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Questo itinerario ci condurrà per i maggiori comuni vesuviani e comprenderà una simpatica gita al Vesuvio. Partendo da piazza del Plebiscito, superata la piazza Municipio seguiremo via Marina e raggiungeremo il Ponte della Maddalena sotto il quale, anche se soltanto dopo molti giorni di pioggia, scorre quel fiumi­ciattolo chiamato Sebeto. Si supera San Giorgio a Cremano, villeggiatura dei napoletani dell'800 ed oggi quartiere periferico e la Croce del Lagno dove iniziano le belle ville settecentesche, conosciute come ville vesuviane per la maggior parte in stato di completo e volontario abbandono; ricorderemo fra queste la Villa Pignatelli, la Villa Ignarra che fu sede dell'Accademia Erco-lanense, la Villa Mirra, appartenuta al letterato Domenico, la Villa Gargiulo con cappella neogotica del periodo ferdinandeo, la Villa Volpicelli, che a dire il vero ne comprende due, la Villa Giulia, appartenuta al principe di Sannicandro, la Villa Faraone con doppia esedra ellittica, la Villa Marigliano, con portale del Sanfelice, la Villa Berlo, appartenuta poi al principe di Casapenna, la Villa Caracciolo di Forino, la Villa d'Aquino di Caramanico, la Villa Caracciolo di Avellino, appartenuta poi ai Medici d'Ottajano, la Villa Firrao, la Villa Galante, la Villa del Principe di Cariati, la Villa Tufarelli, la Villa Tanucci, appartenuta al ministro borbonico Bernardo ed altre di minore importanza o in tale stato di deterioramento che riteniamo inutile nominarle.

Senza alcuna soluzione di continuità si giunge alla cittadina di Portici, il cui nome deriva da una villa che vi aveva Quinto Porzio Aquilo.

In questa cittadina Carlo di Borbone nel 1738 volle costruire una reg­gia che troveremo poco dopo la piazza principale di Portici, intitolata a San Ciro. La strada passa direttamente nell'ampio cortile del Palazzo, e divide la costruzione in due zone, una verso le pendici del Vesuvio e l'altra verso il mare.

Un aneddoto vuole che nel 1737 Carlo di Borbone e la regal consorte, rientrati da una pesca di tonni effettuata a Castellammare di Stabia, ac­compagnati dal duca di Sora, fossero costretti a rifugiarsi nel porticciolo del Granatello e a ritornare indietro a causa di una violenta mareggiata. La regina Amalia avrebbe così avuto la possibilità di ammirare l'amenità del sito e, d'accordo col re, disporre per la costruzione della reggia. In­fatti nel 1738 iniziarono i lavori con l'esproprio dei palazzi del famoso principe di Elboeuf, del principe d'Aquino di Caramanico, del conte di Palena, del principe di Santobuono e della famiglia Mascabruna che, tra­sformati e adattati, divennero un'unica costruzione comprendente la Reg­gia, le scuderie, la dipendenza con due piccoli boschi ed una magnifica discesa a mare.

Nell'ottobre dello stesso anno 1738, i reali occuparono inizialmente la Villa Palena, ma il vaiolo preso dalla regina, lasciò un po' perplesso il re sull'opportunità di insistere sulla costruzione; dissuaso dai medici decise subito la continuazione dei lavori.

Si disse, in quel tempo, che le ville private furono espropriate non tanto per iniziare il palazzo reale di Portici, ma per sfruttare il terreno il  cui grembo  riservava tesori  archeologici.  Basti pensare che fu portato alla luce un intero tempio con 24 colonne e 24 statue di marmo! L'onestà di re Carlo era però tale che anche un piccolo cammeo che tanto gli pia­ceva, che fu incastrato su un suo anello, fu da lui restituito quando partì da  Napoli  per  cingere la corona  spagnola.

Tutto il materiale di valore ritrovato negli scavi, che a volte erano effettuati in presenza dello stesso re, fu poi sistemato nella galleria della reggia. Fu così fondato il Museo di Portici, con annessa Accademia Ercolanense, che trovò sistemazione nei locali del Palazzo. Fu coordinata una raccolta di estremo interesse archeologico ed il tutto fu poi descritto ed elencato dal 1757 al 1792 in otto volumi, ripartiti per le pitture, bronzi, lucerne ed altre cose; di detti volumi si son poi avute edizioni in francese, inglese  e  tedesco.

La Reggia fu costruita man mano con l'opera degli artiglieri del co­lonnello Medrano, ma ... questa volta il romano Canevari, dopo l'espe­rienza fatta a Capodimonte, tanto fece e pregò che ebbe la direzione dei lavori, con una paga di 90 ducati mensili. Un ingegnere francese di nome Bardet de Villeneuve propose di deviare la strada in modo da non tagliare in due parti la reggia, ma il re preferì lasciar tutto così come stava.

Il grande atrio, al quale si accedeva una volta dai tre cancelli in ferro ed oggi dalla strada cosiddetta « delle Calabrie », è diviso in nove parti ciascuna con nove volte ognuna delle quali è sostenuta da quattro pilastri. Da un cortiletto in fondo all'atrio si accede ai giardini e al boschetto, ove si attraversa un magnifico viale di elei che termina con un muraglione, che si vuole avanzo del vecchio campo di pallone e del castello costruito da Ferdinando IV nel 1775. Esso dà accesso anche alle logge del piano superiore, mentre uno scalone in marmo rosso porta al primo piano : un cancello ove possiamo riscontrare le iniziali del re Murat e della con­sorte  termina la scala dalla parte dell'atrio.

Un piccolo teatro preesistente del palazzo del principe di Elboeuf fu trasformato in cappella, il cui altare fu decorato con i magnifici angeli, opera di Giuseppe Canart, e le statue dei SS. Patroni di Giovanni Violani. Lo scalone, ornato da statue di scavo, fu costruito nel 1741, e porta all'ap­partamento di Carolina Bonaparte affrescato da Vincenzo Del Re, che di­pinse anche la cupola dello scalone, da Fedele Fischetti, da Giuseppe Bo­nito,  da Clemente Ruta,  da Wicar,  Girordet,  David ed altri.

Nel 1742 il « Real sito » di Portici occupava una vasta zona che da Pugliano (Vesuvio) arrivava al Granatello (mare). Annesso all'appartamento vi è un ricco saloncino da toilette Luigi XIV, che era il boudoir della regina, opera di Clemente Ruta, chiamato anche « stanza dorata » con pavi­mento in mosaico.

Dall'appartamento ci si può affacciare al cortile principale che porta a un boschetto con annessa pescheria. Circa i marmi che servirono allo scultore Canart per la costruzione del palazzo, essi vennero da Carrara, da Capua e dalle cave di Vitulani e di Gesualdo, o furono ricavati spo­gliando monumenti antichi del regno, comprese cinque colonne di brocca­tello antico di Benevento, e due di verde antico della Cattedrale di Ravello e di Napoli; si salvarono le cattedrali di Lucerà, di Canosa e di Troia, la cui  spoliazione  era già...  in programma!

Re Carlo amava la Reggia di Portici e, nella serena semplicità coniu­gale, conduceva una vita tranquilla in una etichetta rigida orientata alla massima moralità, non permettendo divertimenti leziosi ed inutili. La pesca a Portici e la caccia a Caserta erano gli unici svaghi di Corte.

La Reggia si arricchì poi di un piccolo Zoo, che fu popolato da ani­mali feroci ed esotici. Il vecchio ministro Salas ne avocò a sé le dire­zione ed il popolamento, e si fecero quindi venire leoni, pantere, iene, gia­guari e perfino elefanti che il ministro borbonico in Turchia provvide ad inviare al suo re. Nel 1775 Ferdinando IV fece costruire anche un ca­stello del quale oggi resta soltanto qualche avanzo vicino al muraglione del gioco del pallone. Vi era, inoltre, una torre ove funzionava una tavola detta muta e gli ospiti potevano servirsi di vivande liberamente e a loro piacimento « fuori tavola ». Anche Luigi XV nel Castello di Choisy, copiando dalla corte di Napoli, istituì una tavola « des confidentes ».

Nel 99 Ferdinando IV spogliò il palazzo e portò tutto a Palermo e Gioacchino Murat, quando prese possesso anche di questa Reggia, dovè arredarla da capo con mobili francesi; fu messa con gran lusso, poiché il monarca francese era molto mondano e le sue feste terminavano sem­pre a tardissima ora. Sotto il regno di Ferdinando II, la Reggia ebbe ospite nel 1849 anche Pio IX ma non essendo quasi mai abitata dalla Reale Famiglia, se non qualche volta dal Principe di Salerno e dal conte d'Aquila, incominciò ad essere trascurata sia nella manutenzione ordinaria che nella vita di corte e man mano fu completamente dimenticata. Attualmente è sede  nella  Facoltà  di Agraria  della nostra  Università.

Accanto alia reggia furono costruite diverse ville, delle quali ricorderemo Villa Caravita, Villa Meola, Villa Elboeuf, tutte disegnate dal Vaccaro. Prima di lasciare Portici ricorderemo anche il Forte del Granatello, che Carlo di Borbone fece costruire da Francesco Lopez Barnos nel 1738, e che fu demolito alla fine dello scorso secolo.

Segue Ercolano, importante dal punto di vista archeologico quasi quanto Pompei, essendo anch'esso un antichissimo centro, fondato secondo la leggenda, da Ercole, alle pendici del monte Vesuvio. La città, di origine greca, e chiamata « Heràkleion » fu detta dai romani « Herculaneum »: del periodo greco non vi è stato rinvenuto che qualche rudere di murazione, ma la sua urbanistica si uniforma a quella della Napoli greca, squadrata con cardini e decumani.

  

Dal VI secolo a.C. la cittadina dipese da Napoli, poi da Cuma e in­fine passò ai Sanniti. Fu contro Roma ma nell'90 a.C. dovè soccombere e divenne municipio romano: nel 62 d.C. fu quasi distrutta da un disastroso terremoto ma fu prontamente ricostruita più bella per l'interessamento di Vespasiano. Purtroppo l'eruzione del 79 d.C. la seppellì sotto la cenere e ì lapilli; lava e fango entrarono per ogni dove e di Ercolano non rimase che il ricordo. I primi scavi furono iniziati ai principi del secolo XVIII a cura del principe austriaco Elboeuf, ufficiale di cavalleria del regno di Na­poli, che riuscì a trovare alcune mura del teatro, ma purtroppo, da per­sona poco onesta, egli faceva scomparire tutte le suppellettili o il mate­riale più facilmente asportabile. Dopo la venuta di Carlo di Borbone nel 1738 gli scavi furono ripresi con maggior metodo e furono continuati quasi ininterrottamente sino al 1766 sotto le direzione dì un architetto spagnolo, Alcubierre, dello svizzero Carlo Weber e di Francesco La Vega; nel 1775 fu creata l'Accademia Ercolanese, che iniziò a pubblicare studi di notevole interesse sul materiale di scavo. Vi fu poi una stasi, ed i lavori vennero ripresi soltanto nel 1828, per quanto non con il fervore col quale erano stati iniziati da Carlo di Borbone: furono ancora ripresi nel 1869, poi nel 1875,  di nuovo nel  1927  e proseguono  ancora oggi.

Entrati nel recinto degli scavi, da un grande viale si gode l'insieme dei quartieri della città dissepolta. Seguendo un itinerario rapido dei Vecchi Scavi, noteremo la Casa di Aristide, che è la prima abitazione che s'incontra, poi la Casa d'Argo, così chiamata perché vi fu rinvenuto un bel dipinto di Io guardata da Argo; la Casa del Genio così chiamata da un Genietto alato; botteghe e modeste case di « mercatores ». L'angolo sud-ovest di questa « insula », con due abitazioni e due botteghe, fu messo in luce tempo fa, mentre scavi più recenti ci hanno dato la Casa del cosid­detto Albergo, la più ricca abitazione del quartiere meridionale della città, per cui si pensò in un primo momento che si trattasse di un albergo o di una basilica. La costruzione ha un ingresso principale e un ingresso secondario e si divide in quartiere dell'atrio, quartiere del peristilio, quar­tiere della terrazza porticata, quartiere del piano inferiore e dei sotter­ranei. Conviene visitare poi la Casa dell'Atrio a Mosaico, così chiamata per la sua singolare decorazione, una delle case panoramiche del quartiere meridionale della città; essa è divisa in due parti; l'ingresso, l'atrio, il tablino e il portico con le stanze e le sale di rappresentanza sulle ter­razze. Un portico fenestrato unisce le due parti della casa. Dalla parte meridionale del portico si entra nel quartiere della casa con una sala tricliniare al centro. Risalendo quindi lungo il marciapiede sinistro tro­veremo la Casa dell'Erma di Bronzo, piuttosto piccola, ma interessante perché ha conservato il carattere originale della casa di tipo sannitico: all'interno vi è un ritratto in bronzo del proprietario della casa. Proprio di fronte vi è la Casa dell'Alcova e un pianerottolo formato da due case affiancate intercomunicanti fra loro. Su di un atrio coperto si apre una sala bicliniare dalla quale un lungo corridoio conduce ad un'alcova. Trala­sciando alcune cose di scarso interesse ritornando indietro sul marcia­piede di fronte, troveremo la Casa a Graticcio, di tipo popolare, costruita con materiali più economici e cioè in « opus craticium », consistente in un graticciato di canne: essa rappresenta l'esempio di una casa di fitto e non padronale; vi è poi un portichetto ed un loggiato. All'angolo troviamo la Casa del Tramezzo di Legno, che rappresenta uno dei più completi esempi di prospetti architettonici ercolanesi e pompeiane, una casa patrizia che doveva estendesi per l'intera profondità dell'« Insula ». Il nome è dato dal tramezzo di legno a tre porte bivalvi che veniva a chiudere l'apertura del tablino, dietro il quale vi è un giardinetto con un portichetto a pilastri.

