Piazza Trieste e Trento (San Ferdinando) - Piazza
del Plebiscito - Via San Carlo
Che il visitatore giunga a Napoli per via aerea, e
quindi da Capodichino, o per ferrovia in piazza
Garibaldi, o in auto dall'Autostrada del Sole oppure
dall'antica via Domitiana, o ancora che arrivi per
via mare alla stazione marittima, noi gli diamo
appuntamento nell'antica
Piazza San Ferdinando, oggi Trieste e Trento,
che riteniamo il vero cuore nonché l'epicentro
irradiante di tutti gli itinerari storico-artistici
e turistici della città.
Inizieremo, perciò, e concluderemo qui gli
itinerari, in questo piccolo largo tanto caro ai
napoletani, che insistono a chiamarlo, anziché
piazza Trieste e Trento, S. Ferdinando, col nome che
gli deriva dall'antica chiesa dedicata da un re
Borbone al suo santo protettore. Visitiamo dunque
innanzi tutto questa piazza così asimmetrica e
perciò caratteristica e quella adiacente, e più
estesa del Plebiscito: dando le spalle a via Toledo,
la Chiesa di San Ferdinando è alla nostra
sinistra, mentre sulla destra si erge un Palazzo
vicereale, attualmente sede di un accogliente
circolo cittadino: all'inizio poi della via Chiaja,
appare l'attuale sede della Prefettura; lontano si
scorgono nella piazza del Plebiscito i due
imponenti monumenti equestri, la Basilica
palatina di San Francesco di Paola col suo
colonnato ed infine il Palazzo Salerno, sede
del Comando della Regione Militare. Di fronte a noi,
sulla sinistra, vediamo invece la sontuosa
Reggia, nella quale a suo tempo entreremo
curando di soffermarci su tutto quanto c'è di bello,
soprattutto negli appartamenti, oggi adibiti a
museo. Visiteremo altresì, uscendo dalla porta
secondaria dei giardini reali, il vicino Teatro
San Carlo e la Galleria Umberto I che gli
è di fronte, e avremo così percorso il primo
itinerario indispensabile per chi voglia conoscere
un po' Napoli.
Al centro della piazza fa bella mostra di sé la
Fontana donata alla città da Achille Lauro
quando fu sindaco di Napoli: una vasca circolare
che, per la sua forma, è stata prontamente
denominata dall'arguzia popolare la fontana del
Carciofo.
La
Chiesa di San Ferdinando
che fa da sfondo, costruita nel secolo XVII dalla
Compagnia di Gesù, non è certamente tra le più belle
edificate in quell'epoca ma è tuttavia ugualmente
molto cara ai napoletani.
Dedicata in origine al santo gesuita Francesco
Saverio, martire delle Indie, aveva annessi il
convento dei religiosi ed una « scuola di grammatica
».
Occorre qui ricordare che i gesuiti all'inizio non
ebbero una vita serena nella nostra città,
nonostante l'Ordine religioso fondato da
Sant'Ignazio de Loyola fosse di origine spagnola:
infatti lo stesso viceré, che per di più all'epoca
era 11 cardinale Zapata, non era molto faverevole a
quest'ordine religioso, che visse perciò piuttosto
stentatamente finché una gentildonna, la vedova del
viceré conte di Lemos Pedro de Castro, Caterina
della Cerda y Sandoval, parente del gesuita
Francesco Borgia canonizzato poi dalla Chiesa,
avendo ricevuto dal re Filippo di Spagna un donativo
di 30.000 ducati nella caratteristica formula
chiamata « pianelle e gale », che le spettavano
perché come viceregina aveva prestato servizio per
la Corona, passò la somma ai gesuiti. Questi,
finalmente, sollevati dalle loro ristrettezze,
commissionarono al pittore Salvator Rosa un gran
quadro raffigurante San Francesco Saverio da porre
sull'altare maggiore della chiesa; poiché, però, il
dipinto del grande artista non piacque, ne fu
ordinato un secondo ad un parente di Salvator Rosa,
Cesare Fracanzano, che ugualmente non fu accettato.
Si pensò allora di rivolgersi ad un altro illustre
pittore dell'epoca, Luca Giordano. Quest'ultimo,
forse perplesso per la sfortuna dei suoi colleghi
che avevano avuto l'incarico prima di lui, non si
decideva a consegnare il suo lavoro, e il superiore
dei gesuiti volle rivolgersi al viceré perché
facesse pressione sul pittore. Il marchese del
Carpio, quindi, incaricato dal viceré della
questione, si recò personalmente a casa di Luca
Giordano in vico Carminiello, e con sua grande
meraviglia constatò che l'artista non aveva fatto
ancora nemmeno il bozzetto. Le minacce del marchese
dovettero essere così persuasive che il pittore,
abbandonato ogni altro lavoro, si dedicò con tanto
zelo all'opera che in sole 40 ore il quadro era
terminato e consegnato, e quando il viceré seppe del
miracolo di sveltezza e di bravura compiuto dal
Giordano, soddisfatto esclamò che chi aveva fatto
tanto doveva essere un angelo o un demonio. Dopo
aver ammirato l'opera, volle conoscerne l'artefice:
mandatolo quindi a chiamare ne fu talmente
entusiasta che gli fece allestire uno studio nella
reggia affinché « nelle ore che potea dispensarsi
delle gravi cure del governo potesse avere il
diritto di veder dipingere Luca ».
Anche un altro grande pittore dipinse per la chiesa
di S. Francesco Saverio, Giuseppe Ribera detto lo
Spagnoletto, perché nativo di Jàtiva in Spagna. Egli
fu l'autore di un pregevole quadro che raffigurava
San Bartolomeo e che ha anch'esso la sua storia: si
racconta infatti che il duca di Ossuna, Pedro Giron,
a quel tempo viceré di Napoli, affacciandosi dal suo
palazzo notasse un grande andirivieni di gente senza
riuscire a comprenderne il motivo. Apprese poi che
nella chiesa era stato affisso un quadro dello
Spagnoletto talmente bello che tutti accorrevano per
ammirarlo. Il duca ordinò allora che il quadro
venisse portato al suo cospetto : e tanto sublime ed
espressivo dovè apparirgli il dipinto che,
entusiasta, commissionò all'autore un altro quadro
che raffigurasse Sant'Antonio di Padova da donare a
questa chiesa.
In effetti il tempio gesuita fu poi sempre protetto
dai vari viceré che l'arricchirono di importanti
dipinti, fra cui gli affreschi di Paolo De Matteis,
discepolo di Luca Giordano. In seguito Ferdinando
IV, su proposta del ministro Tanucci, scacciò i
gesuiti e, nel 1767 diede la chiesa ai Cavalieri
Costantiniani; Io stesso sovrano volle altresì
dedicare la chiesa al suo santo protettore e,
quindi, dal 1769 quest'ultima si chiamò « di San
Ferdinando »; inoltre il quadro di Luca Giordano che
raffigurava San Francesco Saverio fu trasferito nel
Museo Borbonico e sostituito da uno raffigurante
S. Ferdinando di Antonio Sarnelli, discepolo di
Paolo De Mat-teis. Il sovrano borbonico e i suoi
successori imposero che a nessuno venisse dato il
permesso di interrare i defunti nella chiesa; unica
eccezione fu fatta per la duchessa di Floridia,
Lucia Migliaccio, moglie morganatica di Ferdinando
IV, che ebbe sepoltura in un bel Monumento
marmoreo di Tito Angelini addossato alla parete
del transetto sinistro. Questa donna ebbe grande
importanza nella vita del sovrano : figlia del duca
di Floridia, Vincenzo, e di donna Dorotea Borgia,
nata a Siracusa nel 1770, aveva sposato il principe
di Partanna Benedetto Grifeo di cui era poi rimasta
vedova ancora in giovane età; aveva quarantaquattro
anni quando, poco tempo dopo la morte della consorte
Maria Carolina, Ferdinando IV volle sposarla
morganaticamente. A tutti sembrò molto strano questo
matrimonio effettuato a così poca distanza dalla
morte della regina e lo stesso figlio del re,
Francesco, ne ebbe gran dolore. Alla duchessa di
Floridia il re volle offrire una magnifica villa al
Vomero, che fu chiamata appunto Floridiana,
ed un terreno, entrambi attigui a quella palazzina,
denominata Villa Lucia dal nome della
nobildonna.
Entriamo, dunque, in questa chiesa, non prima però
di esserci soffermati sulla facciata che, pur non
bella, fu disegnata con perizia da Giovan Giacomo
Conforto nel 1628 e poi rifatta da Cosimo Fanzago
insieme all'abside, al portale e ad alcune
cappelle. Nell'interno, che è a
croce latina ad unica
navata, fanno bella mostra di sé gli affreschi di
Paolo De Matteis cui abbiamo prima accennato,
rappresentanti, alcuni, Scene di vita dei santi
gesuiti Francesco Saverio, Ignazio de Loyola e
Francesco Borgia, e altri nei peducci della
cupola, Le Virtù teologali della Giustizia;
di questi ultimi, quello che mostra San Francesco
Saverio davanti alle spoglie della regina Isabella
è senz'altro uno dei migliori. Gli affreschi
esistenti nella cupola sono invece di Giovanni
Diano, mentre il San Ferdinando posto
sull'altare maggiore è opera di Federico Maldarelli.
Sull'altare del transetto destro vi è un Cristo
che appare a Sant'Ignazio del napoletano
Francesco Antonio Altobello; nel transetto sinistro
una Concezione di Cesare Fracanzano e due
statue raffiguranti David e Mosè che
portano la firma di Lorenzo e Domenico Antonio
Vaccaro. Nella chiesa ha sede la nobile
Arciconfraternita « di San Ferdinando di Palazzo »
detta anche « di Nostra Signora dei Sette Dolori »,
fondata nel lontano 1522 e ospitata un tempo nel
demolito tempio di Santo Spirito di Palazzo. Questa
pia istituzione, ebbe l'onore di annoverare fra i
suoi confratelli anche il re di Napoli Carlo di
Borbone e godette della protezione di Giuseppe
Bo-naparte e di quella di Francesco I di Borbone.
