approvò la
fondazione ed il convento venne dedicato a
Sant'Andrea Apostolo, e chiamato « delle Dame »
appunto perché era riservato alle fanciulle della
migliore aristocrazia napoletana.
Gli architetti che diressero questa costruzione
furono Bartolomeo Catone, Felice Antonio Giordano e
Giovan Battista Quaranta, i pittori chiamati a
decorarlo Belisario Corenzio, il fiammingo Pietro
Mennes, Cornelio Avamrino ed altri fra cui Domenico
Lama che decorò ed affrescò un corridoio:
lavorarono infine alle rifiniture del complesso i
marmorari Berrucci, Ferraro, Della Monica e nel 1638
anche gli artisti Simone Tacca e Pietro De Marino.
Nel 1748 dall'architetto Costantino Manna fu
costruito un belvedere dal quale vennero varie volte
a godersi il panorama i reali borbonici, tanto che
lo si chiamò la Torretta Reale. La chiesa annessa fu
edificata a cura del comasco Bernardino Grosso,
Innocenzo e Marco Para-scandolo, Ascanio Presta di
Viterbo, Bartolomeo Piamonte e Pietro Bi-gonio. Il
coro, del 1633, è opera di Orazio Campana e gli
affreschi sono di Giovan Martino Quaglia mentre i
lavori di intarsio furono effettuati da Antonio
Ferrara e Nicola Montella. I marmi pregiati e le
belle sculture raffiguranti Sant'Agostino e
San Tommaso furono eseguite da Bartolomeo
Ghetti nel 1681. Agli inizi del '700 Nicola Vallone
arricchì l'interno di altre sculture e nel 1729
Ignazio Giustiniani provvide al grazioso pavimento
di quadrelle maiolicate a colori. Alla fine dello
stesso secolo Giacinto Diano affrescò il soffitto
mentre la chiesa si arricchiva di altri dipinti, di
affreschi di Domenico Antonio Vaccaro e della
scuola del Siciliano e di opere marmoree di Giovan
Filippo Criscuolo. Nel 1864 le monache furono
espulse ed il complesso si è andato man mano
deteriorando, tanto che attualmente ben poco vi è
rimasto da ammirare.
Sulla salita di Sant'Amelio a Caponapoli vi è anche
la Chiesa di Santa Maria
delle Grazie a Caponapoli, del 1516:
fu disegnata da Giovan
Francesco di Palma e vi si trovano delle buone
opere, come una tavola del Criscuolo ed un affresco
di Andrea da Salerno nel braccio destro della
crociera, un Cristo in legno del secolo XVI,
il Sepolcro di Giovannello de Cuncto del
Malvito nella cappella di Sant'Onofrio ed una bella
Vergine dello stesso scultore nella
sacrestia. Nella parte sinistra della crociera si
possono ammirare una tavola della scuola di Andrea
da Salerno, raffigurante la Vergine coi SS. Marco
e Andrea, un altorilievo di Girolamo Santacroce
raffigurante l'Incredulità di San Tommaso,
una tavola di Giovan Battista Lama rappresentante la
Cro-cefissione e una Deposizione di
Giovanni da Nola. Molto interessante è la
pavimentazione cinquecentesca in mattonelle
maiolicate.
Su questa collinetta vi è poi la
Cappella dei SS. Michele ed
Omobono, costruita nel 1477 dall'Ordine
toscano dei frati Pisani e divenuta alla fine del
secolo XVII sede dell'associazione dei sarti
napoletani, che elessero come loro protettore
Sant'Omobono.
Vi possiamo ammirare una bella Crocefissione
di Angiolillo Boccadi-rame e un dipinto di Nicola
Criscuolo raffigurante i SS. Michele, Giovanni
Battista e Omobono. Nel piccolo largo vi era un
tempo la Specola militare della Marineria
Napoletana, fra il Monastero di San Gaudioso e
le carceri di Sant'Amelio. Veniamo quindi alla
chiesa che dà il nome alla salita, quella di
Sant'Amelio o Sant'Agnello Maggiore a Capo
Napoli, del VI secolo ma varie volte rifatta ed
attualmente in restauro. Vi si venerava un antico
quadro della Vergine dal quale si racconta che la
madre del Santo venisse ad implorare la grazia di
avere un figlio. Ottenutolo, la donna lo chiamò
Agnello e Io educò nella fede e nella pietà
cristiana, tanto che, divenuto adulto, volle
ritirarsi a far vita dì eremita e quando Napoli fu
assalita dai longobardi e dai saraceni difese la
città come abate del monastero di San Gaudioso. Vi
erano nella chiesa un pregevole bassorilievo di
Giovanni da Nola e un San Girolamo dedicato
dal Santacroce al suo Santo, ma non ci è possibile
accertare cosa vi rimanga dopo il restauro. Su
questa collina secondo un'antica tradizione vi
sarebbe stata la Tomba di Parte-nope, la sirena che
divenne l'emblema della nostra città.
Ritornati sui nostri passi, al quadrivio,
continuiamo lungo la direzione che avevamo
precedentemente e dopo il vico Pietrasanta, chiamato
oggi via Francesco del Giudice, giungeremo nel largo
Regina Coeli che ha alla destra via Atri ed a
sinistra il vico San Gaudioso, intitolato ad un
vescovo africano del V secolo che, sfuggito per un
miracolo alla persecuzione dei Vandali, sbarcò sul
litorale di Napoli. In questo vico vi era il
Monastero di San Gaudioso eretto dal vescovo Stefano
II nel secolo Vili, che fu distrutto nel 1799
insieme alla chiesa annessa perché i monaci avevano
dato ospitalità ai realisti. Soltanto le reliquie
furono salvate e furono trasferite nell'attiguo
convento di Sant'Andrea delle Dame.
Questo largo, che era anticamente chiamato Capo de
Trio, prese il suo attuale nome dal monastero e
dalla Chiesa di Regina Coeli, costruiti dalle
Canonichesse Lateranensi, ordine fondato da alcune
dame del patriziato napoletano che avevano fatto
parte della corte di Isabella d'Aragona. Queste
monache, che erano ritenute predilette dal Vaticano,
indossavano un abito bianco con << rocchetta e zona
nera >>. Dalla marchesa del Vasto Maria d'Aragona
ebbero in dono il suo Palazzo ed i giardini
del nipote marchese di Montalto e la
costruzione del convento fu iniziata nel 1566
su disegno del Mormanno e condotta a termine nel
1590.
Fra le Canonichesse erano da annoverarsi
rappresentanti delle famiglie più illustri del
Reame, come Gambacorta, Mariconda, Oliviero,
Pignatelli, Caracciolo, Pappacoda, Dentice ed altre
che, pur mostrando di osservare le regole
agostiniane, vivevano con i loro agi e le loro
comodità. Le celle erano appartamenti, le converse
erano delle vere e proprie serve, e non mancavano
argenterie, monili, oggetti preziosi e mobili di
fine fattura, che alla morte delle suore venivano
in parte venduti a favore della comunità. In questo
convento furono a volte rinchiuse delle dame per
volere del pontefice e del re, come avvenne per la
marchesa di Lavello, Costanza Pappacoda, per
Beatrice Capece, vedova del principe di Presicce
Francesco de' Liguoro della famiglia di
Sant'Alfonso, che nella sua vedovanza ne aveva
combinate delle belle, e per donna Giovanna Spinelli
figlia del duca d'Aquara. Quest'ultima dama vi fu
fatta rinchiudere da Carlo III nel 1757 per alcuni
mesi, per aver chiesto, senza l'approvazione del
padre, di entrare alla Croce di Lucca. La clausura
fu severissima e la badessa ebbe ordine di fermare
tutte le lettere indirizzate alla nobildonna e di
proibire che il fratello, duca di Laurino, si
avvicinasse al convento perché sospettato di voler
prelevare la sorella per trasferirla in altro luogo.
Questa curiosa storiella durò per un po', finché ci
si accorse che la giovane non solo aveva una vera
vocazione, ma avrebbe desiderato chiudersi in un
convento più severo con clausura completa.
Mei 1S07, durante la dominazione francese, le
Canonichesse furono soppresse e sostituite in questo
convento dalle Suore della Carità di San Vincenzo
de' Paoli : fu la prima volta che l'Ordine francese,
fondato da Giovanna Thouret a Besancon venne a
Napoli, per di più chiamato da re Gioacchino Murat.
La fondatrice si trasferì anch'ella nella nostra
città e volle rimanere in questo convento, dove
mori; fu seppellita poi nella chiesa, nel 1826,
nella cappella dedicata all'Immacolata Concezione.
La bella facciata della chiesa, con ampia scalinata
a due bracci, ha un elegante portico a tre arcate
sostenute da pilastri, diviso al secondo piano da
altri pilastri di ordine corinzio con tre finestre
rettangolari. Sulle volte del portico vi sono
affreschi del pittore veneziano Paolo Brill mal
restaurati; l'interno è stato eseguito dal 1634 al
1659 su disegno dell'architetto Pietro de Marino.
Esso presenta un magnifico soffitto ligneo con tre
importanti tele di Massimo Stanzione e vi si
ammirano dipinti di Luca Giordano raffiguranti scene
della vita di Sant'Agostino, ed una Passione.
L'altare maggiore è di Giovan Battista Caracciolo e
il dipinto raffigurante l'Incoronazione di Maria
è di Ferdinando Castiglia; notevoli sono anche
le sculture ed i lavori in marmo di Giovanni
Mozzetti e Francesco Valentini.
Di fronte alla chiesa di Regina Coeli vi era il
Palazzo Bonifacio,
della nobile famiglia del seggio di Portanova, alla
quale apparteneva la Carmosina cantata da Jacopo
Sannazaro.
