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Piazza Vittoria - Riviera di Chiaja - La Villa Comunale - Piazza San Pasquale - Santa Maria in Portico - Piazza della Repub­blica - La Torretta - Via Piedigrotta - Via Mergellina - Mergellina

Questo itinerario ci condurrà da Piazza Vittoria a Mergellina attraverso la Riviera di Chiaja, o le parallele Villa Comunale e via Caracciolo. La Villa comunale, che inizia da Piazza Vittoria, è affiancata da via Caracciolo verso il mare e dalla Riviera di Chiaja sul versante interno e termina a piazza della Repubblica. Quando se ne decise la realizzazione nel 1778, Ferdinando IV dispose che tra la Riviera e la spiaggia di Chiaja fosse creato un grande giardino, ricco di alberi e di aiuole, dove potesse recarsi a passeggio la famiglia reale.

Il progetto sfruttava una vecchia idea del viceré duca di Medinacoeli, e infatti in una veduta di Napoli del 1698 con il particolare della strada di Chiaja già si vedevano dei giardini davanti alla chiesa della Vittoria con aiuole, alberi e una fontana al centro. Il re diede incarico a Carlo Vanvitelli di progettare l'opera e, avendone approvato immediatamente il proget­to, fece iniziare gli adempimenti preliminari: fu decretato l'esproprio di una parte del giardino del palazzo Satriano, la demolizione del Casino degli Invitti di Conca e di una cappella che era stata costruita da padre Rocco sulla spiaggia nonché l'acquisto di un ampio tratto di terreno, in parte paludoso. Furono eliminati la baracca della Dogana e i lavatoi pubblici della spiaggia, cosa che suscitò le proteste delle donne dei pescatori e marinai che vivevano in quella zona; anche la demolizione della cappella, che conteneva un'immagine molto venerata, causò una certa opposizione finché il Vanvitelli cercò di venire incontro ai desideri popolari trasfe­rendo i sacri arredi della cappellina in questione in un locale del Real Orfanotrofio di San Giuseppe a Chiaja. Fu inoltre sospesa la costruzione di un'altra cappella che padre Rocco stava costruendo sullo scoglio di San Leonardo.

Il progetto iniziale della Villa si fermava al punto dove è la Cassa Armonica : e, poiché doveva essere divisa in cinque viali, il giardiniere reale Felice Abate vi piantò subito molti alberi, dei quali alcuni olmi e tigli, oggi plurisecolari. La Villa fu recinta di pilastri e griglie di ferro, ed il Vanvitelli per arricchirla richiese dodici statue di scavo che erano state reperite a Pozzuoli ed una grande statua rappresentante la Flora che era stata acquistata dal ministro Tanucci, ma la sua proposta non fu accolta e furono commissionate alcune sculture a Carrara, mentre le nic­chie rimanevano aperte con le sole griglie di ferro. Queste statue non giunsero mai e solo alcune in stucco su modello del Sammartino furono apposte su alcune fontane: furono costruite, infatti, cinque fontane in travertino di Caserta. Di fianco all'ingresso, che era da piazza Vittoria, furono costruiti due padiglioni neoclassici con porticati ornati da coppie di lesene, uno dei quali fu dato in fitto a botteghe e l'altro ad un caffè-ristorante; sulle terrazze di copertura di questo furono sistemati i tavoli per gli avventori. Furono poi costruite contro la volontà del Vanvitelli delle botteghe dove si vendevano oggetti di scavo e coralli ed un casotto per un corpo di guardia, ma l'architetto nel 1801 riuscì a far spostare il locale adibito alla guardia nell'interno della Villa ed a far demolire le botteghe. Quando la Villa fu terminata ne fu affidata la sopraintendenza alla Real Deputazione dei Pubblici Spettacoli, ma il Vanvitelli rimase ad­detto alla manutenzione e l'Abate fu nominato giardiniere capo.

Per l'inaugurazione, avvenuta l’11 luglio del 1781, fu allestita nella piazza una gran fiera che rimase in permanenza per due mesi, fino all'8 settembre, festa della Madonna di Piedigrotta giorno in cui il popolo fu ammesso a passeggiare nei giardini e si impiantò anche un piccolo teatro ove la compagnia del San Carlino rappresentò alcune farse con Pulcinella.

L'ingresso principale aveva ai lati due garitte per le sentinelle: da esso partiva un grande viale centrale che era diviso in due parti nel senso della lunghezza da una fontana, costruita su modello del Sammartino, con la Sirena Partenope ed il Sebeto che versavano acqua da uno scoglio. Questa figurazione fu sostituita nel 1791 su proposta del pittore tedesco Hackert dal Toro Farnese, che vi rimase sino al 1826, quando fu trasfe­rito al Museo Borbonico. In effetti la sistemazione nella villa dell'impo­nente gruppo statuario, noto con questo nome perché faceva parte della collezione  di Casa Farnese,  suscitò molte critiche.

I due viali laterali erano fiancheggiati da tigli e da olmi e coperti da graziosi grillages di viti il cui raccolto veniva venduto. Dal lato del mare fu messo un lungo parapetto perché i bambini non corressero il rischio di cadere e furono installati dei sedili in piperno o in travertino che ancora oggi vi sono, purtroppo in cattive condizioni; su questo lato vi erano molte fontane. Il viale verso la Riviera era diviso dalla strada da una pe­sante cancellata in ferro sostenuta da pilastri; su questo lato vi erano altri due ingressi, ed un terzo era alla fine della Villa cioè nei pressi della Cassa Armonica dove allora ancora si ergeva la Chiesetta di San Leonardo.

Questa Villa piacque tanto che con un bel po' di megalomania fu chia­mata « Tuglieria », in ricordo delle Tuileries, ma poiché si ebbe poi il buon senso di accorgersi che questo nome era un po' esagerato, ci si at­tenne al nome ufficiale di Villa Reale.

Durante i mesi estivi vi si poteva accedere anche di notte e la no­biltà soleva riunirvisi per eleganti diners o per gustare dei sorbetti che erano ritenuti una vera specialità. La sera venivano dati dei concerti dagli allievi dei conservatori napoletani, ma il popolo doveva accontentarsi sem­pre di ascoltarli dall'esterno, ad eccezione di quell'unico giorno della festa di Piedigrotta, quando per ventiquattr'ore la Villa restava senza controllo e tutti potevano recarsi in chiesa attraversandola o potevano attendere il passaggio del Corteo Reale.

La Villa subì una triste sorte nel periodo finale della Repubblica Par­tenopea, quando dalle truppe del cardinale Ruffo fu adibita a poligono di tiro e ad acquartieramento delle truppe, ed in ultimo vi furono persino po­stati dei pezzi di artiglieria. In seguito fu necessario rimetterla a posto e nel secondo tratto fu progettata ad opera del Dehenhart la costruzione di un boschetto e fu poi messa la fontana con il gruppo di Europa di Angelo Viva; la piccola chiesa di San Leonardo fu demolita e sullo scoglio fu spianata una terrazzina che divenne punto d'incontro degli inna­morati.

Durante il decurionato francese la Villa venne illuminata e dal 1825 vi furono messe alcune statue, copie di capolavori greci, come l'Apollo del Belvedere, il Sileno con Bacco bambino, il Faunetto, il Gladiatore mori­bondo, il Gladiatore guerriero ed altre di minore importanza, quasi tutte opere del Violani e di Tommaso Solari. Dopo il 1825, come abbiamo ac­cennato, il Toro Farnese fu trasferito al Museo ed al suo posto fu messa un vasca di granito sostenuta da quattro leoni, che aveva una testa di medusa al centro: quella fontana fu diletto dei bimbi, e dalle balie fu battezzata col nome di Fontana delle Paparelle, perché vi furono messe delle anatre. Ai lati vi furono sistemate le statue raffiguranti le stagioni e più avanti i gruppi del Ratto dì Proserpina, Ercole ed il leone Nemeo e il Ratto delle Sabine, copia dell'originale del francese Giambologna. Ter­minata questa prima parte della Villa « Vanvitelliana », troviamo altre co­pie di opere greche, il Tempietto di Virgilio, e il Tempietto del Tasso su disegno del Gasse; all'uscita del boschetto fu messa la copia di una statua raffigurante Atreo e i gruppi rappresentanti Castore e Polluce e Lucio Papirio.

Dove oggi ha sede il Circolo della Stampa vi era il caffé Napoli; il sodalizio che attualmente occupa il padiglione fu fondato nel 1909 ad ini­ziativa di giornalisti e professionisti tra cui erano Giovanni Porzio, Matilde Serao, Edoardo Scarfoglio, Ferdinando Russo, Salvatore Di Giacomo, Ro­berto Bracco, e fu inaugurato con una cena sociale alla quale furono ospiti d'onore Giosuè Carducci ed Annie Vivanti.

La parte nuova della Villa fu iniziata nel 1834 ad opera dell'architetto Stefano   Gasse. Lungo il mare il parapetto del Vanvitelli non fu continuato perché si pensò di farvi un galoppatoio per i cavalieri e le amaz­zoni del tempo; alla fine della prima zona, dove era l'altro corpo di guar­dia, si installò il caffé Vacca.

Dopo l'annessione del Regno di Napoli al Regno d'Italia la Villa fu aperta al popolo e fu chiamata Nazionale. Di lì a poco Enrico Alvino pre­sentava il progetto di una nuova strada che doveva costeggiarla lungo il mare e che comprendeva il suo rammodernamento: fu quindi realizzata via Caracciolo e la Villa fu rimodernata anche se non proprio secondo il progetto dell'Alvino.

Furono aggiunte altre statue, fra cui quella raffigurante Gian Battista Vico che fu scolpita e donata dal conte di Siracusa Leopoldo di Borbone, il quale volle che fosse messa di fronte al palazzo dove abitava alla Ri­viera; si mutò anche l'illuminazione e i vecchi fanali furono sostituiti con globi francesi.

Nel 1869 l'amministrazione comunale cambiò ancora nome alla Villa chiamandola « Comunale », furono demoliti i due padiglioni vanvitelliani all'ingresso ed otto statue che si trovavano lungo il viale principale furono messe nelle aiuole di questo ingresso. L'inferriata della parte della Riviera fu tolta e fu costruito quel padiglione in stile pompeiano, attualmente sede della Società Promotrice Salvator Rosa, che fu a suo tempo lo studio del pittore Maldarelli e poi del fotografo Lauro.

Di fronte a questo padiglione pompeiano nel 1872 il naturalista tede­sco Antonio Dohrn fece sorgere una Stazione Zoologica per far conoscere la fauna e la flora marina, che è tuttora una delle più importanti d'Eu­ropa: la palazzina che la ospita fu costruita dall'architetto Capocci. II Dohrn, che ebbe quale suo diretto collaboratore lo scienziato Teodoro Heuss, provvide ad impiantare un reparto di zoologia, uno di fisiologia ed uno di biochimica per gli studi e le ricerche di naturalisti che venivano a Napoli. Fu costituita anche una flottiglia adibita alla pesca per il repe­rimento del materiale di studio, che viene portato in questo istituto e conservato in vasche di acqua marina. L'Aquarium contiene ventisei vasche con circa duecento specie di animali marini; ha inoltre una biblioteca che, mantenuta costantemente aggiornata, è ritenuta una delle più importanti del mondo nel campo biologico. Questa Stazione ha anche un laboratorio di ecologia distaccato ad Ischia che completa la ricerca scientifica su problemi sinecologici e zoogeografici.

Garibaldi, quando fu dittatore a Napoli, s'interessò di questo cen­tro zoologico marino e lo fece inserire nella Esposizione Internazionale Marittima che fu organizzata a Napoli nel 1871 nell'attuale Piazza Principe di Napoli.

La Cassa Armonica della Villa, ancora esistente, fu costruita nel 1877 da Enrico Alvino; essa è formata da una pedana circolare con montanti di ghisa e con il tetto a forma poligonale, mentre colonnine di ghisa e traliccio metallico ne  costituiscono la struttura leggera ed elegante.

Dal 1881 la Villa iniziò a prendere il suo aspetto attuale: fu eretto il Monumento a Sigismondo Thalberg, opera del Monteverdi, nel 1885 quello ad Enrico Alvino di Giovan Battista Amendola e nel 1898 vi fu sistemata davanti all'Aquarium la secentesca Fontana di Santa Lucia, a cui abbiamo già accennato. Essa fu costruita durante il vicereame di don Pedro de Toledo con fondi raccolti dal popolo, ma poiché la somma non fu suffi­ciente a pagare gli artisti, il viceré contribuì alla spesa. Due pilastri com­positi fiancheggiano l'arco elegantemente scolpito e sostengono il fron­tone spezzato; una gran vasca è sostenuta da due delfini che versano acqua dalla bocca. Lateralmente la fontana è decorata da bassorilievi che raffigurano Anfitrite e Nettuno circondati da tritoni e da divinità marine che lottano tra loro contendendosi una procace sirena. Un'epigrafe attri­buisce l'opera a Domenico D'Auria e a Giovanni da Nola ma si ritiene invece che ne fosse autore il fiorentino Michelangelo Naccherino, discepolo del Giambologna e di Tommaso Montani, nel 1607; un'altra iscrizione"ri­corda l'ampliamento della Fontana Santa Lucia a spese del viceré Borgia nel 1620; il restauro fu opera dell'architetto Bonucci. Nella Villa Comunale ha la sua sede anche il Circolo del Tennis, che fu fondato nel 1905 e fu chiamato poi Lawn Tennis Club, un sodalizio tuttora molto fiorente del quale fa parte una rappresentanza di tutti i ceti cittadini. Fu sistemato prima in un vecchio padiglione umbertino che aveva un unico salone con parquet in legno, ove un pianista allietava la sera i giovani soci. In que­sto circolo, oltre il tennis, si praticava anche il pattinaggio a rotelle, molto di moda un tempo, e per tale diporto fu costruita un pista sulla quale la più elegante gioventù partenopea si cimentava in grande allegria.

Nel 1911 l'antico caffé Vacca, che era quasi di fronte alla Cassa Ar­monica, fu demolito per dare spazio a quella zona accanto al parapetto del galoppatoio dal lato della Riviera; nel 1914 la Villa Comunale si arric­chì ancora di busti di uomini illustri, fra cui quelli di Giosuè Carducci, di Saverio Gatto, Giovanni Bovio e Luigi Settembrini di Domenico Pelle­grino, Giorgio Arcoleo di Francesco Jerace che scolpì anche quello raffi­gurante Gioacchino Toma; Eduardo Scarfoglio opera di Giuseppe Semola, Francesco De Sanctis di Achille D'Orsi, Francesco Del Giudice di Torello Torelli. Intorno al 1936 furono eliminati i due galoppatoi ad a sinistra la via Caracciolo venne allargata col vasto marciapiede verso la Villa, mentre sul lato verso la Riviera fu messa la linea tramviaria.

Nella rotonda di via Caracciolo si erge il Monumento al Duca della Vittoria Armando Diaz, felicissima opera di Francesco Magni e Gino Lancellotti.

Invece di uscire dalla nostra Villa Comunale, che termina in Piazza della Repubblica, ci conviene ritornare sui nostri passi a piazza Vittoria per rifare lo stesso itinerario lungo la storica Riviera di Chiaja.

I primi palazzi della Riviera furono costruiti nel secolo XVI; a quell'epoca lungo il litorale non vi erano che casette dì pesca­tori e di popolani, ed i primi edifici gentilizi sorsero come resi­denze di villeggiatura, benché anche sotto questo aspetto la zona non fosse molto consigliabile, in quanto fino allo scadere del secolo XVIII fu paludosa e malsana. La trasformazione di queste paludi in ridenti giardini durò a lungo, ma nel 1696 final­mente la strada della Riviera fu lastricata, poiché ormai vi era stato costruito un discreto numero di palazzi: sia sulla pianta del duca di Noja del 1775 che su quella del Marchese del 1798 si vedono queste costruzioni, più numerose nel primo tratto che da piazza Vittoria va alla piazza San Pasquale, anziché da que­st'ultima alla Torretta.

II primo palazzo che troviamo, in angolo con la discesa di via Calabritto è il Palazzo Ravaschieri di Satriano, nel quale i proprietari ospitarono Wolfango Goethe, che nel suo Italienische Reise decantò la grazia e l'intelligenza della padrona di casa, Teresa Filangieri, e l'elegante passeggiata che aveva luogo sotto i suoi balconi, una gara di bellezza e di raffinatezza, dove si sfog­giavano magnifici equipaggi e sontuosi vestiti.

Poiché alla Riviera si portavano a passeggio le fanciulle da marito, era vietato soffermarvisi alle donnine allegre. Sotto questo palazzo vi è stato per un certo periodo un piccolo caffé comunemente chiamato il « caffettuccio » il cuo vero nome era il Caffé Recupito, elegante e mon­dano. Quando ancora non esistevano i café-chantants in questo locale dopo il San Carlo si riunivano le attricette e la jeunesse dorée maschile della città nonché i poeti, musicisti e giornalisti che solevano intrattenersi sino all'alba.

Il palazzo Ravaschieri fu, come abbiamo accennato, uno dei primi ad essere costruito alla Riviera; la sua severa facciata adorna di busti mar­morei fu eretta nel 1601. L'edificio ha un ampio cortile ed una bella scalea settecentesca opera del Sanfelice. La sua storia è legata ad una famiglia principesca, quella del principe di Cariati, che l'occupava intorno al 1662, che fu causa di un luttuoso episodio, partito da uno stupido malinteso ac­caduto durante uno dei suoi sontuosi ricevimenti.

Una sera il principe della Pietra, ospite appunto del Cariati, nel vedere una cagnetta bastarda che uscì abbaiando dal suo rifugio dietro una poltrona, ebbe l'infelice idea di osservare che rassomigliava moltissimo ad una che  aveva  smarrito  la sua insopportabile  suocera,  la principessa di Monteaguto, che lo infastidiva continuamente perché gliela ritrovasse. La cagnetta rassomigliava tanto a quella perduta che il principe della Pie­tra, che probabilmente doveva aver bevuto qualche bicchierino in più, disse al suo ospite di restituirgliela immediatamente. Il Cariati fece l'im­possibile per far comprendere al suo ospite con le buone che la cagna era sua e quindi non poteva essere quella dispersa dalla suocera, ma poi una parola tirò l'altra, e il bisticcio terminò in una sfida, e in ottempe­ranza al vecchio codice cavalleresco gli sfidati scesero sul terreno non da soli, ma con gli amici, che avevano preso partito per l'uno o per l'altro. Lo scontro si effettuò all'alba nell'ampio cortile del palazzo e vi perse la vita un cavaliere, ferito dal principe della Pietra. Nonostante le gravi con­seguenze di questo inutile duello, il viceré, poiché i responsabili appar­tenevano al patriziato, non prese alcun provvedimento contro i colpevoli e concesse la grazia a tutti, ma, evidentemente scossi dalle proporzioni prese da una futile lite, ben trecentosessantadue cavalieri si impegnarono solennemente, apponendo la loro firma a un documento, a non far più duelli in  gruppo  né  tanto meno  per  questioni  di  così  poca importanza.

Questo palazzo fu anche residenza vicereale: vi abitarono il viceré marchese di Astorga ed il suo successore marchese di Los Velez, giunto a Napoli nel 1675 dopo essere stato viceré di Sardegna, che vi tenne un'importantissima corte. Questo gentiluomo spagnolo si guadagnò l'affetto dei napoletani rifiutandosi nel 1679 di attingere alle misere borse del po­polo per il governo di Madrid. In occasione del matrimonio di Carlo II con Maria Luisa però gli furono richiesti trecentomila ducati e poiché non era riuscito a racimolarli dovè imporre una tassa sulla fabbricazione del­l'acquavite. A questo viceré, che lasciò definitivamente Napoli nel 1682, si deve la proibizione del passeggio lungo la Riviera alle prostitute. Il pe­riodo in cui ospitò la corte vicereale rappresentò il momento migliore nella vita di questo palazzo, perché le possibilità finanziarie dei Ravaschieri di Satriano non avrebbero permesso loro di poter ricevere con tanta ma­gnificenza.

Subito dopo il Palazzo Satriano incontriamo il vicolo omo­nimo, che incrocia la via intitolata al patriota Carlo Poerio, una stretta e antica strada parallela alla Riviera che da piazza dei Martiri, angolo via Calabritto, conduce in piazza San Pa­squale. Questa strada era prima chiamata vico Freddo a Chiaja in quanto i giardini che partivano dal Palazzo di Garcxa de Toledo in Largo Ferrandina, davano una piacevole frescura a coloro che passavano di qui. Il prolungamento del vico Satriano, via Bisignano, taglia via Alabardieri, così chiamata perché vi era una caserma di questo corpo speciale soppresso nel 1784 che di solito faceva da scorta ai sovrani, e termina al bivio con via Cavallerizza. Una seconda trasversale di via Carlo Poerio, via Domenico Fiorelli, conduce poi in largo Ferrandina.

Ritornando alla Riviera, troviamo all'altro angolo di vico Satriano il Palazzo San Teodoro che aveva anche un ingresso secondario nel vicolo, chiuso da tempo.

Questo edificio nel 1826 fu restaurato ed ampliato dall'architetto Gu­glielmo Bechi con una linea neoclassica-pompeiana dopo che il duca di San Teodoro ebbe acquistato alcune abitazioni adiacenti dalle famiglie Pannone e de Tocco.

Seguiva il Palazzo Ischitella, non più esistente, che fu uno dei primi ad essere costruito in questo primo tratto della Riviera di Chiaja, dopo il Satriano. Appena costruito, nel 1647, poiché il proprietario, il nobile Mattia Casanatte, era Reggente della Città in questo critico momento storico, fu saccheggiato e quasi distrutto dai rivoluzionari di Masaniello. Il Casanatte, un nobile aragonese, per salvarsi la vita fu costretto ad abbando­nare il palazzo; in seguito se ne tornò in Spagna, mentre dei suoi due figli, uno, che era cardinale, si trasferì a Roma, e l'altro, che per difendere il padre era stato criticato, morì a Napoli tragicamente.

Esaminando una carta di questo tratto della Riviera di Chiaja del 1694 ci si accorge che il palazzo fin da allora era veramente imponente, a due piani e con due ingressi, dotato di molte finestre con fini decorazioni in marmo ed artistiche inferriate. L'edifìcio poi passò ai Pinto, principi di Ischitella, una famiglia oriunda dal Portogallo e precisamente a quel prin­cipe che fu « scrivano di Razione », che volle ingrandirlo e abbellirlo nel­l'interno facendo decorare finemente i saloni del piano nobile. L'ultimo di questa famiglia, che fu proprietario del palazzo, fu il principe Francesco Pinto, che era stato insignito anche del marchesato di Giugliano. Dopo essere stato dignitario di corte di re Giuseppe Bonaparte, don Francesco partecipò da valoroso alla campagna di Russia nell'esercito napoletano di Gioacchino Murat: quindi dopo la triste fine del re francese, non era fa­cile tornare a Napoli. Egli non solo vi riuscì, ma fu anche ripreso nel­l'esercito borbonico, e, dato il suo passato di valoroso combattente e di gran dignitario di corte, nel 1848 Ferdinando II volle riconoscere tutti i suoi meriti nominandolo Ministro della Guerra. Tale rimase sino al 1855, dedicandosi alla nuova causa con grande lealtà; e quando Garibaldi entrò con i suoi uomini a Napoli, il principe Pinto lasciò la città e scomparve nell'anonimato. Il palazzo passò poi al proprietario dei caffé Europa e Donzelli che ne fece un albergo chiamandolo prima Gran Bretagna e poi Riviera; agli inizi di questo secolo infine vi ebbe sede un circolo fondato da un'associazione napoletana di carità. In seguito questo antico edificio è stato demolito e ricostruito in una veste moderna che guasta tutta la linea architettonica di questa magnifica Riviera. L'attiguo vico Ischitella che prese il nome dagli antichi proprietari del palazzo, congiunge an­ch'esso la Riviera con via Carlo Poerio ed immette direttamente ne] parco Bivona, appartenuto alla famiglia Alvarez de Toledo. Nella palaz­zina in questo parco abitò il conte di Caltabellotta, consorte di una prin­cipessa Colonna di Paliano, famoso perché nei suoi saloni amava dare concerti per gli amici.

Tornando alla Riviera troviamo il Palazzo Cioffi, con un ele­gante androne adorno di statue di marmo e quindi il Palazzo Petagna, appartenuto al principe Trebisaccia, che ha nel cortile una graziosa fontana.

Incontriamo inoltre la piccola Chiesa di San Rocco, presso la quale era il monastero di San Sebastiano, tenuto da monache ed officiato da quattro frati domenicani che provvedevano anche alla riscossione del diritto di pesca per la parte del litorale pro­spiciente al monastero, che spettava a queste monache. Questo antico diritto era stato concesso dal duca Sergio di Napoli e riconfermato da Carlo II d'Angiò e poi da re Roberto al convento di San Pietro a Castello.

La chiesa originariamente doveva essere molto più grande, con cinque altari, sul maggiore dei quali in una nicchia di marmo vi era una mi­racolosa statua del santo, protettore dei pellegrini e dei viandanti. Nel 1819 Ferdinando IV fece aprire nel retro un secondo ingresso conceden­dolo alla Confraternita del Rosario che, pur lasciando titolare della chiesa il santo dei pellegrini, fece rimodernare l'edificio, forse restringendolo. Il monastero fu venduto ai proprietari dei palazzi limitrofi, ma la chiesetta è rimasta, anche se incorporata in un palazzo; essa deve ritenersi una delle prime costruzioni effettuate sulla Riviera, poiché la sua data di edi­ficazione si aggira intorno al  1530.

Segue il Palazzo Pignatelli di Strongoli costruito nel 1829 con sobria facciata neoclassica dall'architetto Niccolini: l'appar­tamento nobile ha la fronte con balconi a timpano e bugne paraspigoli.

Il proprietario era nel 1860 il principe di Strongoli e conte di Me­lissa don Francesco Pignatelli che sposò donna Adelaide del Balzo, esimio letterato, noto per una elegante traduzione dell'Eneide; la consorte fu membro dell'Accademia Pontaniana, cosa eccezionale se si pensa che fecero parte di questa famosa accademia soltanto altre due donne : la duchessa d'Angri e la professoressa Bacunin. Molto amica di Vittorio Emanuele e Margherita di Savoia quando erano principi di Napoli, la principessa Adelaide fu con nomina reale creata ispettrice  di vari istituti.

Qui, con piazza San Pasquale, termina il primo tratto della Riviera di Chiaja. Dà il nome al largo la francescana Chiesa di San Pasquale fatta costruire su disegno di Giuseppe Pollio da Carlo di Borbone nella metà del secolo XVIII in ringraziamento per la nascita del primogenito; prima, il convento e la chiesa appartenevano ai frati Alcantarini.

La chiesa, ultimamente restaurata nel 1970, a dire il vero, non pre­senta nulla di notevole né dal lato storico né dal Iato artistico. Potremmo segnalare soltanto che in essa si conserva il corpo del beato Egidio, un frate laico francescano morto in concetto di santità, che fu molto cono­sciuto per i suoi miracoli nel periodo del decurionato francese. Da una porticina laterale si accede al convento e ad una piccola grotta dedicata alla Madonna di Lourdes molto venerata dai giovani e dalle giovani che vi si soffermano prima di andare alle tante scuole che sono in questa zona.

In questo largo sfocia la via Carlo Poerio di cui abbiamo precedentemente parlato, e, in senso perpendicolare alla Riviera, la via Carducci che sale per piazza Amendola a via dei Mille, così come la parallela via San Pasquale a Chiaja. Via Carducci, aperta prima dell'inizio della seconda guerra mon­diale, è fiancheggiata da palazzi moderni: in via San Pasquale, anch'essa moderna all'inizio ma alquanto più vecchia alla fine, ricordiamo la Chiesa Evangelica. Via San Pasquale e via Car­ducci sono unite ed intersecate da strade parallele: via A. To­relli, via Vittorio Imbriani, via Vincenzo Cuoco e qualche altra più piccola di scarso interesse.