Nel « decumanus inferior » vi è una serie di botteghe e abitazioni.

Si visiti poi la Casa dello Scheletro, così chiamata perché negli scavi del 1831 vi fu rinvenuto uno scheletro: si tratta dì una casa modesta con ambienti angusti, ma il suo atrio è del tipo testudinato, che a Pompei è raro. Vi è un ninfeo, formato da due vasche rettangolari rivestite di marmi ed una elegante sala absidata alle spalle del tablino. Incontreremo poi la Casa con Due Atri, e le Terme urbane, comprese fra il « decumanus infe­rior » e quello « major », la cui epoca di costruzione risale al primo pe­riodo augusteo (10 a.C.) mentre la decorazione è posteriore, d'età Claudia o neroniana: anche questo edificio è stato posto in luce di recente. Lo stabilimento aveva Tenne Maschili e Terme Femminili; nelle prime tro­viamo una vasta sala a zoccolo rosso decorata di stucco con il pavimento in « opus segmentatum ». Sulla parete di fondo, in un'abside vi è una tazza di marmo cipollino e in un angolo una vaschetta per le abluzioni delle mani e dei piedi : si entra poi nella vasca rotonda del « frigidarium » con le pareti a fondo rosso e la grande sala del « tepidarium » e infine si esce nel cortile della Palestra, contornata da un portico. Le Terme Femmi­nili sono piccole e meno belle di quelle maschili : manca la vasca del « frigidarium », anche se gli ambienti sono più suggestivi. La stanza del « tepi­darium », più piccola della precedente, ha un pavimento a mosaico; il « calidarium » ha una grande vasca in marmo e al podio circolare un « labrum » per abluzioni d'acqua fredda.

Subito dopo le Terme, vi è la Casa del Salone Nero, signorile abita­zione contornata da portico e colonne: alle pareti vi è un'edicola che ser­viva a contenere le statuette di un Larario. Tornando indietro incontre­remo la Casa Sannitica, la Casa del Telaio, la Casa del Mobile Carbonizzato, la Casa del Mosaico di Nettuno e di Anfitrite, e, preceduta da una facciata con finestrine la Casa del bel Cortile. Indi, raggiungendo il decumano maggiore, troveremo una Casa Nobile che originariamente era collegata con l'attigua Casa del Bicentenario, finita di scavare nel 1938 e così chia­mata perché quell'anno scadeva il secondo centenario dei primi scavi di Ercolano effettuati nel 1738. Seguono altre botteghe e abitazioni. Si raggiunge quindi il « decumano maggiore », molto ampio, con marciapiedi e porticato lungo il tratto scoperto. Sulla piazzetta del trivio vi è la Fontana di Ercole; all'inizio del decumano vi è un quadriportico che conserva ancora le decorazioni di stucco a rilievo che era l'ingresso all'area del Foro. Incontriamo quindi la Casa dell'Atrio Corintio, di pochi ambienti, preceduta da un portichetto che si apre all'interno su un grazioso atrio polistilo a sei colonne. In fondo all'atrio vi è la sala tricliniare. Segue la Casa del Sacello in Legno: il sacello lascia intravedere nell'interno le sta­tuette delle divinità. Vi è poi la Casa con Giardino, molto modesta, e gi­rando sul « decumanus inferior », la Casa del Gran Portale chiamata così per il bel portale a semicolonne di laterizio; lungo le pareti fusti di co­lonne in tufo; di fronte vi sono varie botteghe. Vi è poi un grazioso fabbricato di più di 80 metri di fronte che doveva essere una pubblica « pa­lestra » o un « gymnasium »; si entra all'interno del portico e del cortile dove sono in luce l'ambulacro e il colonnato e le colonne corinzie di tufo e mattoni che sono state ricomposte e sono al loro posto. Al centro vi è una grandiosa sala, ai lati due altre sale minori. A sud della Palestra vi è un Pistrinum, vale a dire un forno e mulino, oltre 12 botteghe e alcune case.

All'angolo del decumano inferiore vi è la Fontana di Nettuno e dopo un'Abitazione e Bottega, la Casa della Stoffa e la Casa dei Cervi che occupa un vasto rettangolo di 43 metri di lunghezza dividendosi in due quartieri principali.  Vi  sono  stati  trovati  due  gruppi  di cervi assaliti  dai  cani  da caccia che indubbiamente sono i più bei gruppi animalistici della scul­tura ercolanese.

Dalla Casa dei Cervi raggiungiamo la Casa della Gemma, così chiamata per una gemma con ritratto femminile che vi fu ritrovata: l'atrio ha pa­reti con pilastri e un « prostylon » di colonne verso il tablino, la cucina è ben conservata e sulla parete della latrina un buontempone ha lasciato il ricordo che un certo « Apollinaris madicus Titi imperatoris hic e... bene ».

Segue la Casa del Rilievo di Telefo che è una delle più doviziose abi­tazioni del quartiere meridionale della città: l'atrio ricorda le forme degli « oeci corynthii » che erano nobili sale porticate. In un ambiente che precede il salone si trovò un rilievo di arte neoattica raffigurante Telefo. Uscendo dalla Porta Marina si raggiunge la città antica, dove troviamo sepolcri di cittadini illustri. Addossate alla Casa della Gemma e alla « Casa del rilievo di Telefo » vi sono le Terme Suburbane. Dall'ingresso si accede al vestibolo con bella erma Apollinea, di marmo greco. Si passa poi nel « praefurnium » e poi al « frigidarium », al « tepidarium », al « laconicum » e al  « calidarium » con « labrum » per immersioni.

Interessante è la visita del Teatro antico della città, il cui emiciclo della « cavea » era, come quello del teatro di Napoli, costruito su archi e pilastri a doppio ordine di 19 archi ciascuno. Due sale conducevano alla « media cavea ». La « summa cavea » con statue in bronzo era fiancheg­giata da statue equestri in bronzo. L'opera è di età augustea e postaugu-stea; di età Claudia e neroniana per la parte decorativa. La costruzione fu fatta per desiderio di Lucio Annio Mammiano Rufo Duumviro ad opera dell'architetto Numisio.

Uscendo dall'ingresso dei nuovi scavi per il Corso Ercolano ci trove­remo all'entrata superiore del Teatro. Dal vestibolo si discende per una gradinata: sette vomitori immettono nella « cavea »; si discende poi al piano dell'orchestra intramezzata da grandi piloni di sostegno. Il fronte del proscenio ha ai lati due basi, una di riconoscenza a Marco Nonio Bal­bo, proconsole della provincia di Creta e di Cirenaica, illustre cittadino di Ercolano e l'altra dedicata ad Appio Claudio Pulcro, console che benemerito dalla città. Vi sono dei capitelli e alle spalle della scena avanzi della decorazione che rivestiva i pilastri e gli archi. Per il cunicolo esterno a destra della scena si risale all'uscita.

La Villa suburbana dei Papiri, nella quale furono trovate opere d'arte e numerosi papiri, è attualmente inaccessibile perché nel 1756 fu abban­donata e risepolta sotto i lapilli e la lava. Essa si estendeva per circa 250 metri, fra la Via Cerere e il Vico Mare; costruita sulle lave preisto­riche era la casa ideale per una persona colta. Non se ne è mai cono­sciuto il proprietario, ma alcuni hanno ritenuto di poter dedurre che ap­partenesse a L. Calpurnio Pisone Cesonino, suocero di Giulio Cesare e ne­mico acerrimo  di   Cicerone.

Da un breve esame delle piante della villa che furono eseguite dal suo scopritore, Carlo Weber, si deduce che l'interno era costituito dal quartiere dell'ingresso e dell'atrio, dal quartiere del primo peristilio; veni­vano poi gli alloggi e infine il quartiere del grande peristilio. Lungo l'am­bulacro del peristilio furono trovate numerose opere d'arte, fra cui il gruppo delle Danzatrici, il Fauno dormente, il Fauno ebbro, il Mercurio, i Lottatori,  i Daini e  la  statua  dell'oratore  Eschine.

Prima di giungere a Pompei ci fermeremo brevemente a Torre del Greco per visitare la piccola reggia chiamata La Favo­rita. Essa fu costruita inizialmente dal duca Beretta di Sinari e marchese di Mesagna, poi acquistata e rifatta da don Stefano Reggio Gravina.

  

Nel 1786 il Gravina vi offrì un sontuoso ricevimento in onore di Maria Carolina d'Austria, giovane sposa del re, e la villa piacque tanto alla so­vrana che il principe volle offrirgliela. Infatti il dono fu tanto gradito che Carolina volle chiamarla appunto « La Favorita ».

Durante il regno di Ferdinando IV, fino al 1799, la Favorita fu sede dell'Accademia Militare di Marina che si trasferì a Napoli nel convento di San Severino dopo l'espulsione dei frati. Dopo la Repubblica Parteno­pea e il ritorno del re, avvenuto il 27 giugno 1807, con la costruzione di un approdo nei pressi del Granatello, la Favorita divenne « Regal dimora ».

Ferdinando IV provvide ad ampliare e arricchire la villa con giardini e boschetti, in parte espropriati all'attigua proprietà della famiglia Zezza: la costruzione fu ristrutturata dal Fuga, che vi creò due ingressi che im­mettevano in due ampi e verdeggianti cortili dai quali poi, si entrava nei giardini.

Al primo piano vi era la gran sala centrale, alla quale si accedeva per due imponenti scaloni di marmo, decorata con busti e grandi meda­glioni rappresentanti le aristocratiche viennesi che avevano accompagnato la sovrana a Napoli per la cerimonia nuziale. Al secondo piano vi era una sala ellittica con camere intorno, delle quali alcune guardavano verso il mare,  altre verso  il  Vesuvio.

In una delle sale fu messo un pavimento di marmo che fu tolto dalla villa romana di Tiberio a Capri. Verso levante vi era un bel salone con un'imponente biblioteca, anche se si diceva che dietro le cortine dì seta di  San Leucio di libri  non ve ne fossero!

La piccola reggia fu usata per « week-ends » e per brevi soggiorni. Anche qui, re Gioacchino riordinò da capo gli appartamenti e li arricchì di opere d'arte, per far ritornare la palazzina una degna dimora reale. I monarchi francesi si servirono molto di questa reggia per balli e ricevi­menti al Corpo Diplomatico rimasto nella capitale; infine nel 1814, rien­trando dall'Elba vi rimase ospite Paolina Bonaparte, diletta sorella di Na­poleone.

Tornati a Napoli i Borbone, a re Gioacchino non rimase che lasciare tutto al « vecchio padrone ». La villa ritornò al suo sfarzo, come in occa­sione del ricevimento del Principe Ereditario per la figliola Maria Carolina andata sposa al duca di Berry: di lì partì la coppia per Marsiglia sulla fregata della Marina Borbonica « Sirena » accompagnata dai conti la Tour e dal principe di San Nicandro. La villa poi passò in uso al Principe di Salerno don Leopoldo di Borbone; fu una fortuna per gli abitanti di Torre avere Sua Altezza nella Villa, perché i suoi giardini divennero un parco di divertimenti a vantaggio dei bambini e dei giovanetti del luogo. Il Principe seppe, come al solito, farsi benvolere da tutti e, quando nel 1815 morì, lasciò gran rimpianto tra gli abitanti. La villa divenne automa­ticamente proprietà di re Ferdinando II che volle ancora abbellirla incari­candone  i  pittori   Paliotti,  Maldarelli  ed  Enrico  Alvino.

