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La zona flegrea è così chiamata dal latino «phlegraei» che significa ardente, pieno di calore e di fuoco. La denominazione latina, proveniente a sua volta dall'altra greca, vuole indicare una zona vulcanica. Prendiamo la via Domitiana lasciando a destra Agnano e dirigiamoci verso Pozzuoli.

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Prima di arrivare in paese troveremo sulla sinistra la Chiesa di San Gennaro, che fu costruita nel 1580 nel luogo dove si racconta fosse giustiziato il santo.

Parlando del miracolo di San Gennaro, abbiamo già accennato che in questa chiesa si conserva la pietra sulla quale il santo fu decapitato, che ha alcune macchie sbiadite di sangue le quali diventano di color rubino nello stesso momento in cui nella cappella del tesoro di San Gennaro nel Duomo di Napoli avviene il miracolo della liquefazione nelle ampolle. At­tualmente questa chiesa è officiata da frati cappuccini.

Prima di entrare nella cittadina di Pozzuoli, l'antica « Puteoli », troveremo a destra l'Anfiteatro Flavio della seconda metà del primo secolo d.C, che, con un asse longitudinale di 149 mt. e il transetto di mt. 116 poteva ospitare ben 40.000 spettatori.

Tre ordini di arcate costituiscono l'esterno e la cavea ha tre ordini dei quali due sono divisi da scalette; nei suoi sotterranei c'è una fitta rete di corridoi e cellette in una delle quali si racconta che furono im­prigionati San Gennaro e i suoi compagni, condannati ad essere divorati dalle belve feroci : questa cella fu poi trasformata in una cappella dedicata al santo patrono napoletano. Questo anfiteatro, costruito al tempo di Ve­spasiano, è il più grande conosciuto dopo il Colosseo e quello di Santa Maria Capua Vetere : esso rimase per molto tempo sepolto sotto i detriti dell'eruzione della Solfatara, finché nel 1839 furono iniziati gli scavi sotto la direzione dell'architetto Bonucci. Attualmente è ancora in restauro e vi  sono stati intrapresi importanti lavori  sin dal  1946.

Pozzuoli ha anche un altro anfiteatro chiamato minore, del quale sono ancora visibili circa una diecina delle arcate che sostenevano la curva della cavea:

di età augustea, è anteriore a quello Flavio e si ricorda che vi furono effettuati  spettacoli  in onore  di  Tiridate,  re  d'Armenia,  nel  66  d.C.

Poco più avanti sulla destra troveremo la Solfatara, che è il cratere di un vulcano attivo ma allo stato quiescente: il luogo è così chiamato perché la fase di attività del vulcano è appunto « di solfatara ».

Il cratere, di forma ellittica, nel suo asse maggiore misura 770 mt: da numerose buche esce fumo e calore e in alcune si può vedere fango bollente.

La cittadina di Pozzuoli non ha opere d'arte sulle quali valga la pena di soffermarci, mentre vanta monumenti archeologici di inestimabile valore; questo centro, che si vuole fondato nel VI secolo a.C. da cittadini di Samo, fu infatti in epoca greca e romana il più importante della zona flegrea.

Quando la Campania fu conquistata dai romani nel 338 a.C, la cit­tadina conservò la sua importanza poiché i romani sfruttarono il suo porto, del quale rimangono ancora degli avanzi a pilastri e ad archi. Di notevole interesse è il cosiddetto Tempio dì Serapide, così chiamato dal nome di una statua di Serapide che vi fu trovata, mentre in effetti sembra che fosse un mercato pubblico o un « macellum ». Questo monumento è im­portante anche perché da esso, che nei secoli alternativamente è stato sommerso o è emerso dalle acque del mare, si son potuti misurare i fe­nomeni di bradisismo della zona. Ne restano alcune colonne in cipollino grigio ed al centro una cella semi-circolare : costruito al tempo dei Flavii, si ritiene che misurasse dall'ingresso al fondo 75 metri con una larghezza di mt. 58. Fu restaurato sotto l'impero degli Antonini o dei Severi, es­sendo stato danneggiato dal terremoto del 62 d.C.

Di notevole interesse è anche l'Antiquario flegreo, messo a posto nel 1953 in uno stabilimento termale del periodo borbonico. Vi si conservano sculture, marmi ed epigrafi; attigua ad esso vi è la stazione geofisica del­l'Università per lo studio dei fenomeni bradisismici. Il Museo è costi­tuito da una sala d'ingresso, da un corridoio e da nove sale di esposizione, nelle quali le cose più interessanti sono un magnifico frammento di pavi­mento scoperto presso l'anfiteatro di Cuma, una testa colossale di Giu­none e tra le epigrafi e le iscrizioni marmoree quella relativa ai restauri eseguiti nel porto per volere dell'imperatore Antonino Pio.

Portandoci in piazza della Repubblica, seguiamo la via del Duomo e quindi un vicolo per visitare la Cattedrale, dedicata a San Proculo, protettore di Pozzuoli.

Costruita nell'XI secolo sugli avanzi di un tempio pagano edificato dall'architetto Cocceio in onore di Augusto ed a spese di un ricco mer­cante chiamato Lucio Calpurnio, fu rifatta nel 1643, ma conserva delle in­teressanti colonne corinzie dell'antico tempio romano. In questa chiesa è sepolto il musicista Giovan Battista Pergolesi, che morì a Pozzuoli. L'in­terno, ad unica navata, vantava alcune opere di rilevante interesse come un Crocifisso di Cesare Fracanzano nella prima cappella a destra, una Adorazione dei pastori dello stesso autore sul coro, una Adorazione dei Magi di Artemisia Gentileschi, e l'Arrivo di San Paolo a Pozzuoli di Gio­vanni Lanfranco. A sinistra vi era San Gennaro sull'arena dell'anfiteatro ancora della Gentileschi e un Santo che predica di Massimo Stanzione : sul­l'altare maggiore il Martirio dì San Gennaro, da alcuni attribuito a Gio­vanni Enrico Schoenfeld. Vi sono altre opere di minor valore, ma i dipinti di cui abbiamo parlato sono temporaneamente in deposito presso il Museo di Capodimonte ed ignoriamo se e quando verranno riportati ai loro posti.

Per via Vecchia San Gennaro si può giungere poi alla Piscina Cardito, un grande serbatoio romano costituito da due cisterne delle quali la più grande è lunga 55 mt., larga 16 e profonda 15, con la volta sorretta da 30 pilastri, e l'altra è costituita da 14 vasche intercomunicanti che dovevano servire per ottenere una distribuzione di acqua purificata e pulita. Molto importante è anche la necropoli di Pozzuoli, che ha inizio dopo la porta della città: molti colombari a due e a tre piani si susseguono per la via Campana, che i romani chiamavano « consularis Puteolis Capuam ». Da notare inoltre in questa cittadina la Torre del Palatium, nel rione della Torre, la Torretta dì Don Pedro de Toledo, costruita per desiderio di questo viceré, e la Torre di Santa Chiara. Per l'antica via Herculanea vi sono i ruderi di un circo e quelli della Villa di Cicerone; è interessante poi la visita del Lago d'Averno dove Virgilio nel suo poema volle porre la porta degli Inferi.

Anche l'alveo di questo lago è un cratere ed il suo nome sembra de­rivi da « Aorum », cioè senza uccelli. Vipsanio Agrippa per unirlo all'altro lago di Lucrino e quindi al mare vi fece scavare un canale che per effetto del bradisismo nei secoli si alterò; nel 1855, poi, Ferdinando II ne ordinò la riapertura.

In questi pressi vi è la Grotta di Cocceio, che portava a Cuma ed era lunga circa un chilometro. Dal Lago di Lucrino, il cui nome proviene da « Lucrum », per i guadagni che procurava ai romani la coltivazione delle ostriche e delle spigole, si possono vedere le famose stufe di Nerone scavate nel tufo, che si possono anche raggiungere tramite un fratturo non sempre, però, percor­ribile. Nei pressi vi è quanto rimane del Tempio di Venere e della Villa di Gneo Pompeo Magno.

Raggiungiamo quindi Baia, che fu così chiamata perché se­condo la leggenda vi trovò sepoltura Baios, un compagno di Ulisse.

Anche questa cittadina è passata alla storia per le sue sorgenti ter­mali, per le sontuose ville che i ricchi romani vi avevano costruito e per­ché fu residenza di Augusto e di Alessandro Severo: essa era unita a Poz­zuoli per un ponte di barche che fu costruito da Caligola. Secondo la tra­dizione in questo ameno luogo di villeggiatura, verso le sponde del Lu­crino, Agrippina terminò i suoi giorni tragicamente. I fenomeni di bradi­sismo e quelli eruttivi hanno distrutto molti dei monumenti che vi erano in questa zona; tuttavia i lavori di scavo ripresi nel 1941 hanno potuto accertare che le maggiori opere di questa antica cittadina erano costi­tuite da stabilimenti termali che erano stati invece erroneamente ritenuti templi dedicati a Diana, Mercurio e Venere. La zona archeologica è attual­mente sistemata a parco, e a volte di sera è illuminata. Dietro la piccola stazione ferroviaria, vi sono delle terme a pianta ottagonale chiamate vol­garmente Tempio di Diana: di qui si possono raggiungere le Terme baiane, di epoca imperiale romana, un complesso costituito da tre edifici con al centro la terma di Sosandra. Baia fu un centro termale molto rinomato e l'efficacia delle sue acque ci è stata tramandata da Livio e da Orazio.

Dove oggi sono i cantieri navali, poi, Nerone aveva fatto co­struire due grandi vivai per la coltivazione delle ostriche e di pesci pregiati; da qui, salendo, si giunge al Castello, quadrato, che fu costruito sulle rovine del Palazzo dei Cesari nella metà del secolo XVI, per difesa. Attualmente è sede di un orfanotrofio per i figli dei caduti del mare.

Il nostro itinerario ci porta poi a Bacoli dove verso il mare vi è il Sepolcro di Agrippina.

Il nome di questa cittadina pro­viene dall'antico « Bauli », ricco di ville nell'epoca repubblicana, che vennero demolite durante l'impero. Ricordiamo le cento canterelle, un insieme di serbatoi costituiti da due serie di am­bienti sovrapposti di epoche diverse che hanno al piano superiore una grande cisterna del I secolo d.C. costituita da quattro cor­ridoi paralleli. Sull'altura prospiciente vi era la Villa dei Flavi, in origine di Quinto Ortensio, poi di Antonia, di Druso e poi di Nerone. Per una via dedicata a Sant'Anna si giunge alla Piscina Mirabile, che deve ritenersi la più grande cisterna del periodo romano, per una capacità di circa 12.000 me di acqua:

questo immenso bacino a torma rettangolare fu scavato nel tufo al termine dell'acquedotto del Serino perché le navi ancorate a Miseno po­tessero approvvigionarsi  di acqua.

Riprendendo la nostra strada giungiamo a Miseno, dove vi è un lago chiamato Mare Morto che è invece in comunicazione col piccolo porto, anch'esso un cratere del gruppo « dei crateri di Miseno », che doverono formarsi dopo quelli insulari di Procida, Ischia e Vivara.