In piazza San Pasquale vi era sin dagli inizi del secolo XVIII un mercato del pesce che veniva chiamato 'a preta 'o Pesce, ov­vero la Pietra del pesce, e poiché ogni medaglia ha il suo rove­scio, mentre vi si poteva acquistare del pesce fresco, l'odore di questa zona non era tra i migliori. A prescindere da questo mercato, poi, proprio in questa direzione le donne del borgo di Chiaja andavano a lavare i loro panni ed a buttare a mare gli esiti dei loro bisogni corporali, e Giovan Battista Basile nel suo Cunto de li cunti ci racconta che da questo litorale proveniva un odore così sgradevole che veniva detto volgarmente « la malora di Chiaja ». Non essendovi fognature le massaie non avevano altra scelta, nonostante i viceré vietassero quest'usanza.

All'angolo della piazza facciamo iniziare il secondo tratto della Riviera; qui un edificio moderno sostituisce malamente un antico palazzo appartenuto agli Ulloa, che era stato eretto agli inizi del '600 dal duca di Lauria Adriano Ulloa o secondo alcuni dalla Casa degli Incurabili e poi venduto al duca.

Seguono il Palazzo Bagnara a Chiaja, così chiamato per distinguerlo dall'altro che vedremo a piazza Dante ed il Palazzo Serracapriola, costruito verso la fine del 700, che per un certo tempo ha ospitato il Caffè Riviera.

Questo palazzo, a differenza del precedente che non ha nessun inte­resse artistico o storico, è legato al periodo francese della storia napo­letana per un'esplosione avvenuta il 31 gennaio del 1808 che ne causò la distruzione di una parte e alcune vittime. Abitava allora qui il ministro di polizia Giuseppe Cristoforo Saliceti che in questa esplosione fu ferito, con la figliola e il genero duca di Lavello. Poiché al piano terra della parte che andò distrutta, quella che fa angolo con via Bausan, vi era la bottega di uno speziale, si sospettò che questi, un certo Onofrio Viscardi, fi­loborbonico, avesse causata l'esplosione, che si pensò potesse essere una vendetta della regina Maria Carolina contro l'odiato Saliceti. A dire il vero fu incolpato in principio persino il ministro delle finanze Roederer, anch'egli in urto col ministro di polizia, ma in seguito la sua colpevolezza fu esclusa. L'inchiesta fatta da tre generali stabilì che l'esplosione era stata causata da una carica di ben cento libbre di polvere, e tutti i so­spetti ricaddero sui familiari dello speziale, che furono costretti a dichia­rarsi colpevoli e confessarono anche di essere stati istigati da alcuni messi inviati dalla regina Maria Carolina. Si disse che questa confessione fosse stata strappata ai Viscardi con torture e minacce, ma, quel che è certo, la disgraziata famiglia pagò con la forca il suo delitto; poiché lo speziale non fu giustiziato si sussurrò che avesse avuta salva la vita perché aveva fatto da delatore a danno di altri, ma l'anno seguente anch'egli morì, sembra tragicamente. Il proprietario del palazzo, il duca di Serracapriola Antonio Maresca Donnorso, quando avvenne l'esplosione si trovava alla corte di Pietroburgo quale Ministro plenipotenziario di Ferdinando IV, dal quale era molto stimato. Il sovrano spodestato affidava importanti negoziati al brillante diplomatico, il quale sembra che si fosse conquistata la simpatia di Caterina di Russia a tal punto che l'imperatrice gli avrebbe promesso che se fosse riuscita a debellare la Turchia con una pace onorevole avrebbe donato al Regno di Napoli le coste albanesi. Rimasto vedovo della prima moglie, Maria Adelaide del Carretto di Camerano, Antonino Maresca si risposò in Russia con la figliola del Procuratore Generale di tutte le Rus­sie, il principe Alessandro Wiazemski e si mise così in vista che fu poi prescelto per essere inviato al Congresso di Vienna a difendere la causa del suo re. Questo congresso, durato dal 22 settembre 1814 al 9 giugno 1815, avrebbe dovuto determinare il nuovo assetto dell'Europa nella ricerca di una pace duratura e di una ripartizione equa dei territori, ma il Metternich fece la parte del leone e l'Austria divenne padrona di vari stati italiani; rimasero liberi, praticamente, soltanto il Piemonte ed il Regno di Napoli che fu restituito a Ferdinando IV. Il sovrano borbonico sul momento fece grandi promesse al Maresca, ma quando avvennero i moti del 1820-21 dei quali l'Austria fu indirettamente responsabile, diede al suo diplomatico la colpa di non essere riuscito ad evitare l'ingerenza austriaca nel Regno. Poco dopo, nel 1822 il duca morì a Pietroburgo.

Attualmente questo palazzo è stato sostituito da una costruzione mo­derna, dopo che, a causa di un incendio avvenuto nel 1944, era stato in parte distrutto: anche a quell'epoca il proprietario, Giovanni Maresca di Serracapriola, era assente, in India, e sembra che l'incendio si svilup­passe in alcuni saloni che le forze armate americane avevano requisito per farvi un circolo.

Una strada sulla destra è intitolata al valoroso ufficiale della Marina Napoletana Giovanni Bausan, che combatté su una nave inglese con l'ammiraglio Bodney alla battaglia di Capo San Vin­cenzo. Quando Ferdinando IV di Borbone si rifugiò in Sicilia, poiché la nave britannica su cui era il sovrano non riusciva ad entrare in porto si chiamò a bordo il Bausan, la cui perizia era ben nota, perché comandasse la manovra. Nel 1808 lo troviamo alla riconquista di Capri e nel 1810 valoroso combattente nelle acque di Napoli.

Questa piccola strada era prima chiamata del Carminiello, per una chiesa intitolata alla Vergine del Carmelo che ci risulta esistente sin dal 1619; annesso vi era anche un convento, i cui frati nel 1714 si lamenta­rono presso l'autorità di polizia perché nel vicoletto adiacente, quello dell'Ascensione avvenivano « scandalose opere alle quali la solitudine di detto vicolo serve di incitamento e d'asilo ». Accanto al convento vi era un forno molto accorsato che panificava in modo eccellente, ma agli inizi del secolo scorso, chiesa, convento e forno furono demoliti e qui fu co­struito il  Palazzo Ludolf.

Degno di rilievo, segue il Palazzo  dei Ruffo  della Scaletta, appartenuto prima ai principi di Belvedere e precisamente al cardinale Diomede Carafa, per cui ancora da alcuni è chiamato Carafa del Belvedere.

Il cardinale fece incidere sulla facciata il suo stemma cardinalizio con un distico virgiliano; la proprietà passò poi al principe di Bisignano Tiberio Carafa che nel suo parco creò un giardino zoologico, riunendovi anche delle bestie feroci, tra cui un leone, divenuto peraltro così mansueto da essere il divertimento dei bimbi del vicinato. Si racconta che un giorno il principe portasse il leone con sé in una trattoria e lo legasse ad una inferriata, e che l'animale avendolo visto allontanarsi, per scendere sulla strada   si   lanciasse  nel   vuoto   strangolandosi.

Nel 1832 l'edificio fu ampliato e restaurato da Francesco Saverio Fer­rari che rifece la facciata, mentre il cortile, le scale ed i due appartamenti nobili furono decorati da Guglielmo Bechi, lo stesso architetto del Palazzo San Teodoro; questi provvide anche alla sistemazione dei giardini, dei quali una parte nel tempo passarono all'attigua Villa Pignatelli. La scala di questo palazzo è ricordata per un aneddoto... borbonico: il proprietario, il principe Ruffo della Scaletta, l'aveva ridotta per ingrandire l'apparta­mento al piano nobile. Poiché una sera che ebbe l'onore di accogliere in casa re Ferdinando, dopo aver ammirato i saloni, il sovrano si disse spia­cente di non poter fare altrettanto per la scala, che era troppo modesta, il Ruffo pensò bene di allargarla di nuovo. Le diede quindi tanto spazio che quando invitò un'altra volta il re, quegli scherzosamente osservò che la scala era molto bella ma si era « magnato tutt'  'o palazzo ».

Anticamente il parco giungeva sino alla collina del Vomero; nel 1825, poi, i Belvedere ne vendettero due ettari a lord Guglielmo Drummond che a sua volta li passò al baronetto di Aldenham Ferdinando Acton, che per sfuggire alla persecuzione dei cattolici era andato prima in Francia e poi si era trasferito a Napoli. Il terreno fu acquistato per costruirvi una villa, della quale si affidò la realizzazione ad un allievo del Niccolini, l'archi­tetto Pietro Valente; le decorazioni interne e i disegni del parco furono invece opera dell'architetto Bechi, e tutto l'insieme fu terminato intorno al 1830. Il risultato fu una costruzione neoclassica dalla tipica linea in­glese molto bene ambientata con il bel parco. Per dare un certo tono al­l'ingresso l'architetto concepì la costruzione di due piccoli edifici uniti da una cancellata attraverso la quale dalla strada si può ammirare ancora oggi la Villa Pignatelli. Anche per questa costruzione non mancarono cri­tiche, poiché fu trovato sproporzionato il rapporto tra la fronte della fac­ciata ed il porticato: Michele Ruggiero, ad esempio, riteneva di riscontrare poca avvedutezza nel disegno dell'atrio posto davanti alla casa e alle co­lonne,  che occupano metà della vista dei  pilastri  che  sono  arretrati.

Ai tempi degli Acton la villa era tenuta con grande larghezza di mezzi, ma quando morì don Ferdinando nel 1837, la vedova, Maria Luisa Pelline D'Alberg, dopo tre anni si risposò con il conte di Grandville, che sarebbe divenuto un giorno il presidente della Camera dei Lords, e decise di tra­sferirsi a Londra con il figlio Giovanni Emerick. Nel 1841 quindi la villa fu venduta: Carlo Lefebure e Francesco Verhulet comprarono parte del terreno, mentre il giardino, la villa vera e propria e le dipendenze furono acquistate dal magnate della finanza germanica barone Carlo Meyer von Rotschild che era venuto a Napoli  nel  1821  per sostenere e  finanziare le truppe austriache del Metternich. Nel 1842 i Rotschild fecero costruire i loro uffici distaccati dalla villa, che mantennero come lussuosa residenza. Quindi diedero incarico all'architetto Gaetano Genovese di allargare e adat­tare alcune sale, la sala Rossa e la biblioteca, mentre un architetto fran­cese di cui non conosciamo il nome ebbe il compito di decorare due sale, quella per i balli e l'altra « azzurra ». Poiché la felicità non è di questo mondo, in questa famiglia nel 1855 morirono tre fratelli su cinque; la loro potenza finanziaria, sin dal 1848 aveva incominciato a declinare, forse a causa di quei moti rivoluzionari che scossero lo stato dalle fonda­menta. Quando la famiglia Borbone lasciò Napoli, i superstiti Rotschild vollero seguirla, e, riservandosi soltanto i due piani dell'edificio adibito ad uffici, vendettero nel 1867 la villa al duca di Monteleone Aragona Pi­gnatelli Cortes che vi trasferì la sua residenza. II duca Diego, nel 1886, sposò la duchessina di Amalfi Rosa Fici e dopo il suo matrimonio rese questa villa una vera reggia. Rimasta vedova, la principessa decise di abbandonare la vita mondana e di dedicarsi soltanto alla cura del­l'amministrazione delle proprietà e alla sistemazione dell'importantis­simo archivio di famiglia, che andò personalmente riordinando nell'attiguo edificio di Santa Maria in Portico. Questo archivio, passato oggi all'Ar­chivio di Stato in Napoli, contiene documenti risalenti sino al secolo XIII. L'unica abitudine mondana che la duchessa di Monteleone volle con­servare fu quella di far dare nei saloni della sua villa i concerti dell'Ac­cademia Napoletana. Alla sua morte, avvenuta nel 1952, la villa per suo de­siderio fu donata allo Stato completa di arredamento affinché se ne fa­cesse un museo intitolato al principe Diego: attualmente in un padiglione in fondo è ospitato il Museo delle Carrozze, la cui raccolta, se così può chiamarsi, fu donata dal Marchese di Civitanova. La Villa è sotto la giu­risdizione delia Soprintendenza alle Gallerie e pur essendo oggi un Museo, viene usata, a discrezione insindacabile del sopraintendente, per manife­stazioni e mostre.

Appena entrati nel portico di ingresso si ammirano due busti del Persichetti del 1959 raffiguranti il Principe Diego Pignatelli e la consorte Principessa Rosina; nell'atrio vi sono quattro vasi antico Giappone con festosi fiori ed uccelli e sulla destra, all'inizio della scala, un busto se­centesco in bronzo raffigurante Ferdinando Cortes. Nella Sala Rossa vi è un bel tavolo rotondo in marmo con pietre dure e quattro angeli porta-candelabri a fianco delle porte; si entra poi nella Sala da Ballo ove si no­tano splendidi lampadari francesi e specchiere finemente intagliate; segue la Sala di Musica, con un vecchio pianoforte e delle consolles sovrastate da grandi specchiere sulle quali poggiano vasi di porcellana policroma del Giappone; in fondo vi è un piccolo ambiente semicircolare con decora­zione in stile pompeiano.

La sala Azzurra ha una grande consolle con vaso di Sassonia e can­delabri francesi mentre sul camino trionfa un magnifico orologio francese settecentesco eccezionale anche per la sua grandezza, con figure allegoriche rappresentanti il Tetnpo e l'Astronomia. In una vetrina si ammirano al­cune porcellane dorate di Sassonia, due candelabri Wolfsohn di Dresda, altre figurine e gruppetti tra i quali uno raffigurante un Ratto di Proser-pina, un servizio da caffé decorato in oro e una piccola zuppiera ornata dì fiori a rilievo. Nel soffitto della Sala Rossa, tappezzata in damasco, vi è un affresco di ignoto autore settecentesco raffigurante l'Architettura con­tornato da due genii dei quali uno impugna la pianta della villa. Sul ca­minetto vi è un orologio francese del secolo XIX e sulle ricche consolles dei vasi policromi di Sassonia e altri di porcellana giapponese oltre a candelabri di bronzo dorato. La Sala Verde ha alle pareti tre pannelli di­pinti dal cinquecentesco Giovan Filippo Criscuolo, discepolo di Andrea da Salerno e nella vetrina a muro delle porcellane viennesi del settecento delle quali una molto importante raffigurante la Liberazione di Andromeda, oltre ad alcune zuppierine ed antiche posate con manici di porcellana. In un'altra vetrina si ammirano porcellane di Capodimonte, di Napoli e di Venezia, con un rarissimo vetro di Murano del secolo XVIII, e piatti e vasi di maiolica Giustiniani e del Vecchio, oltre a una grande zuppiera di porcellana veneziana del settecento. Nella vetrina a sinistra si vedono invece porcellane inglesi Chelsea e Bow, dei puttini di Doccia, delle por­cellane di Zurigo e di Meissen, e nella vetrina opposta all'ingresso, a sini­stra, porcellane cinesi del secolo XVIII, porcellane Gres, due vasi Ch'ien-Lung anche del settecento, e un biscuit di Sévres, semprecché nulla sia stato  spostato  dal  suo posto.

Nella vetrinetta di mogano a destra vi è un servizio per caffelatte in porcellana di Sévres decorato a Napoli da Giovine oltre a dei bicchieri di porcellana decorati dallo stesso artista che vogliono ricordare alcuni fatti del Ministero Ferri del 1846 e un orologio settecentesco con figure allego­riche di porcellana di Meissen. La Sala da pranzo ha la tavola sempre ap­parecchiata con argenteria, porcellane e servizio di bicchieri inglesi del secolo scorso con Io stemma della famiglia e due splendidi candelabri d'argento. Alle pareti, nature morte del '700 e sui mobili zuppiere e piatti decorati in porcellana di Sévres, di Nove e di Napoli, oltre a coppe e vasi giapponesi. La biblioteca è costituita da varie librerie e alle pareti vi sono dei Piatti d'Abruzzo raffiguranti Maria Carolina, Giuseppe Pignatelli del pittore Carlo Labarbera, Rosina Pignatelli di Giuseppe de Sanctis, papa Pignatelli, Innocenzo XII, incisioni di Blondeau di G. M. Morandi e pic­coli mobili intarsiati di tartaruga e di avorio. Sulla tavola centrale vasi di porcellana giapponese, mentre le pareti, le poltrone e le sedie sono ri­vestite di cuoio di Cordova. Nel salottino ellittico altro busto di bronzo di papa Pignatelli, un secrétaire Luigi Filippo, una vetrina in mogano e tar­taruga con dei biscuits di Napoli e di Sévres, dei quali uno molto bello raffigurante una giovane donna sdraiata, in analogia alla figura di Caro­lina Bonaparte nel gruppo dell'Aurora di Grassi che attualmente è al Museo di Capodimonte. Vi è inoltre una vetrinetta inglese con piccoli busti di personaggi classici e un'altra in mogano con un magnifico servizio di porcellana di epoca impero. L'atrio veranda ha delle copie di statue an­tiche, oltre ad un busto marmoreo raffigurante Innocenzo XII, uno di Cle­mente XI, che successe al papa Pignatelli nel 1700, ed uno del Duca di Monteleone da antico romano, opera dello scultore siciliano Leonardo Pen­nino, eseguito a Roma nel 1721. Il giardino all'inglese contiene magnifiche araucarie ed altre piante rare, come Magnolia grandiflora, Rhododendron hibridum, Zamia integrifolia, Cycas Revoluta, Chamaedorea Elegans, Kentia Foresteriana, e Belmoreana, Sterlitzia Reginae e Augusta, Hibiscus Sinen-sis, Camelia iaponica.

Attiguo a questa villa troviamo il Palazzo Siracusa, poi Caravita di Sirignano, greve e pesante, che occupa l'area di vari fabbricati preesistenti: esso affaccia alla Riviera, ma ha l'in­gresso  principale  sulla  via  del  Rione  Sirignano.

La parte più antica di questo palazzo fu costruita nel secolo XVI per desiderio del marchese della Valle don Ferdinando Alarcon, un generale spagnolo al servizio di Carlo V, assurto a grandi ricchezze e grandi onori per essere stato uno degli amanti della regina Giovanna d'Aragona. Questo potrebbe quindi essere considerato il più antico dei palazzi alla Riviera, o per lo meno lo è senz'altro quella torre all'angolo orientale della facciata che doveva essere di vedetta per la difesa dai pirati turchi.

Agli inizi del '700 dagli eredi Della Valle il palazzo passò al principe Caracciolo di Torella come bene dotale di un'unica figlia e nel 1815 fu completamente rinnovato da Antonio Annito: nel 1838 lo acquistò poi il conte di Siracusa Leopoldo di Borbone, noto per le sue idee liberali. Egli lo fece rimodernare dall'architetto Fausto Niccolini e così il palazzo di' venne il luogo di ritrovo degli aristocratici napoletani che come lui erano in politica all'avanguardia. In quel tempo vi erano annessi circa quattor­dicimila metri quadrati di parco, nel quale era stato creato anche un tea­trino dove il conte di Siracusa, mecenate, scultore e filodrammatico, or­ganizzava recite e rappresentazioni. L'edificio passò dopo il 1860 al barone Compagna ed infine al principe Caravita di Sirignano che lo fece rico­struire dotandolo di una seconda torre simmetrica a quella antica e lot­tizzò poi il gran parco per costruirvi dei tetri palazzoni. In questo palazzo abitarono il conte de Marzi, Placido de Sangro, che donò al Museo della Floridiana la preziosa raccolta di porcellane e un nipote del cardinale Sisto Riario Sforza, il duca Nicola, nei cui saloni si ammiravano gli splendidi arazzi di Casa Doria con la raffigurazione delle Quattro Stagioni. In que­sto rione dove il verde, ahimé, è quasi completamente scomparso, abita­rono altri due noti personaggi, lo scultore Cangiullo, illustre discepolo del Toma, ed il più grande spadaccino italiano, il marchese Luigi Mastel-loni di Capograssi, l'unico che riuscì a battere il campione europeo Age­silao Greco. Questo patrizio  napoletano apparteneva alla famiglia di quel marchese Emanuele  che fu Ministro di Grazia e Giustizia della Repub­blica Partenopea del 1799, fratello del duca di Salza don Mario.

La prossima strada a destra, via Santa Maria in Portico, si apre tra i due Palazzi Schioppa e Gallo, il primo dei quali era di una famosa modista francese e l'altro appartenne al duca Mastrilli del Gallo, abile diplomatico presso Napoleone. La strada prende il nome dall'antica Chiesa di Santa Maria in Portico, costruita all'inizio del '600 per volere della duchessa di Gravina Felice Maria Orsini, che aveva in questa zona una estesa pro­prietà costituita da un palazzo e da giardini che giungevano sino al Vomero. Rimasta vedova, la gentildonna, dopo essersi consi­gliata con i padri gesuiti, volle trasformare il suo palazzo in monastero. In seguito, a causa di alcune divergenze di vedute con la loro benefattrice, questi religiosi furono sostituiti dai Chierici Regolari, un Ordine toscano fondato dal beato Giovanni Leonardo. Essi provvidero all'edificazione della chiesa, che fu dedicata alla Vergine di Santa Maria in Portico, venerata anche a Roma, la cui miracolosa immagine già durante la peste del 1656 attirò grande affluenza di fedeli nella chiesa presso la Riviera.

Attualmente questo tempio si presenta con la facciata rifatta nel 1862 e con una graziosa cupola sull'abside: vi si possono ammirare, nella prima cappella a sinistra, alcuni affreschi di Luca Giordano e una Nascita della Vergine di Fedele Fischetti del 1766 ed in una cappella a destra un Cro­cefisso in legno del secolo XV di eccezionale bellezza. Notevole il Presepe, con pastori a grandezza naturale, un valido esempio di quest'arte napo­letana; in legno e riccamente vestiti, si ritiene siano della metà del secolo XVII.

Dalla chiesa di Santa Maria in Portico, si può imboccare la via Girolamo Piscicelli, che conduce in largo Ascensione, op­pure via Martucci, che sale a piazza Amedeo; sulla sinistra della chiesa vi è un dedalo di vicoli e vicoletti ove l'unica strada da ricordare è la via Campiglione.

Dopo questa breve deviazione ritorniamo alla Riviera e, dopo aver superato qualche palazzetto di scarso interesse, come il Palazzo Belgioioso che appartenne al principe di Cerenzia, si incontra il Palazzo Capece Minutolo di Bugnano, che in origine era di proprietà del Pio Monte della Misericordia, ma nel tempo fu interamente rifatto e adibito ad albergo. Segue il piccolo Palazzo Como che non ha alcun interesse artistico ma dal lato storico-folkloristico è legato al ricordo della famosa « mazzarella di San Giuseppe ».

I napoletani hanno spesso sentito dire la frase « non sfrocolià 'a mazzarella 'e San Giuseppe » passata a significare « non dar fastidio, non svegliare i cani che dormono! » Questa espressione solo in un secondo mo­mento ha assunto il suo significato scherzoso, mentre quello originale era puramente letterale. Infatti era conservato a Napoli un avanzo del ba­stone di San Giuseppe, una reliquia non si sa come giunta dall'Inghilterra nel secolo XVIII e custodita in una cappella dal cantante Grimaldi, molto noto nei teatri napoletani del secolo XVIII, nel suo appartamento alla Ri­viera di Chiaja, proprio in questo palazzetto Como attiguo alla chiesa. II giorno del santo, il 19 marzo, mentre di fronte alla chiesa si disponevano le bancarelle con le zeppole e in via Medina, ove era un'altra chiesa dedi­cata a San Giuseppe,  si allestiva la tradizionale fiera degli uccelli, il Grimaldi esponeva per tutto l'ottavario alla venerazione dei fedeli e della corte la reliquia che conservava gelosamente. Egli era però costretto a farla sorvegliare da un suo servitore, il veneziano Andrea Muscìano, poiché non era facile tenere a bada i cosiddetti fedeli che per fanatismo o per vandalismo, approfittando della ressa cercavano di portarsi a casa un po' di « mazzarella ». E se qualcuno allungava le mani verso la reliquia veniva appunto ammonito: « Non sfrocoliate la mazzarella di San Giusep­pe! ». Pare però che nonostante la sorveglianza, al termine dell'ottavario la « mazzarella » si trovasse sempre più assottigliata e accorciata con grande dispiacere del Grimaldi.

Alla morte del Grimaldi la reliquia passò ai suoi discendenti e ad un certo punto fu causa di lite tra fratelli, finché dopo lunghe questioni giu­diziarie il tribunale decise di affidarla alla badessa del monastero di San Giuseppe de' Rossi e poi al Real Monte e Congregazione di San Giuseppe de' Nudi in via San Potito, ove riteniamo che quanto ne rimane sia con­servato insieme ad una parte del mantello del Santo.

In questa zona vi erano molti « casini » di villeggiatura, non più esi­stenti; oltre a quelli di cui abbiamo già parlato ricorderemo quelli del marchese Faxado e quello del Reggente Moles. Questo tratto della Riviera era chiamato « il borgo di San Leonardo », essendo nato intorno all'omo­nima chiesa non più esistente che si ergeva su un lembo di terra distac­cato dalla riva sì da costituire quasi un'isoletta: vi si accedeva attraverso una porta ad arco varcando un piccolo ponte. Sembra che questa chie­setta fosse stata costruita per un voto fatto al santo di cui portava il nome da un gentiluomo castigliano che, sorpreso da una tempesta mentre navi­gava nel golfo, si sarebbe salvato toccando terra in quel punto della spiag­gia. La chiesa, chiamata di San Leonardo ad insulam, fu officiata prima dai monaci basiliani e poi dai domenicani : essa ed il suo convento sono legati alla storia del periodo aragonese e della Congiura dei Baroni perché una nobildonna napoletana, Mondella Gaetani, principessa di Bisignano, il cui marito era già in galera, essendo fra quelli che avevano congiurato contro re Ferrante, per sottrarre i teneri figlioletti alle ire del sovrano riuscì a rifugiarsi presso i buoni frati. Subito dopo, sempre grazie al­l'aiuto dei religiosi, di lì potè imbarcarsi su un legno romano e mettersi in salvo a Terracina, in suolo pontificio.

Di fronte al complesso religioso, sulla spiaggia, vi era la Taverna di Florio, ricordata da molti napoletani. Lo scoglio di san Leonardo durante i moti di Masaniello fu conteso fra gli spagnoli e i rivoltosi napoletani; in seguito fu unito alla riva ed ora non ne resta che il ricordo.

Quasi di fronte alla chiesa di San Leonardo i gesuiti fonda­rono un collegio che dedicarono a San Giuseppe, a cui furono aggregati poi un convalescenziario e nel 1676 una chiesa, opera dell'architetto Carrarese, un laico gesuita. Quando questi reli­giosi furono espulsi dal regno di Napoli il collegio ed il con­vento furono adibiti a scuola di arte nautica finché nel 1818 Ferdinando IV vi insediò un Ospizio per ciechi dedicato ai santi Giuseppe e Lucia. Attualmente la Chiesa di San Giuseppe è chia­mata a Chiaja per distinguerla da altre dedicate allo stesso santo.

Nell'interno si possono ammirare due belle opere del napoletano An­tonio Sarnelli, una Annunciazione ed II Sogno di Giuseppe; sull'altare mag­giore vi è una Sacra Famiglia del seicentesco napoletano Francesco De Maria, mentre sono opere del romano Giacomo Farelli il Transito di San Giuseppe e l'Angelo che annuncia il viaggio in Egitto. In sacrestia dovrebbe esservi un  dipinto  del De Maria raffigurante Sant'Anna.

Avvicinandoci alla fine di questa strada notiamo ancora il Palazzo Guevara di Bovino, costruito dall'architetto Moscarella che volle imitare lo stile del fiorentino Palazzo Pitti. L'edificio passò poi al principe di Candriano e Matilde Serao ci racconta che vi avvenne un dramma poiché una nobildonna vi fu sorpresa dal consorte in intimo colloquio con un diplomatico straniero.

Il palazzo appartenne poi all'ambasciatore in Russia principe Camillo Caracciolo di Bella che, essendo un liberale convinto, era molto amico del conte di Siracusa; attualmente è sede del Consolato di Francia.

In questa zona, un po' prima di questo palazzo ve ne era un altro appartenuto prima ad una famiglia chiamata Scuotto, e poi passato ai Charlsworth, che viene ricordato perché durante la sua costruzione furono trovati dei resti di opus reticulatum. Vi era anche una caserma, anch'essa non più esistente, chiamata Cristalleria. Unito al Palazzo Guevara da un arco vi era il Palazzo del prìncipe dì Teora Mirelli, che diede il nome alla salita attigua che saliva sino al Vomero prendendo più in su il nome di Imbrecciata.