Caduti i Borbone, la Reggia fu divisa in due parti: la Casina verso il mare fu venduta a privati, mentre la parte interna della villa passò al De­manio. Fu messa alla pubblica asta nel 1889 per lire 391.112.78, ma la vendita fu sospesa perché ne fu richiesto l'acquisto a trattativa privata da parte dei RR. Educandati Femminili; il Duca di Sandonato, però, vi si oppose per darla in vendita ai principi di Santobuono. Ritornata al De­manio e poi all'Amministrazione Provinciale, la villa diventò la sede del Convitto degli Orfani dei  Caduti in Guerra.

La graziosa cittadina di Torre del Greco è molto antica; si fa risalire la sua costruzione al VI secolo, ma soltanto nel se­colo XIII, durante il regno di Federico II di Svevia, vi fu costruita quella « Turris Octava » da cui prese il nome.

Sembra che la torre fosse costruita sul luogo dove vi era stata una grande villa di Ottaviano Augusto, ma questa non è che una supposizione come quella, che raccontiamo per cronaca, che l'appellativo « del greco » deriverebbe dall'uva « greca » che producevano alcuni vigneti. La fiorente cittadina fu gravemente danneggiata dalle eruzioni del Vesuvio del 1631, del 1794 e del 1861 ma si è sempre ripresa grazie alla sua industriosità.

Una delle più redditizie attività di Torre del Greco è quella della la­vorazione del corallo, le cui tradizioni risalgono a parecchi secoli: la pesca del corallo, che si effettuava nelle acque della cittadina sin dai tempi an­tichi, fu spostata poi verso mari più pescosi e i marinai torresi già nei secoli scorsi si recavano sino in Corsica e in Sardegna con una piccola flotta specializzata per questa pesca. Attualmente il corallo non è molto di moda e quindi questa industria risente della scarsa richiesta: gli artigiani torresi però continuano ad insegnare questa tecnica industriale nella Scuola di incisione sul corallo e di arti decorative affini.

La cittadina ha anche un Museo del corallo che si trova in piazza del Popolo, annesso alla scuola di cui abbiamo preceden­temente parlato. Le principali strade del centro sono il corso Vittorio Emanuele dove vi è la casa ove morì Ruggero Bonghi, piazza Santacroce, dove vediamo la Chiesa di Santacroce, in stile neoclassico, edificata su una chiesa del secolo XVI che fu distrutta dalla lava vesuviana nel 1794; all'interno si conserva un bel dipinto di Diego Pesco raffigurante l'Invenzione della Croce. Fra le belle ville del 700 di Torre del Greco ricordiamo l'imponente Villa Balzano Prota edificata da Ferdinando Fuga e Villa Vallelonga. Per via Leopardi si può raggiungere Villa delle Ginestre, nella quale soggiornò a lungo Giacomo Leopardi, che vi scrisse la famosa lirica da cui la villa prese il nome: essa appar­teneva ad un cognato di Antonio Ranieri, l'amico del poeta che lo ospitava anche a Napoli.

Una simpatica gita è quella ai Camaldoli di Torre, dove sorge un convento costruito nel 1716 per i monaci camaldolesi; attualmente invece riteniamo che vi siano dei padri Redentoristi, appartenenti allo stesso Ordine esistente nella basilica di Pompei.

Prima di giungere in questo importantissimo centro passiamo per Torre Annunziata, che è il proseguimento di Torre del Greco, che è un po' il fulcro dell'industria della pasta alimentare. Ci appaiono sulla destra i monti Lattari, di fronte il monte Faito e il monte Sant'Angelo a tre Pizzi e in men che non si dica si giunge a Pompei Scavi, che precede di circa un paio di Km. la cittadina moderna sorta intorno al Santuario.

Infatti il nome di Pompei è oggi famoso, oltre che per la sua importanza agli effetti della valutazione della civiltà e dell'arte pagana, perché è divenuta sede di uno dei più noti santuari della fede cristiana, quello della Vergine del Rosariot dovuto alla pietà di Bartolo Longo.

Le origini di questa città risalgono, a quanto comunemente si ritiene, al periodo osco, ed il suo nome deriva dal greco e dall'osco: la sua fonda­zione si fa risalire al VI secolo a.C, ma è probabile che esistesse sin dalI'VIIl. secolo. Pompei seguì più o meno la sorte di Napoli; attaccata dagli etruschi si alleò con i greci di Palepoli e di Cuma. Presa poi dai San­niti nel V secolo fu ampliata e quando la Campania fu conquistata dai romani dopo aver cercato di difendersi nel 310 a.C. dalla flotta romana si arrese. Quando Siila nell'89 a.C. prese Stabia, assediò Pompei occupan­dola completamente: da allora la città divenne colonia romana e fu chia­mata Colonia Cornelia Veneria. Nel 59 d.C, come apprendiamo da Tacito, i pompeiani si ribellarono a questo stato di cose ed avvenne una rissa nell'anfiteatro della città che provocò la proibizione dei ludi gladiatorii. Proprio quando stava rifiorendo e si stava riprendendo, nel 79 d.C. il pic­colo centro fu distrutto dall'eruzione del Vesuvio, ma mentre Ercolano fu sepolta dal fango Pompei fu investita da cenere e lapilli che lasciarono uno spessore solidificato di circa sette metri. La vita nella zona non riprese prima del II secolo nei pressi della località chiamata Civita. Furono effet­tuati alcuni scavi alla fine del secolo XVI, sembra sotto la direzione del­l'architetto Domenico Fontana, ma le prime vere esplorazioni si fecero nel 1748 per desiderio di Carlo di Borbone. I lavori continuarono con i suc­cessori di re Carlo, anche durante il periodo francese, e dopo l'unità d'Ita­lia furono affidati ad eminenti studiosi come Giuseppe Fiorelli, Michele Ruggiero, Giulio De Petra, Antonio Sogliano e Vittorio Spinazzola: sono stati poi ripresi in questo secolo da Amedeo Maiuri e proseguono ancora.

L'ingresso agli scavi adiacente all'uscita dell'Autostrada Napoli-Pom­pei, è sito presso la Porta Marina della città romana, dopo la quale tro­viamo ben presto l’Antiquarium. Prima di entrare osserviamo i busti di tre archeologi: Giuseppe Fiorelli, Michele Ruggiero e Augusto Mau, che hanno dedicato molti anni  della loro vita agli scavi di questo  centro archeologico e, nella parete di fondo la pianta topografica di Pompei del 1848, anno in cui fu inaugurato l’Antiquarium che fu poi distrutto nel 1943  dai bombardamenti alleati.

Dalla terrazza si osserva una parte di cinta muraria risalente al IV secolo a.C: nella spianata delle mura vi era, agli inizi dell'era cristiana, la magnifica Villa di Porta Marina, distrutta dal terremoto del 62 a.C.

Entriamo ora nell’"Antiquarium: nell'ingresso vedremo una mensa su trapezofori e alle pareti sculture decorative. Si passa nella I Sala, dove sono raccolti gli oggetti del periodo primitivo, esposti in vetrine. Nella II Sala vi è materiale della Pompei sannitica: graziosi capitelli alle pareti, vasellame sannitico e in fondo il frontone e l'area del santuario dionisiaco. Segue la Stanza di Livia al cui centro è la statua trovata nella Villa dei Misteri.

La III e la IV Sala contengono suppellettili domestiche della Pompei romana, statuette bronzee di amorini, vasellame in bronzo, aghi crinali in osso, la preziosa situla trovata nella Casa di Menandro, ornamenti in oro, osso, avori intagliati, statuette di divinità, corredo femminile in oro e argento. Nel passaggio vi sono alcune impronte umane, fra cui il calco del cadavere di una giovane e quello di un cane che cerca di ilberarsi dalla catena.

Nell'altra sala che diremmo dedicata all'artigianato e al commercio, vi sono strumenti di lavoro e residui di cibi: al centro della sala vi è il modello di una villa rustica con una azienda vinicola.

Dopo aver visitato Porta Marina e l’Antiquarium passeremo presso l'area sulla quale sorgeva il Tempio di Venere, che già era stato danneg­giato da un terremoto prima della fatidica eruzione del 69. Giungeremo quindi al Foro, che misura metri 38 di larghezza per 142 di lunghezza: a sinistra vi è il Tempio di Apollo, che esisteva sin dall'epoca sannitica e fu rifatto nel periodo imperiale con un portico di 48 colonne; davanti alla scalinata vi era l'ara e in cima a una colonna un orologio solare. Di fronte vi è un porticato sotto il quale notiamo le statue in bronzo di Apollo e dì Diana, copie degli originali che si trovano al Museo Archeologico di Napoli.

Ecco a destra la Basilica, del 120 a.C, da ritenersi il più importante edificio pubblico di Pompei. Essa ha una larghezza di 24 m. e la lun­ghezza di 55, ed è divisa in tre navate da 28 colonne in laterizio; in fondo vi è il podio del tribunale con due ordini di colonne. Accanto alla basilica vi erano gli Uffici municipali e all'angolo con via dell'Abbon­danza il « comitium ». Proseguendo e svoltando a destra si trova la Casa del Cinghiale, così chiamata da un mosaico raffigurante l'animale che è assalito da due cani. Tornati al « Comitium », vediamo di fronte l'Edificio della sacerdotessa Eumachia; segue il Tempio di Vespasiano con la bella ara in marmo e poi il Santuario dei Lari costruito dopo il terremoto del 62 d.C. A destra troviamo il Macellum, o mercato coperto, e a sinistra il Tempio di Giove, dedicato anche a Giunone e Minerva, della metà del II secolo a. C, che costituiva il Campidoglio di Pompei. Esso già era stato danneggiato dal terremoto prima dell'eruzione. Troviamo quindi il posto di ristoro, di fronte agli Uffici della Direzione degli scavi; a sinistra, in via Delle Terme, vi sono la Terme del Foro dell'80 a.C, che erano divise in due sezioni: maschile e femminile. Vi erano uno spogliatoio, il « fri-gidarium », il « tepidarium » e il « calidarium » e una palestra.

Per la nostra strada, dedicata a Mercurio, a destra troviamo il Tempio della Dea Fortuna Augusta fatto erigere dal tribuno Marco Tullio nel 3 a.C. Al quadrivio con via Delle Terme e via della Fortuna vi è la Casa del Fauno, dove fu trovato un bronzo raffigurante un Fauno danzante che è attualmente al Museo Archeologico di Napoli. All'ingresso ci accoglie il saluto Have sul pavimento in marmo colorato; le pareti sono dipinte ad imitazione di decorazione di marmi policromi: seguono l'atrio, e ai lati del tablino le stanze triclinari, l'atrio piccolo e il primo peristilio di 28 colonne ioniche, al cui centro si ammira una grande vasca con fontana. Ritornando su via della Fortuna vediamo la Casa della Parete Nera, che ha in una sala eleganti pannelli di amorini su fondo nero; quella dei Capitelli figurati, di epoca sannitica e quella della Caccia di epoca pre­romana.

Se si vuole visitare la Casa del Poeta tragico si passi sotto l'Arco di Caligola in via del Mercurio; vi sono la Casa dell'Ancora, con un bel giardino, la Caupona o Osteria, la Casa della Fontana Grande, la Casa della  Fontana  Piccola,   la  Fullonica, ovvero la tintoria, e finalmente la Casa del poeta tragico, nel cui ingresso fu trovato il mosaico col cane da guardia e la scritta « Cave canem ». Segue la Casa di Pansa, d'età sanni­tica, divisa in appartamenti da fitto e poi, imboccando la via Consolare, la Casa di Sallustio, del periodo sannitico con ai lati dell'ingresso alcune botteghe; uno dei dipinti che vi esistevano, quello raffigurante Atteone che sorprende Arianna al bagno, fu distrutto da un bombardamento nella II guerra mondiale. Troviamo poi la Casa del chirurgo, così chiamata perché vi fu trovata un'attrezzatura chirurgica: essa fu costruita nell'età calcarea; segue la Casa delle Vestali e si giunge poi alla Porta Ercolano, che è a tre fornici.