Miseno è così chiamato dal nome dell'araldo di Enea che si vuole fosse qui sepolto. Il suo porto sin dall'epoca greca era utilizzato sia per ragioni miiltari sìa per commercio, tanto è vero che quando nel 214 a.C. Annibale lo distrusse vi fu grande difficoltà a riprendere i contatti com­merciali. In età repubblicana anche qui furono costruite sontuose ville, e sotto Augusto il porto riprese importanza e Miseno fu adibita a base na­vale : nel IX secolo fu distrutta dai saraceni.

Molto bella è la spiaggia di Miliscola, che ha di fronte Pro­cida ed Ischia, mentre Miseno non è che un piccolo centro. Anche qui vi sono delle antiche terme, ed un Teatro romano, interessante per la sua cavea divisa in due ordini. Si possono fare delle passeggiate alla Grotta della Dragonara, per mare, alla Grotta dello zolfo ed escursioni al Monte di Miseno per ammirare un panorama più unico che raro che si estende sino a Gaeta. Altra escursione può essere fatta al faro di Capo Miseno, dal quale si possono ammirare le isole, la penisola Sorrentina ed il Vesuvio. Ritornando sui nostri passi per Bacoli giungeremo a Torregaveta dove termina la linea della Ferrovia Cumana che parte da piazza Montesanto a Napoli. Verso la foce del Fusaro vi sono i ruderi della Villa di Servilio Vada, della quale ci ha parlato Seneca. Di qui si può raggiungere Monte di Procida, lungo una strada panoramica dalla quale si vede tutta la zona flegrea dai Camaldoli a Cuma e sino al Golfo di Gaeta. Si può raggiun­gere inoltre l'isolotto di San Martino, poco più che uno scoglio, e la graziosa insenatura di Acqua Morta, che si trova davanti all'isola di Procida, di Vivara e di Ischia. Di qui possiamo giun­gere al Lago di Fusaro, che comunicava col mare per mezzo di due canali, dove può interessare la visita al Casino reale, co­struito da Carlo Vanvitelli nel 1782 per volontà di Ferdinando IV di Borbone. Sulla sinistra del lago vi sono, oltre a un'antichissima costruzione in tufo chiamata la Grotta dell'Acqua, ruderi di una costruzione romana. Allontanandoci dal lago, ad alcuni chilo­metri possiamo vedere Cuma, uno dei più importanti centri archeologici della Campania, in quanto questa città fu la più avanti Cristo: era probabilmente già abitata in età preistorica e dagli Eubei e da coloni Calcidesi ed Eretri intorno al secolo X avanti Cristo: era probabilmente già abitata in età preistorica e protostorica.

 

I cumani nel 524 guidati da Aristodemo sconfissero gli Etruschi, ma la loro pace non durò a lungo, poiché nelle loro acque giunse la flotta di Cerone, tiranno di Siracusa. Dai romani fu sottoposta alla giurisdizione di Capua e durante l'invasione di Annibale restò fedele a Roma meritan­dosi il diritto alla cittadinanza municipale. All'avvento del Cristianesimo Cuma aderì subito alla nuova religione e i suoi templi pagani furono presto trasformati in chiese cristiane.

Interessanti sono i ruderi dell'Anfiteatro, costruito intorno al I secolo a.C, più piccolo di quello di Pozzuoli; ne sono visibili archi e pilastri del perimetro mentre la cavea è in parte sepolta: esso sorgeva al di fuori delle mura della città. Si può visitare poi il Sepolcro della Sibilla, quanto rimane del Tempio della Triade Capitolina e l'Acropoli, dove vi sono ruderi del nucleo primitivo di Cuma e avanzi di fortificazione greca del V secolo a.C. Inte­ressante è anche la visita all'Antro della Sibilla cumana, che fu uno dei santuari più noti dell'antichità pagana: la sua costru­zione è del VI secolo a.C.

Questo « antro » è ricordato da Virgilio nella drammatica scena del vaticinio, e perciò all'ingresso su una epigrafe in marmo vi sono tre versi dell'Eneide mentre a sinistra vi sono altri versi virgiliani che descrivono il vaticinio. Si tratta di una galleria rettilinea lunga crea 32 mt. illumi­nata da sei fenditure, in fondo alla quale vi è una grande camera che si ritiene il luogo dove la Sibilla dava i suoi responsi. L'antro fu poi adi­bito a cimitero cristiano, ma ancora nel IV secolo il popolo credeva che la Sibilla si recasse a vaticinare sul  suo trono.

Dal fianco di questo Antro parte a sinistra la gradinata che conduce all'Acropoli dove i resti del basolato della via Sacra ci guidano ai ruderi del Tempio di Apollo, rappresentati dalla platea in blocchi di tufo. Nel periodo augusteo furono rifatte le colonne e vi fu aggiunto il pronao, e nel secolo VI il tempio fu trasfor­mato in basilica cristiana e in cimitero. Sull'acropoli vi era anche il Tempio di Giove, che diventò anch'esso basilica cristiana: ne resta la superba platea, che è però nascosta dalla pavimentazione romana e da quella cristiana; quindi soltanto dalla parte del mare è visibile qualche avanzo della costruzione greca. Interes­sante è anche la visita alla Necropoli, che si estendeva sino a Licola, della quale la parte più antica è ancora nel sottosuolo. Per l'antica via « Domitiana » in parte lastricata con basalto si può raggiungere quanto rimane di Literno, ove si ritirò il vincitore di Annibale, Scipione l'Africano. Nella zona flegrea si può visitare ancora il cratere del Gauro, che fiancheggia i binari della metropolitana. Noto ai romani per i suoi vigneti, attual­mente è rivestito di boschi. Questa gita al cratere del Gauro è molto interessante poiché si può raggiungere anche, su uno sperone, la piccola Chiesa di Sant'Angelo. Ci si può inoltre avviare verso il cratere della montagna spaccata, percorrere questo intaglio e scendere poi al piano di Quarto, per vedere l'omonimo cratere a forma ellittica: attraversando Qualiano e Marano si può quindi ritornare a Napoli.

La visita alle tre isole del Golfo di Napoli si può effettuare partendo dal molo Beverello, dal quale partono le motonavi per le isole. Poiché Procida ed Ischia sono sulla stessa linea di navi­gazione, per visitare queste due isole si prende lo stesso vaporetto. Quella per Capri è invece una linea diversa, ma le due isole maggiori sono collegate tra loro direttamente: da Ischia quindi si potrà raggiungere Capri. Esistono poi linee di aliscafi, mentre il servizio di elicotteri è temporaneamente sospeso. Rite­niamo tuttavia che questo itinerario non si debba, anche se possibile, effettuare in un solo giorno e quindi consigliamo di visitare Procida ed Ischia rimandando ad un secondo giorno la gita a Capri, con partenza da Napoli o anche direttamente da Ischia.

Se si desidera fare una passeggiata distensiva e non si ha troppa fretta si può prendere la motonave, e nel nostro caso dovremo prenderne una che fermi a Procida.

  

Procida, Ischia e Vivara appartengono geologicamente alla zona flegrea: la prima, che fu chiamata «Prochyta», è legata con la sua storia all'isola d'Ischia sino al settecento: fu feudo di Giovanni da Procida, amico di Federico II che prese viva parte ai Vespri Siciliani. Vi è un castello ara­gonese, costruito nel secolo XV, che nel 1931 fu scuola militare e divenne poi stabilimento di pena, nonché diverse torri, delle quali la più bella è quella in contrada Ponte Vecchio: vi sono poi gli avanzi di un'antica tor­re, chiamata degli infernali, che si ritiene fosse l'abitazione dì Giovanni da Procida. Procida è bella di una bellezza fresca e la sua piccola rada della Chiaiolella è una spiaggetta dove ancora si possono fare i bagni di mare in acqua limpida.

Sbarcati alla Marina Grande, si sale per stradine silenziose e nitide: le strade principali sono via Roma, via Vittorio Ema­nuele, il corso Principe Umberto, e piazza dei Martiri, dove una targa del 1863 ricorda i martiri del 1799; al centro vi è il Monumento ad Antonio Scialoìa che morì nell'isola nel 1877, e ancora a sinistra un'altra targa che ricorda che questo ministro, morto via San Michele si può proseguire per la Terra Murata, che rappresenta il punto più alto dell'isola.

Da notare la Chiesa abbaziale di San Michele, che ha un grazioso al­tare maggiore in marmi policromi e un bel soffitto in legno con una tela raffigurante San Michele che abbatte Lucifero, opera del 1699 di Luca Gior­dano, nonché un'altra tela del secolo XVII raffigurante San Michele che difende l'isola. Interessanti anche la Chiesa di Santa Maria delle Grazie e l'altra della Madonna della pietà, che ci appare con una graziosa cupola.

Il giro dell'isola è di circa km 9,500: scendendo verso i ruderi di  Santa Margherita Vecchia si giunge al mare nella  deliziosa insenatura di Chiaiolella, alla quale approdano i pescatori; sulla destra vi è il Lido di Procida. Per una piccola stradina si può andare poi alla punta della Palombara e all'antica Chiesa di Santa Margherita, dalla quale si può ammirare un panorama che abbraccia il golfo di Napoli, i Campi Flegrei e le isole. Dalla marina di Chiaiolella si può raggiungere anche l'isola di Vivara, che non offre altro se non una folta vegetazione e la possibilità di andare, col debito permesso, a caccia di conigli. L'isoletta è disabitata, tranne che per un guardiano con funzioni di guardia-caccia che vi abita rifornendosi del necessario a Procida. Dopo questa passeggiata in barca, ritornati a Procida, per via Belvedere si può raggiungere un luogo chiamato Belvedere di Centane; si può prendere poi sulla destra la via del Faro, che guarda verso Capo Miseno, Bacoli, Baia, Monte di Procida, l'isolotto di San Martino e il monte di Cuma. Chi volesse fare il periplo dell'isola per ammirarne la costa frastagliata dovrà fittare un'imbarcazione privata.

Da Procida, sempre con la motonave, si può raggiungere Ischia, che è la più importante e la più grande delle isole flegree: essa conta i comuni di Barano, Casamicciola, Forio, Lacco Ameno e Serrara Fontana. Dominata dal monte Epomeo, alto 788 mt, è di origine vulcanica ed è sempre andata soggetta a fenomeni sismici, tanto che anche Plinio e Strabone ricordano eruzioni avvenutevi nell'antichità; fra quelle più vicine a noi ricordiamo la distruzione di Casamicciola nel 1883.