La salita dell'Arco Mirelli taglia la via Andrea d'Isernia, la via Crispi, ed il Corso Vittorio Emanuele. Questa via Andrea d'Isernia è intitolata all'illustre personaggio che fu giudice della Magna Curia nel 1290 e poi Luogotenente del Gran Protonotario Bartolomeo di Capua.

Poiché il palazzo dei Mirelli apparteneva precedentemente al duca di Caivano, il segretario del regno Barile, l'arco era chia­mato prima ancora il Ponte di Caivano.

Prima di lasciare questa salita o discesa dell'Arco Mirelli ricorderemo la Chiesa di San Francesco degli Scarioni che si trova su di essa a metà del primo tratto. È così chiamata perché fu fatta costruire nel 1701, per desiderio di un mercante toscano che aveva questo cognome, da Giovan Battista Nauclerio, insieme al convento che ospitava religiose toscane e fu poi di clausura.

Sulla porta dell'atrio vi sono una statua del santo ed una iscrizione marmorea che ricorda una visita di Pio IX nel 1849.

Su questa salita vi è anche la bella Chiesa dei Santi Gio­vanni e Teresa attualmente monastero di clausura delle Carme­litane Scalze, fondato nel 1746 e costruito nel giardino della villa del Regio Consigliere  Carlo  Gaeta.

La chiesa, di forma ellittica, e con elegante cupola, insieme al mona­stero fu messa sotto la protezione della famiglia reale borbonica e dichia­rata di Casa Reale. Nell'interno vi sono alcune pitture di Giuseppe Bonito di Castellammare di Stabia, di cui ricordiamo il Calvario e una Sacra Famiglia.

Al vico Parete, che taglia questa strada, vi è l'antico Palazzo Capomazza che viene ricordato principalmente perché da qui partivano le corse dei cavalli; le povere bestie venivano lanciate su questa discesa, in una competizione quanto mai difficile e pericolosa. Questo palazzo apparteneva al marchese Emilio Capomazza di Campolattaro che fu sindaco di Napoli e poi deputato al Parlamento.

Ritornando sui nostri passi, osserviamo la grande piazza che si estende per tutta la larghezza della Riviera, della Villa Comunale, che qui termina, e di via Caracciolo, che continua verso Mergellina. Essa, chiamata prima piazza Umberto I e poi Principe di Napoli, dal titolo che portava in quel tempo il

futuro Vittorio Emanuele III, ha attualmente il nome di Piazza della Repubblica; al centro si nota il modernissimo e poco comprensibile Monumento agli « scugnizzi » delle Quattro Gior­nate.

Dopo questa piazza la Riviera di Chiaja sfocia nella Torretta, mentre in parallelo parte il moderno viale Elena; si chiamerà — probabilmente — viale Gramsci. Sulla destra troviamo un'an­gusta strada che si dirama poi in tre rami che confluiscono in Corso Vittorio Emanuele e subito dopo la piccola Chiesa di Santa Maria della Neve, che non ha nulla di notevole se non le sue origini, essendo stata costruita nel 1571 a spese dei pescatori del litorale mettendo da parte il ricavato del mercato della domenica.

Anticamente nel mese dì agosto in onore di questa Vergine si orga­nizzavano grandi feste durante le quali i giovani pescatori facevano gare di velocità con le loro barche. Nel 1697 vi era una fontana con un'iscrizione che ricordava l'abbellimento della piccola chiesa operato per desiderio del viceré Luigi Francesco della Cerda, duca di Medinacoeli. La Vergine ed un'effigie di Sant'Anna che era in questa chiesa erano ritenute molto mi­racolose, e anche la regina Carolina veniva spesso a venerarle. Questo sito è chiamato Torretta nel ricordo di una torre che vi fu costruita nel 1564 per volere del viceré duca d'Alcalà Pedro Afan de Ribera, dopo una di­sastrosa incursione dei saraceni. Dopo essere sbarcati in queste vicinanze i pirati fecero ventiquattro prigionieri e poco mancò che non riuscissero a rapire anche la marchesa del Vasto. Poi, asserragliati nel castello, di Ni-sida intavolarono trattative per ottenere un riscatto. L'emissario vicereale autorizzato alle trattative fu lo scultore Gerolamo Santacroce, che ottenne la liberazione dei prigionieri previo pagamento di una considerevole som­ma, una parte della quale fu versata dalla Compagnia della Redenzione dei Cattivi che era in via San Sebastiano. Della « torretta » nulla è rimasto ed al suo posto vi sono gli edifici del Consolato degli Stati Uniti.

Proseguiamo imboccando via Piedigrotta che ci porta all'omo­nima chiesa e alla Galleria delle Quattro Giornate. In questa strada nel secolo XVII vi era il Palazzo del marchese Taccone di Sitizzano, che vi aveva raccolto una ricca biblioteca. Il Palazzo d'Aquino di Caramanico appartenuto ad un Bartolomeo che nel 1640 sposò una contessa Stampa di Milano è ancora esistente, anche se fu distrutto in parte durante i moti insurre­zionali del 1647 e nel tempo fu varie volte ricostruito: attual­mente è sede di una caserma.

Al termine di via Piedigrotta ci troviamo nella piazzetta omonima dalla quale, scendendo sulla sinistra, usciamo in piazza Sannazaro ove confluiscono la via Mergellina e il viale Elena. Al centro della piazza vi è la Fontana della Sirena, opera di Pasquale Buccino, composta di un gruppo di mostri e cavalli marini su una base rocciosa sui quali domina una sirena rap­presentata con la coda attorcigliata ed un braccio levato al cielo; questa fontana era prima in Piazza Garibaldi. Sulla destra-vi è la Galleria Laziale, scavata nel 1925, che sbocca a Fuorigrotta, nuovo rione che visiteremo in un altro itinerario. Incamminan­doci ancora per il proseguimento di via Mergellina, a destra troviamo nell'omonima piazzetta la Fontana del Leone. L'acqua che nel secolo scorso scaturiva da questa fontana, cadendo dalla bocca di un leone in una grande vasca, era considerata la mi­gliore della città, tanto che Ferdinando II mandava a prenderla per la sua mensa anche quando stava per incamminarsi per un viaggio. Questa fonte era conosciuta sin dal secolo XVII quando era chiamata di Mergoglino, dal nome della contrada. All'angolo sinistro di via Mergellina con via Caracciolo vediamo il Palazzo Minozzi e giungiamo infine nel largo Barbaja, prospi­ciente la piccola spiaggia di Mergellina e l'omonimo porticciuolo.

Mergellina conserva ancora molto del suo fascino, anche se parte di esso è folklore sapientemente dosato e indubbiamente non appaga l'occhio smaliziato del visitatore. Tuttavia, davanti ai moderni ed accoglienti caffé all'aperto, cinto dal piccolo molo per imbarcazioni da diporto, il breve tratto di spiaggia di sera accoglie ancora le barche dei pescatori tirate a secco per la notte, e di giorno le reti stese ad asciugare. Per chi passi lungo il breve arco naturale fiancheggiato dai banchi degli ostricari pac­chianamente addobbati con trofei di conchiglie, ma allietati dal verde e dal giallo dei limoni freschi, tra il vocìo dei venditori ed il frastuono del traf­fico sulla strada, l'odore acuto del mare, che emana, più che dal mare stesso, dalle erbe di scoglio disposte con bell'arte a decorare i piatti di vongole, di cannolicchi e di ostriche, è come l'aroma sottile di un vino prezioso. Sullo sfondo antico, nobile, indimenticabile, unico del Vesuvio, in secondo piano, spicca sul mare azzurro, tetro e turrito, Castel dell'Ovo.

E poi ancora mare, mare a perdita d'occhio... Anche quest'angolo di paradiso, come più volte Mergellina è stata chiamata, ha la sua leggenda, leggenda di amore e di morte i cui protagonisti sono una sirena e un modesto pescatore. A quest'ultimo appunto si vuole che il luogo debba il suo nome, al giovane impetuoso e ardente che, avendo visto in una notte di plenilunio una sirena, se ne innamorò perdutamente. Secondo un'antica leggenda riportata da Matilde Serao, questa ammaliatrice ritornava di tanto in tanto per rivedere il suo amoroso per poi dileguarsi quando questi cercava di seguirla nell'azzurro mare di Posillipo. Appunto per tentare di raggiungere a tutti i costi la sua amata il pescatore, pazzo d'amore, una sera nuotò fino all'esaurimento delle forze ed annegò. La bellezza di questo luogo fu vantata da Plinio, Seneca, Svetonio, Tacito, Silio Italico, Stazio e dallo stesso Virgilio, tanto innamorato di questo lembo di mare e di cielo che volle comporre le Georgiche. Da Giovanni Boccaccio a Ja­copo Sannazzaro, il fedelissimo di Federico d'Aragona, sino a Goethe, Grimm, Goudar, a Gabriele D'Annunzio e Vittoria Aganoor Pompili, scrit­tori e poeti cantarono la bellezza di Mergellina.

Nel secolo XIII la località era chiamata Mìrlinum e nel secolo XV Mergoglino o Merguglino, e questo ad ogni modo era il nome di una torre che stava sulla riva del mare e dalla quale un anonimo cronista quattro­centesco vuole che avesse inizio la fuga di Vannella Gaetani di Traietto: certo è che nel periodo aragonese questa parte del Borgo di Chiaja ve­niva chiamato Mergoglino. Secondo il Martorelli il significato del nome sarebbe quello di sito « molto gradito agli smergi », mentre il Capaccio suppone che derivi dal nome « megari » dato all'isolotto di Castel del-l'Ovo, che equivarrebbe al mergum latino, che significa « smergo » o uccello acquatico. Il mergurus, vale a dire il piccolo colombo di mare, potrebbe darci la soluzione del quesito: il diminutivo di mergus, usato dai pescatori che si imbarcavano su questa spiaggia, un po' per corruzione un po' per diminuzione si sarebbe trasformato in Mergulinus e indi Mergoglino.

Al termine di via Mergellina, a destra, si può imboccare via Orazio, con la quale inizia la moderna zona residenziale: un po' più avanti, sempre sulla destra, vi è la IV Funicolare, così chia­mata perché è la più recente delle quattro funicolari napoletane. Vediamo quindi di fronte a noi la Chiesa di Santa Maria del Parto, a cui si accede per un'erta scaletta.

Essa fu costruita agli inizi del secolo XVI dal poeta Jacopo Sanna­zaro, a cui re Federico d'Aragona, l'ultimo di questa famiglia che cinse la corona di Napoli, aveva donato un ameno appezzamento di terra proprio qui alle falde di Posillipo, chiamato il « Mergoglino ». Il poeta dedicò questa chiesa a quella Vergine che aveva cantata nel suo poema De Partii Virginis e la donò ai frati Serviti, detti anche Servi di Maria, un Ordine religioso fondato da sette gentiluomini toscani. La chiesa fu iniziata nel 1529 insieme al convento per i frati, ai quali il Sannazzaro, oltre a donare il terreno per l'edificazione del piccolo complesso monastico, assegnò an­che una rendita di trecento ducati. Per giungere davanti a questa chiesa bisogna salire, come abbiamo accennato, un'erta scalinata: la sua facciata non differisce da quella di una piccola parrocchia di campagna, nonostante sia stata rifatta da Giovan Carlo Mormile ed ancora una volta nel secolo scorso; su di essa spiccano i due tondi, che avrebbero gran bisogno di restauro con le fattezze di  Federico d'Aragona e di Jacopo  Sannazzaro.

La chiesa è divisa in due piani, uno inferiore dedicato alla Vergine, senza alcun interesse, e uno superiore chiamato anche di San Nazario dal nome del poeta. In quello inferiore, vi è sull'altare una effige della Ver­gine protettrice delle partorienti. La chiesa superiore è ad unica navata; vi si nota un quadro raffigurante San Michele, che è stranamente noto come « il diavolo di Mergellina ». Esso ci mostra un giovane bellissimo che calpesta il diavolo, al quale il pittore, Leonardo da Pistoia, ha dato una magnifica testa di donna. Il dipinto, secondo un'antica leggenda, adom­brerebbe la vittoria sulla tentazione del vescovo di Ariano Diomede Ca-rafa, divenuto in seguito cardinale. Di lui si sarebbe innamorato, incorri­sposta, una bella dama, e si vorrebbe ravvedere nella « femmina tenta­trice » Vittoria d'Avalos, il che sembra un po' azzardato data l'intemerata reputazione  di  questa  aristocratica  dama  napoletana.

Sul pavimento c'è la lastra sepolcrale del cardinale, che però non vi è sepolto, in quanto morì a fu inumato a Roma nel 1560. Vi è poi un'altro marmo sepolcrale di Fabrizio Manlio che raffigura un giovane che, se­condo la leggenda, innamorato di Mergellina, chiese di morire vedendola e di esservi sepolto. In questa chiesa si possono ancora ammirare alcune delle statue lignee del presepe di Giovanni da Nola.

Sull'altare maggiore campeggia un distico del Sannazzaro.

L'opera più importante che conserva questa chiesa è proprio alle spalle dell'altare maggiore: il Sepolcro del Sannazaro, veramente di grande rilievo artistico, un monumento che se non regge il paragone con quello di Ladislao in San Giovanni a Carbonara o quello di re Roberto in Santa Chiara, desta però l'ammirazione di chi l'osserva. Una gran base, con ai lati un Apollo e una Minerva che recano invece i nomi di David e Iudith e due maestose mensole reggono l'urna cineraria con il busto del poeta e due amorini ai lati. Tra queste due mensole vi è un quadro in rilievo sul quale campeggiano il dio Pane, Nettuno ed una Ninfa. Sulla base, tra due amorini e le armi del poeta vi è una iscrizione di Pietro Bembo.

Adornano il sepolcro alcune strane ligure, come un teschio « cor­nuto » e lo  stemma del poeta con lo  scacchiere a quadretti rossi e oro.

Difficile è stabilire l'esatta paternità di questa magnifica opera ma la finezza della sua fattura fa pensare ad un grande artista del tempo. Alla base si legge il presumibile nome dell'autore, che sarebbe un laico ser­vita, Giovanni Angelo Montorsoli da Poggibonsi che fu allievo di Miche­langelo. Questa attribuzione potrebbe essere avvalorata dal fatto che ef­fettivamente le due statue che sono ai lati, di Apollo e Minerva, sono michelangiolesche. Anche il Vasari è di questa idea, anzi aggiunge che con il frate servita collaborò Francesco Ferruccio da Fiesole, detto il Tadda; altri, invece attribuiscono l'opera a Michelangelo Santacroce. La cappella fu dipinta verso la fine del '600 ed il pittore Nicola Russo, forte del paganesimo insito nel monumento funerario, si mantenne in carattere di­pingendovi scene raffiguranti Venere, Il Parnaso e Mercurio e sulla facciata del coro la Grammatica, la Retorica, la Filosofia e l'Astrologia. Altri dipinti raffigurano la Storia di Rachele e l'Incontro del patriarca Abramo coi tre angeli.

Nell'edificio annesso alla chiesa furono raccolti dai buoni frati all'inizio dell'800 gli orfanelli del colera; molti morirono e furono sepolti insieme ai loro benefattori.

Sotto la chiesa di Santa Maria del Parto vi era la Villa del famoso impresario Domenico Barbaja, nella quale dimorò a lungo Rossini, l'epicureo compositore che nella sua imparziale passione per le belle donne e la buona cucina finiva per trovare ben poco tempo da dedicare alla musica.

Subito a destra della chiesa troviamo il Palazzo del Reggente Andrea di Gennaro della nobile famiglia del Sedile di Porto, con un bel loggiato: appartenevano al complesso alcune grotte che si diceva fossero collegate col mare.

Questo itinerario termina qui all'inizio di via Posillipo, ma c'è ancora da ricordare alla fine di via Caracciolo, la Fontana del Sebeto.

Eretta per desiderio del viceré Manuel Zunica y Fonseca nel 1635, l'opera è di Carlo Fanzago, che volle raffigurare il fiumiciattolo napoletano nella gigantesca statua di un « barbone » adagiato su una grande valva di conchiglia sotto un arco; ai lati due tritoni davano acqua. La fontana è stata restaurata nel tempo. Il fiume Sebeto, del quale ci parlò Papinio Stazio nelle sue Selve nonché molti altri autori dell'antichità, adornò con la sua immagine allegorica persino alcune monete del V secolo a.C... Dopo molti secoli Giovanni Boccaccio nel De Flumìnibus ne parlò, ma disse di aon ricordare di averlo visto, e così il Pontano e il Sannazzaro; riteniamo però, che attualmente tutti siano d'accordo nel ravvisare il Sebeto in quel più che modesto fiumiciattolo che, nato dal Monte Somma scende al mare passando sotto una strada che porta all'Autostrada del Sole.

Piazza Santa Caterina - Via Filangieri - Rampe Brancaccio - Piazzetta Mondragone - Via Nicotera - Via Vittoria Colonna - Piazza Amedeo - Via Martucci - Via Crispi - Parco Margherita - Largo Ferrandina a Chiaja - Via Cavallerizza - Via Carlo Poerio - Largo Ascensione - Via Piscicelli - Arco Mirelli - Via Michelangelo Schipa.

Questo itinerario potrebbe dirsi quello del centro elegante di Napoli, poiché nelle vie che attraverseremo vi sono i migliori negozi e caffè, i più eleganti locali della città. Da piazza Santa Caterina inizia la via Gaetano Filangieri, intitolata all'autore della « Scienza della Legislazione » che vi abitò. Sul primo pa­lazzo che è poi il Palazzo Filangieri, a destra una lapide ricorda che vi morì il musicista Francesco Saverio Mercadante. Sulla nostra sinistra, dopo una piazzetta intitolata a Giulio Rodino, inizia la caratteristica via Cavallerizza. Continuando lungo via Filangieri troviamo l'imponente Palazzo Mannaiuolo, all'angolo con l'ampia gradinata chiamata Rampe Brancaccio, il modesto succedaneo napoletano della romana Trinità dei Monti, che tut­tavia è stata negli ultimi anni usata per esposizioni di pit­tura moderna. Essa porta a queste rampe che prendono il nome dalla omonima illustre famiglia napoletana che tra la piazzetta Mondragone e la via dei Mille possedeva   immensi giardini.

Salendo queste rampe, si può giungere o a via Giovanni Nicotera — la strada che passa sul ponte di Chiaja —, o, dopo la piazzetta Mondragone, al Corso Vittorio Emanuele, nei pressi del Palazzo Cariati. Dopo questa gradinata la strada cambia il nome in quello di via dei Mille, in ricordo della fa­mosa spedizione che unì il regno di Napoli a quello d'Italia. Questa elegante arteria fu voluta appunto da Garibaldi, ma la sua costruzione fu iniziata soltanto nel 1885 con l'esproprio di alcuni giardini.

Il primo edificio a destra è il Palazzo Spinelli, oggi proprietà di una banca; vi abitò il musicista napoletano Enrico De Leva che, insieme a Salvatore Di Giacomo compose tante canzoni napoletane divenute oggi parte del repertorio classico. Vi era un tempo la sede del Circolo Italo-Britannico. Sulla destra segue via Vetriera che conduce anch'essa alle Rampe Brancaccio; quindi il Palazzo Leonetti, dopo il quale si apre un'altra stradina, il vico Vasto a Chiaja, dal nome del bel Palazzo che ora incon­treremo appartenuto ai marchesi d'Avalos del Vasto, che con­duce al Largo Proto, dal cognome del duca di Maddaloni che qui aveva alcune proprietà. Sulla sinistra della nostra strada si apre invece la via dedicata al patriota Nicola Nisco che per aver partecipato ai moti del 1848 dovè scontare molti anni di galera: compose la « Storia d'Italia », che gli fu commissionata da Umberto I.

Il Palazzo d'Avalos, appartenuto all'illustre famiglia, tanto legata alla storia napoletana del periodo aragonese e spagnolo, aveva in origine un portone con magnifici battenti in bronzo che si vuole imitassero quelli del Pantheon. Nel secolo XVIII fu restaurato nella forma oggi esistente dal­l'architetto Mario Gioffredo che vi creò un'ampia loggia sorretta da quattro colonne in marmo bianco sull'ingresso. Alla fine del secolo scorso nell'ap­partamento nobile, si potevano ancora ammirare il letto cinquecentesco di Vittoria Colonna ed alcuni arazzi regalati da Carlo V al marchese di Pescara in ringraziamento per i servigi che gli aveva resi nella battaglia di Pavia, dove nel 1525, il gentiluomo era riuscito a far prigioniero il re di Francia. I modelli dei meravigliosi arazzi erano stati disegnati dal Tiziano mentre il Tintoretto ne avrebbe curati gli ornati; nel 1882 la nobile famiglia li regalò allo Stato ed oggi sono al museo di Capodimonte. Verso il 1850 il grande palazzo fu trasformato in villa, anche perché questa zona era in quel tempo ancora campagna e fu recintato da magnifici cancelli ed inferriate, opera di Achille Pulii.

Segue quello che fu il Palazzo Carafa di Roccella, ora in completo abbandono, preda della attuale speculazione edilizia e vittima della burocrazia. Semidistrutto, non può essere rico­struito né ci si decide ad abbatterlo perché era monumento nazionale.

Di questo palazzo si hanno notizie sin dal 1668, quando il principe Francesco de' Sangro di Sanseverino costruì su una collinetta comprata dai cappuccini, un palazzetto che diede in dote alla figlia Antonia andata sposa a Giuseppe Carafa duca di Bruzzano, vedovo di donna Ippolita Requesens d'Aragona. Nel 1775 l'edificio fu restaurato dalla principessa Ippolita di Roccella e la masseria che vi era annessa fu trasformata in magnifici giar­dini. Il palazzo fu sempre dei Carafa, ma nel 1885 la principessa Lucrezia Pignatelli, vedova di Vincenzo Maria Carafa, vendette al barone Giuseppe Treves i giardini che furono nel tempo rivenduti per l'edificazione di ville e palazzi dopo l'apertura di quell'elegante strada intitolata alla regina Mar­gherita di Savoia. Nel 1889 i Carafa vendettero una parte del terreno con­finante col palazzo d'Avalos. Nel 1813 il palazzo fu restaurato dall'archi­tetto Errichelli : esso aveva dapprima un imponente e pregiato portale in marmo che presentava, sino alla demolizione, due corpi avanzati ai lati. Si ritiene che l'architetto fosse Luca Vecchioni, un coadiutore del Vanvitelli, che lavorò anche alla costruzione del monastero di San Marcellino in collaborazione con Mario Gioffredo e con Gaetano Pallante e col Vanvitelli alla progettazione di San Vincenzo e San Gennaro dei Poveri: quindi il palazzo era decisamente di scuola vanvitelliana. Di fronte vi è la moderna via dedicata a Giosuè Carducci che giunge alla Riviera inter­secando il prolungamento  di via Cavallerizza.

Segue la Chiesa di Santa Teresa a Chiaja, del secolo XVII: il monastero, già esistente, era dedicato alla Santa ed apparte­neva  ai frati  Carmelitani  Scalzi  al  borgo  di  Chiaja.

I frati, avendo ricevuto un lascito ed un terreno, costruirono l'attuale chiesa, che fu ampliata alla fine del '600 insieme al convento annesso ad opera dell'architetto Cosimo Fanzago con un altro lascito offerto da donna Isabella Mastrogiudice ed aiuti in danaro ed agevolazioni dei viceré conte di Ognatte e conte di Penaranda. Nel 1750 i carmelitani cedettero alcuni lo­cali attigui al convento ad un quartiere di guardie del Corpo, e nel 1778 fecero ampliare il convento ad opera di Rocco Casino; furono però co­stretti a cedere i giardini ad un quartiere di un reggimento di Ussari. Alla chiesa si accede per un'altra scala a due rampe; essa non è bella, ma ha nell'interno dei notevoli dipinti di Luca Giordano raffiguranti Santa Teresa  San  Pietro  d'Alcantara,  una Natività  e Sant'Anna  che  istruisce Maria con San Gioacchino. La statua della Santa in marmo è opera del Fanzago.

Di fronte alla chiesa di Santa Teresa, sulla sinistra di via dei Mille, si apre la strada intitolata a Mariano d'Ayala nella quale abitò e visse lo storico e letterato napoletano, ufficiale borbonico stimato ed apprezzato dal generale Filangieri; fu co­stretto a dimettersi dall'esercito per le sue idee liberali, ma rientrato a Napoli nel 1860 gli fu affidata la direzione della « Gaz­zetta Militare » e fu nominato Comandante della Guardia Nazio­nale. In questa strada si nota un Palazzo del secolo XVIII con un grazioso portale dell'epoca: costruito dai de Vargas y Machuca, principi di Casapesenna, è attualmente di proprietà dei marchesi Buccino Grimaldi, dai quali è stato restaurato anni or sono.

Dopo via Mariano d'Ayala, via dei Mille prende il nome di via Vittoria Colonna, in omaggio alla poetessa consorte del marchese di Pescara il cui palazzo, nelle vicinanze, abbiamo già esaminato. Subito a sinistra vi è il Palazzo Scarpetta, costruito dal grande attore e commediografo, che è ricordato da una la­pide. Più avanti, nel grande edifìcio, rimodernato di recente, che fa angolo con la piazza Amedeo, abitò lungamente l'eminente meridionalista Giustino Fortunato: esso accolse quindi storici, letterati e scrittori insigni, che vi convenivano per visitare l'il­lustre amico.

Via Vittoria Colonna termina in Piazza Amedeo, dalla quale partono a sinistra via Martucci, a destra via Francesco Crispi e, nella stessa direzione dalla quale siamo venuti, ma in salita, via del Parco Margherita. Nella piazza vi è una stazione della Me­tropolitana sulla quale si affaccia di fianco il Palazzo Balsorano, che è stato sino a poco tempo fa sede dell'Istituto del Sacro Cuore ed è ora abbandonato a se stesso in quanto non si sa se quest'Ordine religioso sia riuscito a perfezionarne la vendita.

I conti Balsorano, che erano i Lefebure, oriundi della Francia, ebbero qui una residenza lussuosa ed elegante: era in effetti più che un palazzo una villa con un gran parco che giungeva sino al Corso Vittorio Ema­nuele, del quale ancora si può ammirare una parte. Prima, nel secolo XVI, la Villa era del letterato napoletano Giovan Battista Manzo, e vi fu ospite nel 1592 Torquato Tasso. Appunto in ricordo di questo soggiorno l'abate Vito Fornari fece apporre sulla facciata una sua epigrafe in ricordo del III centenario della morte del poeta. Il Tasso proveniva da una permanenza presso la famiglia del principe di Conca che Io aveva tenuto quasi pri­gioniero per fargli terminare la sua « Gerusalemme Conquistata ». In se­guito passarono per i saloni della villa Manzo altri illustri personaggi: nel 1625 Giovan Battista Marino e nel 1638 il poeta inglese Milton. Quindi può dirsi che questo antico « casino di campagna » rappresenti tutto un ricordo della Napoli letteraria dei secoli passati. Vi convennero altri let­terati napoletani, come Ascanio Pignatelli, Pietro Antonio Caracciolo ed uomini di cultura come il duca di Termoli, il duca di Nocera, il duca di Castel di Sangro, il marchese Sant'Agata, il principe di Venosa, il car­dinale Gesualdo.

Giunti a questo punto, se imbocchiamo la via Martucci ritorniamo a Santa Maria in Portico, che già abbiamo vista salendo dalla Riviera; via Crispi e via del Parco Margherita portano entrambe al Corso Vittorio Emanuele.

Ritorniamo per il momento alla zona compresa fra via dei Mille e la Riviera, a via Cavallerizza che, come abbiamo visto, comincia dal largo Rodino svolgendo un percorso pressappoco parallelo a via dei Mille e termina in largo Ferrandina a Chiaja. Ancora più verso il mare, seguono in parallelo la via Alabardieri che porta anch'essa in largo Ferrandina e via Carlo Poerio, della quale abbiamo parlato quando abbiamo esaminato la Riviera. Il tracciato di via Cavallerizza è molto antico, poiché probabil­mente faceva parte della strada che portava a Piedigrotta e quindi a Pozzuoli.