Nel 1504, quando il poeta tornò dalla Francia, seppe
che la sua bella era morta e scrisse un famoso
epitaffio. Mentre della Carmosina si parla ancora,
della vecchia costruzione nulla è rimasto; sappiamo
che passò ai Duchi della Regina e che fu restaurata
alla fine del secolo XVI. Attualmente nel cortile
può ancora ammirarsi la figura di un guerriero
aragonese in un piccola nicchia, probabilmente un
personaggio della famiglia Bonifacio.
Inizia dal largo Regina Coeli la Strada Pisanelli,
anticamente detta de' Tori da una famiglia del
seggio di Montagna, che' fu poi rimpiazzata per
potenza e munificenza dalla famiglia Pisanelli.
Questa angusta strada, assolutamente inadatta alle
odierne concezioni di vita, è oggi abitata da gente
di modestissima condizione; pure essa riserva al
nostro sguardo attento, di volta in volta, la
sorpresa di portali durazzeschi o barocchi,
chiesette e conventi di pregevole fattura. Purtroppo
la sporcizia e lo stato di abbandono di questa
popolare zona della città influenzano l'animo del
visitatore e fanno passare inosservate o quasi le
robuste arcate di buon laterizio romano che pare
facciano parte dell'Anfiteatro.
Passati sotto l'arco di Regina Coeli troviamo sulla
destra il
Palazzo Pisanelli,
dalla facciata rifatta in epoca barocca, con una
edicola settecentesca nel piccolo cortile e su un
ballatoio dell'armoniosa scala quattrocentesca un
altro affresco, datato 1656, ex voto di un tale
scampato alla famosa epidemia di peste; si vuole che
sotto il palazzo, oltre lo scantinato, ci sia un «
cerne-terium » della Corporazione degli Speziali.
Quasi di fronte al palazzo Pisanelli è il
Monastero detto delle Trentatré
dal numero delle monache;
esso mostra nel suo
imponente basamento una sagoma quasi etrusca con
pietra da taglio a blocchi di lunghezza ed altezza
uguale, con una larghezza doppia e a volte tripla.
Il complesso monastico fu voluto da quel genio
veramente evangelico che tu Maria Longo, la
fondatrice dell'Ospedale degli Incurabili,
per cui la storia di queste due opere pie va di pari
passo anche perché, indipendentemente dal fatto che
nacquero dalla stessa mente, sono pressocché unite
materialmente, trovandosi il Monastero nella
prossimità del grandioso ospedale.
Al seguito di Ferdinando il Cattolico nel 1503 venne
dalla Catalogna, come Reggente del Consiglio
Collaterale, Giovanni Long, il cui cognome fu qui
italianizzato in Longo, con la sua famiglia. La
dolce consorte. Maria Richenza, da molti anni
colpita da paralisi, volle comunque seguirlo nella
nuova residenza. Quattro anni dopo, nel 1507, Re
Ferdinando, dopo aver insediato il Viceré, rientrò
in Catalogna e con lui il suo dignitario, ma Maria
Longo rimase temporaneamente a Napoli, con i figli.
Dopo poco tempo giunse dalla madre patria la notizia
della morte del marito, ed unico conforto della
povera paralitica rimasero la preghiera e la carità
per gli umili e per tutti coloro che avevano bisogno
di aiuto. Non avendo fatto in tempo a recarsi a Roma
per il giubileo del 1500, Maria volle recarsi in
pellegrinaggio a Loreto, per implorare dalla Vergine
la grazia della guarigione. Partì quindi
accompagnata dalla sua amica Maria Ayerba, duchessa
di Termoli, moglie di Andrea di Capua, e a Loreto
riacquistò miracolosamente l'uso delle gambe che
aveva perduto da oltre venti anni. Il miracolo
suscitò grande scalpore, ed il rientro a Napoli di
Maria Laurenziana, come la dama volle chiamarsi in
ringraziamento alla Vergine di Loreto, fu atteso con
grande ansia. Maria sostò a Roma perché Giulio II in
persona volle sincerarsi della veridicità della sua
sovrumana guarigione, ma, appena tornata a Napoli,
volle dedicare tutte le sue energie e la
riacquistata vitalità a sollevare i sofferenti che
in quegli anni, tra miserie, carestie e malattie
dovute alla lunga guerra tra spagnoli e francesi,
erano terribilmente numerosi. Maria Longo si prodigò
per raccogliere i fondi necessari per la costruzione
dell'Ospedale degli Incurabili e della
annessa chiesa di Santa Maria del Popolo,
chiamata anche degli Incurabili che fu poi
sede della Confraternita dei Bianchi, intrapresa nel
1520 tra la discesa di S. Patrizia, chiamata anche
via dei Cornioli da alcune piante selvatiche che vi
crescevano e il Sopramuro di Porta San Gennaro; pose
la prima pietra il viceré don Ramon de Cardona.
Il sorgere di un'opera così grandiosa provocò un
risveglio generale delle coscienze e dello zelo
religioso che portò ad un fiorire di opere pie
intorno all'Ospedale e lungo la stessa strada di S.
Patrizia. Furono costruiti un ricovero di « donne
pentite » trasformato poi nel Monastero delle
Riformate, purtroppo oggi divenuto
un'autorimessa, pur essendovi ancora sotto il
pavimento il luogo di sepoltura delle monache, e
l'Oratorio di S. Maria della Stalletta, così
chiamato perché costruito ad imitazione della santa
grotta di Betlemme.
La Chiesa di S. Maria del Popolo fu inaugurata
insieme all'ospedale, alla cui direzione fu
prescelta, fra le sue proteste di incapacità,
l'animosa fondatrice. Al suo fianco si dedicarono
alla pia opera un gruppo di dame dell'aristocrazia
napoletana, tra le quali l'amica Maria Ayerba,
rimasta vedova di Andrea di Capua, Vittoria Colonna
ed altre.
Poiché, naturalmente, l'ospedale non poteva andare
avanti con il solo lavoro delle pie amiche di donna
Maria, si aggiunsero a loro dei cavalieri, che si
riunirono poi in quella Congrega dei Bianchi,
tuttora esistente, anche se non più attiva.
Da tutti i sedili napoletani una rappresentanza
delle migliori famiglie si aggregò al gruppo dei
benemeriti che davano la loro opera all'ospedale.
La venuta di San Gaetano a Napoli e il trasferimento
nell'ospedale degli Incurabili dei teatini causò
inoltre un risveglio negli ordini religiosi, ed i
frati Cappuccini vollero anch'essi dedicarsi
all'assistenza dei malati. L'arrivo di questi
religiosi e la quotidiana consuetudine con loro
fecero balenare nella mente di Maria Longo, ormai
anziana e stanca, il desiderio di fondare un
piccolo ordine religioso, e così lei e coloro che
vollero seguirla decisero di occupare il vicino
Ospizio della Madonna delle Grazie, che era
stato appunto dei Capuccini. La nobildonna spagnola
fu nuovamente colpita da paralisi, alla quale si
rassegnò pensando che finché era stata utile per il
governo dell'ospedale Iddio l'aveva lasciata in
forze, mentre per la vita claustrale era sufficiente
il fervore dell'anima. Preso dunque commiato da
tutti coloro che rimanevano in quell'ospedale, che
le era tanto caro e dove aveva speso il miglior
tempo della sua vita, a settantadue anni si ritirava
nel suo monastero che fu chiamato di Santa Maria
di Gerusalemme, dove, con la vestizione
canonica, le monache presero il nome di «
Cappuccinelle ».
Quest'Ordine vide fiorire intorno alla sua
fondatrice molte vocazioni, pur non superando mai il
numero di trentatré, quello degli anni di Gesù
Cristo, ed ebbe all'inizio la guida spirituale di
San Gaetano, il cui convento era lì vicino.
Nonostante il limitato numero, la prima casa accanto
all'ospedale diventava sempre più angusta e si rese
necessario che le monache si trasferissero in una
sede più spaziosa, fornita dallo stesso San
Gaetano, che provvide a mettere a loro disposizione
un convento prima occupato dai suoi confratelli. Fra
queste avrebbe voluto rifugiarsi anche Vittoria
Colonna, vedova del Marchese di Pescara, e ben due
volte cercò di entrarvi, ma ne fu dissuasa
dall'opposizione dei suoi familiari, e dovè
accontentarsi di vivere come terziaria, ottenendo
però il privilegio rarissimo di poter avere nella
cappella del suo palazzo il SS. Sacramento.
Le eresie del Valdes, che in quell'epoca arrecavano
tanto male alla Chiesa, indussero le « trentatré » a
chiudersi in clausura perpetua per potersi dedicare
completamente alle preghiere ed implorare pietà per
l'eretico e per coloro che lo avevano seguito.
Queste monache di clausura vestono tonache di ruvido
panno cappuccino, calzano sandali e dormono su
tavole, non mangiano carne, né bevono vino, fuorché
la domenica, e vivono soltanto di preghiera e
dell'elemosina di coloro che ne conoscono
l'esistenza. Attualmente non sono trentatré ma una
ventina, quasi tutte molto anziane.
Nell'atrio, sulla parete di fronte e sulla porta
d'ingresso, si ammirano due grandi affreschi di
Andrea Malinconico, che rappresentano la Passione
di Gesù Cristo, mal restaurati all'inizio del
secolo scorso. Dopo aver salito la larga scala del
convento si accede a sinistra nella piccola chiesa,
che non ha nulla di notevole; nell'interno, molto
semplice, vi è sull'altare maggiore un dipinto di
autore ignoto, che si dice donato da Paolo III a
Maria Ayerba. Il chiostro è semplicissimo, e
restaurato nel secolo XVIII; di artistico questo
complesso monastico ha dunque molto poco, ma, come
dice il Celano « si sente odore di Paradiso che
esala da una semplice devozione e da una quieta
modestia, poiché in questo santo luogo, non la
curiosità, ma l'edificazione chiama le genti ». Il
monastero confina con il quadrivio formato da via
Pisanelli, via San Paolo, via Ar-mani e
l'Anticaglia.