  

L'isola fu colonizzata dagli Eubei che la chiamarono « Phithecusa », che potrebbe significare « terra della scimmia », o secondo Plinio ricorderebbe l'artigianato locale di vasi di creta o il culto di Apollo Pizio: l'attuale nome di Ischia è invece la corruzione del latino « insula » trasformato poi in « Ischia ». Nel 474 a.C. Gerone, tiranno di Siracusa, giunto con la sua flotta per porgere aiuto ai Cumani contro gli Etruschi, vi stabilì la sua base e vi costruì un castello: l'isola fu poi occupata dai napoletani nel 370 a.C, divenne romana e fu ancora una volta restituita alla città di Napoli da Augusto, in cambio di Capri. Le invasioni barbariche non la risparmiarono, ma nel 588 Bisanzio la pose ancora una volta sotto il do­minio diretto di Napoli. Dopo una terribile eruzione del secolo XIV fu abbandonata dai suoi abitanti, che ripararono a Baia e soltanto dopo qual­che  anno  cominciarono a farvi  ritorno.

Sbarcati ad Ischia Porto, ci recheremo innanzitutto a Ponte ad ammirare il cupo castello che, eretto per la prima volta, come abbiamo accennato, da Gerone, fu poi attraverso i secoli, trasformato, distrutto, ricostruito e viene attualmente chiamato Castello Aragonese. Esso era prima isolato dal mare in quanto fu costruito su un isolotto, ma Alfonso d'Aragona lo fece poi unire alla terraferma a mezzo di un ponte, dal quale si accede ad un'ampia galleria. Lungo la stradina che porta al castello vi è una piccola cappella dedicata a San Giuseppe della Croce, un santo isolano; vi sono poi i ruderi dell'antica cattedrale co­struita nel 1301 e restaurata nel '700, dove si racconta che furono celebrate le nozze tra Vittoria Colonna e Ferrante d'Avalos. La famiglia dei marchesi di Pescara e del Vasto infatti ebbe in feudo il castello e l'isola sino agli inizi del secolo XVIII.

Dietro il castello vi è lo Scoglio di Sant'Anna e di fronte a questo una torre che secondo un'antica leggenda sarebbe appartenuta a Michelangelo, che essendo  innamorato  di Vittoria Colonna l'avrebbe fatta costruire per potersi recare di tanto in tanto vicino alla sua amata.

L'isola d'Ischia ha molte sorgenti di acque minerali, prove­nienti da due gruppi, chiamati Fornello e Fontana, le une e le altre salsoiodiche e radioattive ed usate per bagni e fangature. Molti alberghi hanno quindi annesse le Terme; vi sono poi Terme comunali e Terme militari. Ischia, oltre che stazione termale, è anche ricercata come luogo di villeggiatura nei mesi estivi, salvo alcune zone, come Ischia Ponte, che sono abitate per la maggior parte da pescatori. Ischia Porto è sorta intorno alla sua rada, di forma ellittica, che era probabilmente anch'essa un cratere vulcanico: nel 1854 Ferdinando II di Borbone fece scavare un canale che lo mise in comunicazione col mare, rendendolo un porto. Al centro dell'insenatura si nota lo Stabilimento balneo-termale militare, che era in origine una palazzina reale predi­letta da Ferdinando II che veniva a soggiornarvi molto spesso; fu donata ai Borbone da un medico ischitano. La strada prin­cipale della cittadina è via Roma; vi sono poi il corso Vitto­ria Colonna e la bella passeggiata Cristoforo Colombo, riservata soltanto ai pedoni, che costeggia il lido ed ha sulla destra i migliori alberghi e una pineta. La Cattedrale, dedicata all'Assun­ta, fu costruita nel secolo XIV e fu poi rifatta in linea barocca;

nell'interno a tre navate vi è un Fonte battesimale rinascimentale la cui vasca è sostenuta da tre cariatidi che rappresentano la Mansuetudine, la Giustizia e la Prudenza. Da ammirarsi inoltre un'antica tavola raffigurante la Madonna della Lìbera e un Crocefisso in legno del secolo XIII, e in sacrestia un'opera in marmo raffigurante la Crocefissione, di autore ignoto.

Con la funivia si può fare un'escursione al Montagnone; poi conviene intraprendere il giro dell'isola per terra o per mare II giro dell'isola via terra ci darà la possibilità di conoscere gli altri comuni che la costituiscono, mentre il giro per mare ce ne farà conoscere la costa, le spiagge e le magnifiche insenature. Il primo è un percorso di circa 31 km che partendo da Ischia Porto conduce a Casamicciola, Lacco Ameno, Forio, Serrara Fon­tana e Barano. Il primo centro dopo Ischia Porto è Casamicciola, rinomata stazione climatica e termale, divisa in una zona a monte collinosa e lussureggiante ed una a valle che è poi la parte moderna, con il suo lido.

Si ritiene che questo fosse il primo luogo occupato dai colonizzatori e una leggenda vuole che la Sibilla di Cuma vi annunziasse la nascita di Gesù Cristo. Casamicciola fu rasa al suolo da un terremoto nel 1883, ma è stata ricostruita in modo più funzionale e moderno; si dice che le sue acque e le sue fangature siano di maggiore effetto e comunque vi sono molti  stabilimenti  termali.

Le strade principali sono costituite dal corso Vittorio Ema­nuele, piazza Bagni, corso Garibaldi e via Principessa Margherita. Dalla piazza della Parrocchiale si può a destra per via Castanito raggiungere la Sentinella, dove vi è un magnifico panorama e l'Osservatorio geofìsico. Tra Casamicciola e Lacco Ameno vi è la possibilità di fare alcune escursioni, delle quali le più inte­ressanti sono quelle al Monte Trippodi che è a 500 mt. sul livello del mare, al Monte Rotaro e al Monte Epomeo, prendendo una mulattiera da piazza Maio.

Riprendendo la nostra strada, che poi è la strada principale, si raggiunge Lacco Ameno, che si annuncia col suo Fungo, uno scoglio dalla forma caratteristica chiamato anche Pietra del Lacco. Per via Morgera, che è il lungomare alberato, si giunge alla cittadina; riceve il visitatore la pittoresca rada di questo piccole comune, che è la stazione termale più elegante, più ricercata, e più costosa.

Lacco fu abitata anch'essa da colonizzatori greci nel VII secolo a.C. e vi sono state rinvenute delle tombe in alcuni scavi fatti recentemente nella piana di San Montano; vi si praticava il culto di Ercole, tanto che in epoca romana il suo nome fu « Heraclium ». Dopo l'avvento del cristiane­simo la nuova religione ebbe presa molto rapidamente su questo popolo e fu costruita una catacomba, che fu poi trasformata in basilica e dedicata a Santa Restituta, il cui corpo secondo una leggenda in una tiepida gior­nata di maggio del 304 sarebbe stato trovato nella rada di San Montano su una barca sospinta dalle correnti, proveniente dalla lontana Cartagine. La salma fu quindi inumata in questa basilica e la Vergine martire fu in seguito canonizzata.

A Lacco Ameno si possono visitare la Chiesa della Marina, che ha nell'interno una acquasantiera sostenuta da una statua raffigurante Ercole di epoca romana e la Chiesa di Santa Re­stituta, costituita da una chiesa moderna, che però nell'interno conserva una tavola cinquecentesca, e da un'altra più piccola costruita nel 1036 su una basilica paleocristiana, che non è sfug­gita però al solito rifacimento settecentesco. 

Anni or sono è stata scoperta la cripta della basilica paleocristiana del IV secolo, a tre navate su colonne, che fu ricavata da una grande cisterna di epoca romana. Sotto l'altare vi sono le spoglie di Santa Restituta e nel corridoio che conduce alla cripta è stato ordinato un piccolo museo di og­getti di scavo greco-romani di epoca cristiana.

Proseguendo la nostra passeggiata troviamo sulla destra il grazioso lido di San Montano, la cui pittoresca rada si affaccia tra due costoni. Si possono fare inoltre delle brevi escursioni al Monte Vico, dove sorgeva probabilmente l'Acropoli, mentre nella sottostante valle vi era una necropoli; oppure andare alla punta Cornacchia, alla punta Caruso e giunti alla Chiesa di San Francesco di Paola, ammirare la bella spiaggia di Montevergine che si congiunge alla carrozzabile al di là del ponte di Spinavolta. Deviando a sinistra per una stradina e poi a destra si raggiunge la spiaggia di Montevergine donde si può andare anche sul monte Caruso. La strada continua e ci appare Forio, tutta bianca per il colore mediterraneo delle sue casette basse; questo piccolo centro, che ha una importante produzione vinicola, era apprez­zato sin dall'epoca dei romani, che sfruttavano le acque minerali di Citara, dedicata appunto a Venere Citarea e ad Apollo. Di notevole interesse è la Chiesa di Santa Maria di Loreto, costruita nel '300 e rifatta in linea barocca con la facciata tra due campa­nili a piastrelle maiolicate: l'interno a tre navate è decorato con bei marmi policromi ed ha un grazioso pulpito e una bella balaustra.

Nel  soffitto a larghi cassettoni vi sono una significativa Assunta,  una Madonna di Loreto e un San Nicola da Tolentino di Cesare Calise; notiamo inoltre una Purificazione di Alfonso Spinga e in sacrestia una pic­cola statua in marmo raffigurante Santa Caterina da Alessandria.

Si può raggiungere a destra di piazza Matteotti il Torrione, prima adibito a difesa, poi a carcere ed ora a museo; vi si con­serva un enorme osso di un cetaceo che fu trovato a Citara nel 1770. Si può visitare poi anche la Chiesa di San Francesco, con interno ad unica navata, che conserva un grazioso coro in legno, alcune tele di discepoli di Luca Giordano e una « Crocefissione » di Evangelista Schiara del 1777. Caratteristica è la Chiesa del Soccorso, dal cui piazzale si può ammirare un magnifico pano­rama; graziosa anche la Chiesa di San Vito, restaurata più volte, la cui facciata ha ai lati due torri, una con l'orologio e l'altra campanaria, che alberga una campana donata nel 1852 da Ferdi nando II di Borbone, fusa col bronzo di pezzi di artiglieria che erano in Castel Nuovo.

L'interno, a tre navate, contiene un trittico di Cesare Calise raffigu­rante la Vergine e i SS. Vito e Caterina, una Pietà della scuola del Soli-mena, una Sacra famiglia di Anna Maria Manecchia del 1680 e in sacrestia una statua in argento raffigurante San Vito eseguita su modello di Giu­seppe Sammartino nel  1787 dai fratelli Del Giudice.