Il suo nome è dovuto al fatto che vi era una caserma di Cavalleria che ha ospitato i gloriosi Reggimenti Firenze Cavalleria ed Aosta, distin­tisi in numerose azioni di guerra : questa stradina è simpatica per le sue botteguccie dalle più svariate attività commerciali e artigianali.

Essa è tagliata sulla sinistra da via Bisignano, proseguimento del vico Satriano che qui termina dopo aver intersecato la via Carlo Poerio e la via Alabardieri. In questa via Cavallerizza, breve ed angusta, notiamo il Palazzo Bile. Giunti nel largo Fer­randina troviamo a sinistra il Palazzo Torella e di fronte i rin­novati locali della vecchia Caserma di Cavalleria, oggi sede di una scuola.

Questi antichi locali, di cui oggi quasi non rimane che la storia, ci ricordano che qui vi era la Villa di Alfonso II d'Aragona che passò poi al viceré cardinale Prospero Colonna. Questi, uno di quei porporati che poco onorano la santità di tanti altri, era vescovo quando morì Giulio II nel 1512; fu allora che decise di combattere la... Chiesa, diventando l'an­tesignano di coloro che vollero battersi contro il potere temporale dei papi. Nel 1527 quindi partecipò attivamente al Sacco di Roma e volle egli stesso attizzare il fuoco a Villa Medici e ad altri palazzi pontifici nono­stante gli anatemi del pontefice Clemente VII. Dopo essersi così distinto (!), per sfuggire alle ire del papa chiese protezione a Carlo V, che lo nominò Luogotenente Generale del Regno in sostituzione del defunto principe di Orange Filiberto di Chalon. Fu poi nominato viceré a Napoli, dove non fu accolto con simpatia a causa dei suoi ben noti trascorsi. Dopo il suo ar­rivo le cose non migliorarono, anzi si inimicò tutto il popolo, ricchi e poveri, in quanto, per ingraziarsi il suo imperatore, che si era impegolato nella guerra contro i turchi, ogni sistema era buono per spillar danaro. I napoletani erano così stanchi dei suoi soprusi che mandarono un'amba­sceria all'imperatore con la supplica di liberarli dall'odioso viceré. Sembra che l'ambasceria non avesse successo, ma i napoletani furono ugualmente liberati dalla presenza dell'esoso cardinale. Questi, dilettandosi di giardi­naggio, amava mostrare ai suoi visitatori i magnifici giardini della sua villa: si raccontò che, appunto in una di queste passeggiate, dopo aver mangiato un fico appena colto, stramazzasse ai piedi di un suo ospite, il conte di Policastro Pietro Antonio Carata. Secondo alcuni scrittori del­l'epoca, come il Parrino, il frutto sarebbe stato avvelenato precedentemente ad iniziativa di un servo francese prezzolato da alcuni nobili che avevano tutto l'interesse di togliersi di torno il viceré. Un altro scrittore dell'epoca, invece, avanzò l'idea che il cardinale fosse stato addirittura avvelenato da una donna da lui amata che lo aveva scacciato: si disse anche che egli avesse corteggiato Vittoria Colonna quando la marchesa di Pescara abi­tava nel vicino palazzo d'Avalos. Il suo cadavere fu tumulato nella chiesa di Sant'Anna de' Lombardi e quando si decise di trasferirlo non si trovò che polvere, il che avvalorò i sospetti di avvelenamento che erano stati ventilati all'epoca della morte. La villa passò poi a Pedro de Toledo, che la trasformò in palazzo e quindi al figlio Garcia, che la abbellì con un magnifico parco. Alla morte di quest'ultimo la villa decadde e alla fine del secolo XVII fu trasformata in quartiere e, prima che diventasse caserma di cavalleria, in epoca borbonica, vi alloggiò un reggimento di svizzeri e un reggimento di ussari.

Il gran palazzo che confina con le due stradine parallele di via Ca­vallerizza e via Alabardieri, appartenne al principe Giuseppe Caracciolo di Torella, che aveva sposato una nipote di Gioacchino Murat. Il principe fu anche sindaco di Napoli, ma in seguito a peripezie politiche subì dis­sesti finanziari che lo costrinsero a ritirarsi a vita privata in campagna. Il palazzo passò poi al barone Emanuele Calcagno che ne fece una resi­denza sontuosa e mondana: tra coloro che abitarono qui ricordiamo Wil­liam Tempie, che vi presentò all'alta società napoletana il famoso statista inglese Guglielmo Gladstone che a solo venticinque anni era già Ministro del Tesoro. Il Tempie non fece un favore ai Borbone poiché nelle sue famose « Lettere sulle persecuzioni del Governo borbonico » bollò di in­famia il loro modo di governare, definendolo « negazione di Dio ». Questo inglese viene ricordato anche per i suoi « Studi su Omero e sull'età ome­rica » che  si  ritengono iniziati a Napoli.

Via Cavallerizza incontra quindi via Nisco; di qui prose­guendo in linea retta, si taglia via Carducci, via San Pasquale e per via Santa Teresa a Chiaja, lasciando sulla destra via Ma­riano d'Ayala si giunge prima a via G. Bausan e poi a largo Ascensione, così denominato dalla bella Chiesa dell'Ascensione a Chiaja.

Sorta in mezzo alle paludi dette di Grasset dal nome del proprietario ,questa chiesa veniva anche chiamata dell'Ascensione in plaga neapolitana.

Eretta nel 1300, per conto di Nicola Alunno d'Alife Gran Cancel­liere del Regno di Roberto d'Angiò e intimo amico di questo sovrano, la chiesa fu officiata dai frati Celestini. Essa per intercessione degli an­gioini ebbe speciali indulgenze da Clemente VI, da Innocenzo VI, e da Urbano VI nel 1385, ma col tempo andò in rovina insieme al convento a causa del progressivo allontanamento dei monaci. Nel 1662 il conte di Mola Michele Vaaz volle rifarla per grazia ricevuta. Egli sognò, infatti, alla vigilia della festa dell'Ascensione, San Pietro del Morrone, papa Ce­lestino V, che lo invitava a restaurare la chiesa. Svegliatosi ed uscito dal suo palazzo che era nelle vicinanze, s'imbattè in un gruppo di guardie del viceré duca d'Ossuna che venivano ad arrestarlo per aver esportato del grano senza autorizzazione. Il duca fu molto lesto, e, riuscito a svinco­larsi, raggiunse la porta della chiesa e fu salvo per l'antico diritto d'asilo. Gli tornò allora alla mente il sogno della notte, ed in ringraziamento della grazia ricevuta promise ai buoni frati non solo di restaurare il tempio ma di dedicarlo al santo del quale portava il nome. La chiesa quindi non fu dedicata a Celestino V ma all'Arcangelo Michele, che si ammira in un bellissimo dipinto di Luca Giordano sull'altare Maggiore. Sull'altare destro un'altra opera dello stesso autore raffigura Sant'Anna e la Vergine; sul­l'altare sinistro un quadro del De Mura rappresenta Celestino V che ri­nunzia al papato. Il conte di Mola intese con quest'opera buona riparare al male che aveva fatto, ma il suo pentimento e la sua bontà furono di breve durata, in quanto ci racconta Fabio Colonna di Stigliano come : « presto egli si mostrasse assai cattivo promettitore, si che interveniva una transazione coi monaci nel 1655, nemmeno adempiuta dagli eredi, a giudi­carne dalle suppliche e dai ricorsi che negli anni seguenti l'Abate dirigeva al  Padre  Provinciale,  e  dalle liti  che  ne  nascevano ».

Nel 1645 fu ultimata la cupola della chiesa, e fu costruito poi il ve­stibolo di pietra che ne costituisce la facciata, opera del Fanzago, ove si può appunto leggere il dicatum a San Michele Arcangelo. L'interno a croce è piuttosto piccolo ed ha tre altari. Gli affreschi nei peducci della cupola raffiguranti pontefici ed evangelisti furono dipinti da Alfonso Spinga.

L'antico convento dei frati Celestini fu tempo dopo utilizzato come « quartiere » e vi  mise la  sua  scuderia la Gendarmeria Reale.

Dopo il largo Ascensione, via Piscicelli, che abbiamo già incontrata, riconduce a Santa Maria in Portico passando dietro villa Pignatelli ed il rione Sirignano. Qui si potrebbe risalire via Martucci per riprendere in piazza Amedeo l'itinerario al punto in cui l'abbiamo interrotto. Imbocchiamo ora via Crispi, dove, quasi di fronte all'Istituto del Sacro Cuore, di cui abbiamo par­lato, troviamo il Villino Colonna di Stigliano, attualmente sede di uffici del Banco di Napoli. Segue, sempre a sinistra, l'imponente Palazzo Nobile che fu sede per circa un quarto di secolo della Compagnia degli Illusi, un circolo fondato intorno al 1919, che aveva per scopo la promozione di manifestazioni letterarie, arti­stiche e culturali. La sua presidenza onoraria fu data a Bene­detto Croce, mentre il consiglio onorario fu costituito da perso­naggi illustri come Gabriele D'Annunzio, Salvatore Di Giacomo, Francesco Cilea, Matilde Serao, Vincenzo Gemito e Francesco Torraca.

L'edificio, costruito agli inizi di questo secolo, tu adibito prima ad albergo e chiamato West End; vi abitò per moltissimo tempo il famoso marchese del Carretto, che fu sindaco di Napoli e con Nicola Amore ed il duca di San Donato è rimasto nella storia come uno dei migliori am­ministratori della città.

Segue, sempre sulla sinistra, il Villino Ruffo, che fu co­struito da Beniamino Ruffo di Calabria, padre di quel Fulco che, con Francesco Baracca e Gabriele D'Annunzio fu valoroso aviatore nella I guerra mondiale. Di fronte a questa villa, attual­mente residenza del Consolato della Germania Federale, vi è l'Istituto Francese di Grenoble. Più avanti a sinistra vediamo Villa Lauro, costruita dalla famiglia Miccio e passata poi al principe di Piedimonte Nicola Gaetani il cui figlio, Onorato, è passato alla storia per essere stato di guardia al dittatore Gari­baldi il 7 settembre del 1860 al Palazzo d'Angri al Largo dello Spirito Santo. Il principe Nicola fu anche deputato e senatore del regno; alla sua morte la villa passò in eredità alla figlia duchessa di Bovino.

Sempre proseguendo troviamo un quadrivio, o meglio via Crispi è intersecata da via Pontano, che a destra conduce al Corso Vittorio Emanuele, ed a sinistra scende per un breve tratto verso la Riviera.

Vi è poi il Palazzo Filangieri, appartenuto al conte Riccardo, che fu uno dei più eminenti storici napoletani.

In  questa  zona vi erano nel secolo XVI la villa ed i giardini della poetessa napoletana Laura Terracina,   molto amica del poeta Luigi Tansillo e di Vittoria Colonna;   per onorarla fu poi  dedicata a lei una  piaz­zetta.

Proseguendo per la nostra strada incontriamo sulla destra il Palazzo Crispi, appartenuto al grande statista italiano Fran­cesco Crispi che vi morì nel 1901 e fu sepolto poi nel Pantheon di San Domenico a Palermo.

Questo palazzetto, oggi sede del Consolato d'Inghilterra, è legato allo storico personaggio che ne fu il proprietario ed alla figlia Giuseppina che andò sposa a Francesco Buonanno, principe di  Linguaglossa.

La via Crispi continua, ma dopo aver intersecato la via del­l'Arco Mirelli, che come abbiamo già visto conduce alla Riviera o in salita al Corso Vittorio Emanuele, cambia nome prendendo

quello di Michelangelo Schipa, eminente storico e letterato na­poletano. Questo tratto è completamente moderno e l'unica cosa da rilevare è sulla sinistra il vecchio Ospedale di Loreto.

Ritornando quindi in piazza Amedeo imbocchiamo il Parco Margherita, una zona che era un tempo tutta verde di giardini, mentre attualmente è gremita di costruzioni addossate le une alle altre. All'inizio sulla sinistra troviamo la stazione della funicolare che conduce al Vomero, con una fermata al Corso Vittorio Emanuele ed un'altra alla Santarella. Sulla destra in­contriamo la Chiesa dei cattolici tedeschi, chiamata di Santa Maria dell'Anima ed infine, dopo aver superato ancora a destra il grazioso Villino Galante, giungiamo al Corso Vittorio Emanuele.

Vico Rotto S. Carlo - Via Santa Brigida - I Quartieri - Montecalvario - Magnocavallo - Piazza Matteotti - Via Cesare Battisti -Piazza della Carità - La Pignasecca - Via Tommaso Caravita -Via Forno Vecchio - Quadrivio di Maddaloni - Via Roma - Piazza VII Settembre (Largo dello Spirito Santo) - Via Tarsia e Via Latilla - Via Cisterna dell'Olio - Piazza Dante.

Ripartiremo nuovamente dalla nostra ormai ben nota Piazza Trieste e Trento per dirigerci, questa volta, lungo quella strada tanto cara al cuore dei napoletani che, toponomasticamente designata come via Roma, resta solo e sempre Toledo. Invano si è cercato, con l'Unità d'Italia, di mutarne il nome: i napo­letani insisteranno sempre nel chiamarla col nome del migliore viceré  di  Napoli,  don  Pedro  de  Toledo.

Questi gentiluomo spagnolo, che seppe dimostrare, quando fu neces­sario, un ferreo polso ed un'autorevole personalità, affrontò con impegno ed entusiasmo il risanamento della giustizia e la sistemazione urbanistica della capitale. Oltre ai lavori di stretta utilità, come la pavimentazione di alcune strade, nell'imponente quadro dei lavori di ampliamento e di si­stemazione da lui intrapresi, il viceré dispose l'apertura di questa nuova importante arteria, destinata ad unire in linea retta e dignitosamente il vecchio centro della città con il palazzo vicereale ed il periferico borgo di Chiaja, che si arricchiva sempre di più di belle ville e palazzi magna­tizi. La strada, che dal suo costruttore prese il nome di via Toledo, a dif­ferenza di come si presenta oggi, fu senza marciapiedi sino ai principi del secolo scorso ed essendo punto di confluenza di strade secondarie che scendevano dalla collina di S. Eramo, l'attuale Vomero, purtroppo quando pioveva era invasa da un vero torrente d'acqua. Dopo l'apertura di via Toledo la zona a monte, dove prima non esisteva che qualche monastero, si popolò molto rapidamente, tanto più che il governo vicereale vi fece costruire delle caserme, o piuttosto degli edifici adibiti ad alloggio dei mi­litari spagnoli, che venivano chiamati « quartieri », nome che ancora com­prende in un'unica denominazione questo insieme di vicoli. Intorno a que­sto ambiente di militari, allora quasi tutti mercenari, gente della peggiore risma, cominciò a formarsi una cerchia di sfruttatori di ancor peggior fama e costumi, di prostitute e tenutari di bordelli, e il luogo divenne quindi ben presto malfamato, a causa delle continue risse, ruberie ed as­sassina che vi si perpetravano.

La prima delle strade che sale verso questi quartieri o vicoli di Toledo è via Nardones, che invece dovrebbe chiamarsi Mardones, poiché il suo nome è quello di un nobile spagnolo che vi aveva la  sua opulenta dimora.

Su un palazzetto a sinistra una lapide ricorda che vi abitò Gaetano Donizetti e per rimanere in tema di musica noteremo che nel primo pa­lazzo di questa salita ha sede la Fondazione Alberto Curci, fondata dal­l'insigne maestro nell'intento di offrire ai napoletani dei buoni concerti di musica da camera.

Imboccando via Roma, sulla destra troviamo subito lo sto­rico Palazzo  Cirella,  così chiamato perché appartenuto alla famiglia Catalano Gonzaga che aveva il titolo di duchi di Cirella: esso fa parte della nostra storia per aver partecipato attivamente ai moti rivoluzionari del 1848.

A Napoli ancora si suol dire « è succiesso 'o 48 » per indicare che è successo un gran... « casotto » come direbbe qualche settentrionale, tanto è ancora vivo il ricordo di quei tragici giorni in cui il sangue rigò le no­stre strade. Vi furono delle dimostrazioni a Toledo, da piazza della Carità fin qui e furono erette barricate dal popolo deciso a perdere la vita piut­tosto che a cedere. Questo palazzo, oltre che dal duca Pasquale Cata­lano Gonzaga e dai figli era abitato anche da artisti del Teatro San Carlo; tutti i Catalano, liberali, parteciparono attivamente alla sommossa e il padre, Gennaro, vi perse la vita. Infatti i liberali riunitisi nel loro appar­tamento capeggiati dal fratello del duca, Pietro, avevano preso posizione sui balconi del palazzo trincerandosi con materassi e coperte imbottite messe davanti alle ringhiere. Tutto l'eroismo di questi piccoli gruppi di resistenza non poteva naturalmente, impressionare il ben armato batta­glione di svizzeri che costituiva la guardia del re, e quantunque si unis­sero ai liberali napoletani alcuni francesi, ballerini del Teatro San Carlo, le forze governative finirono  con  l'avere la meglio.

Il vicolo a destra è il vico Rotto San Carlo o Angiporto Galleria, sul quale si apre uno degli ingressi della Galleria: il nome di questa stradina fino al 1850 era vico Chianche, ma la piazzetta in cui sfocia è intitolata a Matilde Serao perché vi ebbe sede fino a poco tempo fa il quotidiano napoletano « Il Mattino ». La grande scrittrice e giornalista collaborò inoltre anche al « Giorno » che aveva i suoi uffici proprio nella Galleria.

Pochi metri più avanti, sempre sulla destra, troviamo l'in­gresso alla Galleria Umberto I costruita nel 1887 su disegno di Emanuele Rocco. Come si è già accennato, di ingressi ve ne sono cinque, e precisamente oltre a questo da via Roma e quello da via Angiporto Galleria, uno da via Santa Brigida, un altro da via Verdi ed un quinto da via San Carlo, di fronte all'omonimo Teatro.

La Galleria, decorata da Ernesto Di Mauro, misura m. 121 x 63 x 146,80; paragonandola a quella di Milano che è m. 196, risulta molto più piccola ed è senz'altro meno elegante e meno importante dal punto di vista sto­rico. La larghezza è di m. 15, l'altezza di m. 34,50. La cupola di ferro e di vetro alta m .56,70, opera di Paolo Boubée è decorata da angeli in rame dorato.

Oltre a un paio di cinematografi, vi è in Galleria un vecchio e glo­rioso teatro di varietà, lo storico — così desideriamo chiamarlo — Salone Margherita che fu il vecchio tempio del Varietà a Napoli e fu inaugurato nello stesso anno della nostra Galleria. Il teatro, costruito come salone di concerti, divenne ben presto un Café-Chantant dove gli spettatori, con­sumando un « sorbetto », potevano assistere ad un programma vario: esso fu però un locale per elegantoni, in quanto il biglietto per entrarvi co­stava ben due lire; l'orchestra stabile aveva tra i suoi orchestrali nomi di riguardo come quello di Ferdinando Mugnone, il fratello del grande di­rettore Leopoldo, ed il maestro concertatore tedesco Robert Felsmann; il palchettaio, poi, era un nobile decaduto, il marchese di Franco. Il locale fu quindi frequentato da eminenti personaggi di quell'epoca, da Di Gia­como a Scarfoglio, da Ferdinando Russo a Roberto Bracco, dal maestro De Leva al maestro Mario Costa, dal ministro Crispi al principe ereditario di Casa Savoia, a Gabriele D'Annunzio che vi conobbe la graziosa france­sina Pierrette Butterfly, presentatagli da Edoardo Scarfoglio. Il periodo felice del Margherita durò fino al 1912; dopo, infatti, cominciò a decadere per la concorrenza di  altri  locali.

Ritornati su via Roma vediamo, proprio di fronte all'ingresso della Galleria il maestoso Palazzo Berto, già Barbaja: questo Barbaja fu un noto impresario del teatro San Carlo, il cui nome è legato alla storia del teatro lirico italiano oltre che alla storia napoletana del periodo borbonico.

L'impresario ospitò in questa sua dimora il musicista Gioacchino Ros­sini,  che  vi  compose,  o meglio vi  terminò,  alcune  sue  opere.

Circolavano in quel tempo varie storielle sulla pigrizia del maestro che amava più i divertimenti che il lavoro e quindi si raccontava che il Barbaja fosse costretto a relegarlo in un grande salone perché si dedicasse al pianoforte. Questo palazzo è legato anche al ricordo di un noto gior­nale di epoca borbonica, « l'Omnibus » e del suo direttore Vincenzo Corelli, che fu il padre di Achille. Le terrazze di questo edificio, poi, affac­ciavano sul Palazzo Tornacela, appartenuto prima al conte di Mola Simone Vaez; infatti le scale a sinistra della stazione della funicolare che trove­remo più avanti, in piazzetta Duca d'Aosta, sono intitolate al conte di Mola, così come la strada che porta a Cariati. Il palazzo Barbaja fu ri­modernato dal Vanvitelli e fu acquistato dai Berio: divenne allora un centro di cultura per merito del marchese Giovan Domenico e del figlio Francesco che vi raccolsero una ricca biblioteca invidiata persino dai Cassano e dai Taccone che possedevano raccolte di libri importanti. Oltre alla biblioteca, sempre aperta ai letterati e agli studiosi, questi proprie­tari avevano una pinacoteca e statue di notevoli interesse come un gruppo del Canova raffigurante Amore e Psiche. Il marchese ebbe quattro figlie delle quali Carolina sposò il duca d'Ascoli, Francesca il conte Statella, Laura il marchese Imperiali e Giuseppina, ultima figliola, dobbiamo rite­nere che non si maritasse: parlarono di questa dimora patrizia il Canova e lo Stendhal. L'edificio nei suoi archi vanvitelliani aveva interessanti ne­gozi e botteghe alcuni dei quali, pur non desiderando fare pubblicità, dob­biamo dire che durano sin dal lontano 1848.

Dopo aver incontrato a sinistra la piazzetta Duca d'Aosta con la stazione di una delle funicolari che conducono al Vomero, troviamo a destra via Santa Brigida che prende il nome dal­l'omonimo tempio. La Chiesa di Santa Brigida fu costruita nel 1640, e dedicata alla santa svedese che fu regina del suo paese e venne a Napoli durante il regno di Giovanna I d'Angiò.

Riteniamo quindi di dover fare una piccola deviazione per intratte­nerci brevemente su questa chiesa. Fu dapprima costruito nel 1610 un oratorio e poi questo tempio che è stato restaurato nel 1856. L'interno, ad unica navata, ha alcuni affreschi di Paolo Vetri raffiguranti scene della vita della santa: la cupola, per l'abilità prospettica di Luca Giordano, sem­bra molto più alta di quella che è, mentre quando fu costruita, data la vicinanza con Castel Nuovo, per ragioni militari le fu consentita un'al­tezza massima di diciotto palmi napoletani, un po' meno di cinque metri. L'affresco, di Luca Giordano del 1678, raffigura l'Apoteosi di Santa Brigida; nei peducci vi sono altri dipinti dello stesso artista. Sempre di questo pit­tore è un San Filippo nella prima cappella a destra, mentre sull'altare maggiore vi è un dipinto di Giacomo Farelli raffigurante Santa Brigida in adorazione, a destra un Sant'Antonio di Massimo Stanzione ed a sinistra un altro San Nicola di Luca Giordano del 1655; una lapide nel pavimento ricorda che qui fu sepolto il 13 gennaio 1705 il grande pittore Luca Gior­dano. Da ricordare ancora nella prima cappella a sinistra un altro dipinto del Giordano raffigurante Sant'Anna e nella sagrestia alcuni affreschi- di Giuseppe Simonelli.

Via Santa Brigida procede e, dopo aver intersecato via Verdi, giunge a piazza Municipio: noi invece la risaliamo lasciando sulla sinistra uno dei quattro ingressi alla Galleria Umberto I, di cui abbiamo già parlato, per tornare sulla nostra Toledo. Qui troviamo ben presto, a destra, il Palazzo  Colonna  di  Stigliano attualmente  sede  di un'importante banca, la Commerciale  Ita­liana.

Questo è forse l'edificio più interessante tra quelli esistenti in via Toledo ed uno dei più belli di tutta la città. Costruito su disegno di Co­simo Fanzago per il duca di Ostuni, passò ben presto al mercante fiam­mingo Vanderveiden che approfittando dello sperpero del nobile nel gioco, gliene propose l'acquisto. Questo commerciante era molto ricco ed i suoi figli fecero degli ottimi matrimoni: Ferdinando sposò una Piccolomini, la figlia Elisabetta il marchese di Anzi don Carlo Carata e la figliola Giovanna il principe di Sonnino don Giuliano Colonna, che ebbe poi anche il pre­dicato di Stigliano per una successione dai Carata. Nel 1830 la vedova Co­lonna, donna Cecilia Ruffo, ebbe evidentemente dei dissesti finanziari per­ché il palazzo fu espropriato, ed ella rimase proprietaria soltanto del­l'ultimo piano. Proprietario dell'appartamento verso piazza Municipio fu il duca del Gallo, che aveva sposato una Colonna, e acquirenti degli altri appartamenti furono i De Picolellis ed i fratelli Forquet, bancari che si unirono in società con i Giusso. Allora il palazzo fu abbellito dall'archi­tetto Guglielmo Turi; nel 1898, poi, la famiglia Forquet vendette il suo appartamento alla banca che era stata fondata da pochi anni a Milano e pian piano questo istituto di credito finì con l'acquistare l'intero palazzo e ne affidò poi il restauro all'architetto Platania che trasformò il cortile nell'attuale salone. Nelle sale dell'edificio si possono ammirare dipinti di Giuseppe Cammarano raffiguranti l'Apoteosi di Saffo e La Fedeltà e alle pareti affreschi di Gennaro Maldarelli; la decorazione in stucchi è di Gen­naro Aveta su disegno del Turi.

Dopo via San Giacomo, che conduce in piazza del Municipio, segue, sempre a destra, il moderno Palazzo del Banco di Napoli, discreto esempio di architettura contemporanea. Compiuto nel 1939 per il quarto centenario di questo importante istituto di credito, esso è addossato al retro del Palazzo San Giacomo, che incontreremo in piazza del Municipio.

Il Banco di Napoli è l'istituto di credito più antico d'Italia, anche se ha avuta l'attuale denominazione dopo l'unione del regno di Napoli al Pie­monte : la sua storia comincia sotto il nome di Monte di Pietà, fondato nel lontano 1539; fu chiamato poi « del Popolo », « dello Spirito Santo », « di San Giacomo », « dei Poveri », e infine « del Salvatore » e nel 1808, per volere di Gioacchino Murat, si chiamò il Banco delle Due Sicilie. Nel 1926, con l'unificazione dell'emissione monetaria, divenne un istituto di cre­dito di diritto pubblico e intensificò la sua attività a vantaggio dell'eco­nomia nazionale. La direzione generale del Banco di Napoli ha qui la sua sede centrale, nonché alcune sezioni di credito agrario e fondiario; le centinaia di filiali che ha in Italia e gli uffici e le rappresentanze in tutte le parti del mondo lo fanno ritenere il primo istituto di credito agrario, fondiario  ed  industriale  italiano.

Segue il Palazzo Lieto costruito da Pompeo Schiantarelli, discepolo del Vanvitelli, per il duca di Polignano Gaetano Lieto: la costruzione originaria, del 1754, fu poi ingrandita dal figlio del fondatore, duca Filippo. Il portale, molto bello per i pilastri dorici, porta in corona una epigrafe del 1794.

Sempre sul lato destro della strada troviamo il Palazzo Tapia, poi Capece Galeota della Regina, costruito nel 1568 su disegno di Giovan Francesco di Palma e rifatto nel 1832 da Stefano Gasse.

Esso appartenne ad Egidio di Tapia, presidente della Sommaria e in seguito fu unito con un ponte ad un altro costruito dal figlio del nostro don Egidio, Carlo di Tapia, che fu un eminente giurista e scrisse anche un trattato di diritto. Fu questo cavalcavia, chiamato appunto Ponte di Tapia, a dare il nome alla strada sottostante, che lo conserva tuttora. I due palazzi passarono poi alla famiglia Cala e poi il più antico di essi ai Capece Galeota: in seguito il secondo fu abbattuto. La via Ponte di Tapia, erroneamente denominata Tappia (occorrerebbe essere ortodossi nell'orto­grafia spagnola), congiunge Toledo con il largo Francesco Torraca: essa ospitava per il passato un mercato molto fiorente mentre oggi non vi è rimasto che qualche negozio di primizie e finezze gastronomiche.