Prendiamo ora via del Mercurio, dove troviamo la Casa di Apollo, con pitture raffiguranti la Gara musicale tra Apollo e Marzio-, la Casa di Meleadro, del periodo sannitico, con graziosa decorazione pittorica, nella quale a destra del peristilio si ammirano tre sale, la centrale con colon­nato di stile greco. Accanto vi sono la Casa del Centauro e la Casa di Adone dove si ammira un interessante dipinto che rappresenta Venere con Adone ferito, la Casa di Castore e Polluce, la Casa del Labirinto e infine la sontuosa Casa dei Vettii, appartenuta a due mercanti chiamati Aulo Vettìo Restìtuto ed Aulo Vettio Conviva, che costituisce un magnifico esempio di una casa romana pompeiana di persone facoltose; dovè essere costruita dopo il 62 d.C ed è ricca di decorazioni pittoriche. Vi noteremo nel vestibolo una raffigurazione di Priapo, dio della fecondità, la cui vi­sione è sconsigliata alle signore, e nelle altre stanze numerosi dipinti che raffigurano Arianna abbandonata, Ero e Leandro, Ciparisso dolorante, Pan e Amore in lotta, Giove in trono e Leda con Danae. Nell'atrio vi sono pannelli con combattimenti di galli, una Testa di Medusa, e una Testa di Sileno; nel Larario vi è il Genio capo di famiglia fra due Lari e nelle altre camere ancora una pittura oscena consigliabile solo agli adulti. Si passa poi al quartiere femminile con triclinio e portichetto e quindi al gran peristilio col giardino, dove sono state trovate le antiche condut­ture idriche. La sala triclinare è decorata a fondo rosso con riquadri ma i dipinti che dovevano essere nei riquadri sono andati distrutti. È rimasta invece la serie degli Amorini che eseguono vari lavori sulla striscia sopra la zoccolatura. Nei riquadri centrali delle pareti lunghe, vi sono dipinti raffiguranti Agamennone che uccide la cerva, Apollo che vince il serpente Pitone e Oreste e Pilade davanti a Toante ed Ifigenia. Lateralmente vi sono coppie amorose come Perseo ed Andromaca, Dionisio ed Arianna, Apollo e Dafne ed in ultimo Poseidone ed Amimone. Dal triclinio grande passiamo al più piccolo, anch'esso decorato con pitture che raffigurano Dedalo che mostra a Pasifae la vacca di legno, Issione che presente Giu­none è legato da Vulcano sulla ruota, Epifania di Dionisio ad Arianna; nella sala più grande che è sull'altro Iato dell'atrio Ercole bambino che strozza i serpenti, Penteo dilaniato dalle baccanti e sulla destra // sup­plizio  di Dirce.

Segue la Casa degli Amorini che appartenne a Cnaeo Poppeo Abito, le cui pareti sono decorate appunto da graziosi Amorini: questa casa è un esempio dell'abitazione di un patrizio all'epoca di Nerone. Essa presenta bei pavimenti a mosaico con la raffigurazione di Leda col cigno e di Mer­curio volante; nella parete di fondo del tablino vi è un dipinto che rap­presenta Paride ed Elena a Sparta. Superato l'atrio si entra nel peristilio dove si ammira un frammento in marmo con un Sileno; alle pareti del triclinio vi sono altre pitture, i cui soggetti sono Tetide nell'Officina di Vulcano, Giasone calzato di un sandalo dinanzi a Pelia, Achille, Briseide e Patroclo nella tenda. In un'altra stanzetta vi sono ancora dipinti raffigu­ranti Diana ed Atteone, Leda, e Venere pescatrice. La casa degli Amorini dà sulla via di Stabia, sulla quale vi è in fondo Porta Vesuvio. Sull'altro lato della strada notiamo la Casa di Orfeo e la Bisca, che ha nella fac­ciata delle pitture oscene. La casa di Orfeo appartenne a Vesconio Primo; ma è così chiamata perché vi è una pittura raffigurante Orfeo tra le fiere. Di fronte vi è la Casa di Lucio Cecilio Giocondo, dove fu trovata una cassa con tavolette cerate di quietanza: si raggiunge poi il quadrivio di Orfeo e a sinistra, sulla via di Nola, la Casa del Torello, del periodo san­nitico. Ancora lungo questa strada troviamo la Casa della Regina Marghe­rita, che contiene pitture raffiguranti Leda col cigno, Poseidon con Ami-mone, Giove e Danae, Meleagro e Atalanta, Narciso, Arianna abbandonata e la Pazzia di Licurgo. Segue la Casa delle Nozze d'Argento, che ha que­sto nome perché fu scavata nel 1893, anno in cui si festeggiarono appunto le nozze d'argento dei sovrani. Vi si ammira un imponente atrio tetrastilo con gigantesche colonne corinzie,  ambienti grandiosi e un bagno privato.

Sempre in via di Nola sulla destra segue la Casa di Marco Lucrezio Frontone, di età imperiale, con pitture raffiguranti Le nozze dì Venere e di Marte, La pompa trionfale di Bacco, Neottolemo ucciso da Oreste a Delfi, Narciso alta fonte e Pero che ammazza il padre Micone, Teseo ed Arianna e la Toletta di Venere. Notiamo poi la Casa dei Gladiatori e in fondo la Porta di Nola, che ha sull'arco una Testa di Minerva.

Passando dall'altra parte della via vediamo la Casa di Obellio Firmo e la Casa del Centenario, così chiamata perché emerse dagli scavi nel 1879, uno dei tanti centenari dell'eruzione vesuviana del 79. Spazioso l'atrio con pavimento a mosaico; il grazioso peristilio è decorato con riquadri gialli con gli emblemi di Giunone, Apollo e Minerva. Nel giardino vi è la piscina ed  una  fontana  nel   cortile  del  peristilio.

Visiteremo ora le Terme centrali, il cui ingresso principale è dalla via Stabiana; segue sulla via di Stabia la Casa di Marco Lucrezio, decu­rione della cavalleria e sacerdote di Marte, che ha un bel giardino con erme in marmo e statuette rappresentanti Sileno con l'otre, Satiri, Pan. Vediamo poi la Casa di Gavio Rufo, il Forno del panettiere Modesto, con le macine formate da pezzi di lava vulcanica che erano azionate da schiavi, la Casa dell'Orso, con un bel mosaico all'ingresso e una fontana decorata  a  mosaico  in fondo  al  peristilio.

Troviamo quindi l'Albergo di Sittium con due ingressi e di fronte il Lupanare, con figurazioni oscene: seguono la Casa di Sirico, appartenuta ai mercanti Sirico e Nummiano.

Importanti le Terme Stabiane, il cui ingresso è da via dell'Abbon­danza, una strada che conduce alla Porta di Sarno. La parte più antica è quella sul vicolo del Lupanare, mentre il lato occidentale è dell'ultimo periodo. Usciti dalle Terme si incontra la Casa di Cornelio Rufo, quindi voltando in via di Stabia, dopo aver attraversata la via dell'Abbondanza, in via del Tempio di Iside troveremo il Tempio di Giove Melichios, ove era adorata questa divinità secondo il culto greco preromano; bella l'ara in tufo. Accanto vi è il Tempio di Iside, e dietro questo una sala per la riu­nione dei fedeli di questa dea. Segue la Palestra Sannitica che fu costruita del questore Vibio Vinicio, delimitata per tre lati da un colonnato di or­dine dorico.

Per via dei Teatri entriamo nel Foro triangolare, a cui si accede pas­sando per un grazioso propileo che era costituito da sei colonne ioniche: la piazza ha su tre lati un portico ionico costituito da 95 colonne ed al centro quanto rimane di un tempio dedicato ed Ercole e a Minerva risa­lente alla egemonia cumana. Sulla nostra sinistra vi è il Teatro Grande, costruito fra il 200 e il 150 a.C. e ingrandito dall'architetto Artorius nel­l'età augustea. In questo teatro, nei mesi estivi si danno spettacoli di no­tevole interesse a cura dell'Ente Provinciale del Turismo di Napoli. I ru­deri a destra sono quelli della Caserma dei gladiatori e il quadriportico serviva come « foyer » per gli spettacoli del teatro ma in età neroniana fu trasformato in caserma. Ancora alla nostra sinistra vediamo il Teatro Pie-colo, che fu eretto tra l'80 e il 75 a.C. da Quinzio Valgo e Marco Porcio, con una capienza di 1000 posti. Se usciamo dalla via di Stabia incontre­remo la Porta di Stabia, che è forse la più antica della città.

Si giunge ora alla bella Casa di Menandro, appartenuta ad una fa­miglia patrizia e così chiamata perché vi era un ritratto del poeta comico ateniese che scrivendo più di cento lavori teatrali fu l'alfiere della « commedia nuova greca ».

Nell'atrio si può ammirare il Larario ed a sinistra dipinti raffiguranti il Cavallo di Troia, la Morte di Laocoonte e l'Incontro nella reggia di Priamo di Menelao e di Elena. Interessante è anche la Casa degli Amanti, dove si può leggere un esametro che dice che gli innamorati sono come le api poiché succhiano il dolce della vita come quegli insetti il miele. Segue la Casa del Citarista sulla via di Stabia, così chiamata perché vi era una statua in bronzo attualmente al Museo di Napoli che raffigurava Apollo Citaredo.

Riportandoci sulla via dell'Abbondanza vediamo la Casa del Cripto­portico, così chiamata per l'interessante criptoportico con la volta rivestita di stucchi e decorata con Scene dell'Iliade. Seguono la Casa di Lucio Celo Secondo, la Fullonica di Stefano, che era una lavanderia e la Casa del Larario con graziose decorazioni che riproducono Scene dell'Iliade. Nella Casa di Paquio Proculo troviamo nel vestibolo 77 cane a catena; la Casa dell'Efebo è così  chiamata perché  vi  si  trovò una statua  raffigurante un Efebo, attualmente al Museo Archeologico. Segue ancora la Casa del sa­cerdote Amandus con un interessante triclinio e pitture raffiguranti Polifemo e Galatea, Perseo e Andromeda, Ercole nel giardino delle Esperidi, e Dedalo ed Icaro. Sulla sinistra dello nostra strada verso la Porta di Sarno troviamo l'Officina Verecundus, dove si tessevano tessuti e si confezio­navano vesti; è seguita dai cenacoli, ove erano altri tessitori e dal Termo­polio di Asellina, una bottega nella quale si poteva bere vino o altre be­vande. Poiché sulla facciata si leggono nomi di donne come Asellina, Aegle e Smyrna, tutto lascia pensare che in questa locanda non si dovesse solamente... bere. Si passa poi alla Casa di Caio Giulio Polibio, alla Casa del Bell'impluvio così chiamata dalla bella decorazione a mosaico del­l'impluvio, a quella di Successus, alla Casa del frutteto e alla Casa di Trebio Valente, il cui peristilio è finemente decorato. Segue la Schola Armaturarum, ove si insegnava l'uso delle armi e accanto la Casa di Pi-nario Ceriate, che era l'abitazione di un intagliatore di pietre preziose. Sulla via dell'Abbondanza troviamo ancora la Casa del Moralista, così chiamata per alcune massime che sono dipinte nella sala triclinare e sulla destra la Casa di Loreius Tiburtinus, che ha un grande portale. Superato l'atrio e il peristilio vi è una loggia a portico con un tempietto al centro decorato con pitture raffiguranti Narciso e Piratno e Tisbe. Un'altra sala triclinare ha un fregio con Scene dell'Iliade ed Episodi dell'Eracleìde. Vi è poi la Casa di Venere, così chiamata per una pittura che vi fu scoperta nel 1952 che raffigura Venere Marina scortata da amorini, e la Casa di Giulia Felice, dal nome della proprietaria, ed in fondo alla via di nuovo la Porta di Sarno. Rechiamoci ora all'Anfiteatro, che fu costruito nell'80 a.C. con una larghezza di 104 mt., una lunghezza di 135 e una capacità di dodicimila spettatori. In cima alle gradinate si vedono degli anelli di pie­tra che servivano per il « velarium », una tenda che si poteva stendere per ripararsi dal sole. Proprio di fronte vi è la Palestra Grande con al centro una vasta piscina; le sue dimensioni sono di 130 mt. per 140. In via Porta Nocera, dall'incrocio di via dell'Abbondanza vi sono ancora altre case e botteghe; tornando indietro la Casa del Larario di Sarno, la Casa degli Archi e ritornando sulla via di Nocera l'Orto dei Fuggiaschi, dove furono ritrovate molte impronte di pompeiani che morirono mentre ten­tavano di fuggire e infine la Porta di Nocera, di epoca preromana.