Questi confermò nel 1828 il decreto che stabiliva
che la congregazione potesse apporre al suo nome il
titolo di « Reale », essendone confratelli anche
numerosi pontefici, i reali borbonici e le regine:
Maria Amalia, Maria Carolina, Maria Isabella, Maria
Teresa, Maria Sofia, nonché principi di casa
regnante fra cui il principe di Salerno Leopoldo di
Borbone, il conte di Lecce Antonio, il principe di
Capua Carlo, il conte di Siracusa Leopoldo, il conte
di Trapani Francesco Paolo, il conte di Trani Luigi,
il conte di Caserta Alfonso Maria, il conte di
Girgenti Gaetano Maria e il conte di Bari Pasquale
Maria. Dopo l'avvento della casa Sabauda, superiore
di questa reale associazione fu Vittorio Emanuele
III e confratelli la regina Elena e Umberto II,
ultimo re d'Italia. In questa chiesa le funzioni
sono officiate in modo sontuoso, specie quelle della
Settimana Santa; basti pensare che sino a pochi anni
orsono nel giorno del venerdì santo venivano
celebrate le tre ore di agonia con la partecipazione
degli artisti lirici e dell'orchestra del Teatro San
Carlo che eseguivano lo Stabat mater del
Pergolesi composto proprio in omaggio alla reale
confraternita. La chiesa di San Ferdinando, dove è
sempre esposto il SS. Sacramento, essendo situata
nel punto più « strategico » della città, è
frequentatissima durante tutto il giorno.
Terminata la nostra visita alla storica chiesa,
torniamo in questa piazza che ha un fascino tutto
particolare e certamente doveva averne di più negli
anni passati, quando gli « elegantoni » si
soffermavano davanti allo scomparso Caffè di Vari
Boi e Feste situato all'angolo con la via
Nardones per attendere il passaggio delle signore
che, provenendo dai palazzi magnatizi di Toledo, di
Spaccanapoli o di Costantinopoli a piedi o in
carrozza terminavano qui la loro passeggiata,
quando non si spingevano fino al mare di Santa
Lucia.
Un'ultima nota merita la già nominata Fontana del
Carciofo, opera di Comite e del Massari, che
appare estremamente suggestiva specialmente la
sera, quando è illuminata.
Riportandoci ora nuovamente con le spalle a via
Toledo, notiamo sulla destra l'antico Palazzo
Vicereale, sito di fronte alla chiesa di San
Ferdinando, che una volta al piano terra ospitava il
Caffè Europa.
In questo edificio hanno avuto sede due circoli e
precisamente quello del Whist, ora non più
esistente, che occupava tutto il primo piano e
l'Artistico, ancora oggi molto frequentato.
Sorto nel 1864, tipicamente borbonico e
legittimista, anche dopo la venuta dei Savoia, il
circolo del Whist era il punto d'incontro di tutti i
fedelissimi a casa Borbone: esso ebbe come
presidenti nobili personaggi, entrati poi a far
parte della nostra storia napoletana. Poi, nel 1919,
motivi finanziari portarono alla fusione di questo
circolo borbonico con il Nazionale,
nettamente in antitesi.
Fondato invece nel 1888 da coloro che amavano le
arti, le lettere e la cultura, frequentato ancor
oggi da tutte le classi professionistiche, il
circolo Artistico in primo tempo occupò un ammezzato
dello storico palazzo all'angolo di via Chiaja; e
in un giorno di carnevale dello stesso anno fu
inaugurato con un ballo ed una mostra di pittura di
grandi artisti dell'ottocento napoletano come il
Morelli, il Dalbono ed il Michetti. I soci furono
così numerosi che si diceva che facevano la storia
dell'ultimo ottocento napoletano con i grandi nomi
di Mario Costa, Enrico De Leva, Matteo Schilizzi,
Edoardo Scarfoglio, Matilde Serao, Nicola Amore,
Matteo Renato Imbriani, Antonio Cardarelli, Mariano
Semmola e tanti altri. All'inizio di questo secolo,
e precisamente con la venuta a Napoli di Cesare
Pa-scarella, il circolo organizzò manifestazioni di
cultura e di arte: conferenze, recite, concerti,
organizzati da grandi come Pietro Mascagni, Antonio
Mancini, Vincenzo Gemito, Carlo Siviero, Matilde
Serao e non ultimi Ferdinando Russo, Adolfo
Scalerà, Raffaele Viviani, Salvatore Di Giacomo ed
Ernesto Murolo; molto graditi furono altresì i
concerti eseguiti con la partecipazione di grandi
artisti lirici come Maria Caniglia, Ebe Stignani,
Gianna Pederzini, Rosa Raisa, Alessandro Bonci,
Fernando De Lucia, Titta Ruffo, Gemma Bellincioni,
Aureliano Pertile, Enrico Caruso, Beniamino Gigli,
Tito Schipa, il baritono napoletano Vito Vittorio
con Tatiana Menotti, e il compianto Ugo Romano. Tra
i presidenti di questo glorioso circolo, poliedrico
per le sue manifestazioni, ricorderemo Luigi Maria
Foschini ed il conte Paolo Caracciolo di
Torchiarolo, chiamato il presidente « della Lanterna
del Molo » per la sua opposizione alla demolizione
della lanterna che peraltro lo costrinse a lasciare
la presidenza, alla quale fu poi Nicola Sansanelli
che si avvalse dell'opera collaboratrice del conte
Paolo Minucci. Tutti personaggi che, unitamente a
quel grande parlatore che fu Mattia Limoncelli,
successore del Sansanelli, i napoletani di certo non
hanno dimenticato. Chi dirigeva ed organizzava le
mostre di pittura era il grande maestro scomparso lo
scorso anno, Francesco Galante ultimo pittore
napoletano del nostro «Otocento»: in esse si
poterono ammirare opere del Michetti, di Gemito, di
Gabriele Rossetti, di Luigi Crisconio, di Lord
Mancini, di Pasquale D'Angelo e di tanti altri.
Trascurando ora altre notizie non del tutto
necessarie e significative, lasciando la piazza
Trieste e Trento, così come ufficialmente dovrebbe
essere chiamata, attraversiamo via Chiaia, che per
noi costituirà un itinerario a parte.
Ci ricevono nell'altra pedana i tavolini variopinti
dell'antico
Caffè Gambrinus
che è incorporato nel Palazzo della Prefettura.
Anni addietro, di caffè, nella zona ve ne erano
parecchi e specialmente nella via Toledo, ma
nessuno poteva competere con il Gambrinus, ad
eccezione forse di quel Caffè Europa già
menzionato.
A conferma di ciò, bisogna aggiungere che il
proprietario di quest'ultimo, Mariano Vacca, per
non avere la concorrenza del Gambrinus decise di
acquistarlo aderendo ad un concorso bandito
dall'Amministrazione Provinciale; fu così che
questo caffé divenne il più caratteristico ed
elegante di Napoli. In codesto locale, che era
considerato dai napoletani il solo vero ritrovo
della città, si beveva esclusivamente birra e
cioccolata; in seguito però, fu aggiunta anche la
sala ristorante, dove si potevano consumare lauti
pasti per un prezzo fisso di lire 4,50: il pranzo
era composto di solito di un consommé, un
pasticcio di maccheroni, un piatto di pesce, uno di
carne con legumi, verdure o insalata, dolce,
formaggio e frutta. Quando il Vacca cedette il
locale ai fratelli Esposito, come direttore del
rinomato locale fu assunto un siciliano di nome
Ragusa.
L'ingresso principale era quello che dava nella
nostra piazza San Ferdinando, ma ve ne erano degli
altri nella piazza del Plebiscito e nella strada di
Chiaja. È necessario precisare però che, prima che
subentrassero i fratelli Esposito il locale alla
morte di Mariano Vacca avvenuta nel 1893, era
passato al figlio di questo, Enrico che volle
rinnovare gli ambienti affidando il compito
all'architetto Antonio Curri, che aveva studiato
pittura col De Sanctis, Esposito, Caprile, Volpe e
Cambriani e poi architettura con Enrico Alvino.
Era questi un buon artista che, divenuto noto
anche per la decorazione della vicina Galleria
Umberto I, morì però povero nel 1916 in una
stanzetta « 'ncopp' 'e quartieri ». Il Curri, nato
nel 1848 ad Alberobello, in un primo tempo voleva
dare al locale la forma di trullo, ma in seguito si
attenne, così come gli era stato richiesto, ad un
progetto classico. Assolse il suo compito
brillantemente aiutato nella pittura da maestri ed
artisti famosi quali il napoletano De Sanctis,
allievo di Domenico Morelli e Gioacchino Toma,
l'amalfitano Pietro Scoppetta, che dopo aver
iniziato a dipingere con De Chirico divenne poi
famoso per quel suo Medico del Villaggio
acquistato da re Umberto, il Caprile, discepolo di
Filippo Palizzi nonché amico di Salvatore Di
Giacomo, il piemontese Fabbron della scuola di
Gabriele Smargiassi ed Antonio Mancini, il Capone,
discepolo prima di Tommaso De Vivo e poi di Cesare
Fracassini, il ritrattista Volpe, allievo del
Morelli e successore del suo maestro
nell'insegnamento all'Istituto di Belle Arti, il
napoletano Brancaccio, discepolo ed amico di
Edoardo Dalbono, il paesaggista romagnolo Pratella,
il Cambriani, appartenente alla cosiddetta «
repubblica di Portici » e tanto amico del D'Orsi e
del De Nittis, il salernitano Esposito, che finì i
suoi giorni tragicamente per un amore infelice, il
ritrattista Salvatore Postiglione, allievi di
Domenico Morelli, il salernitano Tafuri, seguace
del Gemito e del Curri, l'abruzzese Biondi,
discepolo di Gioacchino Toma ed amico di Giuseppe
Casciaro, il napoletano poeta e musicista De Curtis,
che era figlio del grande decoratore Giuseppe, il
Toro, discepolo di Domenico Morelli, il molisano
Cocco, discepolo di Michele Cammarano e di Vincenzo
Volpe che lasciò belle opere nel Circolo Ufficiali
di Presidio del Palazzo Salerno, il poeta
napoletano Ragione, allievo di Stanislao Lista,
l'Aldina, nella scuola d'Ignazio Perricci, che si
rese celebre per le sue pitture a Palazzo Cellamare
e a Palazzo d'Avalos, il pugliese Storrano, allievo
di Giuseppe Mancinelli, l'irolli, seguace del
Morelli e del Michetti, ed il leccese paesaggista
Casciaro, allievo di Filippo Palizzi; per la parte
scultorea i lavori furono eseguiti dal napoletano
Cepparulo, resosi poi celebre per la statua
dell'Italia a pie del monumento di Vittorio Emanuele
II in piazza Municipio, dal Renda, discepolo di
Gioacchino Toma, dal napoletano Alfano, dal pugliese
De Matteis e dal siciliano Sor-tino. Detto ciò, non
riteniamo sia azzardato affermare che questo Caffé
era una vera e propria galleria d'arte: si trattava
infatti di artisti tutti di vasta fama ma ognuno
tanto diverso dall'altro per tendenze e gusti da
provocare, alla fine dei lavori di rinnovo del
locale, un vero movimento artistico-culturale che
indubbiamente diede un'impronta indelebile a tutta
l'arte figurativa napoletana. Era il tempo dei «Café
chantants», pieni di allegria e di mondanità;
anche il nostro Coffe, dunque veniva frequentato
assiduamente da tutto il bel mondo napoletano e non
mancavano i più bei nomi del mondo artistico e
culturale.