Ritornati su via Roma troviamo, un paio di isolati più avanti, un'importante trasversale, via Diaz, che scende verso piazza della Borsa dalla quale si dipartono a destra e a sinistra strade mo­derne che la collegano con la piazza del Municipio e con via Cesare Battisti, che poi vedremo. La moderna zona alla nostra destra è stata costruita previa demolizione di tutto un quartiere, che era chiamato dei Guantai; l'unico edificio superstite è la Chiesa greca ortodossa, che però è rimasta chiusa tra palazzoni moderni. In questa zona, divenuta la City napoletana, ricordiamo via Roberto Bracco che dalla nostra via Diaz conduce al largo Francesco Torraca, intitolato ad un eminente cattedratico di lette­ratura italiana della nostra Università: da questo largo torna indietro via Cervantes che sbocca in piazza Matteotti, circondata dal Palazzo della Posta Centrale, dal Palazzo della Provincia e quello della Questura. Noi ritorneremo ancora una volta a via Roma tralasciando di nominare quel dedalo di viuzze a monte che fanno sempre parte dei cosiddetti Quartieri, poco interessanti se non dal punto di vista folkloristico. Vi pullulano piccole trat­torie, case « d'appuntamento », bassi, un floridissimo mercato nero, una situazione insomma che dal '600 ad oggi non è mutata di molto.

Ci avventureremo soltanto per via Montecalvario, che si apre fra una chiesa ed il palazzo di un grande magazzino, di fronte al moderno edificio che ospita la Banca Nazionale del Lavoro. La Chiesa di Santa Maria delle Grazie, è di forme neo­classiche, essendo stata costruita nel 1835. Sulla sinistra di via Montecalvario, troveremo invece la chiesa omonima costruita nel 1560 e restaurata nel 1857, nel cui interno si possono ammi­rare una « Deposizione » del Criscuolo e un trittico cinquecen­tesco raffigurante la « Vergine del Rosario ». Nell'attigua via Con­cezione a Montecalvario vi è poi la Chiesa della Concezione, che fu completamente rifatta nel 700 da Domenico Antonio Vaccaro a pianta ottagonale.

Terminata la nostra breve escursione in questa zona dei « quartieri », rivolgiamo la nostra attenzione al palazzo che fa angolo col lato sinistro di via Montecalvario. Attualmente sede di un grande magazzino, esso era il Palazzo De Curtis, e appar­tenne agli inizi del secolo XVII a questa illustre famiglia, poi al Monte dei Poveri Vergognosi e durante il decurionato francese, fu adibito a Tribunale di Commercio. Fu acquistato poi dalla famiglia Buono ed infine da Bocconi da cui passò alla « Rina­scente ». Procedendo verso piazza Carità incontriamo, sempre a sinistra il Palazzo Cavalcanti, che fu costruito dall'architetto Mario Gioffredo nel 1762, e fu residenza gentilizia del marchese Angelo Cavalcanti che vi fece apporre sul portale il suo nome ed il suo titolo.

Sul basamento in piperno si ergono i pilastri ionici per la decorazione del piano nobile mentre il portone, di ordine dorico, è decorato da due colonne isolate e in un pezzo solo.

Subito dopo, un edificio che ospita un albergo occupa il luogo dove era il Palazzo del Nunzio Apostolico presso la Corte Bor­bonica.

Siamo giunti così in piazza Carità, che ha un intero lato occupato dal Palazzo dell' I.N.A., al centro il moderno Monu­mento a Salvo d'Acquisto, a sinistra il settecentesco Palazzo Mastelloni e la piccola chiesa di San Liborio, presso la quale ha inizio l'omonima via che conduce alla Pignasecca.

Il Palazzo Mastelloni, appartenuto ai duchi di Salza e principi di Volturara, conserva il portale dell'epoca: esso ci ricorda il duca Emanuele, che tu ministro di Grazia e Giustizia dell'effimera Repubblica Partenopea del 1799 e l'arresto di Luisa Sanfelice, la sfortunata patriota napoletana che finì sul patibolo. Segue, sempre a sinistra, l'imbocco della popolaris­sima Pignasecca che conduce in piazza Montesanto, dove è una stazione della Ferrovia Cumana e nella piazzetta dell'Olivella, dove c'è invece una stazione intermedia della Metropolitana. Lo strano nome di questa piaz­zetta sembrerebbe attribuito dai patrii scrittori ad un grande oliveto che vi esisteva nel secolo XVI. Questa zona è un dedalo di strade, stradine e stradette di nessun interesse, che riteniamo inutile nominare anche per­ché al turista nulla possono offrire. La strada della Pignasecca è così chia­mata perché quando faceva parte degli orti dei duchi di Monteleone non vi mancavano i pini : secondo gli antichi scrittori, poi, su uno di questi alberi degli uccelli ladri chiamati piche avrebbero depositato oggetti che avevano rubato ed essendo gli autori di questi furti irreperibili l'arcive­scovo li scomunicò. Successe quindi che l'albero di pino... scomunicato, seccò, dando il nome alla nostro folkloristica Pignasecca.

Lungo questa strada riteniamo doveroso ricordare soltanto il grande Ospedale dei Pellegrini con annessa chiesa, un impor­tante complesso fondato nel '500 che tuttora esplica la sua atti­vità. La Chiesa della Trinità ha la facciata principale nell'ampio cortile  dell'ospedale e  l'ingresso  a  doppia rampa di  scale.

Iniziata nel 1769 da Luigi Vanvitelli e rimasta incompiuta per la morte del grande architetto, fu terminata dal figlio e dagli architetti Barba e Cappelli. L'interno offre delle pregevoli opere tra cui un Calvario di An­drea Vaccaro, un Transito di San Giuseppe del Fracanzano, una Trinità di Francesco De Mura.

Ritornando sui nostri passi, incontriamo sulla sinistra la piazzetta Fabrizio Pignatelli con la piccola Chiesa di Santa Maria Mater Domini, opera cinquecentesca che ha sulla piccola fac­ciata una Vergine del secolo XV ed il Ritratto del fondatore, opera del Naccherino.

Ritornati in piazza Carità, troviamo subito a sinistra, al­l'angolo con via Roma, il Palazzo di Giovan Battista della Porta, sul quale una lapide apposta a cura dell'amministrazione comu­nale nel 1884 ricorda la data di nascita e quella di morte di questo illustre napoletano. Segue la Chiesa di San Nicola alla Carità, la cui facciata è opera del Solimena. Iniziata nel 1647 ad opera di Onofrio Gisolfi, fu continuata da Cosimo Fanzago e restaurata nel  1843.

In questa chiesa, a croce latina a tre navate, vi sono dei buoni di­pinti settecenteschi, poiché la volta fu affrescata dal Solimena nel 1701 e il dipinto sull'ingresso raffigurante San Nicola che libera un ossesso è opera di Paolo De Matteis. Sono da ammirarsi nella prima cappella a destra Scene della vita di Tobia di Giacinto Diano, un magnifico Crocefisso del 1695 nella seconda cappella, sull'altare della terza un San Liborio di Francesco de Mura del 1773 e ai Iati San Raffaele e San Michele.  Giunti

alla crociera vediamo a destra i Santi Francesco e Antonio ed a sinistra la Vergine con gli Apostoli Pietro e Paolo, entrambe opere di Francesco Solimena, mentre la Natività e la Visitazione ai lati dell'altare maggiore sono di Vincenzo De Mita; nell'abside un dipinto di Paolo De Matteis ri­produce la Morte di San Nicola.

Usciti dalla chiesa, ci troviamo di fronte via Tommaso Caravita, prima chiamata via Nuova Monteoliveto perché fu aperta nel 1749 a spese dei frati Olivetani del vicino monastero: il nome attuale della strada è quello di un giurista napoletano morto nel 1744. Il nostro scopo, nell'imboccare questa breve ed angusta trasversale di via Roma, non è però quello di trattenerci lungo di essa, ma quello di raggiungere la chiesa che si intravede di fronte. È la Chiesa di Santa Maria di Monte Oliveto, chiamata di Sant'Anna de' Lombardi, che è una delle più interessanti di Napoli, costituendo un vero museo di arte rinascimentale. La­sciamo sulla destra il largo Morgantini, dove troviamo la Ca­serma dei Carabinieri che occupa attualmente una parte del­l'antico convento dei frati Olivetani: questo largo ci riporterebbe in piazza della Carità, mentre la Chiesa di Santa Maria di Monte Oliveto è proprio di fronte a noi.

L'attuale facciata, anche se uguale a quella originaria, è stata rifatta dopo i danni subiti dai bombardamenti del '43. Le lontane origini di questo tempio napoletano risalgono agli inizi del 1400, quando fu co­struito dov'era già una chiesetta, per desiderio del Protonotario del Regno di re Ladislao, Gurello Orilia, nobile del sedile di Porto. Il ministro, dopo averla edificata, la affidò alle cure dei frati Olivetani di Firenze, o meglio di San Miniato, Ordine che ancora officia la bella chiesa sull'amenissimo colle fiorentino. Le famiglie d'Avalos e Piccolomini e dopo re Alfonso d'Aragona vollero contribuire alla costruzione, che prevedeva anche un convento. Questo si estese fino a via del Chiostro, alla salita di Monteoli­veto ed ebbe ben quattro chiostri oltre a vasti giardini, una biblioteca ed una foresteria affrescata dal Vasari che ospitò nel 1558 Torquato Tasso che vi compose gran parte del suo poema immortale. In un'ala di questo complesso nel 1741 Carlo di Borbone decise di installare un tribunale che fu chiamato « misto » perché costituito da giudici laici e religiosi : dopo la Costituzione, Ferdinando II vi fece sistemare il Parlamento napoletano ed attualmente è adibito a caserma dei Carabinieri.

La prima pietra di questa chiesa fu posta dunque nel 1411. Nel se­colo successivo i lombardi che vivevano a Napoli chiesero di lasciare una chiesetta che avevano chiamata appunto Sant'Anna dei Lombardi e di potersi trasferire qui con la loro confraternita: ecco perché questa chiesa è anche chiamata così. La facciata con arco catalano, come si è già detto fu rifatta nel 1943; nell'atrio rettangolare, sulla destra, vediamo il Sepolcro dell'architetto Domenico Fontana ed a sinistra quello del Comandante Su­premo delle Truppe Reali dì Filippo V, Giuseppe Trivulsì: la porta lignea dell'epoca è stata ricostruita magistralmente nel 1955 da Salvatore Vec­chione. L'interno, che si presenta ad unica navata, nel secolo XVII fu tra­sformato dall'architetto Sacco nel modo come si presenta oggi, con le cappelle ai lati : fu rifatto l'altare maggiore, che era opera di Giovanni da Nola, fu trasformato in sagrestia il refettorio, che era affrescato dal Va­sari, e il soffitto fu fatto a cassettoni  su disegno di Mario Cartaro.

Cominciamo la visita della chiesa da un Altare a destra della porta maggiore, opera del 1532 di Giovanni Merliano da Nola con decorazioni del Rossellino e di Benedetto da Majano. Esso appartenne alla nobile fami­glia Ligorio del Sedile di Porta Nova. A sinistra della porta maggiore vi è un altro Altare, quasi eguale al precedente, appartenuto alla famiglia del Pezzo di Caianiello, che fu eseguito invece da Gerolamo Santacroce e tra i due altari notiamo il grande Organo costruito nel 1497 ma trasfor­mato nel 1697, la cui decorazione barocca è del settecentesco napoletano Alessandro Fabbro.

Sulla destra vediamo la Cappella Mastrogiudice, composta da due ambienti, che appartenne sin dal 1490 alla famiglia sorrentina dei Correale e poi ai Mastrogiudice marchesi di San Mango: i Monumenti sepolcrali sono opera di Geronimo d'Auria mentre l'altare, con la pala suddivisa in tre parti, è di Benedetto da Majano e fu eseguito a Firenze. La cappella mo­stra altri bassorilievi ed un pavimento con varie lapidi; a destra vi è un sediale che convalida il diritto della cappella ai Correale. Segue la cappella Corcione con un dipinto del 1611 raffigurante Santa Francesca Romana del bolognese Baldassarre Aldovisi e la volta affrescata da Giuseppe Simonelli. Quella successiva è la cappella Nauclerio il cui altare è attribuito da al­cuni a Giovanni da Nola e da altri a Girolamo Santacroce: molto espres­sivo il bassorilievo nel paliotto che raffigura Sant'Antonio che parla ai pe­sci. Del comasco Tommaso Malvito si ammira il Monumento sepolcrale di Giovanni Nauclerio ed a sinistra quello di Tommaso Nauclerio dove spicca un magnifico bassorilievo raffigurante la Vergine col Bambino; Nicola Ma­linconico, pittore del secolo XVIII, ha affrescato la volta. Segue la cap­pella del Crocefisso, con affreschi ancora del Malinconico ed alcuni mo­numenti cinquecenteschi opere di Francesco Scala. La cappella Bosco offre un magnifico dipinto del Solimena raffigurante San Cristoforo e nella volta gli splendidi affreschi di Giuseppe Simonelli; a sinistra vi è il Monu­mento funebre di Cesare Bosco, poi, attraversato un corridoio, troviamo sulla destra il Monumento a Giorgio Sicard del 1837 di Gennaro de Cre­scenzo. Ci immettiamo così nella cappella Orefice ove può ammirarsi il Monumento sepolcrale di Antonio Orefice, protonotario di Carlo V e poi di Filippo II. Questa bella cappella, del 1596, è opera di Geronimo d'Auria e di Cristoforo Monterosso mentre le decorazioni ed il pavimento, del 1597 sono opera del Sarti, del Marasi ed ancora del Monterosso. Di Luigi Ro-driguez sono gli affreschi della cupoletta, ai pennacchi ed alle pareti. Sem­pre a destra troviamo la cappella Fiodo con opere sepolcrali dei senesi Bernardo Moro e Giuseppe Bono. I dipinti sono del Sellitto, ed il Monu­mento ad Antonio d'Alessandro è del Malvito; di questa opera, scolpita nel '600, restano soltanto l'urna e le figure di due personaggi; molto bello è anche il sediale diviso in tre riquadri; segue la cappella del Santo Sepol­cro, della famiglia Orilia, che consta di due ambienti con cupoletta ellit­tica ed affreschi del Polidorino; sull'altare, il cui paliotto mostra un ma­gnifico bassorilievo, vi è un Calvario attribuito al Solimena. In questa cap­pella si ammira la Deposizione di Guido Mazzoni, in terracotta, costituita da ben sette figure in origine policrome, eseguite nel 1492, che furono re­staurate nel 1882 ed ancora recentemente da Salvatore Gatto. Queste figure, raffiguranti dei personaggi della storia sacra, sono il ritratto di alcuni con­temporanei dell'artista come il re Alfonso II, Giovanni Pontano ed il San­nazaro. Alla destra di questa cappella vi è un'opera in marmo di Gero­nimo d'Auria raffigurante la Deposizione e dello stesso artista, sulla sini­stra, il Monumento funebre dei Maia. Se torniamo indietro e giriamo su­bito a destra vi è la cappella dell'Assunta appartenuta alla famiglia de' Sangro che serve comunque da accesso alle due sagrestie. La cappella, de­corata dal Naccherino ha una magnifica Assunta di Francesco Santafede ed affreschi dello stesso pittore mentre a sinistra spicca un Frate Olivetano di Giorgio Vasari; accanto a quest'ultimo non fanno gran bella figura una Ascensione ed una Vergine del Santafede. Giungiamo così alla sagrestia vecchia, un tempo refettorio dei frati, poi oratorio della confraternita, e in seguito deposito di arredi sacri: oggi essa è sala di riunione dei confra­telli dell'Arciconfraternita di Sant'Anna de' Lombardi. Nella volta vi sono degli affreschi del Vasari; altrettanto notevoli sono gli stalli di Giovanni da Verona del 1506 dove sono raffigurati egregiamente Castelnuovo e la città di Napoli, San Pietro che subisce il martirio e la Facciata dell'antica chiesa di Monteoliveto, raffigurazioni di estremo interesse. Tutto l'ambiente fu restaurato nel 1860: sull'altare vi è una tela del seicentesco Sellitto che raffigura San Carlo Borromeo ed un'altra con l'Angelus Domini del romano Giovan Battista Cavagni. Di fronte è l'altra sagrestia che, pur essendo chiamata nuova, è la più vecchia; sull'altare vi è un Crocefisso di Giuseppe Mastroleo, oltre ad una Santa Francesca Romana di un discepolo di Luca Giordano.

Si entra poi nel presbiterio e nell'abside che conservano affreschi sei­centeschi di scarso interesse mentre in fondo vi è un gran dipinto di Angelo Mozzillo del 1784 raffigurante San Gioacchino e Sant'Anna; ai lati due cenotafi, uno di Alfonso II e l'altro di Gurello Orilia. Alle pareti vi sono nicchioni e ricordi marmorei, e sulla destra si notano alcuni monu­menti. Notevole è il Coro, opera di Angelo da Verona su disegno del Cavagni del 1591. L'altare maggiore, che non è più quello di Giovanni Mer-liano da Nola, bensì un'opera del fratelli Pietro e Bartolomeo Ghetti che lavorarono su disegno di Domenico Vinaccia conserva del precedente il solo paliotto attribuito ad un discepolo di Giovanni da Nola.

A destra incontriamo la cappella Savarese che prende il nome dalla famiglia che ne era proprietaria; fu dedicata a San Michele per una gra­ziosa statua rinvenuta sotto una lastra tombale. Segue la cappella Tolosa fatta costruire nel 1500 dal mercante spagnolo Paolo Tolosa ad opera di Giuliano da Majano, con una cupoletta che ricorda le opere del Brunelleschi; i dipinti, attribuiti al Pinturicchio, presentano scene ricordanti la vita del senese Bernardo Tolomei, fondatore dell'Ordine degli Olivetani: si vuole che i personaggi inginocchiati siano Alfonso d'Aragona e San Pietro e quelli di fronte ai primi San Benedetto e San Paolo; gli Evangelisti nei quattro tondi ai pennacchi sono opera di discepoli dei Della Robbia. Segue la cappella Bartucci sul cui altare, attribuito a Giovanni da Nola, è un San Giovanni Battista tra San Gerolamo e San Gaetano, mentre nel paliotto fa bella mostra di sé una Pietà di Gerolamo Santacroce. Di scarso interesse è la cappella che segue con alcune tele del Malinconico; dello stesso pit­tore sono gli affreschi della cappella Cabanilla che presenta altresì dipinti del De Matteis che raffigurano San Matteo e San Placido; di Iacopo della Pila è il Monumento a Garda Cabanilla del 1470 mentre di Giovanni da Nola è la Flagellazione. Segue la cappella Celentano appartenuta un tempo alla famiglia d'Avalos del Vasto: la cupoletta è affrescata da Giovanni An­tonio Arditi, VAnnunciazione e la Fuga in Egitto sono opere di Antonio Sarnelli e la Vergine tra San Benedetto e San Tommaso è di Fabrizio San­tafede. Troviamo infine la cappella Piccolomini della famiglia ducale di Amalfi, ramo cadetto della grande famiglia senese, una magnifica opera rinascimentale. Notiamo subito di fronte all'arco d'ingresso un rilievo raffigurante Cristo in Croce del 1550, opera di Giulio Mazzoni, mentre a de­stra, attribuiti da alcuni a Riccardo Quartataro e da altri a Silvestro Buono, vi sono un'Ascensione ed i Santi Nicola e Sebastiano del 1492. Molto belli il pavimento a mosaico ed il grazioso Presepe sull'altare, il tutto opera del 1475 di Antonio Rossellino. Attribuiti a Matteo del Pollaiolo i Santi Giacomo e Giovanni e i due Profeti; il Monumento a Maria d'Aragona figlia naturale di Ferrante I e principessa di Amalfi che sposò il nipote di Pio II Antonio Piccolomini, iniziato e concepito dal Rossellino fu però ul­timato da Benedetto da Majano nel 1479. Sulla destra si ammira un dipinto raffigurante l’Annunciazione,  attribuito a Piero  della Francesca.

Dopo aver visitato questa imponente chiesa, torniamo alla nostra via Toledo dove, poco più avanti di via Tommaso Caravita, troviamo il quadrivio detto di Maddaloni, così chiamato dal pre­dicato della nobile famiglia proprietaria dell'omonimo palazzo che occupa tutta la strada sul lato destro. Dalla sinistra di Toledo si dipartono invece via Forno Vecchio e l'altra intitolata a Pa­squale Scura, che conducono entrambe alla Pignasecca. Soffer­miamoci quindi brevemente sullo storico Palazzo Maddaloni che, pur avendo l'ingresso dall'omonima strada, ha la facciata late­rale sulla via che stiamo percorrendo.

L'opera, imponente più che bella, fu costruita nel 1582 dal marchese d'Avalos del Vasto su un terreno che gli era stato venduto dalla famiglia Pignatelli di Monteleone e precisamente su un gran giardino chiamato Biancomangiare: il palazzo era delimitato poi dalla parte opposta dal vico Carogioiello, così chiamato dal nome di un altro giardino sempre apparte­nuto ai Pignatelli che è divenuto via Tommaso Senise. Il d'Avalos, ancora insoddisfatto dell'appezzamento di terreno che aveva acquistato, volle com­prarne dell'altro dagli Olivetani del convento omonimo e cominciò a co­struire il suo palazzo, ma poi, essendovi attiguo un palazzetto della fami­glia Stefanellis, cercò di acquistare anche questo, riuscendovi con grande difficoltà in quanto questa famiglia era contraria a vendere. Fu quindi ne­cessario un intervento poco ortodosso del viceré che ne decretò l'espro­prio. Dopo aver costruito questo palazzo con tanta cura e accanimento, il marchese finì col cederlo ad un mercante fiammingo, il Roomer che gli diede in cambio una villa a Barra. Il nuovo proprietario abbellì l’edificio provvedendolo di un grazioso parco, di spaziose terrazze e logge; in seguito egli lo vendette al duca di Carafa di Maddaloni che lo pagò in parte in denaro e parte con due palazzetti che aveva alla Stella ed a Po-sillipo. Il Maddaloni diede il compito di affrescare gli appartamenti a Fedele Fischetti ed a Giacomo Del Po; arricchì lo scalone e la terrazza con statue di pregio provenienti da scavi ed interpellò infine anche l'architetto Cosimo Fanzago perché il suo palazzo divenisse una delle più belle resi­denze gentilizie napoletane. Il duca Carlo, che aveva sposato la duchessa di Bovino donna Vittoria Guevara, fece della sua residenza un centro mondano nel quale fu di casa Giacomo Casanova, e contemporaneamente anche un centro di cultura in quanto spesso vi ospitava letterati dell'epoca tra i quali è doveroso menzionare almeno Pietro Napoli Signorelli. Dopo la morte del proprietario, la duchessa si risposò col principe di Caramanico e l'unico erede, che fu poi l'ultimo dei Carafa di Maddaloni, dopo aver sperperato i suoi averi, nel 1765 fu costretto a vendere anche questo palazzo.

Dopo via Maddaloni, Toledo sfocia nella piazzetta VII Set­tembre, data che vuol ricordare il giorno in cui Garibaldi, da un balcone dell'edifìcio alla nostra destra, proclamò l'unione del Regno delle Due Sicilie a quello d'Italia. Il Palazzo in questione è il Boria d'Angri; trapezoidale, esso ha la base minore sul largo e quella maggiore su via Maddaloni dove vi è anche un secondo ingresso, sempre chiuso. A sinistra, come abbiamo visto, via Roma: sulla sua destra termina via S. Anna de' Lombardi, pro­veniente dall'omonima piazzetta.

Questo palazzo, disegnato da Luigi Vanvitelli, fu costruito soltanto nel 1775 dal figlio Carlo, poiché essendo sorta nel 1753 una vertenza tra il principe Doria e la congrega dei Bianchi, la lite andò tanto per le lunghe che l'architetto morì e dovè esser sostituito dal figlio che però rispettò il disegno paterno; l'ingresso ha ai fianchi quattro colonne che sorreggono la grande balconata.

Questa piazzetta, nella quale ci siamo attualmente fermati, è più comunemente chiamata dai napoletani Largo dello Spirito Santo, a cagione della chiesa che vediamo alla nostra sinistra, la Chiesa dello Spirito Santo, costruita, nella sua prima edizione, intorno al 1569 ad opera di Pietro di Giovanni, fiorentino, per la Confraternita degli Illuminati dello Spirito Santo, una Congrega­zione fondata nel 1555, che si riuniva precedentemente in altre chiese napoletane.

Questa confraternita nel 1561 acquistò un suolo per costruirvi una chiesetta e nel 1562 ottenne anche il permesso di fondare due conservato­ri, uno per vergini bisognose e l'altro per le figlie dei confratelli. Poco tempo dopo, per l'allargamento della strada, la piccola chiesa fu espro­priata e fu demolita; ma col danaro dell'esproprio i confratelli, acquistato un terreno attiguo, nel 1569 la fecero prontamente ricostruire. Nel 1590 i governatori della confraternita degli Illuminati dello Spirito Santo ebbero il permesso di aprire anche un banco che accettava depositi in denaro da impiegare poi in prestiti su pegno : non era questo il primo banco sorto a Napoli ma l'avvenimento fu cosa molto importante. Nel 1774 la chiesa fu restaurata dal Gioffredo che le diede la brutta facciata in stucco che pur­troppo ancora oggi conserva, al limite tra il barocco moderno e il classi­cismo. Internamente la chiesa è quasi nuda, ma può piacere per la sua semplicità; conserva però alcune opere di un certo interesse come dei monumenti funebri, dei dipinti di Fedele Fischetti e di Francesco De Mura ed una Madonna del Soccorso di Fabrizio Santafede. Mentre la chiesa ve­niva rifatta, l'amministrazione fu divisa fra due confraternite che furono chiamate, dal colore del saio, quella dei Bianchi e quella dei Verdi allo Spirito  Santo,  delle quali  riteniamo sia rimasta  solo la prima.  Adiacente alla chiesa fu costruito il palazzo per il conservatorio, con un vasto cor­tile in parte ancora esistente. C'è poi sulla destra della chiesa, nel vico chiamato appunto dei Bianchi dello Spirito Santo, l'oratorio della confra­ternita.

Proseguendo, si giunge in via Pignatelli, che si collega sulla destra con via Tarsia ed a sinistra con la Pignasecca. Da questa strada laterale si accedeva alla redazione del giornale « Don Marzio » i cui uffici occupavano le due stanzette che affacciavano in via Roma sopra all'antico caffè Caflisch, non più esistente. Dopo la chiesa troviamo a sinistra il Palazzo De Rosa la cui proprietaria è attualmente la duchessa Laura di Carosino De Rosa; esso fu acquistato dal cavalier Francesco, duca di Carosino, verso la fine del secolo XVIII e verso il 1826 fu restaurato da Pietro Valente, che certamente non fece un'opera d'arte.

Furono trasformati ì cortili, i due portali e vi furono aggiunti tre piani, sull'ultimo dei quali si ricavarono delle terrazze panoramiche: anche le due scale, che potrebbero essere attribuite al Sanfelice, furono opera del Valente.  Il palazzo è imponente, ma artisticamente insignificante.

In questo largo, fra il palazzo De Rosa che abbiamo visto e il Palazzo Petagna, esisteva una porta chiamata « dell'Olio », o « Toledo » o « dello Spirito Santo », o anche Porta Reale Nuova, essendo stata costruita, dopo lo spostamento della cìnta muraria, con gli elementi di una preesistente in una posizione più arretrata che aveva questo nome.

Essa era larga sedici palmi e sulla parte che guardava verso piazza Dante, fra le due torrette, vi fu apposta l'aquila bicipite di Carlo V, lo stemma del viceré e quello della città. Nel tempo vi furono apposte delle iscrizioni; nel 1656, poi, gli Eletti del popolo diedero incarico a Mattia Preti di affrescare anche questa porta come tutte le altre e vi fecero porre alla sommità una statua di San Gaetano. Col passare degli anni, essendo divenuta pericolosa per il passaggio delle carrozze, fu demolita per ordine di Ferdinando IV: la statua di S. Gaetano fu messa su Port'Alba e le iscrizioni furono murate nella facciata di  palazzo Petagna.