La via Luciano Armani che prende il nome da un
esimio clinico napoletano, porta all'Ospedale
degli Incurabili alla cui fondazione abbiamo
precedentemente accennato a proposito del monastero
delle Cappuccinelie e di Maria Longo.
Molto interessante sarebbe visitarne la Farmacia,
a cui si accede dall'ampio e bel cortile
attraverso una breve scalea a due rampe sita di
fronte allo scalone dell'Ospedale: al centro, in una
nicchia, un busto marmoreo di Maria Longo eseguito
da Angelo Viva. La gradinata termina su un ballatoio
coperto da cinque portici, sul quale si aprono
quattro porte: dalla prima a sinistra si entra nel
cosiddetto laboratorio, la camera nella quale gli
speziali manipolavano i loro ingredienti le cui
pareti sono tappezzate da stigli in noce con
piccoli armadi, scaffalature e vetrine: vi si
conservano albarelli quei piccoli vasi di maiolica
che erano usati degli speziali per la custodia di
farmaci ed essenze. Nel centro centotrentasei idrie
farmaceutiche colorate in blu, molte delle quali
sono decorate con lo stemma dell'opera pia
ospedaliera. Nelle vetrine vi sono barattoli di
vetro che servivano anch'essi a contenere i
medicinali.
Si entra quindi nella farmacia vera e propria, un
vasto salone rettangolare rivestito anch'esso di un
prezioso stiglio di noce, opera di Agostino Fucito,
diviso in scaffalature e vetrine. Ricchissimi i tre
fondali delle vetrine in legno dorato e scolpito,
sui quali sono esposti bottigline e bicchieri,
vetri di Murano e di Boemia o lavorati a Napoli da
artisti specializzati, e numerosi vasi policromi.
Al centro del soffitto vi è una bella tela di Pietro
Bardellino del 1570 raffigurante Macaone che cura
un guerriero: ai quattro lati le effigi dei
naturalisti: Lavoisier, Barzelius, Dauy e Volta.
Belli i lampadari policromi di Murano e
pregevolissimo il pavimento in maiolica, dell'epoca
di costruzione, attribuito a Giuseppe Massa. Da
questa sala si entra poi nelle sale interne
attraverso un ricco portale sormontato dal busto in
marmo del Reggente degli Incurabili Antonio
Maggiocca attribuito a Matteo Bottiglieri.
L'importanza di questa « spezieria » è dovuta alla
raccolta di circa quattrocento vasi di maiolica di
varie configurazioni e dimensioni, per lo più opera
di ceramisti e maiolicari abruzzesi come F. A. Grue,
il Castelli o artisti napoletani allievi del Grue
come riteniamo siano stati Lorenzo Salamandra e
Donato Massa.
Ritornati su via Armani, ricordiamo che essa era
chiamata anticamente via di Santa Patrizia perché,
dove oggi hanno sede gli Istituti della I Facoltà di
medicina dell'Università, vi era il monastero di
Santa Patrizia con annessa
Chiesa dei SS. Nicandro e Marciano,
officiata dai monaci basiliani di rito greco.
Il monastero passò poi alle monache appartenenti
allo stesso Ordine e in seguito alle benedettine che
costruirono una seconda chiesetta: l'attuale è
quella rifatta da Giovan Marino della Monica nel
1607. L'interno, ad unica navata, è quasi spoglio,
ad eccezione di un dipinto di Giuseppe Marnili e di
un altro di Fabrizio Santafede; l'altare, molto
bello, è opera di Ferdinando Sanfelice ed il
tabernacolo in bronzo di Raffaele Mytens detto il
Fiammingo.
Dietro l'altare maggiore era tumulato il corpo della
Vergine Patrizia che venne poi traslato nella chiesa
di San Gregorio Armeno; oltre la santa, in questa
chiesa erano stati sepolti anche la sua nutrice e
due eunuchi che avevano voluto seguire la loro
padrona. In questo monastero vi era un pozzo
chiamato per l'appunto « di Santa Patrizia » che è
passato a significare qualcosa di inesauribile:
esso era una grande cisterna attraverso la quale
passava l'acqua che da Serino andava a Miseno.
Ritornati al quadrivio, vediamo sulla destra la
piccola
Chiesa di Santa Maria della Vittoria o della SS.
Trinità,
appartenente alla Congregazione dei bottegai e dei
venditori di grano. Quasi di fronte a questa chiesa
ve ne era un'altra, la Cappella di San Leonardo,
non più esistente.
Dopo il quadrivio la continuazione della strada che
abbiamo finora percorsa, prende il nome di via
Anticaglia; essa è resa caratteristica da due archi,
robusti avanzi di ruderi laterici che hanno fatto
fantasticare tanti scrittori, dai più attenti ai più
sprovveduti.
Nel Medio Evo sembra che questa strada fosse
lastricata in marmo, poiché era chiamata la via
«marmolata», a meno che non fossero i portali in
marmo dei palazzi a procurarle questo nome; era
comunque una delle più illustri e meglio abitate
vie della città.
Quanto alle arcate in laterizio romano, si è
congetturato che appartenessero al Teatro
Romano e che fossero contrafforti che cingevano
la « summa cavea ». Dietro il tempio dei Dioscuri,
infatti, trasformato come abbiamo visto nella chiesa
di S. Paolo Maggiore, vi erano due teatri, uno
scoperto e uno più piccolo coperto che, a sentire
Stazio, erano quasi uniti :
« Et geminam molem nudi tectique theatri ».
I teatri, come attesta anche Marco Aurelio, si
trovavano tra S. Paolo, l'Anticaglia, il vico
Giganti e il Monastero dei Teatini, e nell'antichità
la loro fama era grande.
Si sa che fino al secolo XV una parte del teatro
scoperto era visibile, ma per vari terremoti,
l'apertura di nuove strade e per la costruzione di
palazzetti vari, ad oggi è rimasto ben poco. Nel
teatro scoperto il pulpito della scena era parallelo
a via S. Biagio dei Librai e a via Tribunali; il
proscenio, che era molto vasto, con tre porte, finì
sotto il Palazzo Capece Zurlo; ed il retroscena,
chiuso in fondo da un muro alto ben 21 metri e lungo
19, fu incluso nel monastero dei PP. Teatini. Il
muro, che davanti formava il pulpito, aveva delle
nicchie e piccole scale per le quali i cantori
accedevano dal palcoscenico all'orchestra; di fronte
al palcoscenico si trovava l'interstizio, dove era
il sipario. Il diametro di questo teatro scoperto
era superiore ai cento metri e poteva ospitare oltre
cinquemila spettatori. La cavea, in cui sedevano gli
spettatori, era ad emiciclo e divisa da corridoi in
tre zone, « Summa », « Media » ed « Infima Cavea ».
In alto un corridoio serviva a dividere la zona «
infima » dalla « media »; il teatro era fornito di «
vomitori ».
In occasione di un agone quinquennale qui si
rappresentò una commedia in lingua greca
dell'imperatore Claudio in onore del fratello
Germanico, seguita secondo il costume del tempo da
un ballo che veniva chiamato « emméleia » se era
dato dopo una tragedia, « « cordax » se dato dopo
una commedia, « sicinis » se seguiva un dramma, e
veniva di solito eseguito da mimi che quando erano
in grado di interpretare tutti i tre balli
venivano chiamati « pantomimi ».
II teatro coperto chiamato Odèo o Odeon,
era nella stessa zona, fra via S. Paolo e
l'Anticaglia. Alcuni studiosi sostengono che fosse a
nord del precedente e che i due archi in laterizio
che abbiamo incontrato non ne facevano parte ma
dovevano essere dei cavalcavia tra i due teatri come
esistono a Pompei; altri non sono d'accordo
ritenendo invece gli archi parti integranti del
teatro.
In questo Odèon avvenivano le gare poetiche con
canto e con musica ed i pituali vi gareggiavano tra
loro unitamente ai suonatori; qui il cinico Nerone
fu applaudito dai suoi claqueurs per il suo
canto, malamente appreso dal maestro Terpno, e
tutta la sua tracotanza non gli impedì di chiedere
al pubblico partenopeo di applaudirlo.
La gente comunque accorreva per sentire cantare
l'imperatore assassino, e specialmente gli
alessandrini lo adulavano, acclamandolo insieme al
popolino minuto, con « bombi, embrici e cocci »,
come riportano Sve-tonio e Giovenale. Anche Marco
Aurelio ricorda come fossero disgustosi gli elogi
che gli scrittori del tempo tributavano alle
esibizioni canore di Nerone. L'imperatore in veste
di citaredo si esibì varie volte in quel teatro, ed
un giorno, ebbro del suo successo, volle offrire un
pranzo a tutta l'orchestra, non disdegnando di
mangiare sul palcoscenico davanti agli spettatori.
Andato in Grecia, al suo ritorno Nerone si fermò di
nuovo a Napoli, e come dice il Capasso: «volle
applicare a se citaredo l'onoranza riserbata ai
soli atleti vincitori nei solenni giuochi sacri... e
rientrò a Napoli sopra un carro tirato da bianchi
cavalli, attraversando un tratto di mura abbattute
».
Nel terminare la breve descrizione di questa zona
centralissima della città greco-romana aggiungeremo
che nei pressi vi era anche un bagno, a settentrione
di questi archi, e la casa del filosofo Metronatte
che, ai tempi di Nerone, teneva scuola di filosofia
stoica. Era spesso suo ospite Seneca, che, molto
amico del filosofo napoletano, amava ascoltare la
sua lezione « all'ora ottava », cioè verso
mezzogiorno, e scriveva poi al suo Lucilio che,
quante volte andava nella casa di Metronatte, si
vergognava del genere umano; egli stesso ci racconta
inoltre che, per recarvisi, doveva attraversare il
teatro napoletano.