Di qui si scende al mare alla magnifica spiaggia di Citara, dove un moderno complesso sfrutta le acque calde e fredde che scaturiscono; anche di qui si può raggiungere la spiaggia di Montevergine e si può fare l'escursione al Monte Epomeo; per una mulattiera si potrebbe raggiungere Fontana o andare a Santa Maria del Monte. Riprendiamo la nostra strada lungo il mare, dal quale emergono alcuni caratteristici scogli chiamati « Pietra Nera », « Pietra Bianca », « Pietra del cavallone » e « Pie­tre Rosse », e si possono scorgere delle caratteristiche grotte dove si conserva il vino. Giungiamo così alla frazione di Cuotto, dove vi è una fumarola molto interessante per il fenomeno della ioniz­zazione, in quanto emette gas a 80°; superata la punta Impera­tore, un promontorio che si può anche raggiungere per un sen­tiero, si arriva alla frazione di Panza, donde si può fare una escursione a La Guardiola, a 194 mt, con uno splendido pano­rama. Sempre continuando il giro dell'isola, ci troviamo nell'altro versante, che ha di fronte Capri; qui vi è il promontorio di Sant'Angelo, unito all'isola da un istmo di sabbia. Il paesino omonimo non è che un piccolo villaggio di pescatori, ma è una stazione balneare molto ricercata dagli stranieri: più avanti vi è la magnifica spiaggia dei Maronti. La strada continua giun­gendo a Serrara Fontana, che è il comune più elevata dell'isola; esso fu rifugio degli angioini scacciati dagli aragonesi. Dalla Chiesa di Santa Maria della Sacca, di costruzione trecentesca, con piccolo campanile a vela, si può salire alla cima del Monte Epomeo, incontrando lungo la strada in una spianata la Chie­setta di San Nicola, con un eremo scavato nel tufo nel 1459, nel quale si rifugiò nel 1754 un governatore fiammingo di Carlo di Borbone, Giuseppe d'Argut, miracolato da San Nicola mentre stava per essere giustiziato come disertore. Anche di qui, per una mulattiera, si può raggiungere la spiaggia dei Maronti. La nostra strada scende poi rapidamente tra imponenti pareti tufacee fino a raggiungere Barano, che ci accoglie con un belvedere a picco sulla spiaggia dei Maronti; di qui si potrebbe andare a Piedimonte e a Testaccio o scendere ai Maronti. Al quadrivio chiamato « I pilastri » si ammirano gli avanzi di un antico acquedotto romano e costeggiandoli sulla destra si può visitare il piccolo centro di Sant'Antuono e, per una mulattiera il paesino di Campagnano. Ritornati sulla nostra strada e superato l'acquedotto si passa per una zona tutta di materiale eruttivo formatosi du­rante un'eruzione avvenuta nel secolo XIV: giungiamo poi in piazza degli Eroi, dove non ci resta che scegliere se andare a sinistra verso Ischia Porto o a destra verso Ischia Ponte.

Abbiamo così terminato il nostro itinerario via terra, ma ricordiamo che il giro dell'isola si può effettuare anche per via mare, con un percorso di 30 miglia: si tratta di una deliziosa passeggiata in motobarca che permette di ammirare in pieno le bellezze della costa, varia e frastagliata. Partendo dal porto si doppia la punta del Soccorso passando davanti allo sbocco della cava dell'isola; superata la spiaggia di Citara si oltrepassa punta Imperatore ed il faro, e dopo lo scoglio La Nave si possono notare le interessanti stratificazioni della roccia e ammirare i vigneti di questa parte dell'isola. Appare poi Sant'Angelo; si doppia il Capo Negro e con il Monte Epomeo sulla sinistra ve­diamo il villaggio di Sant'Angelo col suo minuscolo istmo, seguito dalla spiaggia dei Maronti. Dopo la costa di Barano, da lontano si notano Procida e Capo Miseno e, oltrepassata l'inse­natura chiamata il Ponticello ci troviamo davanti il castello di Ischia; si passa poi la Grotta di Terra e si raggiunge il ponte che unisce l'isola al castello, lasciandosi alle spalle gli scogli di Sant'Anna. Aggirato il castello, si giunge nuovamente ad Ischia Porto.

Capri si può raggiungere, come abbiamo detto, da Ischia Porto o da Napoli con motonave o con aliscafo. Ci sembra super­fluo vantare le bellezze di quest'isola che è considerata uno dei più bei luoghi del mondo: essa fu abitata sin dall'età paleo­litica e conquistata poi dai Fenici e dai Teleboi che vi fondarono un regno fortificandone la parte alta, che oggi si chiama Anacapri.

 

Nel 326 a.C. l'isola apparteneva a Napoli e nel 29 a.C. i napoletani la cedettero ad Augusto che vi dimorò molto, si pensa sino al 14 d.C Anche Tiberio vi trascorse gli ultimi anni della sua vita e altri imperatori la amarono. Vi dovevano essere sicuramente molte sontuose ville costruite in quell'epoca, ma a noi non sono rimasti che i ruderi della Villa Iovis, ricordata anche da Svetonio, sulla collina di S. Maria del Soccorso, di un'altra villa di epoca imperiale sul piano di Damecuta e di un'altra dove vi sono i cosiddetti Bagni di Tiberio. Nel 530 Capri passò all'abbazia di Montecassino; nel VII e nell'VIII secolo fu soggetta a continui saccheggi da parte dei corsari e dei saraceni, sì che gli abitanti furono costretti a portarsi nella parte più elevata dell'isola. Fu dominio longobardo, poi di Roberto il Guiscardo ed infine svevo, fino a quando non ebbe un feudatario nella persona di Eliseo Arcucci. Nel secolo XIV Giacomo Arcucci fu segre­tario di Giovanna I d'Angiò che amò e protesse molto l'isola. Nel secolo XVI Capri fu saccheggiata e semidistrutta dalle continue scorrerie dei pi­rati e può dirsi che soltanto sotto Carlo di Borbone trovò finalmente un po' di pace.

Seguendo un certo itinerario, e cioè partendo dalla Marina Grande, troviamo la piccola ma interessante Chiesa di S. Co­stanzo, costruita intorno al secolo X su un'antica basilica ed ingrandita all'inizio del secolo XIV da Giacomo Arcucci con una graziosa cupola ed un caratteristico campanile.

L'interno ha una pianta a croce greca con dodici colonne, ma ve ne erano altre di giallo antico e di cipollino che per ordine di Carlo III fu­rono trasferite nella cappella del Palazzo Reale di Caserta. Vi sono conser­vate le spoglie del santo, che era patriarca di Costantinopoli ed era vene­rato come  patrono dell'isola.

Nella piazzetta di Capri vi è la Torre dell'Orologio, che alcuni ritengono fosse il campanile dell'antica cattedrale. Sembra ac­certato che questo fosse il centro dell'isola già nel IV secolo a.C. in quanto vi sono ancora i resti dì mura in blocchi calcarei visi­bili verso la terrazza della funicolare ed alle falde del Castiglione. La Chiesa di S. Stefano fu costruita sulle rovine di un'antica chiesa e rifatta su disegno del Picchiatti ad opera di Marziano Desiderio in una discutibile linea barocca.

Nell'interno, da notarsi il pavimento policromo proveniente da « Villa Iovis », il Sepolcro di Giacomo e Vincenzo Arcucci di Michelangelo Nac­cherino ed una graziosa tavola raffigurante la Vergine con i santi Michele e Antonio da Padova. Sulla destra vi era l'antico castello di Giovanna I d'Angiò, trasformato noi nel Palazzo Cerio.

 Molto interessante è la Certosa di S. Giacomo, costruita per desiderio di Giacomo Arcucci intorno al 1371: distrutta in parte verso la metà del secolo XVI durante una incursione, fu rifatta con torri di difesa.

Varie volte restaurata, tuttavia è ancora oggi un monumento di par­ticolare interesse per il suo portale ogivale e alcuni affreschi trecenteschi tra cui uno raffigurante delle donne che pregano, una delle quali si ri­tiene che possa essere Giovanna d'Angiò. L'interno della chiesa, ad unica navata, conserva degli affreschi secenteschi; degni di nota sono ancora il chiostro quattrocentesco del convento, con grazioso portico con colonnine con capitelli romani e bizantini e la simpatica torre dell'orologio. Vi è poi un altro chiostro cinquecentesco, con la sala capitolare ed il convento dei certosini, con il belvedere nell'alloggio del Priore.

Dal belvedere chiamato « Cannone », attraverso una scalinata, si giunge al Castello di origine medioevale chiamato Castiglione, ritenuto in origine opera degli amalfitani del secolo IX, e co­munque certamente già esistente ai tempi di Federico II di Svevia, come attestano alcuni documenti dell'epoca. Subì gli attacchi dei turchi e sotto la dominazione francese l'assedio degli inglesi.

Una passeggiata molto interessante è quella che porta all'Arco Naturale, dal quale si può scendere alla Grotta di Matrornania dove gli antichi romani probabilmente veneravano Cibele: essa presenta un ninfeo con decorazioni, stucchi e mosaici. Per visi­tare Villa Iovis occorre munirsi di pazienza ed affrontare una lunga passeggiata a piedi, lungo la quale si incontrano anche le rovine del Faro Romano.

Questo era un blocco quadrato in mattoni alto circa sedici metri che aveva al centro una base cilindrica su cui si faceva bruciare un fuoco resinoso per indicare ai naviganti che si trovavano all'altezza dell'isola: Sta­zio lo definì « emulo della luna ». Esso crollò però prima della morte di Tiberio per un terremoto ed ora non ne restano che pochissimi avanzi.

Dopo il belvedere del Salto di Tiberio, dal quale la leggenda vuole che il tiranno facesse precipitare le sue vittime, vi sono i ruderi della grandiosa Villa Iovis, di cui abbiamo già fatto cenno, ricordata anche da Svetonio e da Plinio, che occupava tutta la sommità del monte Tiberio per circa 7000 mq.

Vi è ancora parte del primitivo pavimento a mattoni ed un vestibolo su quattro colonne, un secondo vestibolo ed un corridoio che porta a tre stanze delle quali la centrale doveva essere il « calidarium ». Il piano su­periore, detto il « Bagno », è composto da cinque locali che sono in comu­nicazione con una delle quattro cisterne esistenti : per una scala si giunge poi all'appartamento imperiale che è la parte più elevata della villa, com­posto di un vestibolo e due locali con magnifica pavimentazione policroma e da una terrazza belvedere. Si passa quindi alla loggia imperiale, lunga ben 92 metri, a ridosso dell'appendice del monte: vi sono anche i resti di uno « Specularium » che doveva servire per l'osservazione astronomica o per luogo di vedetta.

In questa zona vi è una statua della Vergine del 1901 e la piccola Chiesa di S. Maria del Soccorso.

Lungo la strada che porta da Capri ad Anacapri si vede ancora l'antichissima Scala Fenicia, che si vuole fosse costruita dai primi colonizzatori dell'isola per unire Anacapri alla Marina Grande. Verso l'alto essa raggiunge invece la porta della citta­della detta Porta della Differenzia, presso la famosa Villa San Michele dello scrittore svedese Axel Munthe.

Ad Anacapri vi sono i ruderi di un altro Castello, detto di Barbarossa perché la leggenda vuole che, preso e incendiato dal condottiero saraceno Kaireddin Barbarossa nel 1534 durante un'incursione, fosse stato poi da lui stesso ricostruito. Esso era indubbiamente anteriore a quello di Capri e dai suoi ruderi, a strapiombo sul mare, si gode una veduta paradisiaca dei golfi di Napoli e di Salerno.