Sulla destra del largo ricordiamo via Cisterna dell'Olio, così chiamata perché dove è oggi il Palazzo Giannini vi erano appunto delle cisterne per la conservazione dell'olio.

Quattro furono costruite dall'architetto Vincenzo Della Monica nel 1588 e altre quattro furono scavate nel 1731, dedicate non sappiamo per quale motivo a Sant'Emiddio, Santa Irene, San Francesco Borgia ed al­l'Immacolata Concezione. Questa strada conduce in via Domenico Capitelli.

Ritornati su via Roma, ci troviamo ad un altro quadrivio che ha a destra via Carcere Sanfelice, con la tabella viaria errata in quanto il nome è diviso in due parti come se la strada fosse intitolata al Santo... mentre lo è all'architetto. La strada a si­nistra è la salita Tarsia, con il Palazzo del principe di Tarsia ancora oggi esistente: dopo la confluenza con la breve via Latilla, vi è il Palazzo Latilla dove abitò per un certo tempo il letterato Francesco D'Ovidio; via Tarsia giunge sino a piazza Montesanto dove confluisce dal lato opposto la Pignasecca.

Siamo ormai giunti alla fine del nostro itinerario: via Toledo, fra il vico Mastelloni a sinistra e la Chiesa di San Michele a destra, termina in piazza Dante.

Al termine di questo itinerario, daremo uno sguardo al pas­sato ricordando gli eleganti locali che erano lungo questa strada e che tanta parte hanno avuta nella storia napoletana del secolo scorso e degli inizi di questo secolo XX: i caffè della Belle Epo­que, a Napoli, capitale del più grande regno italiano, ebbero i loro validi rappresentanti quasi tutti lungo questa importante arteria cittadina.

Del più noto, Gambrinus abbiamo già parlato: ricorderemo che nel vico Rotto San Carlo, dove anticamente sfociava un altro vicolo, chiamato delle Campane, prima che si provvedesse alla demolizione di questa zona per far posto alla Nuova Galleria Umberto I, c'era il famoso Cafè d' 'o Cecato, luogo di ritrovo della malavita napoletana. E mentre nel Gam­brinus si riunivano gli aristocratici e gli intellettuali, qui si riunivano i grossi calibri della camorra. Toledo, che era allora la strada più impor­tante della capitale, pullulava di caffé, tra i quali ci sembra doveroso ricordare il Caffé sotto a Buono, così chiamato perché era sito nel Pa­lazzo Buono, nel quale si riunivano i liberali di Napoli. Di fronte alla Chiesa della Madonna delle Grazie vi era invece il Caffè Costituzionale che insieme al Caffé De Angelis, che era al largo della Carità, era preferito dai borbonici che non ammettevano nel modo più assoluto alcuna idea anti­governativa. Altrettanto famosi erano il Caffè Testa d'oro che eccelleva per i gelati al pistacchio, il Caffè Ancora d'oro, il Caffè delle isole Ionie, che non sappiamo proprio per quale motivo si chiamasse in tal modo, il Caffè dell'Aurora dove gli avventori potevano anche leggere i giornali che venivano offerti gratuitamente dal gestore. All'angolo dell'antica Taverna Penta vi era il Caffè Donzelli, famoso per i suoi gelati; il Caffè delle tre porte era all'angolo con il vico Carminiello e, quasi nello stesso angolo era il Caffè di Napoli chiamato prima Della Vittoria. Ricorderemo il Caffè veneziano, il Caffè della colomba d'oro, il Gran Caffè e poi quel Caffè d'Europa che era di fronte al Gambrinus, frequentato dal duca di Maddaloni Francesco Proto e dal marchese di Caccavone, oltre che da stranieri, dato che vi si riuniva l'ex clientela del Caffè d'Italia. Via Toledo era fre­quentatissima anche per le botteghe ben fornite e perché vi si effettuava la « rituale » passeggiata della nobiltà napoletana che risiedeva nei palazzi prospicienti o in piazza della Carità, o al Gesù Nuovo, o in piazza Dante o nella vecchia Spaccanapoli. Le migliori pasticcerie si distinguevano per i loro prodotti e non possiamo non nominare — anche se facciamo della pubblicità gratuita — la Pasticceria Pintauro, ancora oggi esistente, che con le sue classiche sfogliatelle ricce e frolle attira ancora nella sua modesta e piccola bottega, forse richiamata dall'odore della vainiglia, gran folla di persone. Questo locale è conosciuto in molte parti del mondo anche se il suo prodotto non è certamente quello rinomato del secolo scorso. Non possiamo dimenticare il Caffè Van Boi e Feste con la sua sala stretta bislunga nella quale si riuniva la jeunesse dorée napoletana; la Boulangerie Francaise, che era gestita dalla moglie del pittore Didelot, e fu poi trasformata in un caffè moderno. Ancora oggi resiste — ed è anzi da considerarsi una delle aziende più floride della città in questo campo — la pasticceria Caflisch, sita nel palazzo Berio di fronte alla Galleria Um­berto; essa fu fondata dallo svizzero Luigi Caflisch, venuto a Napoli nel 1791, come semplice garzone di pasticceria. E poiché ci troviamo di nuovo davanti alla Galleria diremo che qui vi era un altro locale, il Caffè Cai-zona, frequentato da agenti teatrali, da orchestrali e da attori. Anche qui si davano spettacoli di varietà e per pochi centesimi si poteva sorbire un buon caffè ed assistere anche a delle rappresentazioni. Legati alla nostra storia sono anche il Caffè Corfinio, dove Gabriele D'Annunzio attese ner­voso l'esito del debutto della sua Figlia di Jorio ai teatro Fiorentini; il Pilsen in via Santa Brigida, nelle cui sale si poteva anche pranzare; il Caffè d'Italia in via San Giacomo, che aveva preso il nome di quello più antico di cui abbiamo già parlato. Questo locale aveva una sala riservata alle signore, ed ospitò Giacomo Leopardi che abitando in via Santa Teresa al Museo soleva fare qualche passeggiata per Toledo, nonché il duca di Sandonato che fu il primo sindaco di Napoli ad avere idee chiare sulla futura urbanistica della città. A volte egli, come primo cittadino, presie­deva la sua giunta in questo caffè, e si può dire quindi che vi ammini­strasse la città. Accanto a  questo locale era il  Caffè Balena che vendeva tutti i « coloniali » che si potevano trovare in commercio anche perché il proprietario, che si chiamava appunto Emilio Balena, era reduce dal Bra­sile: questo caffè era frequentato dallo storico Michelangelo Schipa. An­cora in questa strada vi era il Caffè Croce di Savoia, che acquistò fama subito dopo l'unione del Regno di Napoli al Piemonte, aperto ventiquattro ore su ventiquattro in quanto anche di notte non mancavano giornalisti e nottambuli. Ricorderemo ancora il Caffè Pizzicato, amato dal nostro grande Eduardo Scarpetta, tanto che il suo ritratto era in una tabella pubblici­taria del proprietario don Michele Pizzicato con alcuni versi dell'attore poeta. In piazza della Carità c'era un tempo anche il Caffè di Vito Pinto, il cui gestore per la sua abilità come gelatiere fu fatto barone da Ferdi­nando II.

Museo Nazionale - Santa Maria di Costantinopoli - La Sapienza - Sant'Amelio a Caponapoli - L'Anticaglia - Via Pisanelli - Gli In­curabili - Largo Avellino - Via Duomo - Largo Donnaregina -Largo SS. Apostoli - Via di Santa Sofia - Via San Giovanni a Carbonara - Via Alessandro Poerio - Piazza Garibaldi.

Ripartendo dal Museo Nazionale, imbocchiamo via Santa Maria di Costantinopoli, e giunti all'altezza della Chiesa di San Giovanni delle Monache, che ha di fronte l'altra Chiesa della Sapienza, deviamo a sinistra per via Sapienza, dove sulla destra vediamo subito alcuni edifici del complesso del Policlinico che occupa il suolo sul quale vi era prima il Monastero della Croce di Lucca. Ben presto si giunge ad un quadrivio con la via del Sole a destra e sulla sinistra via Luigi de Crecchio, che ricorda un senatore di Lanciano che fu rettore dell'Università napole­tana fino al 1894.

Questa strada anticamente era chiamata del Settimo Cielo, per cor­ruzione popolare dal nome « Settimio Celio », patronimico di San Gaudioso, un vescovo che nel V secolo vi fondò un monastero; secondo altri stu­diosi invece, la strada si sarebbe chiamata così perché quando morì l'abate Sant'Agnello vi apparvero gli archi dell'iride. Questo colle è stato chia­mato « collina di Sant'Amelio » e «Capo di Napoli», essendo il luogo più alto della città antica. Salendo per questa strada si incontrerebbe il com­plesso universitario « di Sant'Andrea delle Dame », che consta di alcune cliniche della nostra Università delle quali una parte si è trasferita nella nuova sede universitaria di Cappella dei Cangiani. Questo complesso fu costruito come monastero da quattro sorelle, figlie di un ricco notaio di Vico Equense, che decisero di riunirsi in clausura con l'assistenza spiri­tuale dei PP. Teatini: nel 1580 papa Gregorio XII ne approvò la fonda­zione ed il convento venne dedicato a Sant'Andrea Apostolo, e chiamato « delle Dame » appunto perché era riservato alle fanciulle della migliore aristocrazia napoletana.

Gli architetti che diressero questa costruzione furono Bartolomeo Ca­tone, Felice Antonio Giordano e Giovan Battista Quaranta, i pittori chia­mati a decorarlo Belisario Corenzio, il fiammingo Pietro Mennes, Cornelio Avamrino ed altri fra cui Domenico Lama che decorò ed affrescò un cor­ridoio: lavorarono infine alle rifiniture del complesso i marmorari Berrucci, Ferraro, Della Monica e nel 1638 anche gli artisti Simone Tacca e Pietro De Marino. Nel 1748 dall'architetto Costantino Manna fu costruito un belvedere dal quale vennero varie volte a godersi il panorama i reali borbonici, tanto che lo si chiamò la Torretta Reale. La chiesa annessa fu edificata a cura del comasco Bernardino Grosso, Innocenzo e Marco Para-scandolo, Ascanio Presta di Viterbo, Bartolomeo Piamonte e Pietro Bi-gonio. Il coro, del 1633, è opera di Orazio Campana e gli affreschi sono di Giovan Martino Quaglia mentre i lavori di intarsio furono effettuati da Antonio Ferrara e Nicola Montella. I marmi pregiati e le belle sculture raf­figuranti Sant'Agostino e San Tommaso furono eseguite da Bartolomeo Ghetti nel 1681. Agli inizi del '700 Nicola Vallone arricchì l'interno di altre sculture e nel 1729 Ignazio Giustiniani provvide al grazioso pavimento di quadrelle maiolicate a colori. Alla fine dello stesso secolo Giacinto Diano affrescò il soffitto mentre la chiesa si arricchiva di altri dipinti, di affre­schi di Domenico Antonio Vaccaro e della scuola del Siciliano e di opere marmoree di Giovan Filippo Criscuolo. Nel 1864 le monache furono espulse ed il complesso si è andato man mano deteriorando, tanto che attual­mente ben poco vi è rimasto da ammirare.

Sulla salita di Sant'Amelio a Caponapoli vi è anche la Chiesa di Santa Maria delle Grazie a Caponapoli, del 1516: fu disegnata da Giovan Francesco di Palma e vi si trovano delle buone opere, come una tavola del Criscuolo ed un affresco di Andrea da Salerno nel braccio destro della crociera, un Cristo in legno del secolo XVI, il Sepolcro di Giovannello de Cuncto del Malvito nella cappella di Sant'Onofrio ed una bella Vergine dello stesso scultore nella sacrestia. Nella parte sinistra della crociera si possono ammirare una tavola della scuola di Andrea da Salerno, raffigurante la Vergine coi SS. Marco e An­drea, un altorilievo di Girolamo Santacroce raffigurante l'Incredulità di San Tommaso, una tavola di Giovan Battista Lama rappresentante la Cro-cefissione e una Deposizione di Giovanni da Nola. Molto interessante è la pavimentazione cinquecentesca in mattonelle maiolicate.

Su questa collinetta vi è poi la Cappella dei SS. Michele ed Omobono, costruita nel 1477 dall'Ordine toscano dei frati Pisani e divenuta alla fine del secolo XVII sede dell'associazione dei sarti napoletani, che elessero come loro protettore Sant'Omobono.

Vi possiamo ammirare una bella Crocefissione di Angiolillo Boccadi-rame e un dipinto di Nicola Criscuolo raffigurante i SS. Michele, Giovanni Battista e Omobono. Nel piccolo largo vi era un tempo la Specola militare della Marineria Napoletana, fra il Monastero di San Gaudioso e le carceri di Sant'Amelio. Veniamo quindi alla chiesa che dà il nome alla salita, quella di Sant'Amelio o Sant'Agnello Maggiore a Capo Napoli, del VI secolo ma varie volte rifatta ed attualmente in restauro. Vi si venerava un antico quadro della Vergine dal quale si racconta che la madre del Santo venisse ad implorare la grazia di avere un figlio. Ottenutolo, la donna lo chiamò Agnello e Io educò nella fede e nella pietà cristiana, tanto che, divenuto adulto, volle ritirarsi a far vita dì eremita e quando Napoli fu assalita dai longobardi e dai saraceni difese la città come abate del monastero di San Gaudioso. Vi erano nella chiesa un pregevole bassorilievo di Giovanni da Nola e un San Girolamo dedicato dal Santacroce al suo Santo, ma non ci è possibile accertare cosa vi rimanga dopo il restauro. Su questa collina secondo un'antica tradizione vi sarebbe stata la Tomba di Parte-nope, la sirena che divenne l'emblema della nostra città.

Ritornati sui nostri passi, al quadrivio, continuiamo lungo la direzione che avevamo precedentemente e dopo il vico Pietrasanta, chiamato oggi via Francesco del Giudice, giungeremo nel largo Regina Coeli che ha alla destra via Atri ed a sinistra il vico San Gaudioso, intitolato ad un vescovo africano del V se­colo che, sfuggito per un miracolo alla persecuzione dei Vandali, sbarcò sul litorale di Napoli. In questo vico vi era il Monastero di San Gaudioso eretto dal vescovo Stefano II nel secolo Vili, che fu distrutto nel 1799 insieme alla chiesa annessa perché i monaci avevano dato ospitalità ai realisti. Soltanto le reliquie furono salvate e furono trasferite nell'attiguo convento di San­t'Andrea delle Dame.

Questo largo, che era anticamente chiamato Capo de Trio, prese il suo attuale nome dal monastero e dalla Chiesa di Regina Coeli, costruiti dalle Canonichesse Lateranensi, ordine fondato da alcune dame del patri­ziato napoletano che avevano fatto parte della corte di Isabella d'Aragona. Queste monache, che erano ritenute predilette dal Vaticano, indossavano un abito bianco con << rocchetta e zona nera >>. Dalla marchesa del Vasto Maria d'Aragona  ebbero  in  dono il  suo  Palazzo  ed  i giardini  del  nipote marchese   di  Montalto  e  la  costruzione  del   convento  fu  iniziata  nel  1566 su disegno del Mormanno e condotta a termine nel 1590.

Fra le Canonichesse erano da annoverarsi rappresentanti delle fami­glie più illustri del Reame, come Gambacorta, Mariconda, Oliviero, Pignatelli, Caracciolo, Pappacoda, Dentice ed altre che, pur mostrando di os­servare le regole agostiniane, vivevano con i loro agi e le loro comodità. Le celle erano appartamenti, le converse erano delle vere e proprie serve, e non mancavano argenterie, monili, oggetti preziosi e mobili di fine fat­tura, che alla morte delle suore venivano in parte venduti a favore della comunità. In questo convento furono a volte rinchiuse delle dame per volere del pontefice e del re, come avvenne per la marchesa di Lavello, Costanza Pappacoda, per Beatrice Capece, vedova del principe di Presicce Francesco de' Liguoro della famiglia di Sant'Alfonso, che nella sua vedo­vanza ne aveva combinate delle belle, e per donna Giovanna Spinelli figlia del duca d'Aquara. Quest'ultima dama vi fu fatta rinchiudere da Carlo III nel 1757 per alcuni mesi, per aver chiesto, senza l'approvazione del padre, di entrare alla Croce di Lucca. La clausura fu severissima e la badessa ebbe ordine di fermare tutte le lettere indirizzate alla nobildonna e di proibire che il fratello, duca di Laurino, si avvicinasse al convento perché sospettato di voler prelevare la sorella per trasferirla in altro luogo. Que­sta curiosa storiella durò per un po', finché ci si accorse che la giovane non solo aveva una vera vocazione, ma avrebbe desiderato chiudersi in un  convento più  severo con clausura completa.

Mei 1S07, durante la dominazione francese, le Canonichesse furono soppresse e sostituite in questo convento dalle Suore della Carità di San Vincenzo de' Paoli : fu la prima volta che l'Ordine francese, fondato da Giovanna Thouret a Besancon venne a Napoli, per di più chiamato da re Gioacchino Murat. La fondatrice si trasferì anch'ella nella nostra città e volle rimanere in questo convento, dove mori; fu seppellita poi nella chiesa, nel 1826, nella cappella dedicata all'Immacolata Concezione.

La bella facciata della chiesa, con ampia scalinata a due bracci, ha un elegante portico a tre arcate sostenute da pilastri, diviso al secondo piano da altri pilastri di ordine corinzio con tre finestre rettangolari. Sulle volte del portico vi sono affreschi del pittore veneziano Paolo Brill mal restaurati; l'interno è stato eseguito dal 1634 al 1659 su disegno dell'archi­tetto Pietro de Marino. Esso presenta un magnifico soffitto ligneo con tre importanti tele di Massimo Stanzione e vi si ammirano dipinti di Luca Giordano raffiguranti scene della vita di Sant'Agostino, ed una Passione. L'altare maggiore è di Giovan Battista Caracciolo e il dipinto raffigurante l'Incoronazione di Maria è di Ferdinando Castiglia; notevoli sono anche le sculture ed i lavori in marmo di Giovanni Mozzetti e Francesco Valentini.

Di fronte alla chiesa di Regina Coeli vi era il Palazzo Boni­facio, della nobile famiglia del seggio di Portanova, alla quale apparteneva la Carmosina cantata  da Jacopo  Sannazaro.

Nel 1504, quando il poeta tornò dalla Francia, seppe che la sua bella era morta e scrisse un famoso epitaffio. Mentre della Carmosina si parla ancora, della vecchia costruzione nulla è rimasto; sappiamo che passò ai Duchi della Regina e che fu restaurata alla fine del secolo XVI. Attual­mente nel cortile può ancora ammirarsi la figura di un guerriero arago­nese in un piccola nicchia, probabilmente un personaggio della famiglia Bonifacio.

Inizia dal largo Regina Coeli la Strada Pisanelli, anticamente detta de' Tori da una famiglia del seggio di Montagna, che' fu poi rimpiazzata per potenza e munificenza dalla famiglia Pisa­nelli. Questa angusta strada, assolutamente inadatta alle odierne concezioni di vita, è oggi abitata da gente di modestissima condi­zione; pure essa riserva al nostro sguardo attento, di volta in volta, la sorpresa di portali durazzeschi o barocchi, chiesette e conventi di pregevole fattura. Purtroppo la sporcizia e lo stato di  abbandono  di  questa  popolare zona della città influenzano l'animo del visitatore e fanno passare inosservate o quasi le robuste arcate di buon laterizio romano che pare facciano parte dell'Anfiteatro.

Passati sotto l'arco di Regina Coeli troviamo sulla destra il Palazzo Pisanelli, dalla facciata rifatta in epoca barocca, con una edicola settecentesca nel piccolo cortile e su un ballatoio dell'armoniosa scala quattrocentesca un altro affresco, datato 1656, ex voto di un tale scampato alla famosa epidemia di peste; si vuole che sotto il palazzo, oltre lo scantinato, ci sia un « cerne-terium » della Corporazione degli Speziali.

Quasi di fronte al palazzo Pisanelli è il Monastero detto delle Trentatré dal numero delle monache; esso mostra nel suo imponente basamento una sagoma quasi etrusca con pietra da taglio a blocchi di lunghezza ed altezza uguale, con una lar­ghezza doppia e a volte tripla. Il complesso monastico fu voluto da quel genio veramente evangelico che tu Maria Longo, la fondatrice dell'Ospe­dale degli Incurabili, per cui la storia di queste due opere pie va di pari passo anche perché, indipendentemente dal fatto che nacquero dalla stessa mente, sono pressocché unite materialmente, trovandosi il Monastero nella prossimità del grandioso ospedale.

Al seguito di Ferdinando il Cattolico nel 1503 venne dalla Catalogna, come Reggente del Consiglio Collaterale, Giovanni Long, il cui cognome fu qui italianizzato in Longo, con la sua famiglia. La dolce consorte. Maria Richenza, da molti anni colpita da paralisi, volle comunque seguirlo nella nuova residenza. Quattro anni dopo, nel 1507, Re Ferdinando, dopo aver insediato il Viceré, rientrò in Catalogna e con lui il suo dignitario, ma Maria Longo rimase temporaneamente a Napoli, con i figli. Dopo poco tempo giunse dalla madre patria la notizia della morte del marito, ed unico conforto della povera paralitica rimasero la preghiera e la carità per gli umili e per tutti coloro che avevano bisogno di aiuto. Non avendo fatto in tempo a recarsi a Roma per il giubileo del 1500, Maria volle re­carsi in pellegrinaggio a Loreto, per implorare dalla Vergine la grazia della guarigione. Partì quindi accompagnata dalla sua amica Maria Ayerba, du­chessa di Termoli, moglie di Andrea di Capua, e a Loreto riacquistò mi­racolosamente l'uso delle gambe che aveva perduto da oltre venti anni. Il miracolo suscitò grande scalpore, ed il rientro a Napoli di Maria Laurenziana, come la dama volle chiamarsi in ringraziamento alla Vergine di Loreto, fu atteso con grande ansia. Maria sostò a Roma perché Giulio II in persona volle sincerarsi della veridicità della sua sovrumana guarigione, ma, appena tornata a Napoli, volle dedicare tutte le sue energie e la riac­quistata vitalità a sollevare i sofferenti che in quegli anni, tra miserie, carestie e malattie dovute alla lunga guerra tra spagnoli e francesi, erano terribilmente numerosi. Maria Longo si prodigò per raccogliere i fondi necessari per la costruzione dell'Ospedale degli Incurabili e della annessa chiesa di Santa Maria del Popolo, chiamata anche degli Incurabili che fu poi sede della Confraternita dei Bianchi, intrapresa nel 1520 tra la discesa di S. Patrizia, chiamata anche via dei Cornioli da alcune piante selvatiche che vi crescevano e il Sopramuro di Porta San Gennaro; pose la prima pietra il viceré don Ramon de Cardona.

Il sorgere di un'opera così grandiosa provocò un risveglio generale delle coscienze e dello zelo religioso che portò ad un fiorire di opere pie intorno all'Ospedale e lungo la stessa strada di S. Patrizia. Furono co­struiti un ricovero di « donne pentite » trasformato poi nel Monastero delle Riformate, purtroppo oggi divenuto un'autorimessa, pur essendovi ancora sotto il pavimento il luogo di sepoltura delle monache, e l'Oratorio di S. Maria della Stalletta, così chiamato perché costruito ad imitazione della santa grotta di Betlemme.

La Chiesa di S. Maria del Popolo fu inaugurata insieme all'ospedale, alla cui direzione fu prescelta, fra le sue proteste di incapacità, l'animosa fondatrice. Al suo fianco si dedicarono alla pia opera un gruppo di dame dell'aristocrazia napoletana, tra le quali l'amica Maria Ayerba, rimasta ve­dova di Andrea di Capua, Vittoria Colonna ed altre.

Poiché, naturalmente, l'ospedale non poteva andare avanti con il solo lavoro delle pie amiche di donna Maria, si aggiunsero a loro dei cavalieri, che si riunirono poi in quella Congrega dei Bianchi, tuttora esi­stente, anche se non più attiva.

Da tutti i sedili napoletani una rappresentanza delle migliori fami­glie si aggregò al gruppo dei benemeriti che davano la loro opera all'ospe­dale. La venuta di San Gaetano a Napoli e il trasferimento nell'ospedale degli Incurabili dei teatini causò inoltre un risveglio negli ordini religiosi, ed i frati Cappuccini vollero anch'essi dedicarsi all'assistenza dei malati. L'arrivo di questi religiosi e la quotidiana consuetudine con loro fecero balenare nella mente di Maria Longo, ormai anziana e stanca, il desi­derio di fondare un piccolo ordine religioso, e così lei e coloro che vol­lero seguirla decisero di occupare il vicino Ospizio della Madonna delle Grazie, che era stato appunto dei Capuccini. La nobildonna spagnola fu nuovamente colpita da paralisi, alla quale si rassegnò pensando che finché era stata utile per il governo dell'ospedale Iddio l'aveva lasciata in forze, mentre per la vita claustrale era sufficiente il fervore dell'anima. Preso dunque commiato da tutti coloro che rimanevano in quell'ospedale, che le era tanto caro e dove aveva speso il miglior tempo della sua vita, a settantadue anni si ritirava nel suo monastero che fu chiamato di Santa Maria di Gerusalemme, dove, con la vestizione canonica, le monache presero il nome di « Cappuccinelle ».

Quest'Ordine vide fiorire intorno alla sua fondatrice molte vocazioni, pur non superando mai il numero di trentatré, quello degli anni di Gesù Cristo, ed ebbe all'inizio la guida spirituale di San Gaetano, il cui convento era lì vicino. Nonostante il limitato numero, la prima casa accanto all'ospedale diventava sempre più angusta e si rese neces­sario che le monache si trasferissero in una sede più spaziosa, for­nita dallo stesso San Gaetano, che provvide a mettere a loro disposi­zione un convento prima occupato dai suoi confratelli. Fra queste avrebbe voluto rifugiarsi anche Vittoria Colonna, vedova del Marchese di Pescara, e ben due volte cercò di entrarvi, ma ne fu dissuasa dall'opposizione dei suoi familiari, e dovè accontentarsi di vivere come terziaria, ottenendo però il privilegio rarissimo di poter avere nella cappella del suo palazzo il SS. Sacramento.

Le eresie del Valdes, che in quell'epoca arrecavano tanto male alla Chiesa, indussero le « trentatré » a chiudersi in clausura perpetua per potersi dedicare completamente alle preghiere ed implorare pietà per l'ere­tico e per coloro che lo avevano seguito.

Queste monache di clausura vestono tonache di ruvido panno cap­puccino, calzano sandali e dormono su tavole, non mangiano carne, né bevono vino, fuorché la domenica, e vivono soltanto di preghiera e dell'ele­mosina di coloro che ne conoscono l'esistenza. Attualmente non sono trentatré ma una ventina,  quasi  tutte  molto  anziane.

Nell'atrio, sulla parete di fronte e sulla porta d'ingresso, si ammi­rano due grandi affreschi di Andrea Malinconico, che rappresentano la Passione di Gesù Cristo, mal restaurati all'inizio del secolo scorso. Dopo aver salito la larga scala del convento si accede a sinistra nella piccola chiesa, che non ha nulla di notevole; nell'interno, molto semplice, vi è sull'altare maggiore un dipinto di autore ignoto, che si dice donato da Paolo III a Maria Ayerba. Il chiostro è semplicissimo, e restaurato nel secolo XVIII; di artistico questo complesso monastico ha dunque molto poco, ma, come dice il Celano « si sente odore di Paradiso che esala da una semplice devozione e da una quieta modestia, poiché in questo santo luogo, non la curiosità, ma l'edificazione chiama le genti ». Il monastero confina con il quadrivio formato da via Pisanelli, via San Paolo, via Ar-mani e l'Anticaglia.

La via Luciano Armani che prende il nome da un esimio clinico napoletano, porta all'Ospedale degli Incurabili alla cui fondazione abbiamo precedentemente accennato a proposito del monastero delle Cappuccinelie e di Maria Longo.