Recandoci fuori della Porta Ercolano, che era chiamata la Porta Saliniensis, inizia la via dei Sepolcri che fu scoperta nel 1763. Questa strada è molto importante e vi sono ancora alcune opere che vai la pena di visitare. Così a sinistra della Porta vi sono i Sepolcri di Mario Cerrinio Restituto, di Aulo Velo, di Marco Porcio, da alcuni ritenuto l'architetto dell'anfiteatro e del teatro coperto; e quindi il Mausoleo degli Istacidi. Ri­tornando verso la Porta, troveremo il Sepolcro di Marco Terenzio Maggiore che gli fu eretto dalia consorte Fabia Sabina, la cosiddetta Tomba delle Ghirlande, così chiamata per le sue decorazioni festose, il Sepolcro del Vaso bleu dove fu trovato appunto un vaso di questo colore, oggi al Mu­seo di Napoli, la Villa delle Colonne a mosaico che aveva quattro colonne che sono state trasferite a Napoli. Passando dall'altro Iato della nostra strada incontriamo altri edifici: Villa di Cicerone, il Sepolcro di Umbricio Sauro, il Mausoleo circolare, il Sepolcro di Caio Calvenzio Quieto, eminente augustale che aveva ottenuto il « bisellium », ovvero il per­messo onorifico di poter sedere in teatro con i decurioni, i Sepolcri di Numerio Istacidio Eleno e della famiglia, i Sepolcri di Nevoleia Tyche, di Caio Munazio Fausto e dei liberti e infine la bellissima Villa di Diomede. Questa ha nel peristilio un grazioso portico con bagno e piscina e una gran sala a tre finestre: segue il tablino con loggia e terrazza dalla quale per una scala si passa nel giardino, molto grande, forse il più grande esistente in questa antica città, con piscina, fontana e triclinio per il periodo estivo. Lo contorna un interessante quadriportico a pilastri e fi­nestre. Continuando vediamo il Sepolcro di Marco Alleio Lucio Libella e del figlio, costruito per volere della consorte di Marco Alleio, Decimilla, sacerdotessa di Cerere, il Monumento di Lucio Celo Labeone, il Sepolcro di Marco Arrio Diomede magister pagi Augusti felicis suburbani, di forma rettangolare.

Uscendo dagli scavi si entra nel viale della Villa dei Misteri e girando a destra si vede appunto questa Villa che è da ritenersi la più illustre e storica che sia stata trovata a Pompei.

A forma di quadrilatero essa fu costruita in ripido pendio. Danneg­giata dal terremoto del 62, fu venduta ad un rustico mercante che le fece perdere parte del « cachet » di villa patrizia. Di gran rilievo è la Sala del Grande Dipìnto, con magnifico pavimento in marmo e alle pareti una importantissima composizione pittorica il cui autore fu un campano del I secolo a.C. Questa composizione, che consta di ben 29 figure, è da ri­tenersi un'opera nel suo genere unica o perlomeno rarissima: essa raffi­gura un invito delle spose ai « misteri dionisiaci ». Infatti la « matrona » proprietaria era un ministro del culto di Dioniso. Notevoli anche l'atrio, il peristilio e il vestibolo; infine percorrendo il corridoio a sinistra del peristilio si raggiunge il « torcularium », che era il luogo in cui si faceva il vino,  dove vi è un torchio rifatto.

Dopo aver parlato della Pompei Pagana, non possiamo non soffermarci brevemente sulla Pompei Cristiana, sorta nel 1873 per opera di Bartolo Longo che, devotissimo della Vergine del Rosario, vi fondò il Santuario aggregandovi varie opere di carità come Orfanotrofi ed Ospizi.

La costruzione, iniziata nel 1876 su disegno di Antonio Cuva, è stata ultimata nel 1939 su progetto di un prelato ingegnere, don Spirito Chiappetta, mentre la facciata, su disegno di Giovanni Rispoli, fu terminata nel 1901 con la posa in opera della statua della Vergine del Rosario di Gaetano Chiaramonte. La torre campanaria, alta ben 82 metri, a cinque piani, fu costruita su disegno di Aristide Leonori ed ultimata nel 1925. La chiesa, a croce latina a tre navate, vanta una dei più moderni e più perfetti or­gani. Sull'altare maggiore vi è un'antica tela raffigurante la Vergine rac­chiusa in una ricca cornice bronzea con ai lati i Misteri del Rosario di­pinti da Vincenzo Paliotti. Vi sono nel santuario dipinti di Federico Maldarelli, di Silverio Capparoni, di Orazio Orazi e di Ponziano Loverini, il candelabro del Cero Pasquale di Vincenzo Ierace e una tavola raffigurante S. Paolo attribuita a fra' Bartolomeo.

Terminata la visita a questa cittadina tanto ricca di arte, di storia e di misticismo, nel tornare a Napoli, invece di fare la strada esterna dei comuni, sarebbe preferibile prendere l'auto­strada Napoli-Pompei. Potremmo quindi recarci sul Vesuvio, che abbiamo vicinissimo e possibilmente farvi una breve ascen­sione. Innanzitutto daremo qualche cenno storico su questo vulcano o meglio su questo monte gemino o bicipite che è il monte Somma-Vesuvio. Non si può parlare di Napoli senza par­lare del Vesuvio, che sovrasta il golfo e il panorama della città: la cima più bassa a sinistra è il monte Somma e quella sulla destra, dal cono tronco, è il Vesuvio, vulcano attivo anche se da molti anni ha perso il suo pennacchio... di fumo.

Questi due monti rappresentano il tipo di vulcano detto a recinto, di cui il Somma deve considerarsi il cono primitivo; le sue eruzioni risal­gono infatti al secondo periodo eruttivo della zona flegrea. L'altezza mas­sima del monte Somma è di m. 1132, mentre quella del Vesuvio si aggira attualmente sui 1270 rat.; prima del 1906 era di 1336 mt. Sino al 79 d.C, quando avvenne l'eruzione che seppellì Pompei sotto una coltre di ce­nere e lapilli, questo vulcano era conosciuto più che altro per i suoi vigneti, che davano un vino eccellente. Lo ricorda infatti con gran sim­patia Strabone, recatosi a visitarlo nel 19 d.C. e da lui apprendiamo che la zona circostante aveva delle strade lastricate con massi di lava preisto­rica e con lava presa direttamente dai detriti di eruzione vulcanica. II vulcano doveva essere una montagna unica prima che l'eruzione distrug­gesse Pompei ed Ercolano; secondo un affresco che fu rinvenuto nella « Casa del Centenario » a Pompei sembra che fosse isolato, e fin da al­lora il vino dei suoi vigneti doveva essere eccellente, poiché in questo dipinto è ritratto  Bacco,  il dio del vino.  Seneca ci ha tramandato  il furioso terremoto del 62, mentre la trattazione più completa dell'eruzione del 79 la dobbiamo a Plinio il Giovane su richiesta di Tacito: sappiamo in­fatti che una delle vittime più insigni fu Plinio il Vecchio. Riteniamo inutile soffermarci sulla storia e principalmente sui danni che le eru­zioni hanno sempre apportato ai comuni viciniori: ricorderemo quelle del 202, del 472, del 512, del 685, 993, 1063, 1139, 1306, 1500 e quella ter­ribile del 1631 che causò circa 3000 vittime; in questo secolo ve ne furono ancora altre cinque e la lava si fermò dopo San Giorgio a Cremano. Ri­cordiamo ancora le eruzioni del 1707, del 1737, del 1760, del 1767, del 1779, e quella del 1794, che distrusse quasi completamente Torre del Greco. Nel secolo scorso ve ne furono ben sette che danneggiarono nuovamente i comuni vesuviani, delle quali alcune rientravano nel quadro delle mani­festazioni parossistiche. Vi fu poi un'eruzione nel 1906, quando la lava dopo aver danneggiato Boscotrecase si fermò al limite del cimitero di Torre Annunziata; una nel 1927 che raggiunse la valle dell'Inferno diri­gendosi verso Terzigno, una nel 1929, quando le lave andarono oltre il vallone grande della valle dell'Inferno ed ancora nel 1930. Nel 1933 si ebbe un altro terremoto, anche se abbastanza lieve, i cui epicentri furono Torre Annunziata e Portici e nel 1944 un'eruzione di cenere e lapilli, dopo la quale le manifestazioni vulcaniche sono soltanto fumaroliche, intra ed extracraterìche; siamo quindi in un periodo di riposo che ci si augura duri  per qualche decennio.

L'escursione al Vesuvio è molto interessante: dall'Autostrada è fa­cile raggiungere l'Osservatorio Vesuviano e la stazione inferiore della Seg­giovia, dopo circa 13 Km. di strada asfaltata in salita. Ad un certo punto la strada si biforca, e mentre la diramazione di destra conduce alla seg­giovia per raggiungere il cono craterico, l'altra di sinistra giunge al colle Margherita. Una breve carrozzabile porta all'Eremo, dove sino agli inizi del secolo scorso erano alcuni eremiti e si raggiunge poi l'Osservatorio Vesuviano, una costruzione in linea neoclassica eretta per desiderio di Ferdinando II da Gaetano Fazzini nel 1814. Esso è situato su un colle chiamato dei Canteroni che essendo uno dei luoghi più elevati verso la parte occidentale del monte Somma è stato sempre rispettato dalle eru­zioni  di  lava che  si  sono susseguite.

Questo Osservatorio ha anch'esso una storia, legata al grande vulca­nologo e fisico Macedonio Melloni, che è ritenuto il suo vero fondatore essendone stato il primo direttore. Questo scienziato approfondì gli studi sull'energia raggiante e riuscì a costruire le prime pile termoelettriche a differenza delle pile produttrici di corrente inventate nel 1799 dal coma­sco Alessandro Volta; inventò inoltre un elettroscopio sensibilissimo che gli diede la possibilità di effettuare approfonditi studi sullo spettro so­lare. Rimosso dal suo incarico nel 1848 per le sue idee liberali, si ritirò a Portici dove morì nel 1854. Gli successero Luigi Palmieri, Vittorio Raf­faele Matteucci e dal 1911 al 1914 il grande Giuseppe Mercalli, sacerdote rosminiano allievo dello Stoppani, che è passato alla storia per quella scala sismica che porta il suo nome, che è la più usata per la classi­ficazione dei terremoti e la compilazione delle carte sismiche. Egli la mo­dificò e la integrò principalmente dopo il terremoto avvenuto sulla costa calabra ed a Messina nel 1908. L'Osservatorio dopo ebbe alla sua dire­zione un quadrumvirato che fu chiamato Comitato Vulcanologico dell'Uni­versità di Napoli il cui presidente era il direttore dell'Istituto di Fisica Terrestre Ciro Chistoni : fu poi nuovamente affidato a un direttore nelle persone di Alessandro Malladra e quindi di Giuseppe Imbò. Questo Os­servatorio è molto importante non soltanto per le osservazioni metereologiche, ma per quelle ricerche scientifiche che vengono pubblicate negli Annali.

All'interno della costruzione si può vedere un'interessante raccolta di minerali e di cimeli nonché strumenti per le ricerche geofisiche. Vi è inoltre una biblioteca con pubblicazioni scientifiche molto importanti e plastici di diversi vulcani. Salendo sulla torretta vi si potranno vedere gli apparecchi metereologici, e nei locali sotterranei gli apparecchi di sismo­logia e clinografia: l'Osservatorio ha anche un giardino, dove vi sono al­cuni padiglioni.

Retrocedendo a sinistra si va verso la seggiovia mentre un'altra strada sulla destra si congiunge con quella del Vesuvio di Boscotrecase: sempre salendo, mentre si va verso la stazione della Seggiovia, si ha una idea generale del gran cono del cratere. Una strada carrozzabile lunga circa 2 Km. porta al colle Marghe­rita ed al cratere, dove si può ammirare la valle del Gigante e il punto culminale del Somma: sempre salendo segue un tratto di strada chiamata Matrone, costruita tra lo strato di cenere e lapilli, che giunge nella parte occidentale del cratere, la cui altezza è di 1180 mt. Volendo proseguire oltre non si consiglia di andare isolatamente, ma di farsi guidare da persona esperta.

La seggiovia del Vesuvio giunge alla quota di mt. 1158 e a chi non soffra di capogiri offre il panorama ineguagliabile del golfo e delle isole. Dalla Stazione Superiore della Seggiovia, per una piccola strada si giunge poi all'orlo craterico del vulcano, che ha una circonferenza di circa un chilometro e mezzo. Naturalmente se si desidera avventurarsi lungo il cratere è opportuno essere equipaggiati e possibilmente farsi accompagnare da qualche guida. Il giro si inizia da sinistra e ben presto si raggiunge la Valle dell'Inferno, una visione impressionante per il ripido strapiombo delle pareti del monte Somma. Si arriva quindi al punto più alto dell'orlo craterico, che è di 1270 mt., la cui base è la parte eruttiva del 1944. Intorno numerose fumarole emettono vapore con tem­peratura a volte superiore ai 500°. Interessante può essere anche il giro della cresta del monte Somma, o recarsi alla valle del Gigante o raggiungere il canale dell'Arena, a quota 1044, che ci porta poi per una discesa molto ripida verso Ottaviano e Somma Vesuviana.