Interessante è il Museo della Torre, che raccoglie armi e sculture antiche proprio in una torre. Oltre alla Chiesa di S. Michele, costruita da Domenico Antonio Vaccaro nel 1719, che ha una notevole pavimentazione di mattonelle maiolicate su disegno di Francesco Solimena, nel piccolo centro vi è anche la piccola Chiesa di S. Sofia, di costruzione medievale, rifatta nel 1512. Sulla vetta del monte Solaro vi sono gli avanzi di una piccola fortificazione che fu costruita dagli inglesi nel 1806 sui ruderi di un'altra costruzione medioevale. Superata una località chiamata Olivastra si giunge alle rovine della magnifica Villa Imperiale Romana, che, danneggiata nel I secolo d.C, fu poi devastata durante il periodo del decurionato francese. Oggi ne rimane soltanto l'« ambulatio », alcuni archi e pilastri; all'estremità Est fu costruita nel Medioevo la Torre di Damecuta. A poco più di 200 m. vi è una vasta cisterna romana ed altri avanzi in « opus reticulatum ».

Di grotte a Capri ve ne sono moltissime e le più antiche hanno portato gli studiosi a conclusioni molto utili per la nostra storia. La più bella è indubbiamente la Grotta Azzurra, nota sin   dall'antichità,   come provano alcuni avanzi di costruzione romana; lunga circa 55  metri deve la sua meravigliosa colora­zione alla luce che vi entra per rifrazione.

Trattasi di una cavità carsica che abbassatasi per bradisismo ha una apertura alta soltanto circa 19 mt., unica fonte di luce, separata dall'in­gresso da un ponte di roccia. L'ingresso è largo 2 mt. ed alto un metro; bisogna quindi entrarvi carponi nella barca, ma l'interno è lungo 54 mt., largo 15 e alto 30 con profondità marina di circa 20 mt.

La grotta prosegue poi inoltrandosi in una piccola galleria chiamata dei Pilastri suddivisa in tre zone comunicanti, a cui segue un passaggio piuttosto stretto e infine una caverna quasi piana. Al di sopra di questa grotta vi sono i ruderi della costru­zione romana chiamata Villa di Gradolà.

Abbiamo accennato appena alle cose principali da visitare nell'isola, ma per Capri, come per Ischia, consigliamo il periplo dell'isola per mare, che è soltanto di 9 miglia. Questa gita dà la possibilità di ammirare la meravigliosa costa, le grotte, gli scogli più strani, gli antri e le insenature naturali.

Partendo dalla Marina Grande e cercando di costeggiare la scogliera, appare una prima grotta chiamata del Bove Marino; in quanto specialmente quando il mare è agitato, dal suo interno si odono dei boati: segue la grotta chiamata della ricotta, seguita dal rudere di un fortino e dalla Punta del capo.

Doppiando la parte orientale dell'isola si notano dal mare la Chiesa di S. Maria del Soccorso e la Villa Iovis e sotto il Salto di Tiberio l'omonima grotta, non sempre di facile accesso. Prima di giungere ad uno spazioso anfiteatro roccioso vi sono la Punta del Monaco e quella della Chiavica, seguite dalla Grotta dei Polpi, chiamata anche della Seppia perché vi si trovano facilmente questi molluschi cefalopodi e la grotta dell'arco di Betlemme di difficilissimo accesso. Si aprono poi altre due grotte, la Bianca e la Meravigliosa; la prima, di facile accesso, è costi­tuita da due zone di mare che sembrano due laghetti, mentre la seconda, accessibile da un ingresso artificiale, è chiamata Mera­vigliosa per le sue belle stalagmiti. Seguono la Grotta dei Preti e il piccolo Faraglione di Matromania, dal quale si può scorgere la grotta omonima e l'Arco Naturale. Si tocca quindi la Punta Masullo, su cui vi è una villa appartenuta a Curzio Malaparte e subito dopo i due maestosi scogli chiamati / Faraglioni. Lungo la costa, su uno scoglio semicircolare chiamato il « Monacone » vi sono i ruderi di antiche costruzioni; segue la Grotta Tragara con l'omonimo porto dove si possono notare ruderi di un porto romano. Dopo il primo Faraglione appare Marina Piccola: il passaggio tra questi scogli è molto suggestivo. Sempre costeg­giando la scogliera si incontra poi una grotta chiamata Albergo dei marinai che ha un doppio ingresso e un simpatico effetto di colore, in quanto una parte è azzurra e l'altra è verde. Pas­siamo ora sotto la Certosa, dove incontreremo un'altra grotta chiamata Oscura, con le macerie di una torre che si vuole co­struita nel 1563 dai monaci della Certosa. Seguono la Grotta della Certosa e quella del Belvedere, quella dell'Arsenale, che è acces­sibile dal mare e quindi la Marina Piccola, che si trova alle pen­dici dei monti Solaro e Castiglione. Proprio sotto il Solaro vi è la Grotta dell'Arco, con avanzi di antiche costruzioni e poi la Grotta delle Felci, passata alla storia perché vi sono stati trovati oggetti litici di età neolitica. Aggirando la Punta di Mulo si scorge la Cala Ventrosa, con la vista retrospettiva di Punta Tragara e dei Faraglioni; raggiungiamo quindi la Grotta Verde, chia­mata anche del Turco, molto vasta, dove la colorazione dell'acqua si avvicina a quella dello smeraldo. Vi sono poi la Grotta Rossa e la piccola Grotta Marmola seguita dalla Cala Marmolata con la Grotta della Galleria. Vicina è la Grotta del Cannone Krupp seguita dalla Grotta Brillante, la Grotta dei Santi e la Grotta Vela. La scogliera diminuisce dalla Punta del Tuono alla Punta Carena, ove si scorge la costruzione rossa del faro: scapolata la Punta Vetereto si raggiunge quindi la Grotta Azzurra. Vedremo poi ciò che rimane dei Bagni di Tiberio in un mare costellato di scoglietti innumerevoli e infine si ritorna alla Marina Grande, dalla quale con la pittoresca funicolare si può raggiungere il paese.

Questo itinerario ci porterà a Caserta, a pochi chilometri da Napoli, per una rapida visita di questa cittadina agricola e di alcuni centri viciniori. Non intendiamo menomare la nobile città di Caserta includendola nei dintorni di Napoli, ma piuttosto vogliamo invogliare il turista a non perdere l'occasione di visi­tare anche questo centro, che è soltanto a poco più di 30 km.

Questa gita sarà infinitamente interessante non soltanto perché vedremo la famosa Reggia vanvitelliana, ma per il graziosissimo borgo medioevale di Caserta Vecchia, poco distante, che vanta una Cattedrale romanica ed altri monumenti di pregio e riserba al visitatore la piacevole sorpresa di un paesino fermo nel tempo, intatto nella sua struttura.

  

Caserta Vecchia fu edificata sulle rovine di alcuni templi dedicati a Giove, a Diana ed a Venere Giovia col materiale di risulta di queste e di altre costruzioni romane dell'età imperiale. Esso fu il primo nucleo ur­bano chiamato Caserta, quindi la vera e la storica città di questo nome, mentre l'attuale capoluogo di provincia non sorse che nella seconda metà del secolo XVIII intorno alla Reggia dei Borbone. Sembra che il nome di Caserta derivi da una « Casa Irta » che vi era in questo luogo già nell'860, ovvero il castello del longobardo Pandone il Rapace. Sino alla fine del se­colo XI la storia di Caserta segue quella della contea di Capua, sotto i discendenti di Pandone; passò poi sotto conti normanni, e Ruggiero, re di Sicilia, la concesse a Roberto, conte di Lauro ed al figlio Ruggiero, conte di Tricarico, di Marsico e poi di Sanseverino. Questa famiglia la tenne pur fra mille insidie e contese fino all'avvento degli angioini, che la diedero in feudo a baroni devoti alla loro causa: nel 1303 Caserta fu venduta al conte di Telese Siginulfo; passò poi ai della Ratta e nel secolo XVI ai Gambacorta, e nel '600 cominciò ad essere abbandonata dai suoi abitanti, che si trasferirono man mano in pianura, dove nel 1775 sorse la nuova città.

Anche la sede vescovile, che vi aveva avuto residenza sin dal secolo IX, si trasferì nel nuovo centro.

Per visitare Caserta Vecchia dobbiamo innanzitutto raggiun­gere Caserta, per l'Autostrada del Sole o con un treno: quindi di qui ci si dirige verso una frazione chiamata Casolla, non distante dal paesino medioevale. Questo si annuncia con il rudere del­l'antico Castello di Pandone I: il maniero ebbe sei torri ed un mastio, ma attualmente non resta che il rudere del mastio, vol­garmente chiamato « la torre », di forma cilindrica su base poli­gonale. Attraverso stradine che conservano il loro lastricato medioevale giungeremo quindi nella piazzetta, dominata dalla Cattedrale romanica dedicata a San Michele Arcangelo.

Questa antichissima chiesa fu iniziata dal vescovo Rainulfo nel 1113 e terminata entro il 1153: la sua facciata, in marmo e tufo, presenta un timpano triangolare in corrispondenza della navata mediana e tre portali centinati, di cui quello destro, che è chiuso, ha una cornice con due ani­mali, mentre in quello sinistro sulla cornice, con due centauri si apre una monofora. Il più grande, quello centrale, ha nell'arco una cornice che posa su due leoni che dominano due tori su graziose mensole; lo sovrasta una monofora con ai lati due colonne sorrette da due leoni. Al di sotto del timpano una graziosa cornice gira intorno alle pareti esterne dove sei colonnine sorreggono gli archi quasi ogivali ma incrociati e ciechi. L'opera per quanto romanica presenta delle forme non ortodosse che ricordano quelle sicule, pugliesi, lombarde ed ispano-musulmane, ma è comunque da ritenersi uno dei monumenti più importanti della Campania e forse uno dei più interessanti dell'architettura medioevale dell'epoca. Sulla destra si erge il campanile, di influsso gotico, posteriore alla cattedrale essendo stato costruito nel 1234 dal vescovo Andrea. Esso poggia su un arcone ogivale ed è costituito da tre piani, di cui il primo ha una galleria cieca e gli altri delle graziose bifore; quattro angoli del coronamento ottagonale sono arrotondati da torricelle cilindriche. Nella base del campanile sono incastrati, verso la chiesa, una lapide sepolcrale e un frammento di fregio romano. Interessantissima è anche la cupola della cattedrale, costituita da un tamburo ad ottagono con due piani di arcate cieche di cui il primo poggia su quattro colonnine ed il secondo ne ha sei in ogni lato che si in­contrano con quelle del timpano della facciata. L'interno è a croce latina, con tre navate divise da 18 colonne monolitiche che si pensa provengano dal tempio di Giove Tifatino: l'interessante abside centrale è se mi-circolare ed ha ai lati altre due absidi semicircolari : il transetto è rialzato e la navata centrale termina in un arcone a sesto acuto. Le volte a costoloni del tran­setto ci ricordano un po' quell'architettura araba che ebbe prolifica espan­sione in Sicilia. Questa chiesa originariamente fu affrescata dal Cavallini e dai suoi discepoli ma di queste decorazioni oggi non restano che alcuni avanzi nella cappellina trecentesca che è sulla destra. Nella severa e spo­glia semplicità dell'ambiente ammireremo due acquasantiere medievali, la prima sorretta da un leone e l'altra da un leoncino, a sinistra nei pressi della seconda colonna; il fonte battesimale è del secolo IX. Di notevole in­teresse è il pulpito dugentesco su cinque colonnine sotto il penultimo arco, e particolarmente un pregevole bassorilievo raffigurante l'Annunciazione che ne costituisce la parte più antica. In fondo alla navata sinistra vi è un affresco trecentesco raffigurante la Vergine col Bambino e ai lati del transetto notiamo il Sepolcro del vescovo Giacomo, da alcuni attribuito a discepoli di Tino di Camaino, al di sopra del quale un altro affresco tre­centesco rappresenta la Crocefissione. Ammirevole anche il Sepolcro di Francesco II della Ratta, a sinistra del transetto, che da alcuni è attribuito alla bottega di Tino di Camaino; esso è decorato da medaglioni e sorretto da tre figure che rappresentano la Fede, la Fortezza e la Carità.