Molto interessante sarebbe visitarne la Farmacia, a cui si accede dall'ampio e bel cortile attraverso una breve scalea a due rampe sita di fronte allo scalone dell'Ospedale: al centro, in una nicchia, un busto mar­moreo di Maria Longo eseguito da Angelo Viva. La gradinata termina su un ballatoio coperto da cinque portici, sul quale si aprono quattro porte: dalla prima a sinistra si entra nel cosiddetto laboratorio, la camera nella quale gli speziali manipolavano i loro ingredienti le cui pareti sono tap­pezzate da stigli in noce con piccoli armadi, scaffalature e vetrine: vi si conservano albarelli quei piccoli vasi di maiolica che erano usati degli speziali per la custodia di farmaci ed essenze. Nel centro centotrentasei idrie farmaceutiche colorate in blu, molte delle quali sono decorate con lo stemma dell'opera pia ospedaliera. Nelle vetrine vi sono barattoli di vetro che  servivano  anch'essi  a contenere  i  medicinali.

Si entra quindi nella farmacia vera e propria, un vasto salone rettan­golare rivestito anch'esso di un prezioso stiglio di noce, opera di Agostino Fucito, diviso in scaffalature e vetrine. Ricchissimi i tre fondali delle ve­trine in legno dorato e scolpito, sui quali sono esposti bottigline e bic­chieri, vetri di Murano e di Boemia o lavorati a Napoli da artisti spe­cializzati, e numerosi vasi policromi. Al centro del soffitto vi è una bella tela di Pietro Bardellino del 1570 raffigurante Macaone che cura un guer­riero: ai quattro lati le effigi dei naturalisti: Lavoisier, Barzelius, Dauy e Volta. Belli i lampadari policromi di Murano e pregevolissimo il pavi­mento in maiolica, dell'epoca di costruzione, attribuito a Giuseppe Massa. Da questa sala si entra poi nelle sale interne attraverso un ricco portale sormontato dal busto in marmo del Reggente degli Incurabili Antonio Maggiocca attribuito a Matteo Bottiglieri.

L'importanza di questa « spezieria » è dovuta alla raccolta di circa quattrocento vasi di maiolica di varie configurazioni e dimensioni, per lo più opera di ceramisti e maiolicari abruzzesi come F. A. Grue, il Castelli o artisti napoletani allievi del Grue come riteniamo siano stati Lorenzo Salamandra e Donato Massa.

Ritornati su via Armani, ricordiamo che essa era chiamata anticamente via di Santa Patrizia perché, dove oggi hanno sede gli Istituti della I Facoltà di medicina dell'Università, vi era il monastero di Santa Patrizia con annessa Chiesa dei SS. Nicandro e Marciano, officiata dai monaci basiliani di rito greco.

Il monastero passò poi alle monache appartenenti allo stesso Ordine e in seguito alle benedettine che costruirono una seconda chiesetta: l'at­tuale è quella rifatta da Giovan Marino della Monica nel 1607. L'interno, ad unica navata, è quasi spoglio, ad eccezione di un dipinto di Giuseppe Marnili e di un altro di Fabrizio Santafede; l'altare, molto bello, è opera di Ferdinando Sanfelice ed il tabernacolo in bronzo di Raffaele Mytens detto  il  Fiammingo.

Dietro l'altare maggiore era tumulato il corpo della Vergine Patrizia che venne poi traslato nella chiesa di San Gregorio Armeno; oltre la santa, in questa chiesa erano stati sepolti anche la sua nutrice e due eunuchi che avevano voluto seguire la loro padrona. In questo monastero vi era un pozzo chiamato per l'appunto « di Santa Patrizia » che è passato a si­gnificare qualcosa di inesauribile: esso era una grande cisterna attra­verso la quale passava l'acqua che da Serino andava a Miseno.

Ritornati al quadrivio, vediamo sulla destra la piccola Chiesa di Santa Maria della Vittoria o della SS. Trinità, appartenente alla Congregazione dei bottegai e dei venditori di grano. Quasi di fronte a questa chiesa ve ne era un'altra, la Cappella di San Leonardo, non più esistente.

Dopo il quadrivio la continuazione della strada che abbiamo finora percorsa, prende il nome di via Anticaglia; essa è resa caratteristica da due archi, robusti avanzi di ruderi laterici che hanno fatto fantasticare tanti scrittori, dai più attenti ai più sprovveduti.

Nel Medio Evo sembra che questa strada fosse lastricata in marmo, poiché era chiamata la via «marmolata», a meno che non fossero i por­tali in marmo dei palazzi a procurarle questo nome; era comunque una delle  più illustri  e  meglio abitate vie  della città.

Quanto alle arcate in laterizio romano,  si è  congetturato  che  appartenessero al Teatro Romano e che fossero contrafforti che cingevano la « summa cavea ». Dietro il tempio dei Dioscuri, infatti, trasformato come abbiamo visto nella chiesa di S. Paolo Maggiore, vi erano due teatri, uno scoperto e uno più piccolo coperto che, a sentire Stazio, erano quasi uniti :

« Et geminam molem nudi tectique theatri ».

I teatri, come attesta anche Marco Aurelio, si trovavano tra S. Paolo, l'Anticaglia, il vico Giganti e il Monastero dei Teatini, e nell'antichità la loro fama era grande.

Si sa che fino al secolo XV una parte del teatro scoperto era visibile, ma per vari terremoti, l'apertura di nuove strade e per la costruzione di palazzetti vari, ad oggi è rimasto ben poco. Nel teatro scoperto il pulpito della scena era parallelo a via S. Biagio dei Librai e a via Tribunali; il proscenio, che era molto vasto, con tre porte, finì sotto il Palazzo Capece Zurlo; ed il retroscena, chiuso in fondo da un muro alto ben 21 metri e lungo 19, fu incluso nel monastero dei PP. Teatini. Il muro, che davanti formava il pulpito, aveva delle nicchie e piccole scale per le quali i can­tori accedevano dal palcoscenico all'orchestra; di fronte al palcoscenico si trovava l'interstizio, dove era il sipario. Il diametro di questo teatro sco­perto era superiore ai cento metri e poteva ospitare oltre cinquemila spettatori. La cavea, in cui sedevano gli spettatori, era ad emiciclo e di­visa da corridoi in tre zone, « Summa », « Media » ed « Infima Cavea ». In alto un corridoio serviva a dividere la zona « infima » dalla « media »; il teatro era fornito di « vomitori ».

In occasione di un agone quinquennale qui si rappresentò una com­media in lingua greca dell'imperatore Claudio in onore del fratello Ger­manico, seguita secondo il costume del tempo da un ballo che veniva chiamato « emméleia » se era dato dopo una tragedia, « « cordax » se dato dopo una commedia, « sicinis » se seguiva un dramma, e veniva di solito eseguito da mimi che quando erano in grado di interpretare tutti i tre balli  venivano  chiamati  « pantomimi ».

II   teatro coperto chiamato Odèo o Odeon, era nella stessa zona, fra via S. Paolo e l'Anticaglia. Alcuni studiosi sostengono che fosse a nord del precedente e che i due archi in laterizio che abbiamo incontrato non ne facevano parte ma dovevano essere dei cavalcavia tra i due teatri come esi­stono a Pompei; altri non sono d'accordo ritenendo invece gli archi parti integranti del teatro.

In questo Odèon avvenivano le gare poetiche con canto e con musica ed i pituali vi gareggiavano tra loro unitamente ai suonatori; qui il cinico Nerone fu applaudito dai suoi claqueurs per il suo canto, malamente ap­preso dal maestro Terpno, e tutta la sua tracotanza non gli impedì di chie­dere  al  pubblico partenopeo di  applaudirlo.

La gente comunque accorreva per sentire cantare l'imperatore assas­sino, e specialmente gli alessandrini lo adulavano, acclamandolo insieme al popolino minuto, con « bombi, embrici e cocci », come riportano Sve-tonio e Giovenale. Anche Marco Aurelio ricorda come fossero disgustosi gli elogi che gli scrittori del tempo tributavano alle esibizioni canore di Nerone. L'imperatore in veste di citaredo si esibì varie volte in quel tea­tro, ed un giorno, ebbro del suo successo, volle offrire un pranzo a tutta l'orchestra, non disdegnando di mangiare sul palcoscenico davanti agli spettatori. Andato in Grecia, al suo ritorno Nerone si fermò di nuovo a Napoli, e come dice il Capasso: «volle applicare a se citaredo l'ono­ranza riserbata ai soli atleti vincitori nei solenni giuochi sacri... e rientrò a Napoli sopra un carro tirato da bianchi cavalli, attraversando un tratto di mura abbattute ».

Nel terminare la breve descrizione di questa zona centralissima della città greco-romana aggiungeremo che nei pressi vi era anche un bagno, a settentrione di questi archi, e la casa del filosofo Metronatte che, ai tempi di Nerone, teneva scuola di filosofia stoica. Era spesso suo ospite Seneca, che, molto amico del filosofo napoletano, amava ascoltare la sua lezione « all'ora ottava », cioè verso mezzogiorno, e scriveva poi al suo Lucilio che, quante volte andava nella casa di Metronatte, si vergognava del genere umano; egli stesso ci racconta inoltre che, per recarvisi, doveva attraver­sare il teatro napoletano.

Subito dopo il secondo arco vi è un Palazzo detto volgar­mente di Nerone, non perché fosse appartenuto all'isterico imperatore romano, ma perché dal suo giardino, come dalle case adiacenti in via San Paolo e nei vichi Cinquesanti e dei Giganti, sono visibili murazioni in « opus reticulatum » che facevano parte del complesso scenico del teatro e che oggi sorreggono costru­zioni secentesche.

Questo palazzo, che serba all'interno una graziosa scalinata, appartenne ai marchesi Artiaco, ma, oggi, è purtroppo in condizioni deplorevoli, come del resto tutta la strada.

Riprendiamo l'itinerario lasciando a destra il vico Cin­quesanti ed a sinistra il vico Limoncelli. Di qui la strada era chiamata nel secolo X « Duodecima putea spoliamorta » in quanto vi era una congrega di ebrei, trasferiti poi nella Giudecca vec­chia, che vendevano le spoglie dei morti. Nel secolo XI ed in quello successivo questo vico Limoncello era chiamato « vicus Judeorum ». Sulla sinistra vi è un'altra stradina chiamata di San Giovanni a Porta dove sembra dovesse esservi nel secolo IX una piccola chiesa dedicata al santo che forse dovè essere spo­stata per la costruzione delle mura.

Alcuni ritengono che il nome di questa antica stradina sia dovuto al supplizio dell'Apostolo Giovanni che fu messo nell'olio bollente davanti ad una porta.

Questa stradina era chiamata anche « la marmorata » poiché vi erano avanzi di antichi marmi, e nel secolo XIV « carrarium » forse perché que­ste lastre di marmo si ritenevano provenienti da Carrara, secondo una tesi interpretativa che riteniamo alquanto dubbia.

Ancora a destra dell'Anticaglia vi è il vico Giganti, dove vi era anticamente la piccola Chiesa di Sant'Anna che fu il primo oratorio della Compagnia di Gesù a Napoli.

Si vuole che in questo vico vi fosse una gigantesca statua nel cortile di un palazzo. Il nome precedente, agli inizi del Medio Evo, era « squarcia­rlo e verricelli » in quanto vi era una cappellina dedicata a Santa Maria Vertecoeli.

Sempre continuando per la nostra strada giungeremo al Largo Avellino, ove troveremo il grande Palazzo Caracciolo dei principi di Avellino.

Questo edificio, costruito in origine dal De Santis, fu dimora di Ottino Caracciolo, cugino di Ser Gianni e poi suo acerrimo nemico, che fu Gran Cancelliere di Giovanna II di Durazzo; il principe Camillo nel 1616 lo in­grandì e ricostruì, incorporandovi vecchie case, tra le quali quella di Por­zia de' Rossi, madre di Torquato Tasso, che una lapide così sbiadita da non essere leggibile ricorda nella facciata dell'incorporato Palazzo de' Ros­si. Il Tasso abitò da ragazzo per quattro anni nel palazzo, che era stato in origine dei Gambacorta, « dai quali assai probabilmente per Lucrezia, moglie di Giovanni de' Rossi e madre di Porzia, e per Beatrice moglie di Giovanbattista Caracciolo, soprannominato ' Ingrillo ' stipite dei Principi di Avellino, passò alla famiglia de' Rossi e parte alla famiglia Caracciolo d'Avellino ».

Nel 1522 dietro ordine degli Eletti del Popolo il palazzo fu restaurato dai de' Rossi e fu abbattuto un cavalcavia, che lo univa con altre case, ri­fatto poi dagli Avellino. Alla madre del Tasso venne assegnata una dote di cinquemila scudi, che fu poi causa di discordie, sicché il fratello Scipione, alla morte di Porzia, decise, d'accordo con gli altri parenti, di vendere il palazzo al duca di Atripalda, Domizio Caracciolo. Il poeta nel 1594 fece causa al nipote del principe di Avellino e si accordò poi con una transazione, mediante la quale ottenne cento scudi l'anno di cui purtroppo non potè godere perché morì.

Il principe di Avellino nel rifare il palazzo, per renderlo « più arioso », ricavò un largo per suo esclusivo uso dalla demolizione del convento di San Potito, e ne fece poi decorare i saloni dai migliori artisti dell'epoca. Vi era anche una ricca pinacoteca, che annoverava tra le numerose opere un Ecce Homo del Tiziano, Filosofi del Ribera, una Fuga in Egitto di An­drea Vaccaro e due battaglie di Salvator Rosa.

Don Camillo Caracciolo di Avellino era Cavaliere del Vello d'Oro e Gran Cancelliere del Regno, per essersi distinto nelle vittorie navali di Filippo II e Filippo III nel Belgio, nelle Gallie ed in Italia.

Nel tempo alcune finestre furono tamponate e all'inizio del secolo scorso il principe di Avellino provvide ad unire con due grandi volte le ali dell'edificio, onde permettere il passaggio per il largo.

Superato questo largo e l'omonimo palazzo, la strada per un breve tratto assume il nome di via San Giuseppe dei Ruffo, ed è intersecata dal vico San Petrillo, chiamato prima vico Avellino.

Qui si trovava una cappellina, dedicata a San Pietro, e volgarmente detta di San Petrillo, perché molto piccola, appartenente alla congrega­zione dei fabbricatori, dei tagliamonti e dei pipernieri. Anticamente il vico era chiamato anche de' Ferrari perché la famiglia omonima del Seggio di Montagna vi aveva un palazzo.

Sulla destra troviamo il vico dei Gerolomini, così chiamato perché faceva parte della bella chiesa omonima. Nel medioevo era chiamato di San Giorgio ad diaconiam, o Cafatino dal nome di una famiglia, o anche della Stufa.

Superata via Duomo e continuando sempre nella stessa direzione, si sfocia nel Largo di Donnaregina, chiamata anticamente Somma Piazza o Cortetorre.

Il nome di Donna Regina non gli fu dato in onore di Maria d'Unghe­ria, consorte di Carlo II d'Angiò che fece ricostruire la chiesa nel 1307 dopo il terremoto del 1293, ma perché in origine il monastero « era de­dicato a San Pietro e determinato dal Monte di Donna Reina, pel nome della proprietaria del suolo, elevato alquanto, dove fu stabilito ». Fin dal 1006 il monastero dunque era chiamato di Santa Maria di Donna Regina e la munifica regina non c'entra affatto.

La Chiesa di Donnaregina, nel vico omonimo a sinistra della piazza, in parte restaurata nel 1928, è una delle opere medievali napoletane più pregiate.

Unita ad un convento, essa era officiata da monaci basiliani ed inti­tolata a San Pietro; nell'VIII secolo ebbe il suo momento di notorietà per aver ospitato una figlia del Duca di Napoli Giovanni, ed una figliola dell'imperatore Anastasio di Oriente. Nel monastero femminile nel secolo XI trovarono asilo monache benedettine, sostituite nel 1348 da francescane, che dedicarono il complesso monastico alla Vergine Maria. Purtroppo, come abbiamo già detto, il terremoto del 1293 fece crollare tutto, e chiesa e monastero furono ricostruiti per munificenza della regina Maria. La predi­lezione della buona regina per le monache le seguì anche dopo la sua morte, perché lasciò loro in testamento 300 once d'oro ed una raccolta pregiatissima di oggetti preziosi, di libri miniati e di reliquari in oro ed argento.

Passato il cancello, a sinistra si ammira l'abside poligonale con alte bifore; un mediocre portale settecentesco immette nel piccolo chiostro di Ferdinando Sanfelice, ornato di maioliche. Nell'interno, la prima cosa da ammirare è il Sepolcro della regina Maria d'Ungheria, di Tino di Camaino e di Gagliardo Primario, del 1325, con l'illustre dama inginocchiata davanti alla Vergine sotto un padiglione. Il sarcofago è ornato di sbiaditi mosaici e da undici nicchiette, sette sul davanti e quattro ai lati, formate da colonnine ed archi acuti che contengono alcune statuette, raffiguranti i figli re Roberto, Filippo di Taranto, Raimondo, Carlo Martello, Beren­gario e Giovanni di Durazzo e, al centro, Ludovico, il santo.

La chiesa è divisa in tre navate da colonne ottagonali che a loro volta sorreggono il coro, una gran sala rettangolare con magnìfico soffitto cin­quecentesco a cassettoni, attribuito al Belverte; il coro vero e proprio, fi­nemente  intagliato,  era prima  in  San Lorenzo  Maggiore.

Ciò che maggiormente attira l'attenzione dell'osservatore sono però gli affreschi di Pietro Cavallini e di Lello da Roma che adornano le pa­reti. Riportati da tutti i trattati di arte medioevale, essi, che furono ese­guiti verso la metà del secolo XIV, sono in parte bisognevoli di restauro. Gigantesco è il Giudìzio Universale, diviso in tre parti: al centro gli uo­mini chiamati davanti al tribunale di Dio, a destra i buoni che vanno in paradiso, a sinistra i reprobi condannati al fuoco eterno; il Cristo è al centro con ai lati il Battista e la Vergine Madre. Seguono a destra alcune scene della vita di Santa Caterina d'Alessandria e di Sant'Agnese, fra le quali è molto convincente quella che raffigura la santa condotta in un lupanare ed il martino per difendere la sua verginità. Certo il tempo e l'incuria degli uomini hanno attenuato il colore, ma non hanno potuto cancellare la grazia magistrale del Cavallini e di Lello da Roma nella mo­dellatura e nella semplicità figurativa, tipica del loro tempo, che fa supe­rare la grossolanità della rappresentazione. A sinistra altri affreschi con scene della vita di Cristo, di Sant'Elisabetta d'Ungheria, di Profeti, di An­geli e Serafini, tutte mirabili opere che subirono una prima deturpazione nel 1520 quando sotto le capriate della tettoia fu messo il soffitto a cas­settoni. Salendo per una scaletta esterna si può ancora ammirare l'affre­sco della scuola del Cavallini, raffigurante la Visione dell' Apocalisse sulla volta originaria al  di  sopra del  soffitto  cinquecentesco.

Sulla piazza si affaccia poi l'altra Chiesa di Santa Maria di Donnaregina, edificata dalle monache nel 1620, quando rimase all'interno del complesso monastico l'antica cappella.

Costruita sotto la direzione di Giovanni Guarino, la chiesa fu termi­nata nel 1649 e inaugurata dal cardinale Innigo Caracciolo; attualmente ne è quasi ultimato il restauro ed è prossima ad essere aperta di nuovo al culto.

Per una maestosa scalea, non proporzionata alla misera facciata, si accede all'interno rivestito di bei marmi policromi ed affrescato nella cu­pola da Agostino Beltrando e nella volta dal Solimena. Sull'altare mag­giore vi è un bel polittico cinquecentesco dì ignoto autore e alla parete destra una Madonna delle Grazie di Paolo de Matteis; verso l'abside si trova un affresco del Solimena raffigurante San Francesco, ivi spostato in occasione di un restauro. A sinistra della navata si ammirano magnifici dipinti di Luca Giordano rappresentanti La Vergine e San Simone, La Pe­ste del 1656 e una Immacolata del Mellin; a destra lo Sposalizio della Ver­gine e San Giuseppe attribuito a Luca Giordano. La terza cappella, fine­mente ornata da Gaetano Sacco, contiene un pregevole dipinto di ignoto quattrocentesco raffigurante la Madonna della Libera ed un San Francesco del Solimena. In sacrestia si conserva un bel crocifisso ligneo del '400, un affresco di Santolo Cirillo del 1735 raffigurante una Adorazione del serpente di bronzo, ed una Annunciazione del Mellin del 1647. Di fronte a questa chiesa, sul lato destro della piazza vi è il Palazzo Arcivescovile, che con­serva il bellissimo portale durazzesco ed una imponente linea quattrocen­tesca; fatto costruire dal cardinale Enrico Minutolo, arcivescovo della città nel 1289, aveva originariamente l'ingresso dal vico Sedil Capuano, divenuto porta carraia del seminario nel passato secolo. L'antico palazzo rinasci­mentale nel 1613 fu ingrandito e restaurato dal cardinale Decio Carafa e poi ancora nel 1647 dal cardinale Ascanio Filomarino che provvide anche ad allargare la piazzetta antistante, ad ampliare alcuni ambienti ed a far decorare il suo appartamento dal Lanfranco. Altre innovazioni del severo arcivescovo furono la costruzione delle carceri per gli ecclesiastici e quel calendario tanto originale scolpito su due tavole di marmo che era un tempo in San Giovanni Maggiore. Nel 1735 dal cardinale Giuseppe Spi­nelli  fu  rifatto   l'appartamento  arcivescovile  ed  altri   lavori  furono intrapresi dagli arcivescovi Serafino Filangieri e Giuseppe Maria Zurlo, il quale fece ingrandire l'atrio dall'architetto Tommaso Senese.

Superate il vico Pietro Trincherà, giungiamo al Largo SS. Apostoli, sul quale si erge la Chiesa dei SS. Apostoli de'  PP. Teatini.

La prima chiesa fu edificata nel V secolo, sulle rovine di un tem­pio dedicato a Nettuno, dal vescovo Sotere o Sotero, che vi istituì una « pieve », cronologicamente la seconda della città, dopo quella di San Se­vero. Sino al 1530 le notizie su questa antichissima chiesa sono molto scarse e non precise e si sa soltanto che apparteneva alla famiglia Ca­racciolo Rossi e che, nel 1530, era sotto il patronato di Colantonio Carac­ciolo, marchese di Vico. Nel 1562 o, secondo il Galante, nel 1570, dall'omonimo nipote del marchese la chiesa fu data ai PP. Teatini di San Gaetano, cosa che provocò una immediata reazione da parte dei gesuiti, capeggiati dal fiero padre Salmeron, che varie volte avevano fatto pre­sente il desiderio di poterla avere. I gesuiti si rivolsero a don Annibale Capece Galeota, padre del Preposito Generale dell'Ordine di San Gae­tano, ma non riuscirono ad averla vinta, perché il marchese di Vico si oppose recisamente alla loro richiesta ed anzi si mise immediatamente all'opera per ingrandire a sue spese la chiesa. La direzione dei lavori fu affidata al teatino Francesco Grimaldi, considerato a ragione uno dei mi­gliori architetti napoletani, che fu ben onorato di poter fare del suo me­glio,  tanto più che  si trattava di  una chiesa del  suo Ordine.

Aiutato dai suoi discepoli Agostino Pepe, Giovan Giacomo Conforto, Pietro De Marino e Bartolomeo Picchiatti, il Grimaldi portò a termine l'opera entro il 1649 e la chiesa fu benedetta dal cardinale Filomarino. Le spese della costruzione, oltre che dal marchese Caracciolo di Vico, furono sostenute dalle altre famiglie Caracciolo, dal principe Camillo Caracciolo di Avellino, dalla marchesa Maria Caracciolo Spinelli, dalla duchessa Caracciolo d'Aquara, che vollero abbellirla ed arricchirla, ma, cosa strana, la facciata rimase completamente spoglia; come dice il Galante « non fu mai adornata » e non  sappiamo il perché di tale  nonsenso.

Durante la dominazione francese l'ordine dei teatini fu soppresso e la chiesa passò alla Congregazione di Vertecoeli, che ne fece dipingere il frontespizio in chiaroscuro con figure dell'Immacolata e dei SS. Filippo e Giacomo, mentre il convento veniva adibito a caserma e nel 1820 asse­gnato alle truppe austriache.

Nel 1821 al suo ritorno Ferdinando IV volle affidare la chiesa ai ge­suiti, ma questi, memori di non averla potuta avere a suo tempo, rifiu­tarono l'offerta del sovrano, chiedendo invece i locali di San Sebastiano, che ottennero nel 1825, dopo che ne fu fatto sloggiare il Collegio di Mu­sica. La chiesa rimase così abbandonata sino al 1857, quando dopo uno dei tanti terremoti che hanno sempre afflitto Napoli, l'arcivescovo Sisto Riario Sforza volle a sue spese restaurarla dandone incarico all'architetto Michele Ruggiero. Venne quindi riaperta al culto nel 1872, alla vigilia della festa dei SS. Pietro e Paolo.

Nel 1943 i bombardamenti si accanirono anche contro i SS. Apostoli, provocando danni ingentissimi alla costruzione, e soltanto nello scorso anno i nuovi restauri sono terminati ed i teatini son potuti rientrare nel loro convento dopo oltre un secolo.

Introduce all'interno del tempio una bella scalea in piperno a tre lati del 1685; la chiesa è a croce latina e ad unica navata, con quattro cap­pelle per lato con ampie arcate, ed abside a cupola semicircolare. Il bel pavimento di Francesco Viola, della fine del '600, costituito da mattoni e strisce di marmo, fu restaurato agli inizi di questo secolo a spese del cardinale arcivescovo di Napoli, Giuseppe Prisco. Nel monumentale in­terno, ornato da otto cupolette ovoidali ed illuminato da lanternini luciferi, desta particolare ammirazione una magnifica cupola all'incrocio del tran­setto, che prende luce da otto alti finestroni a tamburo. La graziosa volta a botte lunettata è conclusa dall'abside semicircolare anche lunettaio, ma una pesante decorazione a stucchi effettuata nel 1637 da Bartolomeo Santullo, Francesco Cristiano e Silvestro Falvella sminuisce l'eleganza dell'in­sieme. Una lesena con capitelli corinzi sostiene la navata decorata da una svelta trabeazione, mentre pilastri con capitelli reggono gli archi; su un cornicione piuttosto pesante, sorretto dai peducci della cupola, si ergono infine un tamburo ancora più pesante, opera di Giovan Battista d'Adamo su disegno del Lazzari del 1680, e la volta con affreschi del Lanfranco raf­figuranti i martirii e alcune scene della vita dei SS. Apostoli. Anche gli affreschi dei pennacchi della cupola e  della crociera sono magnifiche pitture di Giovanni Lanfranco di Parma, mentre la cupola fu affrescata da Giovan Battista Benasca. Nel 1693 Francesco Solimena arricchì con sedici tele gli archi delle cappelle; il grande affresco sulla facciata interna, opera del Lanfranco del 1644, rappresenta la Piscina Probatica, ma l'architet­tura che ne è lo sfondo fu eseguita da Viviano Codazzi.

Sotto la cupola vi è il Sepolcro di Luigi prìncipe di Bisignano e conte della Saponata e subito a sinistra la Cappella del beato Paolo Burali d'Arezzo, teatino, arcivescovo di Napoli nel 1576: lo si ricorda per la sua severità verso gli ordini religiosi femminili che lo portò ad ottenere dal Santo Padre la chiusura dei monasteri di S. Maria degli Angeli e di Sant'Arcangelo a Baiano. Il dipinto del beato, del 1775, è di Francesco De Mura, mentre le due tele rappresentanti Maria Maddalena e Santa Te­resa sono del Solimena. La balaustra, opera di Gaetano Sacco, è del 1695. Segue la cappella di San Gregorio, col dipinto del santo di Domenico Fia-sella ed una tela raffigurante la Vergine di Carlo De Rosa. La cappella se­guente è dedicata al santo fondatore dell'Ordine dei teatini Gaetano da Thiene, che è raffigurato da Agostino Beltrando; alle pareti vi è un di­pinto rappresentante la Peste del 1656 di Giacomo Farelli. Nella cappella seguente si ammira una Madonna e i SS. Pietro, Paolo e Michele di Marco Pino.