Il Gambrinus divenne un vero cenacolo d'arte e di
cultura, in quanto era frequentato anche da
scrittori e giornalisti dell'epoca dei quali
ricordiamo Decio Carli, il Dell'Erba, La Rotonda,
Roberto Bracco, Salvatore Di Giacomo, Ferdinando
Russo, Eduardo Scarfoglio e Gabriele D'Annunzio che
spesso era solito incontrarvisi con la sua amica
contessa Anguissola. Non mancavano uomini politici
come Francesco Girardi o il Marchese del Carretto o
ancora imponenti cattedratici come Giorgio Arcoleo,
Enrico Pes-sina e Luigi Miraglia, principi del foro
come Enrico De Nicola e Camillo Porzio, letterati
come Mario Giobbe, Ettore Marroni, Saverio Procida,
Adolfo Scalerà, Vittorio Pica, Valentino Gervasi e
Nicola Daspuro, autore quest'ultimo del libretto
dell'opera di Pietro Mascagni « L'amico Fritz
». Gli artisti napoletani c'erano tutti, da Luca
Postiglione a Vincenzo Migliaro, da Pietro Scoppetta
a Giuseppe De Sanctis, da Edoardo Casciaro
all'ungherese Sigismondo Tawsky.
S'intende che il caffé era frequentato anche dalla
buona borghesia che amava gustare un « sorbetto » o
accanirsi su uno di quei « pezzi duri » che, sino
agli inizi dell'ultima guerra mondiale, erano da
considerarsi il vero cavallo di battaglia dello
storico Gambrinus. I tavolini più richiesti erano
quelli che stavano nella Piazza del Plebiscito
perché era possibile vedere un continuo viavai di
gente ed assistere al cambio della guardia del
Palazzo Reale che rappresentava pur sempre, come del
resto oggi in altre nazioni, un'attrattiva.
Oggi il caffé esiste ancora, ma in condizioni di
ambiente molto ridotte, senza dire che è
frequentato soprattutto da persone di passaggio;
gran parte dei locali è occupata da un'agenzia
bancaria e lasciamo al turista il commento su
questa decisione, non prima però di essere entrati
all'interno per ammirare quanto rimane di quello che
fu il famoso Gambrinus, il vertice mondano,
artistico, letterario e politico della città. C'è
chi l'ha chiamato l'ultimo « seggio di Napoli », e
chi « il cataletto » della Napoli ottocentesca, ma
è certo che questa è stata la vera culla
dell'ottocento napoletano.
Questo caffé, anello di congiunzione tra le due note
piazze, tutt'oggi è spesso teatro di dimostrazioni
popolari, in quanto il palazzo in cui ha sede ospita
la Prefettura, ed è anche residenza del
rappresentante del governo, il Prefetto di Napoli,
commissario governativo della Regione.
Nel 1938 il caffé venne soppresso mentre era
prefetto di Napoli Marziale, e all'epoca alcuni
dissero che la moglie, malata di nervi, non potesse
più sopportare i suoni delle orchestrine e la voce
dei rumorosi frequentatori del locale; è certo
comunque che il prefetto Marziale decise di
sopprimere questo storico caffé, diventato un vero
semenzaio di barzellette antifasciste e perciò
assolutamente non tollerate dal regime
totalitario.
Il Palazzo della Prefettura,
al cui piano terra, come si è detto, è quanto rimane
del Caffè Gambrinus, è l'antico palazzo della
Foresteria destinato ad alloggiare ospiti di
casa Borbone.
Costruito dall'architetto Laperuta intorno al 1815,
l'edificio ospitò al piano terra, sin dall'epoca
borbonica, la famosa Libreria Detken e Rodioti,
che vantava una bottega di antiquariato
veramente importante, oltre ad un archivio di
notizie e manoscritti su tutte le famiglie
napoletane. Soltanto qui si potevano acquistare
gazzette e giornali stranieri e per questa vendita
la libreria era divenuta un focolaio di reazione
antiborbonica. Poiché i guadagni erano rilevanti i
due titolari si decisero a diventare editori; oggi,
comunque, quella libreria famosa è solo un ricordo.
Sulla destra di codesto imponente stabile si erge la
superba Basilica palatina di S. Francesco di
Paola, mentre il Palazzo Salerno ed il
Palazzo Reale sono situati rispettivamente di
fronte ed a sinistra dell'edificio stesso.
La magnifica piazza del Plebiscito che può dirsi la
continuazione di Piazza San Ferdinando altro non è
che l'antico Largo di Palazzo, ricco di monasteri e
conventi, eretti poco distanti l'uno dall'altro: tra
questi ricordiamo quello della SS. Croce, quello di
Santo Spirito, di San Luigi, di San Giovanni ad
lampades, di San Marco, e quello della Congrega dei
la-naioli e tessitori. Il più antico tra tutti era
quello della SS. Croce, dove Roberto d'Angiò fece
seppellire le spoglie del nipotino Carlo Martello;
la sua fama è inoltre legata al fatto che la regina
Sancia, dopo la morte del re Roberto, volle
rinchiudersi proprio lì dove morì e fu sepolta nel
1345.
Anche il convento dì Santo Spirito era molto antico,
poiché fu costruito nel 1326 dal principe Landolfo
Caracciolo; mentre il monastero della SS. Croce
doveva sorgere dove oggi si trova il Palazzo
Salerno, questo convento si trovava dove è oggi il
Palazzo della Prefettura ed era officiato dai monaci
armeni di San Basilio che nel 1448 furono sostituiti
da domenicani. Il convento di San Giovanni ad
lampades, poi, doveva essere dove è oggi San
Francesco di Paola, e quando questo santo venne a
Napoli lo occupò con i frati del suo Ordine che per
umiltà volle chiamare « minimi ». Il monastero venne
poi occupato da altri confratelli di San Francesco
ed ingrandendosi mutò di nome chiamandosi invece di
San Luigi e Martiniello.
Nel 1555 fu costruito il Regio Palazzo,
chiamato poi Palazzo Vecchio per distinguerlo
dall'attuale Reggia, e ciò portò alla demolizione
del convento di Santo Spirito, che fu fatto
ricostruire dal viceré Francesco Alvarez Ribera in
una traversa di Chiaia con lo stesso nome. Il
palazzo vecchio fu edificato dagli architetti
Ferdinando Maglione e Giovanni Benincasa, affrescato
da Matteo Lama e decorato da Giovanni Tommaso
Villani. Fu soltanto dopo la costruzione di questo
Palazzo Regio, che la piazza ebbe il nome di
Largo di Palazzo. In questo largo vi era anche
la famosa Fontana di Fonseca che prese il
nome dal Viceré, conte di Monterey. Essa fu
costruita dall'architetto Cosimo Fanzago, e la
famosa statua che la adornava fu chiamata il
Gigante perché era una gigantesca figura priva
degli arti, elemento di
scavo rinvenuto nel Tempio dei Giganti. Era
poggiata su una base in marmo che originariamente
portava impressa una lunghissima iscrizione latina,
andata poi perduta verso la fine del secolo XVIII.
C'era chi diceva che il Gigante raffigurasse Giove
Terminale, chi Giove Olimpico, mentre altri invece
la ritenevano semplicemente un'erma; certo di
valore artistico ne aveva ben poco, anche se una
certa importanza storica le va riconosciuta. Era il
Pasquino napoletano e mentre al Pasquino di Roma che
è nei pressi di piazza Navona si affìggevano le
satire al governo papale, presso la Statua del
Gigante a Napoli si trovavano <<pasquinate>> che,
non avendo alcun valore letterario, erano delle
satire a sfondo politico. Queste pasquinate
divennero ben presto uno strumento di vendetta o di
critica o peggio ancora di accuse anonime contro i
vari viceré: si ritiene che molte di queste satire
fossero opera di Salvator Rosa che le inviava da
Roma, se ne sospettò anche Ferdinando Galiani,
l'abate Lorenzi e il poetastro Onofrio Galeota, ma
certo questo « Pasquino » napoletano fu
principalmente un annunziatore di critica politica.
Infatti nel periodo repubblicano del '99 mise la
coccarda di giacobino, mentre le truppe del
cardinale Ruffo Io fecero diventare realista.
Durante il decurìonato francese queste satire
cominciarono a non essere più sopportabili;
inveivano addirittura contro re Giuseppe Bonaparte.
Una mattina giunse l'ultima frecciata: era il «
testamento» del Gigante che lasciava « la testa al
Consiglio di Stato, le braccia ai ministri, Io
stomaco ai ciambellani; le gambe ai generali » e poi
soffermandosi su alcuni particolari... tutto il
rimanente a re Giuseppe Bonaparte. Fu così che fu
ordinata prima la demolizione della statua e poi il
suo ricovero in un magazzeno della reggia. In piazza
del Plebiscito avevano luogo feste popolari fra le
quali non si può dimenticare quella famosa della
«Cuccagna»: in tale occasione, proprio davanti al
Palazzo Regio, veniva innalzato un albero su di una
collinetta ricoperta di prati ed alberelli su cui
venivano appesi i migliori salami e caciocavalli
delle province napoletane; da alcune fontanelle,
inoltre, sgorgava vino bianco e rosso, e il popolo
si divertiva così a « saccheggiare » tutte quelle
leccornie prelibate. Tralasciando le « Cuccagne »
che di volta in volta vennero organizzate dai
viceré, occorre ricordare quella che si fece per
l'arrivo di Carlo di Borbone, poi preparata allo
stesso modo quando Ferdinando IV salì sul trono di
Napoli.
Domina al centro della piazza il colonnato ad
emiciclo che è quanto rimane del Foro Murat
voluto da re Giacchino, opera per la quale fu posta
la prima pietra il 25 marzo del 1809, giorno in cui
ricorreva il genetliaco del sovrano francese che pur
si distinse durante il suo breve regno napoletano.