Subito dopo il secondo arco vi è un
Palazzo detto volgarmente di Nerone,
non perché fosse appartenuto all'isterico imperatore
romano, ma perché dal suo giardino, come dalle case
adiacenti in via San Paolo e nei vichi Cinquesanti e
dei Giganti, sono visibili murazioni in « opus
reticulatum » che facevano parte del complesso
scenico del teatro e che oggi sorreggono
costruzioni secentesche.
Questo palazzo, che serba all'interno una graziosa
scalinata, appartenne ai marchesi Artiaco, ma, oggi,
è purtroppo in condizioni deplorevoli, come del
resto tutta la strada.
Riprendiamo l'itinerario lasciando a destra il vico
Cinquesanti ed a sinistra il vico Limoncelli. Di
qui la strada era chiamata nel secolo X «
Duodecima putea spoliamorta » in quanto vi era
una congrega di ebrei, trasferiti poi nella Giudecca
vecchia, che vendevano le spoglie dei morti. Nel
secolo XI ed in quello successivo questo vico
Limoncello era chiamato « vicus Judeorum ».
Sulla sinistra vi è un'altra stradina chiamata di
San Giovanni a Porta dove sembra dovesse esservi nel
secolo IX una piccola chiesa dedicata al santo che
forse dovè essere spostata per la costruzione delle
mura.
Alcuni ritengono che il nome di questa antica
stradina sia dovuto al supplizio dell'Apostolo
Giovanni che fu messo nell'olio bollente davanti ad
una porta.
Questa stradina era chiamata anche « la marmorata »
poiché vi erano avanzi di antichi marmi, e nel
secolo XIV « carrarium » forse perché queste lastre
di marmo si ritenevano provenienti da Carrara,
secondo una tesi interpretativa che riteniamo
alquanto dubbia.
Ancora a destra dell'Anticaglia vi è il vico
Giganti, dove vi era anticamente la piccola
Chiesa di Sant'Anna che fu il primo oratorio
della Compagnia di Gesù a Napoli.
Si vuole che in questo vico vi fosse una gigantesca
statua nel cortile di un palazzo. Il nome
precedente, agli inizi del Medio Evo, era «
squarciarlo e verricelli » in quanto vi era una
cappellina dedicata a Santa Maria Vertecoeli.
Sempre continuando per la nostra strada giungeremo
al Largo Avellino, ove troveremo il grande
Palazzo Caracciolo dei principi di Avellino.
Questo edificio, costruito in origine dal De Santis,
fu dimora di Ottino Caracciolo, cugino di Ser Gianni
e poi suo acerrimo nemico, che fu Gran Cancelliere
di Giovanna II di Durazzo; il principe Camillo nel
1616 lo ingrandì e ricostruì, incorporandovi
vecchie case, tra le quali quella di Porzia de'
Rossi, madre di Torquato Tasso, che una lapide così
sbiadita da non essere leggibile ricorda nella
facciata dell'incorporato Palazzo de' Rossi.
Il Tasso abitò da ragazzo per quattro anni nel
palazzo, che era stato in origine dei Gambacorta, «
dai quali assai probabilmente per Lucrezia, moglie
di Giovanni de' Rossi e madre di Porzia, e per
Beatrice moglie di Giovanbattista Caracciolo,
soprannominato ' Ingrillo ' stipite dei Principi di
Avellino, passò alla famiglia de' Rossi e parte alla
famiglia Caracciolo d'Avellino ».
Nel 1522 dietro ordine degli Eletti del Popolo il
palazzo fu restaurato dai de' Rossi e fu abbattuto
un cavalcavia, che lo univa con altre case, rifatto
poi dagli Avellino. Alla madre del Tasso venne
assegnata una dote di cinquemila scudi, che fu poi
causa di discordie, sicché il fratello Scipione,
alla morte di Porzia, decise, d'accordo con gli
altri parenti, di vendere il palazzo al duca di
Atripalda, Domizio Caracciolo. Il poeta nel 1594
fece causa al nipote del principe di Avellino e si
accordò poi con una transazione, mediante la quale
ottenne cento scudi l'anno di cui purtroppo non potè
godere perché morì.
Il principe di Avellino nel rifare il palazzo, per
renderlo « più arioso », ricavò un largo per suo
esclusivo uso dalla demolizione del convento di San
Potito, e ne fece poi decorare i saloni dai migliori
artisti dell'epoca. Vi era anche una ricca
pinacoteca, che annoverava tra le numerose opere un
Ecce Homo del Tiziano, Filosofi del
Ribera, una Fuga in Egitto di Andrea Vaccaro
e due battaglie di Salvator Rosa.
Don Camillo Caracciolo di Avellino era Cavaliere del
Vello d'Oro e Gran Cancelliere del Regno, per
essersi distinto nelle vittorie navali di Filippo II
e Filippo III nel Belgio, nelle Gallie ed in Italia.
Nel tempo alcune finestre furono tamponate e
all'inizio del secolo scorso il principe di Avellino
provvide ad unire con due grandi volte le ali
dell'edificio, onde permettere il passaggio per il
largo.
Superato questo largo e l'omonimo palazzo, la strada
per un breve tratto assume il nome di via San
Giuseppe dei Ruffo, ed è intersecata dal vico San
Petrillo, chiamato prima vico Avellino.
Qui si trovava una cappellina, dedicata a San
Pietro, e volgarmente detta di San Petrillo,
perché molto piccola, appartenente alla
congregazione dei fabbricatori, dei tagliamonti e
dei pipernieri. Anticamente il vico era chiamato
anche de' Ferrari perché la famiglia omonima del
Seggio di Montagna vi aveva un palazzo.
Sulla destra troviamo il vico dei Gerolomini, così
chiamato perché faceva parte della bella chiesa
omonima. Nel medioevo era chiamato di San Giorgio
ad diaconiam, o Cafatino dal nome di una
famiglia, o anche della Stufa.
Superata via Duomo e continuando sempre nella stessa
direzione, si sfocia nel Largo di Donnaregina,
chiamata anticamente Somma Piazza o Cortetorre.
Il nome di Donna Regina non gli fu dato in onore di
Maria d'Ungheria, consorte di Carlo II d'Angiò che
fece ricostruire la chiesa nel 1307 dopo il
terremoto del 1293, ma perché in origine il
monastero « era dedicato a San Pietro e determinato
dal Monte di Donna Reina, pel nome della
proprietaria del suolo, elevato alquanto, dove fu
stabilito ». Fin dal 1006 il monastero dunque era
chiamato di Santa Maria di Donna Regina e la
munifica regina non c'entra affatto.
La
Chiesa di Donnaregina,
nel vico omonimo a sinistra della piazza, in parte
restaurata nel 1928, è una delle opere medievali
napoletane più pregiate.
Unita ad un convento, essa era officiata da monaci
basiliani ed intitolata a San Pietro; nell'VIII
secolo ebbe il suo momento di notorietà per aver
ospitato una figlia del Duca di Napoli Giovanni, ed
una figliola dell'imperatore Anastasio di Oriente.
Nel monastero femminile nel secolo XI trovarono
asilo monache benedettine, sostituite nel 1348 da
francescane, che dedicarono il complesso monastico
alla Vergine Maria. Purtroppo, come abbiamo già
detto, il terremoto del 1293 fece crollare tutto, e
chiesa e monastero furono ricostruiti per
munificenza della regina Maria. La predilezione
della buona regina per le monache le seguì anche
dopo la sua morte, perché lasciò loro in testamento
300 once d'oro ed una raccolta pregiatissima di
oggetti preziosi, di libri miniati e di reliquari in
oro ed argento.
Passato il cancello, a sinistra si ammira l'abside
poligonale con alte bifore; un mediocre portale
settecentesco immette nel piccolo chiostro di
Ferdinando Sanfelice, ornato di maioliche.
Nell'interno, la prima cosa da ammirare è il
Sepolcro della regina Maria d'Ungheria, di Tino
di Camaino e di Gagliardo Primario, del 1325, con
l'illustre dama inginocchiata davanti alla Vergine
sotto un padiglione. Il sarcofago è ornato di
sbiaditi mosaici e da undici nicchiette, sette sul
davanti e quattro ai lati, formate da colonnine ed
archi acuti che contengono alcune statuette,
raffiguranti i figli re Roberto, Filippo di Taranto,
Raimondo, Carlo Martello, Berengario e Giovanni di
Durazzo e, al centro, Ludovico, il santo.
La chiesa è divisa in tre navate da colonne
ottagonali che a loro volta sorreggono il coro, una
gran sala rettangolare con magnìfico soffitto
cinquecentesco a cassettoni, attribuito al
Belverte; il coro vero e proprio, finemente
intagliato, era prima in San Lorenzo Maggiore.
Ciò che maggiormente attira l'attenzione
dell'osservatore sono però gli affreschi di Pietro
Cavallini e di Lello da Roma che adornano le
pareti. Riportati da tutti i trattati di arte
medioevale, essi, che furono eseguiti verso la metà
del secolo XIV, sono in parte bisognevoli di
restauro. Gigantesco è il Giudìzio Universale,
diviso in tre parti: al centro gli uomini
chiamati davanti al tribunale di Dio, a destra i
buoni che vanno in paradiso, a sinistra i reprobi
condannati al fuoco eterno; il Cristo è al centro
con ai lati il Battista e la Vergine Madre. Seguono
a destra alcune scene della vita di Santa Caterina
d'Alessandria e di Sant'Agnese, fra le quali è molto
convincente quella che raffigura la santa condotta
in un lupanare ed il martino per difendere la sua
verginità. Certo il tempo e l'incuria degli uomini
hanno attenuato il colore, ma non hanno potuto
cancellare la grazia magistrale del Cavallini e di
Lello da Roma nella modellatura e nella semplicità
figurativa, tipica del loro tempo, che fa superare
la grossolanità della rappresentazione. A sinistra
altri affreschi con scene della vita di Cristo, di
Sant'Elisabetta d'Ungheria, di Profeti, di Angeli e
Serafini, tutte mirabili opere che subirono una
prima deturpazione nel 1520 quando sotto le capriate
della tettoia fu messo il soffitto a cassettoni.