Usciti dalla chiesa, consigliamo di fare una passeggiata per il graziosissimo borgo, fresco e sereno nella sua grazia intatta.

Prenderemo ora la strada del ritorno, verso la città moderna: per entrare a Caserta città bisogna passare sotto le cascate del parco della Reggia dopo aver lasciato sulla nostra sinistra San Leucio, una frazione coronata anche da un castello dislocato sulle pendici dell'omonimo monte.

Questo piccolo centro prese il nome da una chiesa intitolata al suo santo, che, nato ad Alessandria d'Egitto, visse a lungo in Italia e morì su una terra del conte di Benevento, a cui apparteneva anche la diocesi di Capua;  della chiesa che fu qui costruita, purtroppo oggi nulla rimane.

San Leucio fu una creazione di Ferdinando IV di Borbone che intorno al 1773 volle raccogliervi una colonia per installarvi un setifìcio; egli avrebbe voluto che questo agglomerato si chia­masse dal suo nome Ferdinandopoli e sin dal 1789 volle dargli delle leggi che differissero da quelle del suo regno, creando per esso un codice a parte la cui compilazione affidò a Gaetano Filangieri, realizzandovi delle riforme sociali progressiste che gli furono compilate da Bernardo Tanucci.

S. Leucio fu feudo personale di re Ferdinando: bisogna dargli atto che fu merito suo se sorsero qui delle belle opere. Il re vi fece costruire per sé il casino reale, sullo sfondo di un magnifico bosco che fa parte del parco di Caserta, che come sua proprietà chiuse al pubblico; dopo averlo popolato di animali selvatici, lo usò anche come riserva di caccia. Vi fu prescritta l'educazione pubblica, la pubblica tranquillità, la buona fede, la perfetta eguaglianza fra tutti, il matrimonio tra la gente dello stesso mestiere, l'abolizione delle doti e fu vietata l'ingerenza dei genitori nei matrimoni dei figli. Fu imposta l'istruzione obbligatoria e furono aboliti i testamenti dando il diritto di successione solo ai figli, ai collaterali di primo piano ed al coniuge superstite, mentre le altre proprietà dovevano passare al « Monte » degli orfani: i maschi e le femmine avevano gli stessi diritti ed ogni operaio era tenuto a dare una parte dei suoi guadagni alla « Cassa di carità ». Così sorse la manifattura di S. Leucio, che tuttora eccelle nell'arte della seta. Quest'arte millenaria che nacque nell'antica Cina e che sembra avesse inizio con la coltivazione del gelso nel 2800 a.C. ancora oggi è viva a S. Leucio, i cui manufatti si affermano in tutto il mondo. Il sistema della gestione diretta ebbe termine nel 1843, e quando, dopo l'unione del Regno di Napoli a quello d'Italia tutti i beni reali pas­sarono allo stato, le manifatture furono date in affitto ad industrie pri­vate. Le industrie seriche di S. Leucio ancora usano i vecchi telai a mano e producono preziose stoffe e damaschi secondo i vecchi disegni del '700 e dell'800.

Oggi S. Leucio interessa principalmente per la sua storia tutta parti­colare e per l'opera di Ferdinando IV che volle qui trasferirsi dopo tante amarezze che gii avevano procurato la moglie e lo stato. La cura che il re aveva nell'interessarsi di tutti i particolari di questa colonia era veramente ammirevole anche se non mancarono i maligni che insinuarono che S. Leu­cio rappresentava « con le sue manifatturiere un harem dove le velleità conquistatone del sovrano potevano facilmente essere soddisfatte ».

La storia di Caserta Nuova è tutta legata alla dinastia bor­bonica e alla costruzione della Reggia che fu chiamata Reggia di Caserta dal nome dell'antico centro.

Nel 1819 la nuova città fu creata capoluogo della provincia. Il capoluogo, essendo sorto in epoca così recente, non offre opere molto antiche e la sua importanza artistica si basa principalmente sul lavoro che vi svolse il Vanvitelli.

In continuazione della via Appia, su un ampio rettilineo, possiamo vedere il Palazzo detto delle Quattro Colonne, dove morì nel 1773 il grande architetto, le cui spoglie furono inumate nella piccola Chiesa di S. Francesco, costruita intorno al  1605.

Questa chiesetta ha una facciata semplice seguita da un pronao; al­l'interno vi sono tre altari di cui quello centrale in marmo e gli altri due in stucco. Il convento annesso, in uno stile gotico alquanto paesano, pre­senta volte a crociera con costoloni. Un'iscrizione in una cella ricorda che Benedetto XIII nel 1729, mentre da Benevento si recava a Capua, volle fermarvisi per celebrare la messa e digiunare con i frati.

Luigi Vanvitelli, nipote del grande architetto, nel 1823, confermando il luogo e la data di sepoltura dello zio si rammaricava « che neppure un piccolo epitaffio vi indicasse l'esistenza delle fredde sue ceneri », ed il so­vrano borbonico dell'epoca, toccato da questo giusto rilievo, fece apporre una lapide sepolcrale per la quale furono stanziati 75 ducati, in cui si ricordava brevemente la vita del cavaliere Luigi Vanvitelli figlio dì Gaspare che aveva costruito la Reggia di Caserta e vi aveva portato l'ac­qua con la perforazione di un monte. Nel 1964, quando il Comune della città d'accordo con le autorità ecclesiastiche ordinò la chiusura al culto della piccola chiesa, evidentemente per le sue precarie condizioni statiche, si effettuarono delle ricerche per ritrovare la sepoltura del Vanvitelli ed infatti in una cripta fu trovato uno scheletro di sesso maschile che si ri­tenne dovesse essere quello del famoso architetto.

Volgiamo la nostra attenzione alla Reggia che rappresenta, oltre che il capolavoro di Luigi Vanvitelli, una delle più impor­tanti opere architettoniche che vanti l'Italia.

Dopo la vittoria di Velletri, nel 1744, Carlo di Borbone pensò alla co­struzione di una nuova reggia che desiderò a simiglianza di quella di Ver­sailles: si può dire che intorno a questa dimora reale sia stata conce­pita la città di Caserta, che doveva rappresentare, nella mente del sovrano, una  seconda capitale monumentale.

Non fu difficile la scelta dell'architetto, in quanto due soli nomi fu­rono in ballo, quello del Salvi e quello del Vanvitelli e il re decise per il secondo, che dovè richiedere a Benedetto XIV, essendo architetto pontificio.

La prima pietra della maestosa costruzione fu posta nel 1752, ed il Vanvitelli, oltre a fare il disegno della reggia, progettò con due suoi aiu­tanti quel condotto lungo 40 Km. che dalle sorgenti del Taburno doveva portare  l'acqua  nel  parco del  palazzo  reale.

Naturalmente diversi progetti furono presentati prima che il sovrano si decidesse, ma il risultato è di tale armoniosa perfezione e grandiosità da lasciare  senza parole.

L'imponente facciata a tre ingressi ad arco e con due porte presenta ben 243 finestre ed un nicchione principale inquadrato da colonne binate nel quale spicca un'iscrizione in ricordo di Carlo III di Borbone e di Ferdinando IV, continuatore dell'opera voluta del genitore. Il fianco ovest ha 198 finestre, 2 porte ed un portone ed il fianco est 201 finestre e 2 porte, mentre la facciata interna, cioè quella verso il parco, è più ricca della facciata principale ma uguale ed ha le finestre inquadrate da lesene scanalate. In totale questo grandioso edificio ha 1200 stanze con 1970 fi­nestre e 34 scale.

Meraviglioso l'ingresso, dal quale si accede ad un primo vestibolo che si collega con quelli del centro e con l'altro terminale attraverso una gran galleria a tre navi. Colpisce l'arte estrosa e personalissima del grande ar­chitetto nel disegno degli eleganti vestiboli ottagonali a peristilio coperti da calotte poggianti su colonne: dagli archi della galleria si scorgono in una profonda prospettiva i quattro spaziosi cortili laterali. L'imponente scalone è adorno di statue allegoriche, eleganti balaustre, colonne e di due leoni marmorei che la furia vandalica degli occupatori del '43 volle in parte profanare. Il vestibolo è quasi simile al precedente, ma più ricco per la policromia dei marmi: alcune statue raffiguranti il Merito, la Verità e la Maestà Regia e affreschi nella volta che rappresentano la Reggia di Apollo aggiungono calore e movimento all'armonioso insieme.

Dopo l'esecuzione dello scalone, dell'atrio e della cappella, in cui sul­l'architetto dovè maggiormente influire il ricordo di quella esistente a Versailles, vi fu un momento di stasi, in quanto dovendo Carlo di Bor­bone salire al trono di Spagna, fu stabilito che la Reggia ed il parco fos­sero terminati con una spesa inferiore a quella prevista. Sopraggiunta poi la morte del Vanvitelli, il palazzo rimase incompiuto all'interno; in circa vent'anni di lavoro l'architetto aveva diretto l'esecuzione dil una costru­zione di 45.000 mq. di superficie e vi aveva portato l'acqua dal Taburno attraverso  monti e viadotti.

Durante tutto il regno di Ferdinando IV, dei due re francesi e quello di Ferdinando II, sino al 1845 continuò l'opera di rifinitura e di arreda­mento; furono portati a termine l'appartamento reale, costituito da sei am­bienti e sale dell'appartamento per i ricevimenti e le feste. Luigi Vanvi­telli era stato previdente affiancandosi nel lavoro il figlio Carlo, poiché nella continuazione dell'opera questi rispettò le sue idee.

Nel 1780 Ferdinando IV volle prendere possesso di quel lato del pa­lazzo destinato alle famiglie dei principi reali nonostante i lavori conti­nuassero con evidenti fastidi per coloro che l'abitavano. L'appartamento occupato dal re era costituito da vaste anticamere e precisamente da quella chiamata degli Alabardieri, seguita da quella della Guardia del Corpo, in cui di fronte alle finestre vi è un gruppo marmoreo portato da Roma che raffigura Alessandro Farnese incoronato dalla Vittoria e sulla volta un affresco di Girolamo Starace raffigurante La Gloria del principe con le dodici province del regno. La quarta anticamera, dedicata ad Ales­sandro il Grande, fu portata a termine sotto Gioacchino Murat: nel 1826 vi furono collocate tele di Vincenzo Camuccini raffiguranti la Morte di Virginia e L'uccisione di Cesare al posto di alcuni affreschi che erano stati ordinati  dal  Murat e  che  non  piacquero  al  re Borbone,  Nel  1840  poi vi furono disposti alcuni bassorilievi del Niccolini, degli scultori Tito Ange­lini e Gennaro Cali, mentre i due quadri del Camuccini venivano trasfe­riti a Capodimonte e sostituiti da due tele riguardanti Carlo di Borbone, da un Ritratto di Alessandro di Lucio Lucchesi e da tele di dubbio gusto del Guerra e del Maldarelli.