Ferdinando di Borbone lo volle poi a corona della
Basilica Palatina di San Francesco di Paola,
costruita per un voto che aveva fatto se fosse
riuscito a riconquistare il regno dai francesi.
Quando la chiesa fu edificata, sembrò adempiersi una
profezia di San Francesco di Paola, il quale avrebbe
detto a Ferrante d'Aragona che in quel luogo sarebbe
stato un giorno eretta una chiesa splendida e quello
spiazzo sarebbe diventato il più importante della
città. Fu quindi emanato un regolare bando per la
costruzione di questo monumentale tempio ed il
concorso fu vinto dallo svizzero italiano Pietro
Bianchi di Lugano, discepolo del Tiranesi.
All'architetto « fu imposto lo spazio rinchiuso tra
i due palazzi della Foresteria e del principe di
Salerno », ma gli fu ingiunto che l'altezza del
tempio non dovesse superare quella della reggia.
La costruzione della chiesa fu decretata però
soltanto nel 1816 e l'opera terminò nel 1846 « ricca
di marmi, ma quanto speciosa per dipinti e sculture
da commettere a' migliori artisti sì napoletani che
forestieri senza riguardi a spese ». Non mancarono
però le critiche, anche se si disse che gli artisti,
pur non dei migliori, avevano portato a termine una
chiesa eccellente che ricordava il Pantheon di Roma.
Bellissime appaiono all'osservatore la magnifica
cupola e la facciata nonché l'importante pronao su
sei colonne a due pilastri ionici, il tutto coronato
da un triangolare timpano ove spiccano le statue
raffiguranti San Francesco a sinistra, San
Ferdinando sulla destra ed al centro, sul
vertice, la Religione. L'interno, preceduto
da un atrio formato da cappelle laterali, è
costituito da una rotonda centrale sulla quale si
eleva la cupola alta 53 metri e sorretta da
trentaquattro colonne corinzie e trentaquattro
pilastri in giro esterno, tutti in marmo di
Mondragone così come i confessionali e l'altare che,
pur essendo stato costruito prima delle
disposizioni del Concilio Vaticano II, è rivolto
verso i fedeli; finemente intarsiato di porfido, di
agate, diaspri di Sicilia e lapislazzoli, opera di
Anselmo Cangiano del 1641, era prima nella chiesa
dei SS. Apostoli.
Nell'interno della chiesa, nudo e molto ampio, vi
sono otto statue lungo le pareti. Da destra: San
Giovanni Crisostomo, opera di Gennaro Cali,
Sant'Ambrogio, di Tito Angelini, San Luca,
di Antonio Cali, San Matteo, del Finelli,
San Giovanni Evangelista, di Pietro Temerani,
San Marco, di Giuseppe De Fabbris,
Sant'Agostino, di Tommaso Arnaud e
Sant'Atanasio di Angelo Solari, che è poi
l'autore di quelle statue sul porticato raffiguranti
la Fortezza e l'Umiltà. I dipinti non
sono di gran valore artistico: notiamo da destra un
San Nicola da Tolentino di Natale Carta, che
è l'autore del San Francesco di Paola, La
Comunione del Santo di Pietro Benvenuti, Il
Transito di San Giuseppe di Camillo Guerra e
l'Immacolata di Tommaso De Vivo, che è anche
l'autore della Morte di Sant'Andrea.
Tra la prima e la seconda cappella vi è la
sacrestia, ove si possono ammirare due quadri, e
precisamente la Circoncisione di Antonio
Campi del 1586 ed un'altra Immacolata del
piacentino Gaspare Landi della fine del secolo
XVIII, mentre nell'abside una magnifica tela del
romano Vincenzo Camuccini raffigura San Francesco
di Paola che risuscita un cadavere. Uscendo
dalla chiesa, ammireremo le quarantotto colonne di
questo porticato che sono di pietra di Pozzuoli
come i pilastri, gli zoccoli e i capitelli, mentre
le cornici e le lastre convesse della cupola sono di
pietra calcarea di Gaeta.
Fuori dalla chiesa, a destra, vi è una stradina
piuttosto erta con delle scale attraverso le quali
si arriva alla piazzetta Demetrio Salazar,
intitolata al pittore e patriota calabrese, che, fu
ferito nei moti del '48 e partecipò anche a quelli
di Parigi, ove fu arrestato per il colpo di stato
del 2 dicembre; la dedica a questo artista è
giustificata anche dal fatto che il Salazar ebbe il
merito di fondare l'Istituto d'arte sito
appunto in questa piazzetta. Il piccolo largo
precedentemente era chiamato « della Croce alla
Paggeria » per ricordare sia l'antico convento ove,
come si è detto, morì e fu sepolta la regina Sancia,
sia la Real Paggeria, vale a dire la scuola
dei paggi di corte chiusa nel 1730 per la decisione
del re di scegliere i suoi 12 paggi tra i cadetti
della Real Accademia Militare; Francesco I di
Borbone soppresse poi questa istituzione nel 1825.
Alla metà del secolo scorso, dopo che fu fondato il
Real Istituto di Incoraggiamento per le Arti,
che doveva servire per avviare i giovani allo studio
dell'arte e del lavoro artistico, alcuni personaggi
napoletani, come Carlo Santangelo ed il Novi,
fondarono questo istituto che però fu realizzato
soltanto nel 1878 per opera di un comitato
costituito da Demetrio Salazar, Saverio Altamura,
Gaetano Filangieri, Domenico Morelli e Filippo
Palizzi con la collaborazione del ministro della
Pubblica Istruzione Francesco De Sanctis e di
Enrico Alvino e Gioacchino Toma. L'istituto riunì
scuole di vario indirizzo artistico e col tempo
ospitò anche un museo, per desiderio dei grandi
pittori Filippo Palizzi e Domenico Morelli, mentre
il cortile finemente maiolicato veniva trasformato
in un ameno giardino con piante pregiate offerte
dall'Orto Botanico e dall'Istituto Agrario di
Portici. Primo presidente dell'Istituto d'Arte fu il
principe Filangieri che ebbe anche l'idea di far
maiolicare dagli stessi allievi la facciata
dell'Istituto. Attualmente l'istituto accoglie
scuole di disegno e di plastica, laboratori
d'insegnamento pratico, scuole di decorazioni
pittoriche, di scultura, di arti grafiche, di
ceramica, di ebanisteria, di decorazione in ferro e
in cuoio. Il portico appare però, oggi, molto
danneggiato ed è un vero peccato in quanto il
rivestimento di ceramica policroma, realizzato dagli
allievi di Domenico Morelli e di Filippo Palizzi, è
davvero splendido. Molto interessante è altresì il
museo ricco di opere d'arte, di campioni di
pavimenti eseguiti per il Vaticano, tessuti copti
del V secolo, vasi di scavo e resti di pavimenti
pregiati in maiolica, ceramiche di Capodimonte,
Giustiniani, tedesche e rustiche; di notevole
bellezza sono inoltre il pavimento settecentesco al
primo piano e i dipinti di Domenico Morelli e di
Filippo Palizzi esìstenti nell'ufficio del
presidente della scuola.
Percorrendo ora a ritroso la stessa stradina,
ritorniamo nella nostra Piazza del Plebiscito, dove,
subito a destra, un modesto ingresso con una rustica
scalea immette in quel che rimane della
Chiesa del Monastero della SS. Croce,
attigua al Palazzo Salerno, che attualmente non
conserva nulla che possa ricordare la bellezza e
l'importanza dell'antico convento. Prima di parlare
del Palazzo Salerno, osserveremo le statue equestri,
simmetricamente disposte, raffiguranti Carlo
e Ferdinando IV di Borbone.
Quest'ultima è del Canova ed il cavallo, bellissimo,
ricorda la razza di Persano, mentre nella prima
scultura il personaggio è del Cali ed il cavallo del
Canova. Una nota curiosa riguardo a quest'ultima
statua equestre: essa mostra sulla groppa re Carlo,
mentre avrebbe dovuto esservi Napoleone, in quanto
l'opera era stata commissionata nel 1807 da Giuseppe
Bonaparte. Ferdinando IV, ritornato sul trono, fece
chiamare il Canova e gli confermò l'ordinazione, a
patto che il cavaliere fosse il primo re della
dinastia dei Borbone. Su queste due statue equestri
del 1860 il popolo, che si era « liberato » dei
Borbone, voleva sfogare il suo odio, ma il
cappellano dei garibaldini, padre Gavazzi, cercò di
far capire ai forsennati che si trattava di due
opere d'arte e che... in seguito avrebbero sempre
potuto mettervi su Vittorio Emanuele e il dittatore
Garibaldi! E così le due statue rimasero
fortunatamente al loro posto ed ancora oggi le
possiamo ammirare.
L'edificio che si trova sulla destra della piazza
guardando la reggia è il
Palazzo Salerno,
attualmente sede del Comando della Regione Militare
Meridionale.
Esso fu costruito dove era prima il convento dei
frati Riformati nel 1775, quando Ferdinando di
Borbone volle vicino alla sua Reggia il Battaglione
Cadetti, un corpo che si era distinto valorosamente
nella battaglia di Velletri. Questo corpo scelto,
formato da circa 300 uomini, era stato ricostituito
nel 1772 allo scopo di preparare i giovani alla
carriera delle armi col grado di ufficiale;
comandante ne era il re, colonnello governatore e
direttore il maresciallo di campo di S.M. don
Francesco Pignatelli, e ispettore il colonnello
Scalfati. Nel 1775 questi ultimi due provvidero alla
trasformazione del convento in caserma. Il palazzo
subì poi un'ulteriore mutamento nel 1791, quando
ospitò prima il ministro Acton e poi i vari
ministeri di Stato. Nel 1825, questi furono
trasferiti al palazzo San Giacomo, oggi sede del
Municipio di Napoli.
Il Palazzo nel 1798 per ragioni di simmetria fu
rifatto dall'architetto Francesco Securo con la
facciata, uguale a quella del prospiciente palazzo
della Foresteria, oggi sede della Prefettura. L'ala
che sopravanza fa parte invece della primitiva
costruzione e conserva ancora il nome di Palazzo
Croce, derivatogli dal vecchio convento che vi
era un tempo, del quale resta soltanto la chiesetta.