Desiderando far ritorno a Napoli, conviene riprendere invece l'autostrada.

Questo itinerario ci porterà nella penisola sorrentina, che contìnua l'arco del golfo di Napoli: noi non ci soffermeremo in tutti i piccoli centri di questa incantevole costiera, ma cercheremo di metterne in luce le parti più belle e le cose più interessanti.

Prendendo l'autostrada Napoli-Salerno, si esce alla stazione di Castellammare di Stabia, nei cui pressi sono le rovine del­l'antica città romana, Stabia, che subì anch'essa le conseguenze dell'eruzione vesuviana del 79 a differenza di Pompei si ri­prese e prosperò a causa delle sue sorgenti minerali che ancora oggi ne fanno una stazione termale della massima importanza.

La località era così amena e la sua aria così buona che nel medio­evo i sovrani angioini vi si costruirono un palazzo che chiamarono Casasana, appunto per la sua meravigliosa posizione, fra il mare ed i boschi. Per il suo porto e per il suo valore strategico la cittadina durante i secoli fu spesso teatro di lotte; fu saccheg­giata e distrutta durante il conflitto tra francesi e spagnoli e ricostruita da Carlo V, che la diede in dote a sua figlia Marghe­rita che sposò Ottavio Farnese. Carlo di Borbone vi fece intra­prendere gli scavi archeologici, e i suoi eredi la dotarono di un efficiente porto, la congiunsero alla capitale con la ferrovia, e vi fecero costruire un cantiere navale nonché un importante com­plesso termale che sfruttava ben 17 sorgenti. Il paese è senza dubbio dal punto di vista commerciale e industriale il centro più importante della penisola sorrentina: non offre invece molte opere di interesse artistico. Menzioneremo comunque il Palazzo Farnese, oggi sede del Comune, la cinquecentesca Cattedrale ed il Museo Stabìano, contenente interessanti sarcofagi romani e oggetti di scavo. Lasciandoci Castellammare alle spalle, imboc­chiamo quindi la strada che conduce a Sorrento lasciando a sini­stra l'altopiano di Agerola e di Gragnano, centri di produzione di un ottimo vino e, il secondo, di pasta alimentare. Procedendo incontreremo ben presto sulla destra il Castello medioevale, la cui costruzione risale al secolo XI per volere del duca di Sorrento: durante il tempo esso ha subito trasformazioni, adattamenti e restauri, ma è ancora molto interessante.

Dopo i bagni dello Scrajo la nostra strada, la costiera sorren­tina, incontra il paese di Vico Equense, che prende il nome da un borgo, cioè un vicus sorto sull'antica Aequana. Può interes­sare la piccola Cattedrale, di costruzione trecentesca, con gra­zioso campanile a tre piani, che ha nell'interno la tomba di Gaetano Filangieri, che visse e morì nel Castello Giusso.

II maniero, la cui mole sovrasta il piccolo promontorio, caratteriz­zandone il panorama, si ritiene costruito da Carlo d'Angiò, ma fu rifatto agli inizi del secolo XVII dai principi di Conca, fu ancora restaurato dal conte Girolamo Giusso e infine fu acquistato dai Gesuiti che ne fecero un loro noviziato. Attualmente questi religiosi lo hanno venduto e ci auguriamo che coloro che lo hanno acquistato ne lascino intatta la parte esterna.

Dopo aver oltrepassata la frazione di Seiano, un piccolo centro che prende il nome da un senatore romano che vi aveva un'im­portante villa, si giunge a Meta di Sorrento, dove all'inizio del­l'abitato si vede subito la graziosa Basilica della Madonna del Lauro, che si ritiene costruita sulle rovine di un tempio dedicato a Minerva, essendovi apparsa la Vergine su un lauro.

Proseguendo per la nostra strada raggiungiamo Piano di Sorrento, un piccolo centro che fu amato da Augusto, da Marco Agrippa e ricordato da Plinio, Ovidio ed Orazio. Interessante è la Chiesa di San Mi­chele, anch'essa costruita sulle rovine di un tempio pagano, nel cui interno si può ammirare un dipinto raffigurante la Vergine e San Francesco di Paola attribuito ad Andrea da Salerno, un trit­tico di Marco Pino da Siena e nel transetto destro una Vergine del Rosario di Francesco Solimena.

Si giunge poi a Sant'Agnello, elegante centro di villeggiatura che ci accoglie con la statua del santo patrono nella piazza Mat­teotti; lasciando a destra la stazione della circumvesuviana tro­veremo poi, nell'omonima piazzetta, la barocca Chiesa di San­t'Agnello che conserva tre tele di Giuseppe Castellano nel soffitto della navata centrale. Imboccando sulla destra il corso Crawford potremmo scendere alla graziosa « marinella »; prenderemo invece a sinistra via Cocumella, lungo la quale poco dopo a destra vi è la Villa Siracusa, appartenuta al principe Leopoldo di Borbone, nel cui parco è stato costruito un grande albergo. Nella villa prin­cipesca vi è un prezioso pavimento in ceramica su disegno del Palizzi con le mattonelle differenti l'una dall'altra. La strada che stiamo percorrendo cambia il nome in via Rota e continua verso Sorrento fra ville ed alberghi, parchi e giardini lussureg­gianti: i migliori alberghi sono tutti a picco sul mare ed hanno ciascuno la sua discesa privata.

Al termine di questa strada ci troveremo nella piazza di Sor­rento, al cui centro è la statua di Sant'Antonino, protettore di questa graziosa ed elegante cittadina.

  

Sorrento si ritiene abitata sin dall'età neolitica. La città fu fondata probabilmente dai teleboi quando conquistarono Capri e subì poi il do­minio dei siracusani, e quello dei Sanniti e dei romani, che aiutò nella seconda guerra punica. Nel 216 si alleò con Annibale e durante la guerra sociale fu contro Roma: presa da Siila non fu saccheggiata né distrutta, ma dovè accogliere una colonia di reduci veterani e solo dopo la fine della repubblica divenne municipio. Nell'età imperiale la cittadina fu luogo di villeggiatura dei ricchi romani. Nel 420 divenne sede vescovile con un go­verno di arconti e di duchi: occupata dai goti, nel 552 passò a Bisanzio e fu poi assediata dai longobardi. Nel secolo IX fu ducato libero e, varie volte attaccata dai saraceni, riuscì a sconfìggerli, si racconta, per inter­cessione del patrono Sant'Antonino. Nel secolo XI divenne parte del prin­cipato di Salerno: assediata dai normanni, una prima volta riuscì ad evi­tare la sconfitta con l'aiuto dei pisani ma fu poi occupata da Ruggiero che la trasformò in un ducato. Lotte intestine la divisero tra angioini e durazzeschi, ma nel 1501 la cittadina dimostrò coraggio nell'opporsi alla dominazione franco-spagnola; da questo momento la sua storia segue quella di Napoli. Il suo cittadino più famoso fu Torquato Tasso che vi nacque nel 1544.

Sono da ricordare la Chiesa di S. Maria del Carmine, prece­duta da un portico, il Palazzo Correale, del secolo XV, con magni­fico portale durazzesco, il Palazzo Veniero con due piani di finestre incorniciate da decorazioni a colori. La Cattedrale, con il suo largo e il campanile di forma gotica, è stata rifatta in questo secolo da Giovan Battista Signori; molto bello è il portale marmoreo, del secolo XV, con uno stemma aragonese e quello di Sisto IV sull'architrave.

L'interno, a tre navate, conserva un'Annunciazione del secolo XIV ed un bassorilievo raffigurante S. Cristoforo del secolo XV, tele di Giacomo Del Po nel soffitto del transetto ed un trono arcivescovile cinquecentesco in fondo alla navata mediana: anche il pulpito marmoreo è della stessa epoca. Da ammirarsi inoltre nella cappella del transetto destro una ta­vola quattrocentesca a fondo oro raffigurante un Presepe e nell'abside il coro di finissimo intarsio sorrentino.

Dietro il Duomo, quasi corrispondente ad una porta della città vi è un Arco Romano con avanzi di murazioni cinquecen­tesche. In un piccolo largo fra le viuzze della città vecchia tro­viamo il Sedil Dominova, una loggia quadrata quattrocentesca sfinestrata ai due lati, con gli stemmi delle famiglie nobili nel­l'interno. Interessante è anche la Basilica di S. Antonino, co­struita su un oratorio, con il sepolcro dei santi del secolo XIV: il fianco destro offre un portale dell'XI secolo. Nell'interno a tre navate si conservano dipinti di Giovan Bernardo Lama e tele di Giacomo Del Po oltre ad un interessantissimo pre­sepe del Sammartino, del Gori e del Vassallo. La Chiesa di San Francesco d'Assisi ha una graziosa porta lignea quattrocen­tesca: l'annesso convento, che serba un pittoresco chiostro ad archi su pilastri ottagonali trecenteschi, è occupato attualmente da una scuola d'arte. In piazza della Vittoria vi sono ruderi romani che si ritengono avanzi di un tempio di Venere nel quale Virgilio, mentre soggiornava a Sorrento con Augusto, volle of­frire un amorino in marmo alla dea perché lo aiutasse a termi­nare degnamente la sua Eneide; a sinistra vi è la Chiesa di S. Paolo con l'interno barocco. Nei pressi può interessare il Palazzo Sersale, ove abitò la sorella di Torquato Tasso che sposò Marzio Sersale, con portale in bugnato: vi soggiornò nel 1577 anche il poeta quando fuggì dal castello di Ferrara. Nella via Correale vi è il Museo Correale di Terranova che ha sede nel palazzo settecentesco della famiglia omonima.

Il museo, che consta di ben 23 sale, contiene una collezione di oggetti di arti minori e una raccolta di antiche edizioni delle opere di Torquato Tasso.

Lungo la costa di Sorrento vi sono varie torri, fra cui quella del Gallo costruita per ordine di Roberto d'Angiò nel 1332, quella di S. Fortunata, semidiruta, costruita nel 1564; un'altra a Guar­diola al Capo di Scutolo costruita nel 1567, quella di Sant'Elia di Ceremegna costruita nel 1569 da Cafaro Pignaloso da Cava dei Tirreni. Resta inoltre alla Porta del Piano qualche rudere di un Castello cinquecentesco di pianta rettangolare con base scarpata costruito nel  1459 dalla famiglia Accìapaccia.

Ricostruito nel 1506 ed abbellito nel 1555 e nel 1558, quando i turchi sbarcarono a Sorrento il castello fu preso e subì gavi danni. Ricostruito, fu diroccato dai francesi nel 1779 e poi ancora nel 1843 per deliberazio­ne (!) del decurionato della città. Questa fortezza era originariamente in­corporata nel perimetro difensivo della cinta muraria della città, che aveva quattro porte, due di terra e due di mare. La porta Maggiore, quella che portava a Piano, era accanto al castello e fu demolita nel 1866; quella di Parsano, che conduceva a Massa, fu distrutta nel 1865; della porta della Marina rimane solamente l'androne sotto la chiesa di S. Antonino e l'altra era chiamata della Marina Grande perché dava appunto accesso alla Ma­rina Grande. Nei pressi di questa porta, che ancor oggi presenta un arco a tutto sesto ottenuto in apparecchio isomodico, ancora esistono ruderi dell'antica murazione greca.

All'estremità della Punta del Capo vi sono gli avanzi della Villa romana di Pollio Felice, ricordata da Stazio, che il popolo chiamava volgarmente i bagni della Regina Giovanna: nulla ci vieta di credere che anche una delle due regine avesse l'abitudine di appartarsi qui con i suoi occasionali amici. Continuando per la carrozzabile, alla marina di Puolo, in località Capo di Massa, si possono vedere i ruderi di un'altra villa romana.

Si giunge infine al comune di Massalubrense, così chiamato, si ritiene, perché ebbe origine da una mansa longobarda chiamata prima publica e poi lubrense dal nome della Chiesa di S. Maria della Lobra, costruita sui ruderi di una villa romana dove vi era un delubrum dedicato a Minerva.

Massa è legata alla storia di Sorrento. Nel 1645 divenne principato e feudo di Francesco Toraldo d'Aragona, noto al tempo della rivoluzione di Masaniello, nel 1807 fu fortificata con torri contro gli attacchi degli inglesi che occuparono Capri, e dalla bella villa Rossi, dove fu poi firmata la  capitolazione,  Gioacchino Murat  controllava l'assalto.