Nelle quattro sale ad oriente vi sono dei dipinti allegorici del Domi­nici e di Fedele Fischetti che rappresentano la Primavera, l'Estate, l'Au­tunno e l'Inverno. Si giunge poi alla camera dove Ferdinando II morì il 22 maggio del 1859, seguita dai gabinetti di toletta della regina e dalle sale di ritrovo e di conversazione e infine dalla biblioteca. Vale la pena di soffermarsi brevemente su questi « gabinetti » decorati con specchi ve­neziani che incorniciavano le pareti e le finestre, con dipinti del Fischetti raffiguranti Venere, Diana e le Grazie e con putti modellati da Gennaro Fiore: la vasca di marmo fu scolpita dal Salomone. Alle spalle di questo appartamento vi sono sale da gioco e di servizio, cappelle private e ca­mere da letto e poi, come si è detto, la biblioteca, che consta di tre ambienti con dipinti alle pareti del Fuger datati 1782. Nell'appartamento seguente, quello del principe ereditario, riteniamo che esistano ancora delle nature morte di scuola napoletana, una raccolta iconografica borbo­nica ed un museo vanvitelliano.

Gli appartamenti ad occidente furono terminati nel 1807 durante il regno di Giuseppe Bonaparte sotto la direzione dell'architetto De Simone. Essi sono in stile neoclassico; la Sala di Marte è di ordine ionico e nella Sala di Astrea domina una magnifica tela del Berger. Segue la più grande sala del palazzo, quella destinata alle udienze, lunga ben 35 metri e larga 13, che fu terminata sotto Francesco I dallo svizzero Pietro Bianchi, l'ar­chitetto che aveva provveduto alla costruzione della balisica palatina di S.  Francesco di Paola in Napoli.

La morte del re, avvenuta nel 1830, causò l'interruzione dei lavori che furono ultimati soltanto nove anni dopo, si ritiene sotto la direzione di Gaetano Genovese che nel 1839 dirigeva alcuni lavori nella Reggia di Na­poli;   parteciparono  all'esecuzione  i  migliori  artisti  dell'epoca..

Dopo aver attraversato la Sala del Consiglio e la Sala del Trono, si giunge all'appartamento reale, costituito da uno studio, dalla camera da Ietto, tre sale di conversazione e una nuda cappella privata, tralasciando gabinetti e bagni, quest'ultimo con una magnifica vasca di granito egiziano. Riteniamo di dover aggiungere che questo piano nobile, terminato nel 1822, indubbiamente non raggiunge la bellezza e la ricchezza degli altri appar­tamenti. Alle spalle vi era un piano caricatore con un ascensore che veniva fatto funzionare a mano tramite alcuni verricelli. Interessante è il Teatro, a ponente della reggia, quasi quadrato, con tre ingressi di cui uno reale e cinque ordini di palchi : fu inaugurato nel 1768 sotto il regno di Ferdi­nando IV. Crescenzo La Gamba vi dipinse l'Apollo: elegante è il palco reale  sormontato  da un baldacchino di stucco.

Il 20 settembre del 1860 Garibaldi, dopo il plebiscito, da questa reg­gia scrisse a Vittorio Emanuele II che desiderava consegnargli il « Supremo Potere » e la nuova provincia della Terra del Lavoro.

Dietro il colossale edificio si apre a perdita d'occhio Io splendido Parco, che rappresenta parte integrante della Reggia in quanto fu pro­gettato da Luigi Vanvitelli, per quanto modificato in parte dal figlio Carlo. Esso, che si estende per ben 3 Km., è ricco di fontane e statue, sullo sfondo di una deliziosa cascata artificiale, con piani digradanti dalla col­lina. Da un rotonda, dove vi è una fontana chiamata Margherita, si giunge al Ponte di Ercole, il sito più caratteristico del parco, e poi alla cascata dei Delfini, costruita nel 1779 e alla fontana di Eolo, ove precipita l'acqua, adorna di 29 statue di Gaetano Salomone, Paolo Persico, Andrea Violani ed Angelo Brunelli che raffigurano i Venti e gli Zefiri. A tergo un emiciclo a portico che costituisce una grotta a quatto bassorilievi, anche opera del Brunelli, che raffigurano lo Sposalizio di Paride, le Nozze di Teti, il Giu­dizio di Paride e Giove con le dee. Vi è poi una seconda cascata la cui acqua scende dalla Fontana di Cerere, opera di Gaetano Salomone. Al ter­mine vi è la grande cascata, nel cui bacino si trovano dei gruppi del So­lari, del Brunelli e del Persico raffiguranti scene con Diana e Atteone; seguendone i fianchi si giunge ad una grotta nella quale giunge l'acqua dell'acquedotto Carolino, che fu progettato da Luigi Vanvitelli. A sinistra vi è poi il giardino inglese realizzato nel 1782 appunto da un inglese, Giovanni Antonio Graefer, per desiderio di Maria Carolina d'Austria: il disegno del giardino, ricco di piante rarissime e magnifiche   serre, boschetti e viali, di un laghetto con un tempietto neoclassico, fu attuato sotto la vigilanza di Carlo Vanvitelli. Notevole è anche la Peschiera grande, scavata nel 1769, con un'isoletta nella quale vi è un padiglione: anche questa è opera del grande Vanvitelli. Ingolfandosi nel folto del bosco si incontra poi quell'edificio che sembra quasi un castello medievale, il Ca-stelluccio, costruito nello stesso anno della peschiera grande ma rifatto nel 1819. Esso è composto da una torre ottagonale che man mano diviene cilindrica; vi è una saletta ad emiciclo al primo piano che ha otto vani profondi, in uno dei quali vi è una scala: intorno è coronata da dodici bassorilievi raffiguranti imperatori romani, opera del Foggiani. I lavori per tutto questo complesso ebbero inizio verso la metà del 1751 e per i ter­remoti avvenuti nella zona sino a quello del 1930, si può dire che non siano ancora terminati.

Vorremmo aggiungere che l'arte presepiale che fu tanto cara ai re Borbone si sviluppò in questa reggia, poiché si deve appunto a Ferdi­nando IV il primo presepe per il quale modellarono opere d'arte artisti come Matteo e Felice Bottiglieri, Nicola Ingaldi, Francesco Celebrano, Giuseppe Gori, Lorenzo Mosca e Giuseppe Sammartino, che avevano studio nel quartiere di S. Eframo, dove spesso Luigi Vanvitelli amava recarsi. A questi eminenti artisti bisogna aggiungere quelli che si dedicarono a ri­produrre nature morte o animali come Nicola e Saverio Vassallo, Giuseppe De Luca e Luigi Ardia. Qui la composizione presepiale si sviluppò ampia­mente affiancandosi all'idea del soggetto, cioè di un racconto nel quale in­sieme alla nascita del Cristo potessero ammirarsi i costumi delle province napoletane e quelli isolani.

Dopo la visita a Caserta Vecchia e a Caserta Nuova riteniamo opportuno, prima di rientrare a Napoli, proseguire per Santa Maria Capua Vetere, una piccola cittadina, che oltre ad essere un centro agricolo di una certa importanza, ha un grande interesse storico.

  

Essa fu costruita sull'antica Capua, che fu abitata in origine dagli oschi e poi, nel VI secolo a.C. dagli etruschi. Nella metà del secolo V a.C. apparteneva ai sanniti, ma nel 343 si alleò con Roma e nel 330 fu creata « cìvitas sine suffragio ». Poiché, però durante la seconda guerra sannitica si staccò da Roma, fu assediata e saccheggiata dalle truppe del dittatore Menio. Durante la seconda guerra punica Capua, impaziente di riconquistare la propria indipendenza, si ribellò di nuovo a Roma dandosi ad Annibale, che vi si attardò, sedotto dai famosi « ozi di Capua »; si disse, e gli scrittori latini lo confermano, che la città volesse diventare allora la capitale d'Italia con l'aiuto dei cartaginesi, ma il sogno durò poco, perché nel 211 dovè sottomettersi nuovamente a Roma e fu trattata duramente. Cesare nel 58 decise di ridarle la cittadinanza e sotto Augusto Capua ebbe il titolo di « Colonia Iulia Augusta Felix ». Nel IV secolo d.C. era ancora ritenuta la città più grande d'Italia dopo Roma, ma nel secolo V fu de­vastata e saccheggiata da Genserico e nel secolo IX, quando fu ancora distrutta dai saraceni, gli abitanti l'abbandonarono e costruirono la nuova Capua sui ruderi di « Casilinum », in posizione più protetta. Col passare del tempo però intorno all'antico Duomo, dedicato a S. Maria Maggiore, venne man mano riformandosi un piccolo agglomerato che agli inizi del secolo XIV veniva chiamato « Villa Sanctae Mariae Maioris » e solo nel 1806 divenne comune autonomo.

La parte più interessante di S. Maria Capua Vetere è quindi quella archeologica, con quell'Anfiteatro Campano che è uno dei più importanti monumenti romani, di gran lunga più grande di quello di Pozzuoli e leggermente inferiore al Colosseo di Ro­ma: l'asse maggiore misura infatti circa 170 metri e quello mi­nore 140, ed aveva quattro piani per un'altezza complessiva di circa 47 metri.

Fu costruito da una colonia dedottavi da Augusto, anche se non si conosce  la data precisa dei lavori e fu rimaneggiato da Adriano nel 119, come ricorda un'iscrizione alquanto mutila che è attualmente al Museo di Capua.

Durante le devastazioni di Genserico ed il saccheggio dei saraceni l'an­fiteatro fu adibito a centro di difesa e infine al principio del secolo IX se ne iniziò purtroppo lo smembramento prelevandone marmi, colonne e massi che  furono  utilizzati  come  materiale  da  costruzione.

Davanti all'anfiteatro vi è un'area sistemata a giardino dove sono stati messi sculture ed elementi architettonici, oltre a un mosaico raffigu­rante Nereidi e Tritoni: segue l’antiquarium, con tre sale ed un portico, che contiene avanzi decorativi, statue acefale, terrecotte, vasi, anfore e ritratti, dei quali è notevole quello di Marco Aurelio) altro interessante monumento di epoca romana è il Mitreo, del II secolo d.C. molto ben conservato, che ha nell'interno rettangolare vari affreschi dell'epoca. No­tevoli sono anche gli Archi di Capua o Arco di Adriano, dove passava la via Appia, opera primitiva a tre fornici, in cui un'iscrizione ricorda la vittoria dei garibaldini dell'ottobre del  1860.