Il Palazzo Salerno prese il nome dal predicato del
principe Leopoldo Giovanni Giuseppe di Borbone,
figlio di Ferdinando IV e Maria Carolina d'Austria
che vi abitò per circa cinque lustri. Egli fu prima
comandante del Corpo Volontari Nobili di Cavalleria,
poi Comandante Generale ed Ispettore della Guardia
Reale e infine a capo del Corpo di spedizione delle
truppe napoletane, siciliane ed inglesi per la
riconquista del regno occupato dalle truppe francesi
di Gioacchino Murat. Tornato a Napoli da Vienna,
dove si era recato per fidanzarsi con la quindicenne
arciduchessa Maria Clementina, fu nominato
Presidente del Supremo Consiglio di Guerra e si
stabilì nel palazzo tra il 1825 ed il 1826
rimanendovi sino al giorno della sua morte, avvenuta
il 10 marzo del 1851.
In effetti, le notizie che si hanno di questo
edificio sono poche ed incerte fino alla data
dell'Unità d'Italia, quando esso diventò sede del I
Comando Militare Italiano, chiamato il Comando
Generale Militare delle Province Napoletane, con a
capo il Conte della Rocca generale Enrico Morozzo.
Questi ne prese possesso dopo aver debellato a Capua
le truppe borboniche con il V Corpo dell'esercito
piemontese, e da allora Palazzo Salerno è stato
sempre sede dei vari comandi militari succedutisi a
Napoli.
Può interessare sapere che sotto questo edificio vi
è stato per un certo periodo il Caffé Turco
che come il Gambrinus aveva tavoli sulla strada ed
offriva agli avventori spettacoli di varietà. Vi
diedero spettacoli Adolfo Narciso, macchiettisti e
comici dell'importanza del Mongelluzzo. Durante la
guerra libica del 1911 il locale fu chiamato invece
Caffé Tripoli, e dopo la grande guerra chiuse
per sempre i suoi battenti.
Di notevole interesse senza dubbio è la storia della
Reggia, la cui costruzione fu decisa alla fine del
secolo decimosesto, in previsione di una visita di
Filippo III, per sostituire il Palazzo Regio o, come
fu chiamato poi, Palazzo Vecchio, che
sembrava inadeguato ad accogliere il re di Spagna
con il suo seguito.
L'altro palazzo doveva esistere sin dal 1555, come
si deduce da un'antica cronaca dove è riportato che
« a Mastro Matteo De Lama erano stati dati ben 125
ducati per le pitture fatte nelle stanze del Regio
Palazzo et a Poggio Reale ». Si ritiene che
gli architetti di questo Palazzo Vecchio, che era
stato decorato in stucco ed oro da Giovanni Tommaso
Villani, siano stati Ferdinando Maglione e Giovanni
Benincasa. Dopo la sua costruzione il Largo si
chiamò appunto « di Palazzo » mentre la piazza San
Ferdinando era in quel tempo chiamata Largo di S.
Spirito.
Durante il vicereame del conte di Miranda, vale a
dire fin dal 1593, l'architetto Domenico Fontana era
« ingegnere maggiore » della città e del regno; a
lui fu affidato il progetto della costruzione
dell'attuale Reggia, che fu però realizzato solo nel
1600 dal viceré conte di Lemos don Ferrante Ruiz de
Castro y Andrado quando si seppe che Filippo III
aveva deciso di visitare Napoli il palazzo regio o
palazzo vecchio, infatti, non fu ritenuto degno di
ospitare un re di Spagna e per questo si pensò di
sfruttare l'antica idea del conte di Miranda
scegliendo un'area che da Castelnuovo giungesse sino
alla salita del Gigante con un prospetto principale
di 520 palmi di lunghezza e 110 di altezza. Domenico
Fontana, dopo aver effettuato il progetto, volle
sottoporlo al viceré per l'approvazione, che fu
peraltro immediatamente data e quando di lì ad un
anno morì il conte dì Lemos, il figlio Francesco,
che era il capitano ed il luogotenente generale del
regno, si preoccupò di continuare l'opera
intrapresa; oggi, ai lati dell'ingresso centrale,
due lapidi ricordano i due uomini.
Il Fontana, che era stato anche architetto di Sisto
V, si era già distinto per il Palazzo Lateranense,
la scalinata di Trinità dei Monti, l'acquedotto
dell'Acqua Felice, e la sistemazione del Quirinale.
Aveva inoltre curato personalmente l'erezione degli
obelischi di piazza San Pietro, di Santa Maria
Maggiore e di San Giovanni in Laterano, oltre alla
costruzione della cupola di San Pietro sul tamburo
di Michelangelo. Per questo lavoro, al quale
collaborò con lui Giacomo Della Porta, non gli
furono risparmiate, anche per invidia, critiche, a
volte severe, tanto che si finì per non attenersi
completamente al disegno originario. Soprattutto
l'osteggiò un suo collega, Giovan Battista Cavagna
che, romano, mal sopportava che nella sua città
tanti lavori portassero la firma del Fontana che
invece era nativo di Melide, in Svizzera. Non pago
di palesare a chiunque la sua disapprovazione, il
Cavagna volle metterla persino per iscritto in un
opuscoletto.
Ritornati alla Reggia, vi entreremo, accedendo al
primo cortile, rimasto come era nel disegno
originario del Fontana, ad eccezione di qualche
variante effettuata da Ferdinando II intorno al 1838
e di altre apportate dai successori del Fontana,
cioè il figlio Giulio Cesare, Bartolomeo Picchiatti,
Onofrio Antonio Gìsolfi e Francesco Antonio
Picchiatti. Esso fu poi restaurato da Gaetano
Genovese, quando aggiunse dei corpi di fabbrica ai
lati e alle spalle della reggia per aumentarne la
mole. Anche la facciata e l'esterno conservano la
forma originaria, tranne che per i balconi che prima
erano isolati e poi furono uniti in un'unica loggia;
una modifica fu apportata anche nel portico poiché
il Vanvitelli, per aumentarne la solidità della
costruzione, propose la chiusura alterna dei varchi
e ricavò nelle arcate chiuse delle nicchie, che
poi, come vedremo, furono usate per la collocazione
delle otto statue dei re di Napoli.
La Reggia era costituita originariamente da tre
corpi principali, quello verso il mare con finestre
al primo piano, quello occidentale che dava sul
largo del Palazzo e quello settentrionale che dava
più o meno nell'attuale Teatro San Carlo: essa, in
un primo tempo chiamata Palazzo Nuovo,
avrebbe potuto ospitare il sovrano e la sua corte,
ma poiché Filippo III disdisse la sua visita, fu
adibita a residenza dei viceré. Una sera del luglio
del 1647, con una carrozza di corte tirata da sei
cavalli bianchi e scortata da alabardieri e lacchè,
vi giunse Masaniello per essere ricevuto dal viceré,
mentre la viceregina si intratteneva con la moglie
del pescatore rivoluzionario, Bernardina Pisa; non
passò molto tempo, però, che Bernardina e la madre
del pescatore tornarono per chiedere misericordia ed
aiuto.
Nel periodo vicereale si diedero in questa reggia
molte feste, memorabili soprattutto quelle date
quando Filippo IV nel 1657 ebbe finalmente un erede;
all'insegna del gran lusso furono altresì le feste
date dal viceré spagnolo Pedro d'Aragona che consumò
tanto denaro per l'organizzazione dei suoi
ricevimenti da lasciare al Tesoro un debito di
500.000 ducati mentre in cassa ve ne erano soltanto
700! Durante il vicereame austriaco l'importanza
della reggia scemò sensibilmente, ma del resto i
trentadue anni di questa dominazione rappresentano
una delle parentesi più scialbe della storia
napoletana; con la venuta a Napoli di Carlo di
Borbone, infine, il palazzo divenne una vera
reggia.
Poiché i viceré austriaci avevano ridotto il palazzo
in condizioni precarie, il sovrano e la sua
consorte Maria Amalia, figlia di Augusto III di
Sassonia re di Polonia, ebbero cura di apportarvi le
necessarie modifiche e di compiervi gli opportuni
lavori di restauro: gli appartamenti furono
abbelliti con decorazioni ed affreschi di Domenico
Antonio Vaccaro, del Ricciardello, del Rossi, del
Righini e del De Mura, che affrescò anche
egregiamente l'alcova dei reali. Grande fasto ebbero
i festeggiamenti dati nel 1739 per le nozze del
fratello del re e nel 1740 per la gravidanza ed il
parto della regina. Si susseguirono ricevimenti
diplomatici e molta festa si fece il giorno
dell'onomastico della regina, il 12 luglio del 1740.
Morto il fratello Ferdinando VI, re Carlo, come si è
detto, andò a cingere la corona di Spagna, dopo che
una giunta di ministri e di medici ebbe decretato
che il primogenito era di malferma salute egli volle
abdicare in favore del figlio Ferdinando. Con
Ferdinando IV il Palazzo Reale visse un periodo di
massimo splendore, specialmente al tempo delle nozze
con Maria Carolina d'Austria: esso ospitava i reali
quando questi non erano nella reggia dì Caserta, che
finì col diventare per la corte borbonica una «
maison de plaisance ».
Anche durante il periodo francese la nostra reggia
fu oggetto di cure ed attenzione : gli appartamenti
furono infatti arricchiti di mobili e suppellettili
francesi, che Carolina Bonaparte aveva portato con
sé dall'Eliseo, e grandiosi festeggiamenti vennero
organizzati per ricevere la nuova regina di Napoli,
sorella del grande Napoleone; quando poi Murat,
sconfitto dagli austriaci, partì per la Francia,
anche la regina Carolina dovè andare via dalla
reggia che aveva sontuosamente arredata. Ella aveva
infatti fatto rivestire il suo appartamento di raso
bianco e specchi, aveva fatto trasformare il suo «
boudoir » e le « toilettes » sì che
quando Ferdinando IV tornò a Napoli, dovè essere
soddisfatto di riscontrare nei suoi appartamenti
tante migliorie. In seguito, sotto il regno di
Ferdinando li, un incendio distrusse gran parte
dell'edificio; si provvide quindi a ricostruirlo,
creandovi la nuova grande ala verso l'arsenale.
Furono ingrandite le* terrazze superiori; su quella
a mezzogiorno, venne creato il giardino pensile,
mentre l'altra, quella che dà verso il San Carlo, fu
chiusa da una vetrata.