Da ricordare la Cattedrale, del 1512, trasformata nel secolo XVIII, oggi S. Maria delle Grazie; l'interno ha un magnifico pavimento settecentesco in maiolica ed una Madonna delle Grazie-ài Andrea da Salerno. Notevoli sono il Palazzo Vescovile del se­colo XVIII e il Santuario di S. Maria della Lobra eretto nel 1528 sulle rovine dell'antica chiesa paleocristiana che sorgeva alla Marina di Fontanelle, costruita a sua volta sui ruderi di un tempio pagano. L'interno offre un bel soffitto ed un pregevole pavimento maiolicato: vi è annesso un piccolo convento francescano con un rustico chiostro. Ricordiamo inoltre la Rocca in località Collina della Terra, edificata dai durazzeschi nel 1389; in parte distrutta da Ferrante I d'Aragona fu poi ricostruita. Vi è un'altra torre in località Crapolla costruita dal viceré duca d'Alcalà nel 1567 insieme a quella esistente in località Jeranto e a quella che trovasi allo stato di rudere a Recomone. Molto più importante quella alla Punta della Campanella, eretta da Ro­berto d'Angiò nel 1334 e rifatta nel 1556 dopo essere stata deva­stata dai turchi. Vi sono altre torri minori in località Fossa di Papa. Punta di Bacoli, Capo di S. Lorenzo, Capo S. Liberatore, Capo di Massa e a Guarrazzano, quest'ultima edificata nel 1600 a difesa del collegio dei gesuiti. Anche la torre di Nerano, co­struita da Berardino Turbolo per la difesa della spiaggia di Cantone dallo sbarco dei saraceni, è secentesca. Alla punta S. Lorenzo vi sono altri ruderi di una villa romana e così in località Marciano; notevoli sono gli avanzi del Castello eretto dal governatore di Massa Pietro Acciapaccia nel 1389.

Riteniamo tuttavia che le bellezze naturali, più che queste piccole graziose chiesette e i diruti castelli, giustifichino la visita a queste deliziose località: l'altopiano sorrentino, tutto verde di aranceti, si affaccia sul suo mare di un azzurro profondo e miste­rioso dall'alto di poderose rupi a strapiombo; la costa è frastagliatissima e varia, ricca di una vegetazione lussureggiante e olezzante di un'infinita varietà di fiori che i suoi giardinieri sanno disporre in artistica policromia. Si tratta di posti unici al mondo, la cui bellezza è classe, nobiltà e stile.

Da Sorrento si può raggiungere poi rapidamente Sant'Agata sui due Golfi, dalla quale si gode contemporaneamente il pano­rama del golfo di Napoli e di quello di Salerno, l'uno a destra e l'altro a sinistra. Sant'Agata è luogo di villeggiatura per coloro che amano il fresco della collina, ma offre anche la possibilità di poter scendere in poco tempo a Nerano o a Massa per fare i bagni di mare.

Si ritiene che questa località fosse abitata sin dall'epoca greca, ma i primi ricordi storici che se ne hanno risal­gono appena al secolo XV. È molto graziosa la Chiesa di Santa Maria delle Grazie, del 1622, con un altare maggiore in marmi policromi, un'opera cinquecentesca fiorentina che era prima nella chiesa dei Gerolomini a Napoli: vi si possono ammirare, inoltre una tavola trecentesca raffigurante San Francesco d'Assisi e una copia della Madonna della pace di Raffaello.

Dopo il paese la strada continua in salita fino all'Eremo, sito sul punto più alto della collina, dal quale si vedono, come abbiamo accennato, i due golfi. Sull'eremo, chiamato anche il deserto, la collina raggiunge i 456 metri, mentre il paese è a 390 metri sul livello del mare. Questo monastero, costruito da Padre Ludovico da Casoria, il fondatore dell'Ordine dei Padri Bigi, ospita attualmente un orfanotrofio.

Per effettuare questo itinerario ci conviene prendere l'autostrada Napoli-Salerno e, usciti a Castellammare, proseguire lungo la costiera sorrentina fino a Meta, dove dalla sinistra, ad un bivio, parte la strada che con­duce a Positano, prima tappa del nostro itinerario. Se invece, il visitatore si trovasse a Sorrento potrà prendere la magnifica strada, chiamata per il suo panorama « del Nastro Azzurro » che conduce ai Colli di San Pietro e poi scendendo e salendo fra curve e rientranti porta alla nostra meta.

Preferendo viaggiare per mare, nella buona stagione Positano si può raggiungere anche con l'aliscafo.

 

Questo graziosissimo paesetto della provincia di Salerno compete con Capri per la sua bellezza e la dolcezza del suo clima. Esso non era che un paese di pescatori, ma la sua incantevole posizione a gradinata lungo il ripido pendio della montagna, che forma una riparata ed accogliente conca, lo ha reso famoso in tutto il mondo facendone una località turistica e balneare. Positano ci appare come un grazioso presepe, con le sue casette linde, il suo cielo terso ed il suo incredibile mare. Giunti all'inizio del paese, lasciando la statale si imboccherà sulla destra la via Pasitea, dalla quale si dipartono le classiche « scalinatelle » che con tanti raccordi portano giù alla spiaggia: Positano infatti non ha che una strada, la via Garibaldi che conduce nella piazzetta dei Mulini, dove bisogna lasciare l'auto se si vuole proseguire per la spiaggia, ma infinite scalette scendono e salgono disimpe­gnando il traffico pedonale. Lungo la strada botteghe e botteghelle espongono i prodotti di un artigianato locale a buon mer­cato, che dimostra però uno spiccato senso artistico: ceramiche, maioliche, effetti di vestiario e calzature, per Io più estive. Nella piazzetta Flavio Gioia, che si può raggiungere soltanto a piedi, vi è la Chiesa di Santa Maria Assunta, che contiene una Circoncisione di Fabrizio Santafede ed una tavola dugentesca raf­figurante una Madonna col Bambino. Scendendo sempre si giunge sulla spiaggia gaia e variopinta, costellata di ombrelloni e circon­data ad anfiteatro da ristoranti accorsatissimi. Volendo vedere il panorama dall'alto si può salire al Belvedere, dal quale si abbraccia un ampio arco che va da quegli scogli chiamati Li Galli fino al Capo Sottile.

Dopo Positano incontreremo Praiano, un piccolo centro famoso per l'arte della lavorazione del corallo: nella sua chiesetta dedi­cata a San Luca, si possono ammirare alcune tele del Lama.

Continuando per questa strada che ha il nome di costiera amalfitana giungeremo poi a Conca dei Marini, ricordata per la storia della sua marina mercantile: vi si costruiscono nasse e ceste di vimini a forma conica adoperate per la pesca. Sarebbe interessante, in questo tratto, visitare la grotta di Smeraldo.

La strada, dopo aver attraversato il vallone di Furore, si biforca: da un lato prosegue verso Amalfi mentre dall'altro rag­giunge il paesino. Qui, nella Chiesa dedicata a San Michele si può ammirare un trittico di Angelo Antonello da Capua del 1482 che rappresenta la Vergine con i Santi Bartolomeo ed Elia. Tra rocce e vigneti si intravede la stazione di Vettica Minore e si giunge quindi ad Amalfi.

  

La storia di questa città è troppo illustre perché ci sia bisogno di di­lungarci su di essa: Amalfi tu fondata nel IV secolo d.C. da alcuni ro­mani naufragati sulle sue coste, ma il rinvenimento di alcuni frammenti ha fatto ritenere che fosse abitata invece sin dall'epoca imperiale. L'abi­lità dei suoi abitanti nel navigare la pose all'avanguardia fra le repubbli­che marinare italiane nei commerci con i paesi dell'Oriente; Amalfi si distinse per aver avuto un suo codice marittimo e per aver battuta mo­neta e divenne famosa per i suoi arsenali ove si costruivano galee anche per altri paesi. Nel'849 i legni di questa repubblica insieme alle flotte di Napoli e di Gaeta riuscirono a sconfiggere ad Ostia i saraceni che si pre­paravano ad attaccare Roma. Nell'XI secolo Amalfi aveva raggiunto l'apice della sua grandezza, riuscendo a penetrare col suo commercio in tutto il mondo; gli amalfitani costruirono in quel periodo chiese ed ospizi sino a Gerusalemme, dove Gerardo Sasso da Scala fondò quell'Ordine di cui abbiamo già parlato, che divenne poi l'Ordine dei Cavalieri dì Rodi e quindi di Malta. La città decadde durante il principato salernitano di Guaimaro IV che se ne impadronì approfittando di alcune lotte interne e nel 1073 fu presa dai normanni. Alla fine del secolo XI riuscì a ricon­quistare la sua indipendenza, ma la perse poi definitivamente con Rug­giero II e nel 1398 divenne feudo dei Sanseverino, poi dei Colonna, di Raimondo del Balzo, sinché Ferrante d'Aragona nel 1461 la diede a sua figlia Maria. Si ritiene che abbia dato i natali a Flavio Gioia, l'inventore della bussola. Lo stemma di questa illustre città è stato prescelto per fre­giare il gonfalone della Regione Campania.

Nella cittadina vi sono importanti opere d'arte, fra cui la magnifica Cattedrale, che si erge alla sommità di una imponente scalea, fondata probabilmente nel IX secolo ma ricostruita in stile arabo-normanno-siculo nel 1203.

La facciata fu rifatta nella forma originaria da Enrico Alvino, L. Della Corte e Guglielmo Raimondi ed il mosaico nel timpano che rappresenta Gesù in trono fu eseguito su disegno di Domenico Morelli, mentre l’Assunta che è nella lunetta del portale maggiore è opera del Morelli stesso e di Paolo Vetri. Una porta in bronzo del secolo XI introduce nell'interno a croce latina a tre navate; ammirevoli il soffitto della navata mediana di Francesco Gori e le colonne monolitiche, i due candelabri che sono all'in­gresso del presbiterio e i due amboni del secolo XII ai lati dell'altare maggiore. Interessante è anche la cripta del 1253, restaurata nel 1719, che conserva statue del Naccherino e di Pietro Bernini oltre alle reliquie del­l'apostolo Andrea, che operando un miracolo che si ripete sin dal 1304 trasudano la famosa manna. Alcuni affreschi di Pietro Cavallini decorano un passaggio che porta al piccolo chiostro a colonnine binate, del 1266, dove sono raccolti sarcofagi e materiale di epoca romana e medioevale.

Interessante è anche il Campanile, iniziato nel 1180 e compo­sto da un piano di bifore e un piano di trifore. Nel piccolo museo esistente nel Palazzo Municipale si conserva quel prezioso codice chiamato « Tabula Amalphitana » che contiene le leggi marittime e ben 66 capitoli riguardanti l'antica repubblica la cui formulazione è anteriore all'epoca normanna.

La torre è stata trasformata nella dipendenza di un albergo, ambientato in un antico convento francescano con un grazioso portico del '200 molto caro a Enrico Ibsen, che nel 1879 vi com­pose la sua « Casa di bambole ». Di un altro convento eretto nel 1212 sui ruderi di uno più antico del secolo X, attualmente adi­bito anch'esso ad albergo, rimane il suggestivo portico.

Uno fra i tanti vanti di Amalfi è quello di essere stata tra le prime città in Europa a fabbricare la carta a mano: le sue cartiere imposero infatti i loro prodotti sin dal periodo svevo.

Riprendiamo la costiera, lungo la quale ci accoglie ben presto un altro grazioso paesino: Atrani. Questo piccolo centro è rino­mato per l'arte della ceramica, la cui produzione ha tradizioni antichissime che risalgono ai tempi della repubblica marinara.

Nei IX e nel X secolo Atrani subì il dominio di Salerno, poi passò agli amalfitani che si riunirono in un quartiere che fu chiamato « tornel­le » appunto per i forni che vi erano stato impiantati per la fattura della ceramica. Quest'arte, che ricevette indubbiamente, l'influsso della tecnica artistica espressiva dell'antica Roma è ancor oggi viva nelle antiche bot­teghe dei  fornaciari che perpetuano la tradizione.

Rilevante e la Collegiata di Santa Maria Maddalena, edificata nel 1274, che conserva nell'interno una bella tavola di Andrea da Salerno e la Chiesa di San Salvatore de' Bireto che anticamente veniva chiamata de Platea, dove venivano eletti e venivano se­polti i dogi della repubblica amalfitana.