Salendo per una scaletta esterna si può ancora
ammirare l'affresco della scuola del Cavallini,
raffigurante la Visione dell' Apocalisse
sulla volta originaria al di sopra del soffitto
cinquecentesco.
Sulla piazza si affaccia poi l'altra
Chiesa di Santa Maria di Donnaregina,
edificata dalle monache nel 1620, quando rimase
all'interno del complesso monastico l'antica
cappella.
Costruita sotto la direzione di Giovanni Guarino, la
chiesa fu terminata nel 1649 e inaugurata dal
cardinale Innigo Caracciolo; attualmente ne è quasi
ultimato il restauro ed è prossima ad essere aperta
di nuovo al culto.
Per una maestosa scalea, non proporzionata alla
misera facciata, si accede all'interno rivestito di
bei marmi policromi ed affrescato nella cupola da
Agostino Beltrando e nella volta dal Solimena.
Sull'altare maggiore vi è un bel polittico
cinquecentesco dì ignoto autore e alla parete destra
una Madonna delle Grazie di Paolo de Matteis;
verso l'abside si trova un affresco del Solimena
raffigurante San Francesco, ivi spostato in
occasione di un restauro. A sinistra della navata si
ammirano magnifici dipinti di Luca Giordano
rappresentanti La Vergine e San Simone, La Peste
del 1656 e una Immacolata del Mellin; a
destra lo Sposalizio della Vergine e San
Giuseppe attribuito a Luca Giordano. La terza
cappella, finemente ornata da Gaetano Sacco,
contiene un pregevole dipinto di ignoto
quattrocentesco raffigurante la Madonna della
Libera ed un San Francesco del Solimena.
In sacrestia si conserva un bel crocifisso ligneo
del '400, un affresco di Santolo Cirillo del 1735
raffigurante una Adorazione del serpente di
bronzo, ed una Annunciazione del Mellin
del 1647. Di fronte a questa chiesa, sul lato destro
della piazza vi è il Palazzo Arcivescovile,
che conserva il bellissimo portale durazzesco ed
una imponente linea quattrocentesca; fatto
costruire dal cardinale Enrico Minutolo, arcivescovo
della città nel 1289, aveva originariamente
l'ingresso dal vico Sedil Capuano, divenuto porta
carraia del seminario nel passato secolo. L'antico
palazzo rinascimentale nel 1613 fu ingrandito e
restaurato dal cardinale Decio Carafa e poi ancora
nel 1647 dal cardinale Ascanio Filomarino che
provvide anche ad allargare la piazzetta antistante,
ad ampliare alcuni ambienti ed a far decorare il suo
appartamento dal Lanfranco. Altre innovazioni del
severo arcivescovo furono la costruzione delle
carceri per gli ecclesiastici e quel calendario
tanto originale scolpito su due tavole di marmo che
era un tempo in San Giovanni Maggiore. Nel 1735 dal
cardinale Giuseppe Spinelli fu rifatto
l'appartamento arcivescovile ed altri lavori
furono intrapresi dagli arcivescovi Serafino
Filangieri e Giuseppe Maria Zurlo, il quale fece
ingrandire l'atrio dall'architetto Tommaso Senese.
Superate il vico Pietro Trincherà, giungiamo al
Largo SS. Apostoli, sul quale si erge la Chiesa
dei SS. Apostoli de' PP. Teatini.
La prima chiesa fu edificata nel V secolo, sulle
rovine di un tempio dedicato a Nettuno, dal vescovo
Sotere o Sotero, che vi istituì una « pieve »,
cronologicamente la seconda della città, dopo quella
di San Severo. Sino al 1530 le notizie su questa
antichissima chiesa sono molto scarse e non precise
e si sa soltanto che apparteneva alla famiglia
Caracciolo Rossi e che, nel 1530, era sotto il
patronato di Colantonio Caracciolo, marchese di
Vico. Nel 1562 o, secondo il Galante, nel 1570,
dall'omonimo nipote del marchese la chiesa fu data
ai PP. Teatini di San Gaetano, cosa che provocò una
immediata reazione da parte dei gesuiti, capeggiati
dal fiero padre Salmeron, che varie volte avevano
fatto presente il desiderio di poterla avere. I
gesuiti si rivolsero a don Annibale Capece Galeota,
padre del Preposito Generale dell'Ordine di San
Gaetano, ma non riuscirono ad averla vinta, perché
il marchese di Vico si oppose recisamente alla loro
richiesta ed anzi si mise immediatamente all'opera
per ingrandire a sue spese la chiesa. La direzione
dei lavori fu affidata al teatino Francesco
Grimaldi, considerato a ragione uno dei migliori
architetti napoletani, che fu ben onorato di poter
fare del suo meglio, tanto più che si trattava
di una chiesa del suo Ordine.
Aiutato dai suoi discepoli Agostino Pepe, Giovan
Giacomo Conforto, Pietro De Marino e Bartolomeo
Picchiatti, il Grimaldi portò a termine l'opera
entro il 1649 e la chiesa fu benedetta dal cardinale
Filomarino. Le spese della costruzione, oltre che
dal marchese Caracciolo di Vico, furono sostenute
dalle altre famiglie Caracciolo, dal principe
Camillo Caracciolo di Avellino, dalla marchesa Maria
Caracciolo Spinelli, dalla duchessa Caracciolo
d'Aquara, che vollero abbellirla ed arricchirla, ma,
cosa strana, la facciata rimase completamente
spoglia; come dice il Galante « non fu mai adornata
» e non sappiamo il perché di tale nonsenso.
Durante la dominazione francese l'ordine dei teatini
fu soppresso e la chiesa passò alla Congregazione di
Vertecoeli, che ne fece dipingere il frontespizio in
chiaroscuro con figure dell'Immacolata e dei SS.
Filippo e Giacomo, mentre il convento veniva adibito
a caserma e nel 1820 assegnato alle truppe
austriache.
Nel 1821 al suo ritorno Ferdinando IV volle affidare
la chiesa ai gesuiti, ma questi, memori di non
averla potuta avere a suo tempo, rifiutarono
l'offerta del sovrano, chiedendo invece i locali di
San Sebastiano, che ottennero nel 1825, dopo che ne
fu fatto sloggiare il Collegio di Musica. La chiesa
rimase così abbandonata sino al 1857, quando dopo
uno dei tanti terremoti che hanno sempre afflitto
Napoli, l'arcivescovo Sisto Riario Sforza volle a
sue spese restaurarla dandone incarico
all'architetto Michele Ruggiero. Venne quindi
riaperta al culto nel 1872, alla vigilia della festa
dei SS. Pietro e Paolo.
Nel 1943 i bombardamenti si accanirono anche contro
i SS. Apostoli, provocando danni ingentissimi alla
costruzione, e soltanto nello scorso anno i nuovi
restauri sono terminati ed i teatini son potuti
rientrare nel loro convento dopo oltre un secolo.
Introduce all'interno del tempio una bella scalea in
piperno a tre lati del 1685; la chiesa è a croce
latina e ad unica navata, con quattro cappelle per
lato con ampie arcate, ed abside a cupola
semicircolare. Il bel pavimento di Francesco Viola,
della fine del '600, costituito da mattoni e strisce
di marmo, fu restaurato agli inizi di questo secolo
a spese del cardinale arcivescovo di Napoli,
Giuseppe Prisco. Nel monumentale interno, ornato da
otto cupolette ovoidali ed illuminato da lanternini
luciferi, desta particolare ammirazione una
magnifica cupola all'incrocio del transetto, che
prende luce da otto alti finestroni a tamburo. La
graziosa volta a botte lunettata è conclusa
dall'abside semicircolare anche lunettaio, ma una
pesante decorazione a stucchi effettuata nel 1637 da
Bartolomeo Santullo, Francesco Cristiano e Silvestro
Falvella sminuisce l'eleganza dell'insieme. Una
lesena con capitelli corinzi sostiene la navata
decorata da una svelta trabeazione, mentre pilastri
con capitelli reggono gli archi; su un cornicione
piuttosto pesante, sorretto dai peducci della
cupola, si ergono infine un tamburo ancora più
pesante, opera di Giovan Battista d'Adamo su disegno
del Lazzari del 1680, e la volta con affreschi del
Lanfranco raffiguranti i martirii e alcune scene
della vita dei SS. Apostoli. Anche gli affreschi dei
pennacchi della cupola e della crociera sono
magnifiche pitture di Giovanni Lanfranco di Parma,
mentre la cupola fu affrescata da Giovan Battista
Benasca. Nel 1693 Francesco Solimena arricchì con
sedici tele gli archi delle cappelle; il grande
affresco sulla facciata interna, opera del Lanfranco
del 1644, rappresenta la Piscina Probatica,
ma l'architettura che ne è lo sfondo fu eseguita da
Viviano Codazzi.
Sotto la cupola vi è il Sepolcro di Luigi
prìncipe di Bisignano e conte della Saponata e
subito a sinistra la Cappella del beato Paolo Burali
d'Arezzo, teatino, arcivescovo di Napoli nel 1576:
lo si ricorda per la sua severità verso gli ordini
religiosi femminili che lo portò ad ottenere dal
Santo Padre la chiusura dei monasteri di S. Maria
degli Angeli e di Sant'Arcangelo a Baiano. Il
dipinto del beato, del 1775, è di Francesco De Mura,
mentre le due tele rappresentanti Maria Maddalena
e Santa Teresa sono del Solimena. La balaustra,
opera di Gaetano Sacco, è del 1695. Segue la
cappella di San Gregorio, col dipinto del santo di
Domenico Fia-sella ed una tela raffigurante la
Vergine di Carlo De Rosa. La cappella seguente
è dedicata al santo fondatore dell'Ordine dei
teatini Gaetano da Thiene, che è raffigurato da
Agostino Beltrando; alle pareti vi è un dipinto
rappresentante la Peste del 1656 di Giacomo
Farelli. Nella cappella seguente si ammira una
Madonna e i SS. Pietro, Paolo e Michele
di Marco Pino.