Riguardo alla facciata della reggia, aggiungeremo
che in quelle nicchie ricavate sotto gli archi
chiusi, per desiderio di Umberto I di Savoia furono
poste le statue dei re di Napoli che risultarono
però troppo grandi e sproporzionate. Ne riportiamo
il personaggio e il relativo autore, a partire
dalla sinistra: Ruggero il Normanno di Emilio
Franceschi, Federico II di Svevia di Emanuele
Caggìano, Carlo I d'Angiò di Tommaso Solari,
Alfonso I d'Aragona di Achille d'Orsi,
Carlo V di Vincenzo Gemito, Carlo di Borbone
di Raffaele Belliazzi, Gioacchino Marat
di Giovan Battista Amendola ed in ultimo Vittorio
Emanuele II di Savoia di Francesco Jerace. Data
la scarsa profondità delle nicchie, le statue
effettivamente sembrano straripare dallo spazio loro
assegnato: inoltre la figura di Federico II è
piuttosto scialba, quella di Alfonso d'Aragona
alquanto inespressiva, la statua di Carlo V sembra
del tutto ingiustificata in quanto questo re con
Napoli non ha avuto mai gran che da fare; Gioacchino
Murat è un po'... troppo maschio nella sua
baldanzosa divisa, mentre re Vittorio appare statico
e senza alcuna espressione.
Dal cortile principale del palazzo, di cui sopra
abbiamo scritto, si accede al primo piano, un tempo
sede dei viceré e poi dei sovrani borbonici,
attraverso il maestoso scalone costruito dal
Picchiatti nel 1655, ai cui lati si ammirano quattro
statue raffiguranti la Giustizia, la
Fortuna, la Clemenza e la Prudenza,
rispettivamente opere di Gennaro Cali, di
Antonio Cali, di Tito Angelini e del Solari.
La balaustra dello scalone d'onore e la scalea
stessa furono restaurate dal Genovese dal 1838 al
1842 con marmi policromi di Trapani, di Vitulano e
di Sicilia. Alla sommità dello scalone vi è una
loggia che gira intorno al cortile e dà accesso
all'Appartamento Storico; subito a destra vi è
invece l'ingresso al Teatro di Corte.
Questo Teatro di corte ai tempi
dell'architetto Fontana non esisteva né era prevista
la sua costruzione.
In seguito, poiché ai viceré piacevano gli
spettacoli teatrali, ma per questione di prestigio
non potevano recarsi a vederli nei teatri pubblici,
si volle adibire a teatro la Gran Sala al primo
piano, fornendola di un palcoscenico: in tal modo la
famiglia vicereale e i dignitari di corte potevano
assistere a rappresentazioni teatrali quando
volevano. Sotto i viceré conte di Lemos, duca
d'Ossuna, duca d'Alba, e conte di Monterey, furono
spesso rappresentate farse, egloghe e commedie in
spagnolo, in lingua italiana o in dialetto
napoletano e anzi, a dir di Giovanni Vincenzo
Imperiali e del cardinal Savelli, sotto il
vicereame del conte dì Monterey ogni lunedì a
palazzo vi era una diversa rappresentazione teatrale
che destava ammirazione, oltre che per la bravura
degli attori anche « per i sollazzevoli intermedi e
le macchine giranti ».
Nel 1651, durante il vicereame del conte d'Ognatte,
fu rappresentata per la prima volta a Napoli la
commedia in musica, non nella Gran Sala ma in un
locale a pianterreno che era adibito prima « per
giuoco della palla ». La famosa compagnia dei « Febi
armonici » interpretò uno dei primi drammi musicali
che siano stati rappresentati a Napoli, «
L'incoronazione di Poppea » del Monteverdi, e da
questo palcoscenico i drammi musicali passarono poi
nei teatri napoletani. Nel 1696, sotto il viceré
duca di Medinacoeli, continuò l'esecuzione di opere
in musica e, questo nobiluomo, un gran donnaiolo,
si contornò di una corte di gaudenti di cui facevano
parte cantanti come la famosa « Giorgina », Angela
Voglia che Io aveva raggiunto a Napoli venendo da
Roma. Essa, riuscita a sfuggire alla gendarmeria
pontificia per la protezione di Cristina di Svezia e
per la debolezza di papa Innocenzo XI quando stava
per essere acciuffata, fu nominata dal viceré dama
di corte della viceregina! Questa sgualdrina portò
il parapiglia nella corte vicereale sia per la sua
civetteria che per la gelosia del suo protettore che
al suo ritorno in Spagna, nel 1701, volle portarla
con sé; nel 1709 il duca, che aveva l'incarico di
ministro degli esteri, dopo essere stato accusato di
svariate colpe, morì, si disse, di veleno, e la «
Giorgina » fu scacciata dalla Spagna.
I migliori attori del tempo calcarono il
palcoscenico del teatrino di corte, fra cui Geronimo
Favella, il Frittellino, ovvero Pier Maria Cecchino,
Silvio Fiorillo, Gabriello Costantino, Giulia de
Caro e quasi tutte le maschere napoletane con a
capo Pulcinella, don Anselmo Tartaglia e Coviello.
Nei trentadue anni di vicereame austriaco il
teatrino ebbe un periodo di stasi, ma dopo la venuta
di Carlo di Borbone, esso conobbe il suo periodo
aureo: la sala fu arricchita di lampadari e specchi
e nel 1768, poi, si diede incarico a Ferdinando Fuga
di trasformarla in un teatro di corte vero e
proprio. Le pareti quindi furono divise in lesene
con capitelli dorati e mensole, fu creata una
grande balaustra decorata e adornata con maschere
dorate ed al centro fu messo il palco reale. Nel
1789 poi Antonio Dominici, con la collaborazione di
Giovan Battista Rossi e Crescenzo La Gamba, decorò
il soffitto con dipinti allegorici, mentre in dodici
nicchie furono poste delle statue di cartapesta
rappresentanti le Muse, Apollo, Minerva e
Mercurio, opere dello scultore Angelo Viva.
L'incendio del 1838
danneggiò anche il teatro
ma poi, insieme ai lavori di rifacimento e di
restauro, vi furono effettuate delle altre
decorazioni: altre modifiche, dopo il 1860, furono
apportate da Ignazio Perricci. Gli eventi bellici
del 1943, infine, causarono ulteriori disastri,
poiché andò distrutta la volta del teatro, ma si
salvarono le statue del Viva. Per un certo tempo la
sala fu adoperata per le rappresentazioni di
spettacoli cinematografici per le truppe alleate, e
solo nel 1950 furono iniziati i lavori di restauro,
oltre che del teatro, di tutto l'appartamento
storico; si cercò di restituire al teatrino
l'originaria linea settecentesca provvedendo alla
ricostruzione del tetto e del palcoscenico ed al
restauro delle decorazioni della sala, scrostando il
rivestimento di cemento messo dagli alleati e
rispettando le parti non colpite. Fu rifatto il
pavimento e furono riparate le mensole e i capitelli
nonché alcune delle statue di cartapesta, ad opera
dello scultore Antonio Lebbre Venne inoltre
restituita al suo splendore la balaustra e rifatta
la decorazione del soffitto su disegno di Cesare
Maria Cristini, che si ispirò a quanto aveva fatto
nello scorso secolo il Genovese. Gravi difficoltà si
presentarono per quest'ultimo lavoro, essendosi
rivelato impossibile riprodurre fedelmente le opere
distrutte; tuttavia i pittori napoletani Vincenzo
Ciardo, Antonio Bresciano, Alberto Chiancone ed il
compianto Francesco Galante ispirandosi all'opera
del Dominici riuscirono a compiere un'opera decorosa
e di gran lunga superiore a quella vasta tela del
Dominici che era originariamente nel soffitto. La
decorazione centrale, opera di Francesco Galante,
raffigura Anfitrite e Poseidone: vi
sono inoltre dei paesaggi, opere del
Chiancone, del Bresciani e del Ciardi, mentre i
putti e gli amorini sono di Cesare Maria
Cristini.
Si provvide in seguito a dotare il palcoscenico di
un gran sipario di velluto ed a tutte le rifiniture
necessarie al completo restauro, dopo di che il
teatrino di corte ha potuto riprendere a funzionare
: attualmente viene usato per conferenze, riunioni,
o per spettacoli ad inviti dati dall'Ente Turismo e
dall'Azienda Autonoma di Soggiorno.
Prima di visitare l'Appartamento Storico
ricorderemo che dopo l'incendio del 1838,
l'architetto Genovese fece abbattere tutte quelle
fabbriche che, a suo avviso, deturpavano il secondo
ordine degli archi nel cortile principale; rifece
poi la cornice, restaurò tutto il primo piano
completando il secondo col belvedere, ed effettuò
altre radicali innovazioni formando un complesso
architettonico abbastanza omogeneo. Dopo l'incendio,
i sovrani abitarono al secondo piano, mentre il
primo venne usato per le feste e per «la pompa dei
baciamani».
Tutti gli ambienti e le sale furono decorati dai
migliori artisti dell'epoca; il nuovo appartamento,
e precisamente quello dove è oggi la Biblioteca
Nazionale, fu riservato ai balli di corte. Gli
stucchi furono eseguiti da Andrea Cariello e Cosimo
De Rosa, i saloni modellati da Gennaro Aveta, sempre
su disegno dell'architetto Genovese, e ai soffitti
delle sale lavorarono Giuseppe Cammarano, Filippo
Marsigli, Camillo Guerra, Gennaro Maldarelli, mentre
gli stucchi in bianco ed oro furono eseguiti da
Costantino Beccalli e Gennaro De Crescenzo. Alla
decorazione degli appartamenti collaborarono anche
Pasquale Ricca, Luigi Paliotti, i fratelli Conte,
Luigi Botta e Costantino Bichen-comer. II secondo
piano, ricco di suppellettili e di dipinti dell'800
fra i quali spiccano i paesaggi di Filippo e Nicola
Palizzi e di Consalvo Carelli, fu destinato, come
si è detto, ad appartamento privato dei sovrani.
Iniziamo ora la descrizione di quanto « dovrebbe »
essere nelle varie Sale degli appartamenti.
Preferiamo usare il condizionale in quanto molto
spesso ciò che si è visto ieri, oggi non c'è o
perché il pezzo è in restauro
o perché è stato
trasferito altrove: personalmente ci auguriamo che
il visitatore possa trovare tutto quanto abbiamo
avuto modo di ammirare.
Nella I Sala dopo il teatrino, Francesco De Mura
ornò il soffitto con un gran dipinto allegorico,
attualmente in restauro, eseguito per espresso
desiderio della madre di Carlo di Borbone,
Elisabetta Farnese. I disegni, infatti, furono
inviati a Madrid alla regina aggiungendo che
rappresentavano un'allegoria delle Virtù del
figlio Carlo e della regina Maria Amalia.
I due bellissimi arazzi in lana e seta alle pareti
son opere degli arazzieri Behagle e Latour della
fabbrica di Gobelin: essi raffigurano l'Aria
e il Fuoco e fanno parte di una serie,
insieme ad altri due che sono attualmente nella
sala V. Completano l'arredamento mobili rococò,
specchiere, orologi e candelabri.