Interessante anche la visita alla Cattedrale, che si vuole co­struita dal vescovo di Capua san Simmaco nel 432 sulle catacombe di San Prisco, e fu ingrandita nel 787 per desiderio di Arechi II e nel secolo XVII da Decio del Balzo che costruì l'abside che vediamo adesso.

Dopo altri rimaneggiamenti e restauri, il duomo si presenta oggi con un interno a cinque navate divise da ben 51 colonne antiche di forma dis­simile di varia provenienza. Da notare un interessante ciborio rinascimen­tale, la cappella di Santa Maria Suricorum, con graziosa cupoletta di epoca rinascimentale e una Deposizione del De Mura.

Interessante è anche la chiesa di San Pietro in Corpo, che fu costruita su una basilica e conserva nell'interno due colonne con capitelli corinzi della costruzione originaria; quella della Madonna delle Grazie, opera moderna in cui è incorporata l'antica abside della basilica dei SS. Stefano e Agata con dipinti del XIII secolo. Sotto l'edificio delle carceri vi sono poi avanzi di un criptoportico che originariamente era illuminato da ben 80 finestre; nel secolo XVII vi si passeggiava, poi fu adibito a monastero dei frati minimi di San Francesco di Paola, in seguito a stalla ed infine a carcere. Il Teatro, di epoca augustea, è al di là della via Appia, con altri avanzi emersi in recenti scavi che alcuni ritengono del II se­colo a.C.

I cittadini di Capua, dopo aver abbandonata nel secolo IX la loro pa­tria distrutta dai saraceni, si costruirono una nuova città a cui diedero Io stesso nome di quella di origine, a non grande distanza, su ruderi dell'antica Casilinum. Questo nuovo centro presto si affermò ed ebbe una storia insigne; diede i natali ad illustri protagonisti della storia e dell'arte e divenne il centro culturale della provincia di Caserta.

La città sorse intorno all'850 ad opera di Landone I, e da allora sino alla metà del secolo XII fu un principato indipendente, anche se subì l'oc­cupazione di Guido e poi di Lamberto da Spoleto, fu assediata dai napo­letani e dai bizantini e fu presa dai normanni nel 1076. Fu poi assediata da Braccio da Montone nel 1421, nel 1437 dalle truppe di Giacomo Caldora e ancora da Cesare Borgia, che la saccheggiò ammazzando un gran nu­mero di abitanti, secondo alcuni circa 5.000. La cittadina subì come Na­poli la dominazione austriaca nel secolo XVIII fino a quando non vi en­trarono, nel 1734, le truppe spagnole di Carlo III dopo ben 8 mesi di assedio. Durante la guerra per l'unità d'Italia subì ancora gli attacchi delle truppe piemontesi e il 2 novembre del 1860, costretta ad arrendersi, fu annessa al regno d'Italia.

Capua è ricca di opere d'arte, anche se alcune di esse sono state danneggiate e distrutte dai bestiali bombardamenti del 1943. Consigliamo la visita della Cattedrale, dedicata ai SS. Ste­fano ed Agata, eretta per volere del vescovo Landolfo I; fu rifatta una prima volta nel secolo XII, una seconda volta nel 1724 dal cardinale Caracciolo ed ancora nel 1850 a cura del cardinale Giuseppe Cosenza.

Il grandioso atrio con venti colonne con capitelli corinzi del III secolo, è adorno sulla parte esterna di sei busti che raffigurano i primi vescovi della diocesi con al centro la statua di Santo Stefano, opera del Viva. Nel maestoso interno a forma basilicale a tre navate si può ammirare un por­tale marmoreo del secolo XII, una tavola dugentesca raffigurante la Ma­donna della Rosa, che sta per essere restituita dopo un restauro, il Sar­cofago di Luigi dì Capua e quello quattrocentesco di Matteo di Capua conte di Palena, una statua raffigurante la Vergine della Purità, opera quattrocentesca offerta dal protonotario Bartolomeo di Capua ed un can­delabro per cero pasquale del XIII secolo. La regina Margherita di Sa­voia volle donare al cardinale Capecelatro l'altare della cappella del SS. Sa­cramento, un'opera di Anselmo Cangiano che si trovava prima nella ba­silica di San Francesco di Paola a Napoli Dono di Ferdinando II di Bor­bone è invece una pregiata statua lignea raffigurante l'Immacolata. Note­vole è anche la cripta, con 24 colonne che includono una cappella nella quale si conserva un'opera di Matteo Bottiglieri raffigurante un Cristo Morto, eseguito secondo alcuni su disegno di Francesco Solimena; sull'al­tare una Addolorata di Antonio Canova. Interessante è anche il tesoro, nella sacrestia. A destra dell'atrio vi è la torre campanaria del IX secolo con antiche colonne corinzie; vi sono varie iscrizioni e tre bassorilievi che si  ritengono provenienti dall'Anfiteatro Campano.

Ricordiamo anche la Chiesa dell'Annunziata, costruita con l'omonimo ospedale nel secolo XIII, che ha una bella cupola disegnata dal Fontana; l'interno ad unica navata non ha più il bel soffitto ligneo ornato da 39 dipinti famosi, che fu distrutto dai bombardamenti alleati. Da ammirarsi il coro ligneo nell'abside, del 1519, ed alcuni dipinti di Paolo Di Maio. Degne di menzione sono anche la Chiesetta della Carità, a croce greca, con un'inte­ressante cupola; quella di Santa Maria Maddalena e la basilica preromanica di Sant'Angelo Odoaldis con l'interno a tre navate, attualmente in via di restauro; quella di San Salvatore Piccolo con affreschi trecenteschi attribuiti da alcuni a Montano d'Arezzo; quella di San Martino della Giudecca del secolo XIII; quella di Santa Caterina, del secolo XIV, che conserva un chiostro rina­scimentale ed avanzi di affreschi dell'epoca e quella di San Gio­vanni in Corte, del secolo X .La Chiesa di San Salvatore Maggiore a Corte, di classica architettura longobarda, fu costruita per desi­derio della principessa Adelgrina intorno al 960, quella di San Tommaso d'Aquino, detta anche di San Domenico, fu eretta per volere di Bartolomeo di Capua nel 1258 con interno ad unica navata; quella di S. Michele a Corte del secolo IX, ha avanzi di affreschi del secolo X; quella dei SS. Rufo e Carponio del XII secolo, con torre campanaria del secolo successivo, ha tre navate e tre absidi semicircolari; quella di San Marcello Maggiore, del-l'851, conserva un interessante portale con gli stipiti lavorati da artisti lombardi nel quale una lastra tombale del VII secolo sosti­tuisce il primitivo architrave.

Nella facciata del Palazzo Municipale, del 1561, sono incastrate sette protomi marmoree di divinità provenienti dall'Anfiteatro Campano, quell'insigne monumento romano della vecchia Capua: sono interessanti anche la Casa di Pier della Vigna, con cortile rinascimentale, ed il Palazzo dei Principi Normanni, chiamato anche il Castello delle Pietre. Sono ancora degni di menzione la Porta Napoli, del XV secolo ed il Palazzo Antignano, appartenuto ai duchi di San Cipriano, con grazioso portale quattrocentesco di linea catalano-moresca, ove ha sede attualmente il Museo Cam­pano, fondato nel 1874.

Per esso si prodigarono, ciascuno a suo tempo, Gabriele Iannelli e Luigi Garofano Venosta, che dovè assistere alla sua semidistruzione du­rante i bombardamenti alleati dell'agosto del '43. In seguito il museo ri­sorse a nuova vita per opera di Amedeo Maiuri e del Garofano Venosta: nella sua nuova sistemazione esso ha 38 sale di esposizione e 12 adibite a deposito e si presenta suddiviso in 3 sezioni: archeologica, medioevale e moderna. Nella prima vi sono steli funerarie e un interessantissimo lapi­dario, sculture di rilevante valore, sarcofagi, terrecotte e vasi protostorici campani e greci; nella sezione medioevale si conservano frammenti prero­manici, sculture prese dai castelli di Federico II di Svevia, busti e statue raffiguranti personaggi dell'epoca, la pinacoteca, una biblioteca; la se­zione moderna raccoglie opere di autori moderni e contemporanei.

Degni di menzione sono anche il Palazzo Fieramosca, con una interessante epigrafe di Giovanni Bovio e la Casa Campanile con graziose bifore: il Ponte sul Volturno risalente all'amica « Casilinum », che era stato restaurato da Federico II, con 6 arcate e robusti pilastri in tufo, fu distrutto dai bombardamenti del '43.

Ricorderemo ancora, nel campo dell'architettura militare, le Torri di Federico II, la cui storia inizia nel 1233 quando il re svevo diede ordine a Niccolò de Cicala di costruirgli un castello, facendo abbattere l'antico borgo al di là del Volturno: allora fu eretta una porta che fu sempre considerata la principale della città e torri di gran mole rivestite di blocchi di tufo scuro.

Da Capua si può raggiungere a 4 Km. Sant'Angelo in Formis, molto importante per la sua Basilica. Questo piccolo centro alle falde del monte Tifata prende il nome dall'omonima antichissima basilica, da ritenersi una delle più importanti opere medioevali della Campania.

  

L'appellativo « in Formis » deriva da un antico acquedotto romano che veniva anche chiamato «ad arcum Dianae» per un tempio che vi era nel secolo I d.C. Evidentemente sui ruderi di questo tempio fu costruita la basilica cristiana, che appartenne prima alla diocesi di Capua, poi ai be­nedettini cassinesi e nel 1065 a Riccardo, principe di Capua e conte di Aversa, che la restituì a Montecassino e precisamente all'abate Desiderio divenuto poi pontefice col nome di Vittore III. Questi nel 1073 diede alla chiesa la forma attuale, ma le tracce della primitiva costruzione emergono tuttora,   specialmente  nella  pavimentazione.

L'interno è a tre navate, intervallato da colonne sormontate da capi­telli corinzi che alcuni ritengono provenienti dal tempio di Diana. Benché dopo la morte di Desiderio, avvenuta nel 1087, la chiesa debba ritenersi ultimata, non riteniamo che tutti gli affreschi siano di quell'epoca: questi, che rappresentano scene del Vecchio e del Nuovo Testamento dovevano es­sere originariamente circa 150, anche se oggi non ne rimangono che una sessantina, il cui stato di conservazione lascia molto a desiderare; di maniera bizantina, sono le opere più importanti del complesso. Notevoli sono anche le acquasantiere, il fonte battesimale ed il pergamo in marmo del secolo XII,  nonché il  campanile in  blocchi  squadrati  ricavati  dal  tempio di Diana Tifatina;  nei pressi fu creato il Cimitero dei Garibaldini  caduti nella battaglia del Volturno.

Da Sant'Angelo in Formis si può effettuare una simpatica escursione al Monte Tifata, ma comunque per il visitatore che desidera rientrare a Napoli basterà che riprenda la stessa strada intrapresa precedentemente per raggiungere Caserta.

 

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Ultimo aggiornamento:  12-11-08