Nel transetto sinistro vi è l'altare Filomarino, in
marmo bianco, fatto costruire dal cardinale Ascanio
su disegno di Francesco Borromini, riteniamo
l'unica opera di questo artista a Napoli; le
decorazioni sono opera di Andrea Bolgi, i putti di
Francesco Duquesnoy ed i leoni di Giuliano Finelli.
Nel paliotto è raffigurato il Sacrificio di
Abramo in un dipinto di Giulio Mencaglia e
adornano le pareti i mosaici raffiguranti
l'Annunciazione e le Virtù di Giovan
Battista Calandra, copiati da quadri di Giulio Reni.
Nelle cappelle di destra troviamo scene della vita
di San Nicola del Malinconico nella prima, e nella
seguente dedicata a Sant'Ivone, protettore degli
avvocati, scene relative a questo santo dipinte da
Paolo De Matteis nel 1713, oltre alla bella Tomba
di Vincenzo Ippolito eseguita da Giuseppe
Sammartino nel 1776.
La cupola, come abbiamo accennato, è affrescata dal
Benasca e dal Lanfranco, e le pareti laterali sono
adornate da tele di Luca Giordano raffiguranti la
Natività della Vergine, la Natività di
Gesù, la Presentazione al Tempio, e il
Sogno di Giuseppe. Nel transetto destro vi è
l'altare Pignatelli e si ammira una Immacolata
di Francesco Solimena con ai lati due medaglioni
di Bartolomeo Granucci raffiguranti San Gaetano
e Sant'Andrea Avellino; molto belli i due
candelabri nel presbiterio, del fonditore teatino
Antonio Bertolino da Firenze.
Di rilevante interesse è la Cripta, del 1636,
adibita allora a cemeterium. Essa ha la
stessa area della chiesa ed è divisa da quattro file
di pilastri in cinque navate, con l'altare maggiore
tra due scale di ingresso e quattro altari laterali.
Ci sono degli affreschi rappresentanti la Deposizione,
il Cristo Morto, la Resurrezione di
Lazzaro, la Resurrezione dei Giusti, il
Sonno della Vergine, la Resurrezione dei
Reprobi e Gesù che re* suscita la figlia di
Giairo che vengono attribuiti al Lanfranco. Fra
le lastre tombali, si notano quelle riferentesi ai
sepolcri del principe Nicola di Somma del Colle,
opera di Francesco Mozzetti e Francesco Valentini,
di Lucio Caracciolo del Solari, e del poeta Giovan
Battista Marino, il cui cenotafio si trova nella
chiesa di San Domenico Maggiore.
Tornati nella chiesa, dopo il Cappellone
dell'Annunziata, troviamo un ambiente quadrato che
porta in sacrestia, dove a sinistra vi è un
Monumento — non la tomba — di Gennaro
Filomarino vescovo di Calvi Risorta, opera di
Giuliano Finelli, e alcuni quadri insignificanti. La
stupenda sagrestia barocca, una delle più belle
delle chiese napoletane, l'abbiamo vista ridotta a
deposito. Costruita nel 1626 fu restaurata su
disegno di Ferdinando Sanfelice; gli armadi in noce
sono di Giovanni Corrado, e gli af-ferschi
raffiguranti l'Assunzione, il Sacrificio
di Aronne, il Trionfo di Giuditta,
l'Incontro di Giacobbe, ed alcune figure
muliebri del Vecchio Testamento, sono di Nicola
Malinconico. Dalla sacrestia si passa al Tesoro, che
è una piccola cappella ottagonale ove si conservano
paramenti ed arredi sacri di valore; segue il bel
coro del 1640 in noce intagliata, opera di Francesco
Montella e di Antonino da Sorrento. Al centro
l'organo settecentesco di Felice Cimmino e dietro
un piccolo altare. L'abside, diviso da sei pilastri,
ha negli interspazi delle tele del Lanfranco
raffiguranti l'Apparizione della Vergine e di
San Gennaro, Sant'Andrea Avellino, Gesù ed
i Teatini,
il Martirio dei SS. Filippo e Giacomo ed il
Trionfo dei SS. Filippo e Giacomo. Dal Coro
si accede al campanile seicentesco in mattoni
rossi, piperno e marmo, attribuito al
Picchiatti.
Ritornati sui nostri passi imbocchiamo la stradetta
chiamata di Santa Sofia che ci porterà in via San
Giovanni a Carbonara. Questa larga strada, a
sinistra, prende il nome di via Cirillo; in uno dei
suoi palazzi, e precisamente al numero 3 nacque
Giovanni Leone, attuale Presidente della
Repubblica. Noi andremo verso sinistra; troveremo
subito il grandioso
Palazzo Santobuono,
del secolo XVII, costruito su un castello angioino
eretto da Carlo II che fu dato poi in dono nel 1309
da Roberto d'Angiò a Landolfo Caracciolo. Sempre a
sinistra vi è la piccola
Chiesa di Santa Sofia,
presso la quale vi era la bottega di quel sarto dal
cui pozzo entrarono le milizie di Alfonso d'Aragona
il 2 giugno del 1442. A destra invece vi è un
complesso artistico-monumentale di infinito
interesse, che rappresenta per la città un vero
patrimonio culturale. Una caratteristica scalinata a
due branche a pianta ellittica ideata da Ferdinando
Sanfelice nel 1707 porta ad
una delle più belle chiese napoletane e
precisamente quella di San Giovanni a Carbonara.
Questa zona nel Medio Evo era chiamata Carbonara
perché destinata allo scarico del carbone e dei
rifiuti della città. Dopo aver superato un cancello
s'incontra prima la Chiesa di Santa Sofia, di
costruzione barocca, che è sottostante a quella di
San Giovanni. L'interno offre un bell'altare del
Sanfelice del 1743 e alcuni rilievi cinquecenteschi
raffiguranti Scene del Vecchio e del Nuovo
Testamento. Salita la scalea a cui abbiamo
accennato ci troviamo di fronte la Cappella di
Santa Monica, che contiene un magnifico
Sepolcro opera di Andrea da Firenze, quello di
Ruggiero Sanseverino. Continuando verso
sinistra si giunge nel recinto del quattrocentesco
tempio di San Giovanni a Carbonara. Per la visita
occorrerà rivolgersi all'Ufficio Parrocchiale, sito
nella sottostante chiesetta di Santa Sofia, perché
come si è detto, i restauri sono stati sospesi e il
complesso ecclesiastico non è aperto al culto.
La Chiesa di San Giovanni a Carbonara è una delle
più interessanti chiese napoletane sia per la sua
storia sia per le spoglie di reali, di dignitari di
corte, di cortigiani, di patrizi, di giureconsulti,
di prelati e di guerrieri, intimamente legati alla
storia della nostra città, che accoglie.
La fondazione del tempio è opera della pietà e della
munificenza del patrizio napoletano Gualtiero
Galeota. In quel sito, infatti, sorgeva un piccolo
convento di agostiniani eremiti, modesto e misero,
in cui si aveva cura delle anime di quel popoloso
quartiere. Il nostro Gualtiero, o Galderio, volle
donare all'abate del convento, fra' Giovanni
d'Alessandro, ed al priore della Chiesa, fra'
Dionigi del Borgo, alcune case e un orto siti fuori
le mura della città, in quel luogo chiamato
Carbonara o Carboneto, perché vi costruissero un
convento ed una chiesa dedicata a San Giovanni
Battista, patrono della nobile famiglia Galeota.
Questo nel 1339; nel 1343 lo stesso patrizio,
ammirato dalla austerità degli Eremiti, volle fare
un'ulteriore donazione regalando loro altri due
giardini attigui alla casa.
Dopo la seconda donazione, una parte dei frati,
ritenendo la residenza troppo lussuosa, la
abbandonarono; altri, invece, preferirono rimanere
per continuare il loro apostolato. Così si divisero
fondando una Congregazione detta dell'Osservanza:
fra' Gerardo da Rimini fu eletto Vicario Generale
dell'Ordine e fu dato a fra' Dionigi, che si era
anche laureato a Parigi in Lettere e Filosofia,
l'incarico di sovraintendere alla costruzione della
chiesa ed all'ingrandimento del Monastero. Questo
incarico terminò però presto, poiché, essendo giunta
a Roma la fama delle alte doti di apostolo e di
organizzatore del nostro frate, papa Benedetto XII
volle eleggerlo vescovo affidandogli la diocesi di
Monopoli nelle Puglie. Nel 1343 l'arcivescovo di
Napoli concesse il permesso per la costruzione della
chiesa e così la prima pietra potè essere posta il
22 dicembre dello stesso anno con la benedizione
del vescovo di Capri.
Il Celano, il Summonte, il Cadetti ed il Sigismondo
affermano che l'antica chiesa edificata sul terreno
donato dal Galeota è quella che si osserva nel
basso della grande scalinata che porta all'attuale
chiesa e che questa, invece, fu eretta da re
Ladislao. Se si considera che il Galeota fece una
prima donazione seguita poi da una seconda, non è
possibile avallare questa tesi ritenendo, così, che
la chiesa fosse tanto piccola da invogliare il re a
farne un'altra a distanza di soli cinquant'anni. Si
può tutt'al più pensare che Ladislao facesse
costruire un nuovo chiostro a lato del primo e che
ampliasse ed arricchisse la chiesa ed il convento
tanto da meritarsi qui l'asilo per la sua sepoltura.