Il balcone di questa sala è quello centrale della
Reggia, a cui si affacciavano i viceré e i reali
per salutare il popolo.
La II Sala ha nel soffitto affreschi di Belisario
Corenzio che illustrano le glorie della casa
aragonese. Nei sei scomparti si possono ammirare i
seguenti dipinti: Genova che offre le chiavi ad
Alfonso d'Aragona, L'ingresso trionfale di Alfonso
nella città di Napoli, Offerta ad Alfonso
dell'Ordine del Toson d'Oro, Alfonso mecenate delle
Arti e delle Lettere, Ad Alfonso il Pontefice
Eugenio dà l'investitura delle terre conquistate.
Alle pareti fanno bella mostra un dipinto di
Giuseppe Ribera raffigurante la Vergine che
mostra il Bambino a San Brunone, uno di Massimo
Stanzione raffigurante la Vestizione di
Sant'Ignazio, un Orfeo che incanta gli
animali di scuola caravaggesca, da alcuni
attribuito a Gherardo Delle Notti e da altri a
Gerrit Honthorts, ed un San Giovanni Battista
della scuola di Guido Reni.
Nella III Sala, alle pareti, due grandi paesaggi
della scuola di Paolo Bril, pregiato pittore
nato ad Anversa nel 1554, che lavorò per un certo
periodo a Napoli. Nella volta si ammira una
Minerva che premia la Virtù di Giuseppe
Cammarano, e sulla parete centrale un settecentesco
arazzo di fattura napoletana raffigurante II
Fuoco: il modello fu eseguito dal giovane
pittore Girolamo Starace Franchis, molto apprezzato
per la sua arte da Luigi Vanvitelli, mentre
l'arazzo, datato 1763, porta la firma del Durante.
La IV Sala, quella del Trono, è stata negli ultimi
anni rivestita di broccato; gli stucchi sono opera
di Camillo Beccalli, i bassorilievi alle pareti
raffiguranti le Province del Regno, sono
attribuiti al Cariello e al De Rosa; il trono ed il
baldacchino furono eseguiti intorno al 1853.
Segue la Sala chiamata degli Ambasciatori,
riccamente arredata con mobili e divani impero.
Anche qui troviamo quattro magnifici arazzi dei
quali due sono incorniciati con quadri e raffigurano
La morte dell'Ammiraglio Coligny nella notte di
San Bartolomeo e II duca di Sully ferito.
Di fronte ai primi vi sono gli altri due arazzi
Gobelin che completano la serie degli Elementi, con
quelli della prima sala: essi raffigurano La
Terra e II Mare. La decorazione della
volta, di Belisario Corenzio, è suddivisa in
quattordici scomparti: a sinistra della parete
settentrionale notiamo La guerra contro Alfonso
di Portogallo, La guerra contro Luigi di Francia,
Genova attaccata dai francesi e difesa dagli
spagnoli, La presa delle Canarie, La conquista di
Granata, La battaglia sui monti di Alpuxaerras,
L'entrata dei vincitori a Barcellona, Gli ebrei
messi al bando, La scoperta del nuovo mondo, I
siciliani giurano fedeltà a Filippo II, L'imbarco
della sposa di Filippo III l'arciduchessa Marianna a
Finale, L'entrata dell'arciduchessa a Madrid, Le
nozze reali e Ferrante d'Aragona che riceve
San Francesco di Paola.
La Sala seguente, la VI, è chiamata di Maria
Cristina perché fu dapprima la camera da letto
della regina Maria Amalia e poi quella di Maria
Cristina di Savoia, prima moglie di Ferdinando II di
Borbone. La sala aveva affreschi di Francesco De
Mura che durante l'occupazione militare alleata
furono totalmente distrutti: attualmente vi si
ammira, a sinistra dell'ingresso una Vergine col
Bambino, in un primo tempo attribuita a Giulio
Romano ed oggi a Pedro Ruviales allievo di Polidoro
da Caravaggio; sulla parete centrale spicca un
dipinto di Jan Lys — prima attribuito ad Andrea
Vaccaro — raffigurante Davide con le Vergini,
di fronte un Ritratto di un cardinale
attribuito al genovese Gian Battista Gaulli detto il
Baciccia, e su una consolle, di fianco, una
dolcissima Sacra famiglia di Filippino Lippi
su tavola. Davanti ai balconi vi sono due imponenti
vasi di Sèvres con vedute del Parco di Monfontaine
di Saint Germain; sulle consolles fanno bella
mostra due orologi francesi impero e quattro
vasi di bronzo dorato, opere del parigino
Filippo Thomire.
Adiacente a questa sala vi è la Cappellina
privata di Maria Cristina di Savoia, che ha un
grazioso altare barocco in legno dipinto e dorato:
vi si ammirano inoltre tre tele: una Fuga in
Egitto, una Visita di Sant'Elisabetta di
Anton Raphael Mengs e una Madonna col Bambino
di Iacopo da Ponte detto il Bassano.
Segue la VII sala, affrescata secondo alcuni da
Belisario Corenzio e secondo altri da Battistello
Caracciolo con le Vittorie di Consalvo de Cordova
contro i francesi e la sua entrata a Napoli.
Gravi danni riportò questa Sala durante
l'occupazione militare alleata, ma attualmente è
possibile ammirarvi al centro un grazioso tavolo
da lavoro settecentesco, dono della regina di
Francia Maria Antonietta alla sorella Maria Carolina
regina di Napoli. Alle pareti un bell'arazzo di
Pietro Duranti del 1766, su disegno di Francesco De
Mura, raffigurante la Purità e dodici tavole
con i Proverbi illustrati, che furono
attribuiti a Federico Zuccari o al napoletano
Francesco Saraceni. Ai lati del balcone vi sono una
Veduta di Venezia attribuita al Maneschi,
due Marine di Carlo Growenbrock, che fu
pittore di corte di Luigi XV e due Paesaggi
del napoletano Gaetano Martoriello. AI centro del
balcone colpisce l'attenzione del visitatore una
Gabbietta di porcellana e bronzo che poggia su
un tavolo rotondo decorato con vedute, dono di
Nicola I di Russia a Ferdinando II di Borbone.
L'VIII sala, affrescata dal napoletano Gennaro
Maldarelli con dipinto raffigurante Re Tancredi
che rimanda Costanza ad Arrigo VI, ha alle
pareti un Vasari, un Ritratto di Giovanetta
di Sofonisba Anguissola, un Calvario di
Andrea da Salerno, una Crocefissione di
ignoto napoletano del '500 e una Vergine con
Bambino di Andrea Sabatini da Salerno; su una
consolle, un settecentesco orologio inglese
di Carlo Clay.
Segue la Sala chiamata delle Guardie del Corpo, la
IX, quella dove si fermava la guardia d'onore
costituita da nobili napoletani. Alle pareti vi sono
arazzi, fra i quali i quattro più grandi formano la
serie degli Elementi. Di fattura napoletana,
tessuti dal 1746 al 1750, raffigurano L'Aria, Il
mare, L'Acqua e La Terra. I mobili di
epoca impero, sono adorni di vasi di
porcellana cinese, candelabri ed orologi.
La sala X ha nel soffitto, un affresco di Gennaro
Maldarelli, raffigurante Ruggero il Normanno che
sbarca a Palermo. Mobili francesi destano una
certa attenzione: un piccolo secretaire, un
canterano ed un tavolo impero, opera
di A. Weisweiler. Vi son inoltre una libreria
impero di costruzione napoletana, ai cui lati sono
due bei Paesaggi, uno di Salvatore e l'altro
di Francesco Fergola; completano l'arredamento vasi,
orologi, lumi e barometri.
Nell'XI Sala vi sono molti dipinti di pittori
napoletani: il Figliuol Prodigo di Mattia
Preti; di fronte ai balconi due opere di Andrea
Vaccaro e precisamente Orfeo e le baccanti e
L'incontro di Rachele con Giacobbe. Alla
parete seguente notiamo Lot e le figlie di
Massimo Stanziane; a fianco ai balconi, un Gesù
fra i dottori di G. A. Galli detto lo Spadarino
e una Testa di Apostolo di Cesare Fracanzano.
Nella Sala che segue, la XII, vi sono dei quadri
dipinti per la serie degli arazzi fabbricati sotto
la direzione di Pietro Durante raffiguranti Scene
di don Chisciotte: i loro autori sono Antonio
Guastaferro, Antonio De Dominici, Giuseppe Bonito e
Benedetto della Torre, e vi si riconosce Sancio
all'osteria, La regina Mica Miconi con don
Chisciotte, Don Chisciotte all'osteria e Don
Chisciotte contro i mulini a vento. Gli altri
due dipinti raffiguranti Gli invitati
straordinari del sultano sono anche essi modelli
per arazzi, e furono eseguiti per volere di Carlo di
Borbone dal pittore Giuseppe Bonito.
La XIII Sala offre al visitatore soprattutto opere
di pittori stranieri: Due Finanzieri del
belga Giovanni Massijs, che li ha raffigurati mentre
annotano gli incassi fiscali, un Ritratto di
Maria Clementina d'Austria della Vigèe
Lebrun, un Ritratto di gentiluomo
dell'olandese Abramo van der Tempie da Leeuwarden,
Una giovane donna di Ludolf de Yong, un altro
pittore della scuola settecentesca olandese, tre
Ritratti di Gentiluomini e uno di Gentildonna
di Abraham Tempel, una Vecchia signora
dell'olandese Nicola Maes, il Suonatore di flauto
del francese Alessio Grimou.