Nel transetto sinistro vi è l'altare Filomarino, in marmo bianco, fatto costruire dal cardinale Ascanio su disegno di Francesco Borromini, rite­niamo l'unica opera di questo artista a Napoli; le decorazioni sono opera di Andrea Bolgi, i putti di Francesco Duquesnoy ed i leoni di Giuliano Finelli. Nel paliotto è raffigurato il Sacrificio di Abramo in un dipinto di Giulio Mencaglia e adornano le pareti i mosaici raffiguranti l'Annuncia­zione e le Virtù di Giovan Battista Calandra, copiati da quadri di Giulio Reni.

Nelle cappelle di destra troviamo scene della vita di San Nicola del Malinconico nella prima, e nella seguente dedicata a Sant'Ivone, protet­tore degli avvocati, scene relative a questo santo dipinte da Paolo De Matteis nel 1713, oltre alla bella Tomba di Vincenzo Ippolito eseguita da Giuseppe Sammartino nel 1776.

La cupola, come abbiamo accennato, è affrescata dal Benasca e dal Lanfranco, e le pareti laterali sono adornate da tele di Luca Giordano raf­figuranti la Natività della Vergine, la Natività di Gesù, la Presentazione al Tempio, e il Sogno di Giuseppe. Nel transetto destro vi è l'altare Pignatelli e si ammira una Immacolata di Francesco Solimena con ai lati due medaglioni di Bartolomeo Granucci raffiguranti San Gaetano e Sant'Andrea Avellino; molto belli i due candelabri nel presbiterio, del fonditore teatino Antonio  Bertolino  da Firenze.

Di rilevante interesse è la Cripta, del 1636, adibita allora a cemeterium. Essa ha la stessa area della chiesa ed è divisa da quattro file di pilastri in cinque navate, con l'altare maggiore tra due scale di ingresso e quattro altari laterali. Ci sono degli affreschi rappresentanti la Deposi­zione, il Cristo Morto, la Resurrezione di Lazzaro, la Resurrezione dei Giusti, il Sonno della Vergine, la Resurrezione dei Reprobi e Gesù che re* suscita la figlia di Giairo che vengono attribuiti al Lanfranco. Fra le lastre tombali, si notano quelle riferentesi ai sepolcri del principe Nicola di Somma del Colle, opera di Francesco Mozzetti e Francesco Valentini, di Lucio Caracciolo del Solari, e del poeta Giovan Battista Marino, il cui cenotafio si trova nella chiesa di San Domenico Maggiore.

Tornati nella chiesa, dopo il Cappellone dell'Annunziata, troviamo un ambiente quadrato che porta in sacrestia, dove a sinistra vi è un Monu­mento — non la tomba — di Gennaro Filomarino vescovo di Calvi Risorta, opera di Giuliano Finelli, e alcuni quadri insignificanti. La stupenda sa­grestia barocca, una delle più belle delle chiese napoletane, l'abbiamo vista ridotta a deposito. Costruita nel 1626 fu restaurata su disegno di Ferdi­nando Sanfelice; gli armadi in noce sono di Giovanni Corrado, e gli af-ferschi raffiguranti l'Assunzione, il Sacrificio di Aronne, il Trionfo di Giu­ditta, l'Incontro di Giacobbe, ed alcune figure muliebri del Vecchio Testa­mento, sono di Nicola Malinconico. Dalla sacrestia si passa al Tesoro, che è una piccola cappella ottagonale ove si conservano paramenti ed arredi sacri di valore; segue il bel coro del 1640 in noce intagliata, opera di Francesco Montella e di Antonino da Sorrento. Al centro l'organo sette­centesco di Felice Cimmino e dietro un piccolo altare. L'abside, diviso da sei pilastri, ha negli interspazi delle tele del Lanfranco raffiguranti l'Ap­parizione della Vergine e di San Gennaro, Sant'Andrea Avellino, Gesù ed

i Teatini, il Martirio dei SS. Filippo e Giacomo ed il Trionfo dei SS. Fi­lippo e Giacomo. Dal Coro si accede al campanile seicentesco in mattoni rossi,  piperno  e  marmo,  attribuito  al  Picchiatti.

Ritornati sui nostri passi imbocchiamo la stradetta chiamata di Santa Sofia che ci porterà in via San Giovanni a Carbonara. Questa larga strada, a sinistra, prende il nome di via Cirillo; in uno dei suoi palazzi, e precisamente al numero 3 nacque Gio­vanni Leone, attuale Presidente della Repubblica. Noi andremo verso sinistra; troveremo subito il grandioso Palazzo Santobuono, del secolo XVII, costruito su un castello angioino eretto da Carlo II che fu dato poi in dono nel 1309 da Roberto d'Angiò a Landolfo Caracciolo. Sempre a sinistra vi è la piccola Chiesa di Santa Sofia, presso la quale vi era la bottega di quel sarto dal cui pozzo entrarono le milizie di Alfonso d'Aragona il 2 giugno del 1442. A destra invece vi è un complesso artistico-monumentale di infinito interesse, che rappresenta per la città un vero patrimonio culturale. Una caratteristica scalinata a due branche a pianta ellittica ideata da Ferdinando Sanfelice nel 1707 porta ad una delle più belle chiese napoletane e precisamente quella di San Giovanni a Carbonara.

Questa zona nel Medio Evo era chiamata Carbonara perché destinata allo scarico del carbone e dei rifiuti della città. Dopo aver superato un cancello s'incontra prima la Chiesa di Santa Sofia, di costruzione barocca, che è sottostante a quella di San Giovanni. L'interno offre un bell'altare del Sanfelice del 1743 e alcuni rilievi cinquecenteschi raffiguranti Scene del Vecchio e del Nuovo Testamento. Salita la scalea a cui abbiamo accennato ci troviamo di fronte la Cappella di Santa Monica, che contiene un ma­gnifico Sepolcro opera di Andrea da Firenze, quello di Ruggiero Sanseverino. Continuando verso sinistra si giunge nel recinto del quattrocentesco tempio di San Giovanni a Carbonara. Per la visita occorrerà rivolgersi al­l'Ufficio Parrocchiale, sito nella sottostante chiesetta di Santa Sofia, perché come si è detto, i restauri sono stati sospesi e il complesso ecclesiastico non è aperto al culto.

La Chiesa di San Giovanni a Carbonara è una delle più interessanti chiese napoletane sia per la sua storia sia per le spoglie di reali, di digni­tari di corte, di cortigiani, di patrizi, di giureconsulti, di prelati e di guerrieri, intimamente legati alla storia della nostra città, che accoglie.

La fondazione del tempio è opera della pietà e della munificenza del patrizio napoletano Gualtiero Galeota. In quel sito, infatti, sorgeva un piccolo convento di agostiniani eremiti, modesto e misero, in cui si aveva cura delle anime di quel popoloso quartiere. Il nostro Gualtiero, o Galderio, volle donare all'abate del convento, fra' Giovanni d'Alessandro, ed al priore della Chiesa, fra' Dionigi del Borgo, alcune case e un orto siti fuori le mura della città, in quel luogo chiamato Carbonara o Carboneto, perché vi costruissero un convento ed una chiesa dedicata a San Giovanni Battista, patrono della nobile famiglia Galeota. Questo nel 1339; nel 1343 lo stesso patrizio, ammirato dalla austerità degli Eremiti, volle fare un'ul­teriore donazione regalando loro altri due giardini attigui alla casa.

Dopo la seconda donazione, una parte dei frati, ritenendo la resi­denza troppo lussuosa, la abbandonarono; altri, invece, preferirono rima­nere per continuare il loro apostolato. Così si divisero fondando una Con­gregazione detta dell'Osservanza: fra' Gerardo da Rimini fu eletto Vicario Generale dell'Ordine e fu dato a fra' Dionigi, che si era anche laureato a Parigi in Lettere e Filosofia, l'incarico di sovraintendere alla costruzione della chiesa ed all'ingrandimento del Monastero. Questo incarico terminò però presto, poiché, essendo giunta a Roma la fama delle alte doti di apostolo e di organizzatore del nostro frate, papa Benedetto XII volle eleg­gerlo vescovo affidandogli la diocesi di Monopoli nelle Puglie. Nel 1343 l'arcivescovo di Napoli concesse il permesso per la costruzione della chiesa e così la prima pietra potè essere posta il 22 dicembre dello stesso anno con  la benedizione  del vescovo di  Capri.

Il Celano, il Summonte, il Cadetti ed il Sigismondo affermano che l'antica chiesa edificata sul terreno donato dal Galeota è quella che si os­serva nel basso della grande scalinata che porta all'attuale chiesa e che questa, invece, fu eretta da re Ladislao. Se si considera che il Galeota fece una prima donazione seguita poi da una seconda, non è possibile avallare questa tesi ritenendo, così, che la chiesa fosse tanto piccola da invogliare il re a farne un'altra a distanza di soli cinquant'anni. Si può tutt'al più pensare che Ladislao facesse costruire un nuovo chiostro a lato del primo e che ampliasse ed arricchisse la chiesa ed il convento tanto da meritarsi qui l'asilo per la sua sepoltura. È quindi accettabile la tesi del­l'abbellimento e dell'ingrandimento di quest'opera ai principi del '400 per volere di Re Ladislao e con la sovraintendenza ai lavori da parte di Giosuè Recco, gentiluomo di Corte del Reame. Ritornando al 1343, il disegno della chiesa fu di Masuccio II e l'esecuzione di Angelo Criscuolo, con mo­desta pietra, come dice il De Dominici, per la povertà dei monaci. Anche questo costituì motivo per l'abbellimento voluto da Re Ladislao che av­venne con marmi molto pregiati per opera del solito e « fantomatico » Andrea Ciccione. L'entrata della chiesa si raggiunge, come abbiamo detto, dopo aver percorso un'ampia scala di piperno costruita da Ferdinando Sanfelice, alla cui sommità si trova la Cappella di S. Monica. Passando per un arco a sinistra, ci troviamo in un cortile dal quale si accede alla nostra chiesa. Questa non ha facciata; ma ha un bel portale gotico di buona fattura, con arco a due terzi acuto, formato da due pilastri con ornamenti e decorazioni raffiguranti teste di animali incorniciate da foglie in finissimi piccoli tondi. Nella lunetta c'è un affresco di Leonardo di Besozzo che avrebbe bisogno di una buon restauro. Otto stemmi angioini, alcuni in via di restauro e quindi non al loro posto, sono tra l'epistilio e l'arco, unitamente alla figura del sole splendente, scudo della famiglia Caracciolo del Sole, ramo cadetto oggi completamente estinto. L'esistenza dello stemma del già noto Sergianni ci fa pensare che probabilmente egli dovè far parte di coloro che ispezionavano i lavori. In caso contrario bisognerebbe dedurre che l'architetto abbia ecceduto in cortigianeria, in considerazione dei legami che univano il gentiluomo alla regina Giovanna.

La chiesa è a croce latina, ad unica navata rettangolare con cappelle aggiunte nel precedente restauro ed ampliamento effettuato nel secolo XVIII. Il presbiterio, purtroppo fortemente danneggiato dai bombardamenti del 1943, conserva la sua linea gotica.

Subito a destra dell'entrata vi è l'altare dei Recco, con pitture di Decio Tramontano (1556) raffiguranti la Madonna col Bambino, i Santi Matteo e  Bartolomeo;   nel  paliotto  vi è  un magnifico Cristo.

Segue la cappella Argento, col Sepolcro del giureconsulto Gaetano (+1730), di Franco Pagano su disegno di Ferdinando Sanfelice, quello di Nicola Cirillo e del poeta Nicola Capasso (+ 1745). Sull'altare vi è un di­pinto di Giovanni Vincenzo Forlì raffigurante Sant'Orsola e le sue discepole.

L'altare maggiore, con balaustra del 1746 e pavimentazione di marmi policromi, colpisce per la linea barocca manierata. Opera di Annibale Caccavello, fu poi rifatto, ma attualmente è completamente  smontato.

Ai lati, vi sono due magnifici finestroni a quarto di sesto acuto di perfetta linea gotica e la volta riquadrata a crociera, originariamente af­frescata da Gennaro di Cola. Immediatamente dietro l'altare vi è l'impo­nente Monumento funebre dì Re Ladislao, eretto dalla sorella Giovanna II che gli successe al trono di Napoli. Il monumento, nel 1428, fu eseguito da Marco e Andrea da Firenze o, secondo il Celano, da... Andrea Ciccione, che ne avrebbe fatto un modello in creta ed uno in calcestruzzo, que­st'ultimo esposto in uno dei chiostri del monastero. Sempre secondo il Celano, sembra che « Giovanna secunda si degnò di elevarlo a suo gen­tiluomo ». Quattordici anni furono impiegati per completare quest'opera marmorea che  ha  sempre  suscitato  grande  interesse.

Alto quanto la cappella maggiore (ben diciotto metri), il monumento è sostenuto da quattro colossali cariatidi rappresentanti quattro Virtù, e cioè la Prudenza, la Fortezza, la Perseveranza e la Magnanimità e poggia su una grande base divisa in due parti che lascia libero, nel centro l'in­gresso della Cappella dei Caracciolo del Sole. In secondo piano cinque ar­chi gotici, e nei van ai Iati, le figure di Sant'Agostino e San Giovanni di Leonardo di Besozzo (1428). In una gran nicchia formata da due archi si vedono sei statue sedute:  Ladislao e Giovanna con corona, manto regale,

scettro e globo, personaggi della Corte e altre Virtù, come la Speranza in preghiera e la Virtù militare con spada e sfera, la Carità che dà latte a due orfanelli e la Fede con un calice dorato.

L'arco mediano è sorretto da pilastri e adorno di statuette e decora­zioni gotiche. In terzo piano il sarcofago con quattro figure in nicchiette riproducenti Re Ladislao, Giovanna ed i loro genitori Carlo III e Marghe­rita. Sull'urna vi è la figura morente benedetta da un vescovo e da due diaconi e due angioletti che sollevano le cortine a mo' di baldacchino.

Vi è ancora un altro arco, all'interno del quale vi è la Vergine con i Santi Giovanni e Tommaso, sulla cui sommità campeggia la statua eque­stre del Re in completa armatura con la scritta: Divus Ladislaus. Sedici statuette, raffiguranti gli apostoli, alcuni profeti e qualche monarca, deco­rano i pilastrini, che sovrastano gli archi minori: due pilastri principali terminano in due cupole di forma gotica con due angeli e lo stemma reale che è più volte ripetuto, sorretto da dragoni o da geni. I fregi e le nic­chie hanno ancora una patina d'oro, molto stinta, in parte completamente annerita. Due iscrizioni in esametri di Lorenzo Valla alle cornici, non molto decifrabili, tradotte malamente in volgare nel secolo XVI, comple­tano  il  monumento.

Per il sottostante arco si giunge alla cappella della Natività della Ver­gine, proprietà dell'antica famiglia Caracciolo del Sole, la cui pavimenta­zione è a mattonelle maiolicate del 1427.

La cappella fu restaurata nel 1699 e nel 1753 ed ancora dopo i danni subiti nel 1943. È. rotonda e divisa in otto zone da colonnine gotiche con alta e bella cupola semicircolare; vi sono affreschi di Perrinetto da Benvart del secolo XV raffiguranti la vita degli Eremiti Agostiniani, e di Leo­nardo da Besozzo dello stesso secolo, rappresentanti la Trinità, la Natività di Maria, l'Annunciazione, la Presentazione al Tempio, il Transito della Vergine e figure di personaggi dell'epoca. Alla parete è addossato l'altro monumentale Sepolcro di Giovanni Caracciolo del Sole, comunemente chia­mato Sergianni. Questo personaggio, che abbiamo precedentemente incon­trato, appartenne ai Caracciolo della linea dei Pisquizzi e dei Sarda da Siena. Figlio di Francesco, fu duca di Canosa, conte di Avellino, Gran Si­niscalco del Reame. Di spirito intraprendente e di carattere risoluto, com­batté a capo della cavalleria contro i d'Angiò, contro i Fiorentini e con­tro i baroni ribelli ottenendo piena vittoria; sposò Caterina Filangieri, ma è personaggio noto nella storia napoletana per essere stato uno dei favo­riti della regina Giovanna, della quale fu « amatore e servitore »: servitore perché la servì davvero fedelmente (uno dei suoi meriti fu quello di farla riappacificare con Martino V), amatore perché... ne fu l'amante. Fu un gaudente e riuscì ad ottenere dalla vita quasi tutto quello che desiderava, ma il matrimonio tra suo figlio Trojano e la figlia di Jacopo Caldora fece declinare per sempre la sua stella. Le nozze furono onorate dalla presenza della regina, ma la stessa notte, a festa finita, alcuni congiurati, tra cui Francesco Cimino, Pietro Palagano, Leonardo Bruni, nemici di Sergianni, lo svegliarono dal sonno, dicendogli che la regina voleva vederlo immediatamente, ed appena fuori dalla stanza, Io trucidarono senza pietà. Subito dopo i congiurati si recarono dalla Sovrana, e ottennero di essere ri­cevuti con l'aiuto compiacente della duchessa di Sessa che aveva sempre odiato il Caracciolo. I congiurati riferirono alla Regina l'accaduto manife­stando il loro orrore e il loro dolore affermando, che il Gran Siniscalco era stato assassinato da alcuni suoi parenti, e che essi, presenti sul posto al momento dell'aggressione avevano invano tentato di dargli man forte, ma, giunti troppo tardi, altro non avevano potuto fare che trarre in arre­sto i responsabili  dell'orrendo delitto.

Il cadavere, abbandonato da tutti rimase nella camera per più di una giornata, finché i buoni eremiti non Io prelevarono per dargli cristiana sepoltura sulla collinetta di Carbonara. In seguito il figlio Trojano chiese ed ottenne dalla Regina il permesso di dare degna sepoltura alle spoglie dal padre, e provvide così ad erigergli questo grandioso monumento fune­rario che, anche se incompiuto, è pur sempre una magnifica opera rina­scimentale.  Ne fu artefice Andrea da Firenze nel 1433.

Sulle pareti vi sono due iscrizioni che furono spostate nel secolo XVIII una di fronte all'altra. Il monumento si compone di un'arca sor­retta da sei pilastri, da tre statue di guerrieri e da quella del nostro per­sonaggio, che è sovrastante. Le statue laterali hanno la base composta di ben cinque colonnine, di cui la centrale poggia su una base poligonale con fregi e decorazioni.

I guerrieri sono completamente armati con corazza recante lo stemma della famiglia Caracciolo e hanno sulle spalle un gran mantello; il guerriero di destra ha in una mano un'ascia e nell'altra un serpente acefalo, quello di sinistra ha la spada sfoderata e quello di centro, un vecchio barbuto, con una mano impugna la clava e con l'altra ferma un leone. Essi rappre­sentano la Forza, la Prudenza e le Virtù militari. I tre guerrieri toccano con la testa la base dell'Arca ed i pilastri sono decorati da fogliame; nella parte frontale risultano scavate delle nicchie dalle quali si affacciano sei figure femminili. I pilastri posteriori ai lati, ed i pilastri delle due colonne parietali e della rotonda, sono decorati e finemente ornati. Da­vanti vi sono altre due statue simboliche che appaiono nude sotto un mantello: una ha in mano una torre e l'altra una colonna ed una sfera. Ai lati dell'arco ci sono due angeli rappresentanti San Michele e San Ga­briele che schiacciano un drago, con in mano l'uno una bilancia ed una spada (che più non esiste), e l'altro un dardo ed un globo; sull'attico vi è un'iscrizione latina del Valla. Quest'arca ci viene di fronte con ai fianchi due statue situate nelle nicchie dei pilastri che scorrono in su tra due cornicioni, uno in stile dell'epoca e l'altro in stile classico. Al centro di essa vi è lo stemma dei Caracciolo con corona di alloro sorretta da due angeli. Il monumento, così bello ed espressivo, ha un attico reso misero da una semplice cornice; la figura del personaggio è alquanto modesta e poco rispondente al suo temperamento, e c'è un brutto contorno di leoni galeati che non hanno alcuna fierezza. L'affresco della Natività in una fa­scia del monumento porta l'iscrizione: « Leonardus de Basucio de Medio-lano hanc cappellani et hoc sepulcrum pinxit ».

A sinistra del Presbiterio troviamo la bella Cappella Caracciolo di Vico, di forma ottagonale e di stile dorico, come rilevasi dalle due colonne che terminano ad arco romano. Coppie di colonne sempre di ordine do­rico, sistemate a quattro arcate, danno al disegno della cappella, che sì ritiene opera del Malvito, una eleganza e una maestosità veramente ec­cezionali. Eretta nel 1517 per desiderio di Galeazzo Caracciolo, terminò ben quarantanni dopo, completa di sculture, per volere del figlio Nicola Antonio. Il gran cornicione dorico, l'attico ed otto finestroni con nicchiette e statue di santi, la bella cupola con cupolina, e gli stemmi della famiglia completano la bellezza della cappella. Conosciamo, come abbiamo già detto, l'autore del disegno, ma non sappiamo con sicurezza chi ne sìa stato l'esecutore; generalmente la si attribuisce al Santacroce o a Pietro della Piata.

L'opera comunque, è veramente imponente. L'altare è in una grande nicchia di fronte alla porta ed ha come paliotto un bassorilievo raffigu­rante Cristo Morto, e sopra un San Sebastiano, gli Evangelisti e San Gior­gio, opere di Diego de Siloe. Vi sono anche un San Marco, un San Luca ed un'Epifania di Bartolomeo Ordofiez e un San Giovanni Battista di Girolamo Santacroce. A destra vi è il Sepolcro di Galeazzo Caracciolo, raffigurato armato con la stessa corazza da lui indossata nella famosa batta­glia di Otranto; il monumento è fiancheggiato da quattro colonnine fine­mente decorate e da due piccole statue rappresentanti Adamo (perduto) ed Eva. Due satiri con in mano una gran lente, emblema della famiglia, sorreggono l'urna.

All'opposta parete vi è il Sepolcro del marchese Antonio Caracciolo di Vico, figlio del primo proprietario, opera di Gian Domenico d'Auria; la linea del disegno è quasi identica a quella del monumento di Galeazzo. Altre due statue ai lati rappresentano la Carità e la Vigilanza. Nelle nicchie minori vi sono statue raffiguranti San Pietro, di Giovanni da Nola, San­t'Andrea, di Annibale Caccavello e San Paolo e San Giacomo attribuiti al Santacroce. Altre statue, temporaneamente rimosse per restauro, raffigu­ranti Marcello Caracciolo (attribuita allo Scilla da Milano), Lucio Carac­ciolo e Carlo, marchese di Torrecuso, sono opere di Giuliano Finelli o da alcuni attribuite al Sammartino. All'uscita della cappella vi è il Cenotafio di Nicola Cirillo con bella iscrizione di Nicola Capasse

Dalla navata si passa nella vecchia sacrestia, che fu costruita dai Ca­racciolo di Sant'Eramo. Di forma rettangolare, con magnifico arco ed al­tare in marmo, ha un sepolcreto sotterraneo della famiglia; da una porti­cina ci si immette in una piccola sacrestia con bellissimo lavabo in mar­mo. Segue la Cappella dei Caracciolo di Sant'Eramo, che fu cappella del Collegio Militare quando il Monastero ne divenne sede. Alle pareti si ammirano diciotto tavole rappresentanti Scene del Vecchio e del Nuovo Testamento,  gli Evangelisti ed i Dottori dipinti  da Giorgio  Vasari  e Cristiano Gherardi nel 1546; poiché il restauro della chiesa è ancora in atto, tali tavole riteniamo siano ancora presso la Sovraintendenza.

Rientrando nella navata, vediamo l'altare della Madonna delle Grazie, sul quale in una nicchia vi è la statua della Vergine di Michelangelo Nac­cherino del 1578. Appartenente alla famiglia Conte e precisamente a Marzia Carola vedova di Tiberio Conte e poi al figlio Giovan Battista, indi ai Ben-vanto ed in ultimo al marchese Antonio Mastrilli  di Livari.

Segue la Cappella della Natività del Signore, detta anche del Presepe per alcune figure lignee di Pietro e Giovanni Alamanno del 1478. Appar­tenne alla famiglia Recco, fondata da Giosuè nel 1423, poi al marchese Giovan Battista Imperato di Spineto ed infine ai Caracciolo Mastrogiudice. Addossato alla parete vi è un'altra magnifica opera, il Monumento dei Miroballo o Cappella di San Giovanni Battista di Jacopo della Pila, ter­minato da Tommaso Malvito nel 1419, per volere del marchese Alessandro Miroballo di Bracigliano.

In un arco semicircolare vi è un altare con magnifiche statue rap­presentanti le quattro Virtù cardinali, la Vergine col Bambino, il Miro­ballo con la consorte Maddalena, presentati da San Giovanni Battista e da San Giovanni Evangelista. La volta è divisa in rosoni con testoline di an­geli. Altre statue rappresentano i Santi dottori Agostino, Ambrogio, San Girolamo e San Gregorio Armeno con anelli orientali alle dita.

Seguono in una nicchia affreschi raffiguranti la Vita di San Francesco di ignoto autore quattrocentesco (emersi nel restauro) e nella parete oppo­sta in un'altra nicchia di marmo una Vergine col Bambino opera del 1601 del Naccherino e frammenti di una cimasa del Malvito raffigurante l'Eterno Padre, facente parte della Cappella della Consolatrix afflictorum o di San Nicola da Tolentino, appartenuta ai principi di  Santobuono.

Subito dopo vi è la Cappella dei principi di Somma del Colle, dedi­cata all'Assunzione, di Giovan Domenico d'Auria e di Annibale Caccavello, iniziata nel 1553 e terminata nel 1566. L'architrave, sorretta da due co­lonne, ha, in alto una magnifica decorazione ed una iscrizione latina inneg­giante alla famiglia del Colle; nelle lunette due Vittorie ed un sott'arco con magnifica porta. La cappella, rettangolare, è divisa da ben dodici co­lonne ed un gran cornicione intorno ripartisce le pareti dalla volta, che è affrescata da autore ignoto napoletano del secolo XVI e divisa in tre cas­settoni nei quali si ravvisano la Passione di Gesù, ed alcuni Profeti. Am­mirevole la Tomba del principe Scipione di Somma del Colle e l'altare in marmo con rilievo dell'Assunta, eretti dalla consorte donna Ippolita Monforte. Il sepolcro è costituito dall'urna ornata di rosoni, con la figura giacente del principe, che poggia su una grande base: ai lati due pilastri con Io stemma della famiglia e puttini con scudo e con libro.

Uscendo da questa cappella s'incontra l'altare della Purificazione, ese­guito per desiderio di Giulia Caracciolo nel 1569 da Annibale Caccavello; sotto l'altare vi è la tomba di Biagio Marsicano.

All'uscita della Chiesa, a sinistra, vi è l'altare dell'Annunciazione, de­dicato anche a San Francesco di Paola, con dipinto di Leonardo da Besozzo che  avrebbe bisogno  di molto  restauro.

Fuori la Chiesa, nel cortile, vi è la Cappella del Crocefisso, che appartenne al barone Giacomo Seripando di Casapuzzano e poi nel 1638 ai duchi Capece Minutolo di San Valentino. Sull'altare vi è una stupenda Crocefissione di Giorgio Vasari, e alla parete il sepolcro di Antonio Se­ripando. Si ritiene che il vero fondatore di questa cappella sia stato il Cardinale Geronimo Seripando, Arcivescovo di Salerno il quale, prima di morire lasciò la porpora per indossare l'abito monastico nel Convento di San Giovanni a Carbonara.

Usciti da questa importantissima visita, proseguendo verso destra andremmo in via Foria, che vedremo poi; noi scende­remo invece questa strada, lasciando a sinistra e a destra vicoli e vicoletti di nessun interesse, e superata la piazza Enrico De Nicola, per via Alessandro Poerio giungeremo in Piazza Garibaldi, detta anche « della Ferrovia » perché vi è la Stazione Centrale delle Ferrovie dello Stato.

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Ultimo aggiornamento:  12-11-08