È quindi accettabile la tesi dell'abbellimento e
dell'ingrandimento di quest'opera ai principi del
'400 per volere di Re Ladislao e con la
sovraintendenza ai lavori da parte di Giosuè Recco,
gentiluomo di Corte del Reame. Ritornando al 1343,
il disegno della chiesa fu di Masuccio II e
l'esecuzione di Angelo Criscuolo, con modesta
pietra, come dice il De Dominici, per la povertà dei
monaci. Anche questo costituì motivo per
l'abbellimento voluto da Re Ladislao che avvenne
con marmi molto pregiati per opera del solito e «
fantomatico » Andrea Ciccione. L'entrata della
chiesa si raggiunge, come abbiamo detto, dopo aver
percorso un'ampia scala di piperno costruita da
Ferdinando Sanfelice, alla cui sommità si trova la
Cappella di S. Monica. Passando per un arco a
sinistra, ci troviamo in un cortile dal quale si
accede alla nostra chiesa. Questa non ha facciata;
ma ha un bel portale gotico di buona fattura, con
arco a due terzi acuto, formato da due pilastri con
ornamenti e decorazioni raffiguranti teste di
animali incorniciate da foglie in finissimi piccoli
tondi. Nella lunetta c'è un affresco di Leonardo di
Besozzo che avrebbe bisogno di una buon restauro.
Otto stemmi angioini, alcuni in via di restauro e
quindi non al loro posto, sono tra l'epistilio e
l'arco, unitamente alla figura del sole splendente,
scudo della famiglia Caracciolo del Sole, ramo
cadetto oggi completamente estinto. L'esistenza
dello stemma del già noto Sergianni ci fa pensare
che probabilmente egli dovè far parte di coloro che
ispezionavano i lavori. In caso contrario
bisognerebbe dedurre che l'architetto abbia ecceduto
in cortigianeria, in considerazione dei legami che
univano il gentiluomo alla regina Giovanna.
La chiesa è a croce latina, ad unica navata
rettangolare con cappelle aggiunte nel precedente
restauro ed ampliamento effettuato nel secolo XVIII.
Il presbiterio, purtroppo fortemente danneggiato dai
bombardamenti del 1943, conserva la sua linea
gotica.
Subito a destra dell'entrata vi è l'altare dei
Recco, con pitture di Decio Tramontano (1556)
raffiguranti la Madonna col Bambino, i Santi
Matteo e Bartolomeo; nel paliotto vi è
un magnifico Cristo.
Segue la cappella Argento, col Sepolcro del
giureconsulto Gaetano (+1730), di Franco Pagano
su disegno di Ferdinando Sanfelice, quello di
Nicola Cirillo e del poeta Nicola Capasso
(+ 1745). Sull'altare vi è un dipinto di Giovanni
Vincenzo Forlì raffigurante Sant'Orsola e le sue
discepole.
L'altare maggiore, con balaustra del 1746 e
pavimentazione di marmi policromi, colpisce per la
linea barocca manierata. Opera di Annibale
Caccavello, fu poi rifatto, ma attualmente è
completamente smontato.
Ai lati, vi sono due magnifici finestroni a quarto
di sesto acuto di perfetta linea gotica e la volta
riquadrata a crociera, originariamente affrescata
da Gennaro di Cola. Immediatamente dietro l'altare
vi è l'imponente Monumento funebre dì Re
Ladislao, eretto dalla sorella Giovanna II che
gli successe al trono di Napoli. Il monumento, nel
1428, fu eseguito da Marco e Andrea da Firenze o,
secondo il Celano, da... Andrea Ciccione, che ne
avrebbe fatto un modello in creta ed uno in
calcestruzzo, quest'ultimo esposto in uno dei
chiostri del monastero. Sempre secondo il Celano,
sembra che « Giovanna secunda si degnò di elevarlo a
suo gentiluomo ». Quattordici anni furono impiegati
per completare quest'opera marmorea che ha sempre
suscitato grande interesse.
Alto quanto la cappella maggiore (ben diciotto
metri), il monumento è sostenuto da quattro
colossali cariatidi rappresentanti quattro Virtù, e
cioè la Prudenza, la Fortezza, la
Perseveranza e la Magnanimità e poggia su
una grande base divisa in due parti che lascia
libero, nel centro l'ingresso della Cappella dei
Caracciolo del Sole. In secondo piano cinque archi
gotici, e nei van ai Iati, le figure di
Sant'Agostino e San Giovanni di Leonardo
di Besozzo (1428). In una gran nicchia formata da
due archi si vedono sei statue sedute: Ladislao
e Giovanna con corona, manto regale,
scettro e globo, personaggi della Corte e altre
Virtù, come la Speranza in preghiera e la
Virtù militare con spada e sfera, la Carità
che dà latte a due orfanelli e la Fede con un
calice dorato.
L'arco mediano è sorretto da pilastri e adorno di
statuette e decorazioni gotiche. In terzo piano il
sarcofago con quattro figure in nicchiette
riproducenti Re Ladislao, Giovanna ed i loro
genitori Carlo III e Margherita. Sull'urna vi è
la figura morente benedetta da un vescovo e da due
diaconi e due angioletti che sollevano le cortine a
mo' di baldacchino.
Vi è ancora un altro arco, all'interno del quale vi
è la Vergine con i Santi Giovanni e
Tommaso, sulla cui sommità campeggia la statua
equestre del Re in completa armatura con la
scritta: Divus Ladislaus. Sedici statuette,
raffiguranti gli apostoli, alcuni profeti e qualche
monarca, decorano i pilastrini, che sovrastano gli
archi minori: due pilastri principali terminano in
due cupole di forma gotica con due angeli e lo
stemma reale che è più volte ripetuto, sorretto da
dragoni o da geni. I fregi e le nicchie hanno
ancora una patina d'oro, molto stinta, in parte
completamente annerita. Due iscrizioni in esametri
di Lorenzo Valla alle cornici, non molto
decifrabili, tradotte malamente in volgare nel
secolo XVI, completano il monumento.
Per il sottostante arco si giunge alla cappella
della Natività della Vergine, proprietà dell'antica
famiglia Caracciolo del Sole, la cui pavimentazione
è a mattonelle maiolicate del 1427.
La cappella fu restaurata nel 1699 e nel 1753 ed
ancora dopo i danni subiti nel 1943. È. rotonda e
divisa in otto zone da colonnine gotiche con alta e
bella cupola semicircolare; vi sono affreschi di
Perrinetto da Benvart del secolo XV raffiguranti la
vita degli Eremiti Agostiniani, e di
Leonardo da Besozzo dello stesso secolo,
rappresentanti la Trinità, la Natività di
Maria, l'Annunciazione, la Presentazione al
Tempio, il Transito della Vergine e
figure di personaggi dell'epoca. Alla parete è
addossato l'altro monumentale Sepolcro di
Giovanni Caracciolo del Sole, comunemente
chiamato Sergianni. Questo personaggio, che abbiamo
precedentemente incontrato, appartenne ai
Caracciolo della linea dei Pisquizzi e dei Sarda da
Siena. Figlio di Francesco, fu duca di Canosa, conte
di Avellino, Gran Siniscalco del Reame. Di spirito
intraprendente e di carattere risoluto, combatté a
capo della cavalleria contro i d'Angiò, contro i
Fiorentini e contro i baroni ribelli ottenendo
piena vittoria; sposò Caterina Filangieri, ma è
personaggio noto nella storia napoletana per essere
stato uno dei favoriti della regina Giovanna, della
quale fu « amatore e servitore »: servitore perché
la servì davvero fedelmente (uno dei suoi meriti fu
quello di farla riappacificare con Martino V),
amatore perché... ne fu l'amante. Fu un gaudente e
riuscì ad ottenere dalla vita quasi tutto quello che
desiderava, ma il matrimonio tra suo figlio Trojano
e la figlia di Jacopo Caldora fece declinare per
sempre la sua stella. Le nozze furono onorate dalla
presenza della regina, ma la stessa notte, a festa
finita, alcuni congiurati, tra cui Francesco Cimino,
Pietro Palagano, Leonardo Bruni, nemici di
Sergianni, lo svegliarono dal sonno, dicendogli che
la regina voleva vederlo immediatamente, ed appena
fuori dalla stanza, Io trucidarono senza pietà.
Subito dopo i congiurati si recarono dalla Sovrana,
e ottennero di essere ricevuti con l'aiuto
compiacente della duchessa di Sessa che aveva sempre
odiato il Caracciolo. I congiurati riferirono alla
Regina l'accaduto manifestando il loro orrore e il
loro dolore affermando, che il Gran Siniscalco era
stato assassinato da alcuni suoi parenti, e che
essi, presenti sul posto al momento dell'aggressione
avevano invano tentato di dargli man forte, ma,
giunti troppo tardi, altro non avevano potuto fare
che trarre in arresto i responsabili dell'orrendo
delitto.
Il cadavere, abbandonato da tutti rimase nella
camera per più di una giornata, finché i buoni
eremiti non Io prelevarono per dargli cristiana
sepoltura sulla collinetta di Carbonara. In seguito
il figlio Trojano chiese ed ottenne dalla Regina il
permesso di dare degna sepoltura alle spoglie dal
padre, e provvide così ad erigergli questo grandioso
monumento funerario che, anche se incompiuto, è pur
sempre una magnifica opera rinascimentale. Ne fu
artefice Andrea da Firenze nel 1433.
Sulle pareti vi sono due iscrizioni che furono
spostate nel secolo XVIII una di fronte all'altra.
Il monumento si compone di un'arca sorretta da sei
pilastri, da tre statue di guerrieri e da quella del
nostro personaggio, che è sovrastante. Le statue
laterali hanno la base composta di ben cinque
colonnine, di cui la centrale poggia su una base
poligonale con fregi e decorazioni.