Costruita nel 940 è stata rifatta nel 1810: restano della costruzione originaria il grazioso campanile a vela ed il portale, del XII secolo, con una pregevole porta in bronzo del 1087. L'interno a tre navate conserva una transenna del XII  secolo.

Una diramazione verso l'entroterra porta di qui a Ravello, celebre per i suoi vini, la sua storia e i suoi tesori d'arte e ricor­data da eminenti personaggi, dal Boccaccio a Riccardo Wagner.

Sarebbe stata fondata, come risulta da un antico documento amalfita­no, nel VI secolo, durante la seconda guerra gotica, o meglio ancora, subito dopo la fine dell'Impero Romano d'Occidente. Il suo nome ha un'etimologia alquanto incerta che forse si richiama a quello della collina occupata dai romani, che era chiamata Torello. Soggetta ad Amalfi durante il IX secolo, nell'XI si ribellò alla repubblica dandosi a Ruggiero il Nor­manno, ma passò poi nel ducato di Amalfi.

Fu sede vescovile sin dal 1086 ed ha un'interessante Catte­drale, la cui facciata è stata rifatta nel 1931, che conserva le antiche porte di bronzo donate dalla famiglia Muscettola nel 1179 il cui autore si ritiene possa essere stato quel Barisano che le eseguì anche per le cattedrali di Trani e di Monreale: le valve sono suddivise in 54 formelle con pannelli decorativi molto interessanti.

L'interno è a tre navate, diviso da due colonnati fa cui copertura era originariamente a tetto nella parte centrale ed a volte sulle navate la­terali: molto interessanti gli amboni, di cui quello di destra, voluto da Nicola Rufolo nel 1172, pregevole opera di influsso romanico-bizantino ed arabo, sicuro, fu eseguito da Nicola Bartolomeo da Foggia; l'ambone di sinistra fu fatto costruire dal vescovo Costantino Rogadeo fra il secolo XI e il XII. Nella porticina di accesso all'ambone di destra vi è un busto di donna che secondo alcuni potrebbe essere quello di Sigilgaita Rufolo, signora di Ravello e secondo altri Anna della Marra, moglie di Matteo Rufolo. Noi siamo del parere che possa invece raffigurare la Chiesa fatta Sposa Regina delle anime  del  Sangue  di Gesù Cristo.

Notevole anche la cattedra episcopale, opera di maestro De Nardo del 1279, che ha di fronte due colonne di granito e sul fiancale un gra­zioso pluteo in marmo del XIII secolo. A sinistra dell'altare maggiore vi è la cappella di San Pantaleone, del 1617, con affreschi e dipinti del ge­novese Gerolamo Imperiali: il sangue del santo protettore, conservato in un'ampolla, si scioglie tutti gli anni il giorno della commemorazione della Santa Croce. Nella sacrestia vi sono notevoli opere di Andrea da Salerno; il campanile è del secolo XIII con grandi bifore ai lati.

Molto interessante è la visita alla Villa Rufolo, che fu cono­sciuta da Giovanni Boccaccio, che ce la descrisse nel suo « Decamerone », una portentosa opera dell'arte italiana in Campania. Una magnifica torre all'ingresso dà alla villa il carattere di un palazzo-fortezza, allietato da vasti giardini con ricca decorazione moresca che rappresentano una mirabile testimonianza dell'arte medioevale salernitana.

La villa fu eretta dalla nobile famiglia Rufolo, e più precisamente dal signore di Ravello Nicola Rufolo durante il regno di Carlo I d'Angiò. Nel secolo XV la dimora patrizia passò ai Confalone, indi ai Muscettola e nel 1700 ai nobili d'Afflitto di Scala: nella metà del secolo scorso fu ac­quistata dal botanico scozzese Francis Nevile Reid che fece restaurare il complesso dal direttore degli scavi di Pompei Michele Ruggiero. Nel set­tembre del 1943, dopo l'armistizio, dimorò a Villa Rufolo per un certo periodo  Vittorio  Emanuele  III   di  Savoia.

Il magnifico giardino il 26 maggio del 1880 incantò Riccardo Wagner al punto che il grande musicista volle immortalarlo ispirandosi ad esso per la rappresentazione scenica del giardino di Klingsor, dandone inca­rico al russo Joukounowky che doveva presentare gli schizzi degli scenari per il suo « Parsifal ».

Non meno importante è la Villa Cimbrone, che comprende un edificio con due torri ed un cortile; molto interessante è il Belvedere.

Originariamente proprietà di Pompeio Fusco, consorte della fiorentina Lucrezia Pitti, appartenne poi a Lord Grimthorpe.

Ricordiamo inoltre a Ravello la Chiesa di Santa Maria a Gradillo, del secolo XII, nella quale prendeva possesso del du­cato il Capitano Generale.

Ritornati sulla costiera amalfitana, si tocca Minori, che fu l'arsenale della Repubblica di Amalfi. Sarebbe interessante la visita alla Basilica di S. Trofimena, che risale all'XI secolo, con cripta sotto il presbiterio, e dare uno sguardo alla Villa romana, scoperta nel 1932. Del I secolo d.C, essa doveva avere l'ingresso principale dalla parte del mare, ma oggi vi si accede dalla strada.

Si raggiunge poi Maiori, che è stata molto danneggiata nell'allu­vione del 1954 e poi ricostruita più moderna: volendoci fermare si potrebbe visitare la Chiesa di Santa Maria a mare, del secolo XIV, che ha nell'interno una statua trecentesca policroma raffigu­rante la Vergine ed un'altra Vergine col Bambino di Diego De Siloe. Dopo la frazione di Erchie la costiera si apre in un magni­fico arco: si potrebbero visitare qui le Catacombe di Badia, ruderi di un'antica abbazia benedettina del secolo XI.

Si passa quindi per Cetara ed infine si giunge a Vietri sul Mare, dove termina la costiera amalfitana.

In questa cittadina si può visitare la Parrocchiale, del 1732, dedicata a San Giovanni Battista, con cupola maiolicata, un ardito campanile e nell'interno un pregevole polittico cinque­centesco.

Vietri è divenuta famosa per l'arte della ceramica, di cui esistono diverse fabbriche che lavorano con un notevole estro creativo. Le cera­miche di Vietri in meno di trent'anni hanno invaso tutti i mercati euro­pei, forse per il segreto dello smalto; per l'istruzione delle maestranze la cittadinanza ha anche una scuola d'Arte.

Vietri sul mare è ad un passo da Salerno, ma noi tireremo diritto, senza fermarci nel capoluogo. Riteniamo però che non sia possibile andarsene da Napoli senza aver visto i templi di Paestum, e quindi ci sembra neces­sario in questo caso, come per Positano e per la costiera amal­fitana,  spingerci  nella  provincia  di  Salerno.

Paestum è probabilmente il centro archeologico più impor­tante dell'Italia Meridionale, con i suoi templi dorici che sono secondi solo al Theseion di Atene: fondata con ogni probabilità dai greci di Sibari intorno al VII secolo a.C. e da loro chiamata Poseidonia o città di Nettuno, divenne ben presto un'importante centro agricolo e marinaro.

Dopo la distruzione di Sibari, che si ebbe nel 510 a.C, Paestum riuscì a mantenere le sue posizioni rispetto egli Etruschi e anche dopo la batta­glia di Cuma, avvenuta nel 474, conservò la sua indipendenza, ma nel 400 fu presa dai lucani e il suo nome fu italianizzato in Paistos o anche Paistom. La vittoria del re dell'Epiro Alessandro contro i lucani nel 332 la restituì ai greci, ma dopo l'uccisione di Alessandro ritornò alle dipen­denze dei lucani fino a quando nel 273 Roma vi impiantò una colonia: i romani, essendo stati aiutati dalla flotta di Paestum e da quella di Velia quando Annibale assediò Taranto, grati alla città provvidero a ingrandirla ed arricchirla. Agli albori del Cristianesimo Paestum ebbe i suoi martiri e nel 370 vi sostarono le spoglie dell'apostolo San Matteo. Fu sede vesco­vile sin dal V secolo e rimase sempre cristiana: nel medioevo i cristiani tramutarono in chiesa il Tempio di Cerere.

Col passare dei secoli i monumentali templi dell'antica città furono completamente obliati e solo dopo la venuta di Carlo III di Borbone, ricordando l'importanza archeologica e storica di Paestum, vi si effettuarono scavi e studi e vennero dati alle costru­zioni i nomi che hanno tuttora.

Non è possibile a causa dei nostri limiti di spazio poter illu­strare degnamente questi templi e tutto quanto esiste nel recinto degli scavi, ma cercheremo di riepilogare rapidamente le notizie più importanti.

Il più grande dei templi è quello che fu chiamato di Nettuno, costruito nel 450 a.C, che costituisce il più perfetto esempio di architettura dorica templare.

Costruito su un stilobate di tre gradini, era dedicato invece alla dea della maternità e della fecondità Hera Argiva; ha un porticato su colonne sui cui capitelli grava l'architrave. Il tetto a doppio spiovente presenta dei magnifici frontoni triangolari che il tempo ha risparmiato: davanti vi sono i resti di due altari che dovevano servire per i sacrifici.

Vi è poi il Tempio Italico, che dovè essere costruito intorno all'80 a.C, dedicato a Giove, Giunone e Minerva.

Esso fu eretto su un podio sopraelevato con una larga gradinata pro­spiciente, anch'essa con un altare davanti; vi erano in origine sei colonne sulla fronte e otto nei lati lunghi.

Sul lato orientale di questo tempio vi sono i ruderi del Teatro Greco, alle destra di questo l'Aerarium e dietro ancora l'Anfiteatro romano, in un quartierino di case romane recente­mente emerso. In un recinto vi è poi il Sacello sotterraneo che rappresenta un importante esempio di architettura arcaica. Lungo la via chiamata Sacra vi è un terzo tempio, quello detto di Cerere, che era dedicato invece ad Athena, costruito nel VI secolo a.C. con un portico di 34 colonne scanalate, le cui forme ricordano la Basilica, che è allineata con il tempio di Nettuno.

Anche questo edificio è un tempio e deve considerarsi il più antico, in quanto dovè essere costruito nella metà del VI secolo a.C. Dedicato alla dea Hera, è cinto da un portico con ben 50 colonne doriche originarie e ha davanti un grande altare che serviva per i sacrifici con il pozzo sa­crificale.

Uscendo dal recinto degli scavi si può visitare l'importante Museo, che raccoglie quanto è stato rinvenuto nell'antica città e nelle necropoli dei dintorni.

Dopo un atrio che conserva importantissimi capitelli dorici, vi sono due sale dove sono raccolte varie metopi: in quella centrale vi è in alto un importantissimo fregio proveniente da un tempio della prima metà del VI secolo a.C, che rappresenta un complesso da ritenersi fra i più importanti esistenti anche in Grecia, composto dì ben 33 metopi. Nei lati di questa sala si susseguono metopi di estrema importanza, le cui raffigu­razioni hanno dell'incredibile, in quanto in esse ci viene rappresentata tutta la storia ellenica e mitologica. La terza sala centrale conserva opere d'arte ancaiche trovate nell'interno della città, quasi tutte di significato religioso: molto interessante è la vetrina a muro della galleria inferiore che conserva oggetti preziosi trovati nel santuario del Sele. La galleria superiore, dedicata a Poseidone, alla lucana Paistom e a Paestum, in ben 50 vetrine offre la visione di oggetti paleolitici, neolitici e dell'età dei metalli, oltre a pitture che ornavano pareti emerse negli scavi effettuati.

Molto interessante è inoltre il Giro delle Mura, che cingono la città per circa 5 chilometri. Costruite dai greci e fortificate dai lucani e dai romani, costituiscono una murazione più unica che rara, composta da poderosi blocchi parallelepipedi di calcare e intervallata da torri quadrate e cilindriche che la rafforzano. Molto interessanti la Porta Aurea, dove aveva inizio la Via dei Sepolcri, la Porta Sirena, la Porta della Giustizia e la Porta Marina ed inoltrandoci di qualche chilometro la Torre chiamata appunto di Paestum, dopo la quale si può visitare la necropoli preistorica di Gaudo.

I resti del santuario di Hera Argiva sono emersi dagli scavi effettuati qualche anno prima della seconda guerra mondiale: la costruzione dovrebbe  aggirarsi intorno al VII  secolo a.C.  Danneggiato da terremoti e dalla eruzione vesuviana del 79, il tempio fu ancora distrutto nel periodo medioevale. Si ritiene che il rinve­nimento di quest'opera costituisca un'impresa archeologica fra le più importanti effettuate in questo secolo.

 

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Ultimo aggiornamento:  12-11-08