I guerrieri sono completamente armati con corazza
recante lo stemma della famiglia Caracciolo e hanno
sulle spalle un gran mantello; il guerriero di
destra ha in una mano un'ascia e nell'altra un
serpente acefalo, quello di sinistra ha la spada
sfoderata e quello di centro, un vecchio barbuto,
con una mano impugna la clava e con l'altra ferma un
leone. Essi rappresentano la Forza, la
Prudenza e le Virtù militari. I tre
guerrieri toccano con la testa la base dell'Arca ed
i pilastri sono decorati da fogliame; nella parte
frontale risultano scavate delle nicchie dalle quali
si affacciano sei figure femminili. I pilastri
posteriori ai lati, ed i pilastri delle due colonne
parietali e della rotonda, sono decorati e finemente
ornati. Davanti vi sono altre due statue simboliche
che appaiono nude sotto un mantello: una ha in mano
una torre e l'altra una colonna ed una sfera. Ai
lati dell'arco ci sono due angeli rappresentanti
San Michele e San Gabriele che schiacciano un
drago, con in mano l'uno una bilancia ed una spada
(che più non esiste), e l'altro un dardo ed un
globo; sull'attico vi è un'iscrizione latina del
Valla. Quest'arca ci viene di fronte con ai fianchi
due statue situate nelle nicchie dei pilastri che
scorrono in su tra due cornicioni, uno in stile
dell'epoca e l'altro in stile classico. Al centro di
essa vi è lo stemma dei Caracciolo con corona di
alloro sorretta da due angeli. Il monumento, così
bello ed espressivo, ha un attico reso misero da una
semplice cornice; la figura del personaggio è
alquanto modesta e poco rispondente al suo
temperamento, e c'è un brutto contorno di leoni
galeati che non hanno alcuna fierezza. L'affresco
della Natività in una fascia del monumento
porta l'iscrizione: « Leonardus de Basucio de
Medio-lano hanc cappellani et hoc sepulcrum pinxit
».
A sinistra del Presbiterio troviamo la bella
Cappella Caracciolo di Vico, di forma ottagonale e
di stile dorico, come rilevasi dalle due colonne che
terminano ad arco romano. Coppie di colonne sempre
di ordine dorico, sistemate a quattro arcate, danno
al disegno della cappella, che sì ritiene opera del
Malvito, una eleganza e una maestosità veramente
eccezionali. Eretta nel 1517 per desiderio di
Galeazzo Caracciolo, terminò ben quarantanni dopo,
completa di sculture, per volere del figlio Nicola
Antonio. Il gran cornicione dorico, l'attico ed otto
finestroni con nicchiette e statue di santi, la
bella cupola con cupolina, e gli stemmi della
famiglia completano la bellezza della cappella.
Conosciamo, come abbiamo già detto, l'autore del
disegno, ma non sappiamo con sicurezza chi ne sìa
stato l'esecutore; generalmente la si attribuisce al
Santacroce o a Pietro della Piata.
L'opera comunque, è veramente imponente. L'altare è
in una grande nicchia di fronte alla porta ed ha
come paliotto un bassorilievo raffigurante
Cristo Morto, e sopra un San Sebastiano,
gli Evangelisti e San Giorgio, opere
di Diego de Siloe. Vi sono anche un San Marco,
un San Luca ed un'Epifania di
Bartolomeo Ordofiez e un San Giovanni Battista
di Girolamo Santacroce. A destra vi è il
Sepolcro di Galeazzo Caracciolo, raffigurato
armato con la stessa corazza da lui indossata nella
famosa battaglia di Otranto; il monumento è
fiancheggiato da quattro colonnine finemente
decorate e da due piccole statue rappresentanti
Adamo (perduto) ed Eva. Due satiri con in
mano una gran lente, emblema della famiglia,
sorreggono l'urna.
All'opposta parete vi è il Sepolcro del marchese
Antonio Caracciolo di Vico, figlio del primo
proprietario, opera di Gian Domenico d'Auria; la
linea del disegno è quasi identica a quella del
monumento di Galeazzo. Altre due statue ai lati
rappresentano la Carità e la Vigilanza.
Nelle nicchie minori vi sono statue raffiguranti
San Pietro, di Giovanni da Nola,
Sant'Andrea, di Annibale Caccavello e San
Paolo e San Giacomo attribuiti al
Santacroce. Altre statue, temporaneamente rimosse
per restauro, raffiguranti Marcello Caracciolo
(attribuita allo Scilla da Milano), Lucio
Caracciolo e Carlo, marchese di Torrecuso, sono
opere di Giuliano Finelli o da alcuni attribuite al
Sammartino. All'uscita della cappella vi è il
Cenotafio di Nicola Cirillo con bella iscrizione
di Nicola Capasse
Dalla navata si passa nella vecchia sacrestia, che
fu costruita dai Caracciolo di Sant'Eramo. Di forma
rettangolare, con magnifico arco ed altare in
marmo, ha un sepolcreto sotterraneo della famiglia;
da una porticina ci si immette in una piccola
sacrestia con bellissimo lavabo in marmo. Segue la
Cappella dei Caracciolo di Sant'Eramo, che fu
cappella del Collegio Militare quando il Monastero
ne divenne sede. Alle pareti si ammirano diciotto
tavole rappresentanti Scene del Vecchio e del
Nuovo Testamento, gli Evangelisti ed i
Dottori dipinti da Giorgio Vasari e
Cristiano Gherardi nel 1546; poiché il restauro
della chiesa è ancora in atto, tali tavole riteniamo
siano ancora presso la Sovraintendenza.
Rientrando nella navata, vediamo l'altare della
Madonna delle Grazie, sul quale in una nicchia vi è
la statua della Vergine di Michelangelo
Naccherino del 1578. Appartenente alla famiglia
Conte e precisamente a Marzia Carola vedova di
Tiberio Conte e poi al figlio Giovan Battista, indi
ai Ben-vanto ed in ultimo al marchese Antonio
Mastrilli di Livari.
Segue la Cappella della Natività del Signore, detta
anche del Presepe per alcune figure lignee di Pietro
e Giovanni Alamanno del 1478. Appartenne alla
famiglia Recco, fondata da Giosuè nel 1423, poi al
marchese Giovan Battista Imperato di Spineto ed
infine ai Caracciolo Mastrogiudice. Addossato alla
parete vi è un'altra magnifica opera, il
Monumento dei Miroballo o Cappella di San
Giovanni Battista di Jacopo della Pila, terminato
da Tommaso Malvito nel 1419, per volere del marchese
Alessandro Miroballo di Bracigliano.
In un arco semicircolare vi è un altare con
magnifiche statue rappresentanti le quattro
Virtù cardinali, la Vergine col Bambino,
il Miroballo con la consorte Maddalena,
presentati da San Giovanni Battista e da San
Giovanni Evangelista. La volta è divisa in
rosoni con testoline di angeli. Altre statue
rappresentano i Santi dottori Agostino, Ambrogio,
San Girolamo e San Gregorio Armeno con anelli
orientali alle dita.
Seguono in una nicchia affreschi raffiguranti la
Vita di San Francesco di ignoto autore
quattrocentesco (emersi nel restauro) e nella parete
opposta in un'altra nicchia di marmo una Vergine
col Bambino opera del 1601 del Naccherino e
frammenti di una cimasa del Malvito raffigurante
l'Eterno Padre, facente parte della Cappella
della Consolatrix afflictorum o di San Nicola da
Tolentino, appartenuta ai principi di Santobuono.
Subito dopo vi è la Cappella dei principi di Somma
del Colle, dedicata all'Assunzione, di Giovan
Domenico d'Auria e di Annibale Caccavello, iniziata
nel 1553 e terminata nel 1566. L'architrave,
sorretta da due colonne, ha, in alto una magnifica
decorazione ed una iscrizione latina inneggiante
alla famiglia del Colle; nelle lunette due
Vittorie ed un sott'arco con magnifica porta. La
cappella, rettangolare, è divisa da ben dodici
colonne ed un gran cornicione intorno ripartisce le
pareti dalla volta, che è affrescata da autore
ignoto napoletano del secolo XVI e divisa in tre
cassettoni nei quali si ravvisano la Passione di
Gesù, ed alcuni Profeti. Ammirevole la
Tomba del principe Scipione di Somma del Colle
e l'altare in marmo con rilievo dell'Assunta,
eretti dalla consorte donna Ippolita Monforte. Il
sepolcro è costituito dall'urna ornata di rosoni,
con la figura giacente del principe, che poggia su
una grande base: ai lati due pilastri con Io stemma
della famiglia e puttini con scudo e con libro.
Uscendo da questa cappella s'incontra l'altare della
Purificazione, eseguito per desiderio di Giulia
Caracciolo nel 1569 da Annibale Caccavello; sotto
l'altare vi è la tomba di Biagio Marsicano.
All'uscita della Chiesa, a sinistra, vi è l'altare
dell'Annunciazione, dedicato anche a San Francesco
di Paola, con dipinto di Leonardo da Besozzo che
avrebbe bisogno di molto restauro.
Fuori la Chiesa, nel cortile, vi è la Cappella
del Crocefisso, che appartenne al barone Giacomo
Seripando di Casapuzzano e poi nel 1638 ai duchi
Capece Minutolo di San Valentino. Sull'altare vi è
una stupenda Crocefissione di Giorgio Vasari,
e alla parete il sepolcro di Antonio Seripando. Si
ritiene che il vero fondatore di questa cappella sia
stato il Cardinale Geronimo Seripando, Arcivescovo
di Salerno il quale, prima di morire lasciò la
porpora per indossare l'abito monastico nel Convento
di San Giovanni a Carbonara.
Usciti da questa importantissima visita, proseguendo
verso destra andremmo in via Foria, che vedremo poi;
noi scenderemo invece questa strada, lasciando a
sinistra e a destra vicoli e vicoletti di nessun
interesse, e superata la piazza Enrico De Nicola,
per via Alessandro Poerio giungeremo in Piazza
Garibaldi, detta anche « della Ferrovia » perché vi
è la Stazione Centrale delle Ferrovie dello Stato. |