La sala XIV contiene alcuni ritratti : quelli di
Augusto III di Sassonia e Giuseppina d'Austria
di G. Doyen, una figura intera di Ferdinando IV
del Camuccini, il Ritratto di Barbara
Maddalena, regina di Spagna, di ignoto, un
Ritratto di giovane donna in arazzo su cartone
di Maurice Quentin de la Tour e quello di
Ranuccio Farnese, opera di Giacomo Denys. La XV
Sala presenta dipinti a carattere sacro: un Gesù
sotto la Croce di Giorgio Vasari, un Calvario
di un discepolo di Andrea da Salerno, San
Francesco attribuito al secentesco fiorentino
Carlo Dolci, una Sacra famiglia anche dì
Bartolomeo Schedoni, San Giuseppe in estasi
della scuola del Guercino, San Giovanni Battista
anche dello Schedoni e la Carità dello
stesso artista. Altri magnifici quadri di pittori
napoletani sono esposti nella sala XVI: tre
Paesaggi di Guglielmo Giusti, Salvatore Giusti e
uno di Gabriele Smargiassi; una Primavera,
opera giovanile di Filippo Palizzi acquistata da
Ferdinando II in una mostra di pittura del 1841, un
Tramonto di Nicola Palizzi e due Interni
di Stalla di Consalvo Carelli. La Sala XVII, o
salone dei Ricevimenti, era la prima Sala Reale: fu
rifatta nel 1840 e da allora fu chiamata Sala
d'Ercole perché vi era un modello in gesso
dell'Ercole Farnese; fu ancora restaurata dopo
l'avvento al trono dei Savoia. I grandi lampadari
di Murano che illuminavano questa sala
furono distrutti durante l'occupazione
militare alleata e sono stati sostituiti da
lampadari in bronzo. Attualmente la sala è adorna di
arazzi napoletani eseguiti verso la fine del secolo
XVIII, e precisamente tra il 1783 e il 1786, sotto
la direzione di Pietro Durante su cartoni di Antonio
De Dominici, Giuseppe Bonito e Fedele Fischietti:
cinque di essi raffigurano scene allegoriche
ricordanti La favola di Amore e Psiche; sugli
altri quattro sono raffigurate delle architetture e
le statue di Licurgo, Solone, Ermete e Nurna
Pompilio. Vi sono inoltre quattro importanti
vasi di Limoges che furono finemente decorati da A.
Giovine e porcellane francesi.
La fabbrica napoletana di arazzi si trovava a San
Carlo alle Mortelle; nel 1778, poi fu portata a
Palazzo Reale dove durante i moti della Repubblica
Partenopea del 1799 andò distrutta quasi del tutto.
Ci auguriamo che il visitatore trovi le opere nello
stesso ordine in cui le abbiamo descritte, ma anche
in questo appartamento storico avvengono spesso
spostamenti di mobili e di quadri.
Molto interessante è la Cappella, che si trova al
primo piano di fronte all'ingresso principale: essa
fu ideata da Cosimo Fanzago intorno al 1640 e,
dedicata all'Assunta, fu consacrata nel 1646 durante
il vicereame del duca d'Arcos. Nel 1656 fu abbellita
ed ingrandita ancora dal viceré conte di Castrillo e
gli stucchi in oro furono apposti a cura del
Modanino. Una nuova consacrazione, con grandi
funzioni, fu fatta nel 1668 dal vescovo di Molfetta
e da allora la Real Cappella fu adibita alla
celebrazione di matrimoni, battesimi e funzioni
solenni, come i « Te Deum » ai quali in determinate
occasioni interveniva tutta la corte. Il disegno
originario della costruzione fu poi col tempo
modificato e rimaneggiato anche perché, a dire il
vero, non era un'opera tra le migliori del Fanzago;
così, agli inizi del secolo XIX, e precisamente tra
il 1808 e il 1815, il real architetto Antonio De
Simone e Gaetano Genovese vi effettuarono radicali
modifiche costruendovi anche una tribuna con
balaustra, mentre si facevano affrescare le pareti
da Giuseppe Cammarano, Ferdinando II, poco prima
della morte, ne dispose un nuovo ingrandimento, e
quindi il figlio Francesco II nel 1859 fece ultimare
questi lavori facendo rinforzare il soffitto, rifare
le arcate e costruire ai lati del presbiterio le due
cappelle con le cupolette decorate. Quando fu
rinnovato l'interno nel 1815, furono distrutte le
decorazioni che erano state eseguite da Giacomo Del
Po e quelle ancora più antiche del 1705, e restarono
soltanto alcune figure di angeli. Quanto al
soffitto, che era formato da canne in stucco,
essendo crollato nel 1687 per un lieve movimento
tellurico, fu rifatto da Niccolò Rossi, discepolo di
Luca Giordano; anche questo affresco andò poi
distrutto, e la magnifica Assunta che vi si
vede fu dipinta da Domenico Morelli nel 1863.
Quest'opera, veramente stupenda, fu ideata
dall'artista, come egli stesso racconta, in una
delle tante belle giornate napoletane in cui «
alzando gli occhi allo zenit s'incontra un turchino
profondo e se in quel momento passa una leggiadra
nuvola bianca è quella la nota più bella e più
pittorica che si possa immaginare ». Insieme al
Morelli, collaborarono alla decorazione di questa
graziosa capella anche altri pittori dell'800
napoletano: Spano, Rizzo, Marinelli, Sagliata,
Licata, Altamura, Maldarelli e Giuseppe Cammarano,
che ne decorò le pareti al di sopra della tribuna e
ai lati dell'altare. Purtroppo i dipinti di questi
artisti furono danneggiati da un bombardamento
alleato nel 1943 e non rimase che l'Assunta
di Domenico Morelli.
L'altare maggiore, opera di Dionisio Lazzari del
1687, è forse la cosa più bella della cappella
reale: esso è composto dal paliotto, da un ciborio
con porticine di rame dorato, ed è arricchito da
lapislazzuli ed agate intarsiate. Costruito in
origine per la chiesa di Santa Teresa al Museo, fu
qui trasferito nel 1808 in occasione della settimana
santa per desiderio di Ferdinando IV, e vi fu
celebrato un pontificale con paramenti lavorati
dalla regina Maria Teresa e dalle principesse reali.
La cappella fino al 1860 fu officiata del clero «
palatino », costituito da un cappellano maggiore,
dodici cappellani ordinari, tre cappellani
insigniti, diciotto cappellani di cotta e
rocchetto, dodici chierici ordinari e diciotto
straordinari; vi erano inoltre musici, cantori e
maestri di cappella tra i quali furono famosi
Scarlatti, Porpora, Cimarosa e Paisiello; ugualmente
famose rimasero le funzioni in occasione delle «
Quarantore », il periodo durante il quale rimaneva
esposto il SS. Sacramento. Queste funzioni ebbero
inizio verso la fine del secolo XVII e nel 1686
l'arcivescovo dispose che il Sacramento venisse
esposto in otto delle novantasei chiese della città
ogni mese per quattro giorni continui incominciando
dalla cat-
tedrale; in questa occasione alla real cappella
poteva accedere il popolo, a cui si permetteva anche
di assistere alle funzioni e alla messa solenne, con
l'intervento dell'arcivescovo. Riteniamo che
l'ultima cerimonia religiosa degna di rilievo
avvenuta in questa cappella sia stato il battesimo
di Maria Pia di Savoia, primogenita di re Umberto,
avvenuto il 18 ottobre 1934. Purtroppo durante la
guerra, e precisamente durante l'occupazione
militare alleata, la cappella fu adibita a deposito
con grande vergogna per coloro che disposero
questo sacrilegio!
Nella Reggia hanno sede l'Azienda di Soggiorno
Cura e Turismo e la
Biblioteca Nazionale con ingresso da
Via San Carlo e dalla reggia.
Per entrare nell'ala del palazzo ove ha sede la
Biblioteca Nazionale bisogna attraversare i giardini
reali. Il nucleo iniziale di questa Biblioteca, che
fu aperta al pubblico soltanto nel 1804, fu
costituito dalla grandiosa raccolta Farnese, portata
a Napoli da Carlo di Borbone; vi furono poi annesse
l'officina dei papiri trovati ad Ercolano nel 1752,
la Biblioteca Lucchesi Palli, la San Giacomo, la San
Martino, la Brancacciana, quella di Maria Carolina
d'Austria e la Provinciale.
Gravi danni apportarono gli eventi del '43 alle sale
di quest'ala della reggia, ma nel rimettere a posto
le opere, è stata possibile una più razionale
suddivisione ed una più funzionale ripartizione dei
volumi e degli argomenti. La biblioteca è stata
altresì arricchita dai volumi del Fondo Aosta, da
diecimila libri della Palatina e da quelli della
biblioteca del Collegio Militare dell'Annunziatella.
Attualmente la Biblioteca Nazionale di Napoli
contiene circa un milione e
quattrocentocinquantamila opere,
quat-tromilacinquecentoquarantaquattro incunaboli,
diecimilanovecentoquaranta manoscritti e
millesettecentottantacinque papiri ercolanesi,
rinvenuti in quella villa ad Ercolano che da allora
si chiamò la villa dei papiri.
Sarà bene a questo punto menzionare gli incunaboli
più rari che sono raccolti in questa biblioteca: il
Catholicon di Giovanni Baldi del 1460, una
Bibbia del 1462, un Lattanzio del 1465,
il Bartolo da Sassoferrato del 1471, un
Omero del 1488, e vari incunaboli napoletani tra
i quali una Bibbia del 1476, un Esopo
del 1485, ed alcuni finemente illustrati e decorati
come il De re militari del 1472, una
Divina Commedia del 1481 che riporta alcuni
disegni del Botticelli, il Sogno di Polifilo
del 1499 e un Liber Chronicarum di Hartmann
Schedel. Vi sono inoltre importanti manoscritti e
palinsesti le cui scritture risalgono al periodo dal
III al VI secolo. Molto interessanti sono alcuni
codici, come quello con l'Alessandra di
Licofrone, alcuni frammenti biblici in dialetto
copto del V secolo e manoscritti anche miniati.
Degna di nota è anche una raccolta rarissima di
documenti ed epistole con autografi di
notevole importanza e edizioni pregiate.
Usciti dalla Biblioteca, possiamo visitare il
Teatro San Carlo,
uno dei migliori e più gloriosi teatri lirici
d'Europa. Esso fu costruito per volontà di Carlo di
Borbone e inaugurato il 4 novembre del 1737, giorno
onomastico del sovrano, con l'Achille in Sciro
del Metastasio e musica di Domenico Sarro.
Seguirono La Clemenza di Tito musicata da
Leonardo Leo e L'Olimpiade di Niccolò
Porpora.
Il funzionamento del nostro Massimo veniva curato
dall'Uditore dell'Esercito: non si poteva
applaudire, chiedere bis, o entrare nel
palcoscenico, e solo il sovrano presente in sala
poteva disporre le cose in modo differente. II primo
impresario del teatro fu, come vedremo, il suo
costruttore seguito dal barone di Liveri, e poi dal
notaio Diego Tufarelli, da Gaetano Grossatesta, e da
Giovanni Tedeschi che era stato un cantante. Nel
1764 le recite al San Carlo furono sospese: fu
costituita la Giunta dei Teatri e all'Uditore si
aggiunsero come componenti di questa giunta due
consiglieri. Ritornò come impresario il
Grossatesta ed in occasione delle nozze tra re
Ferdinando e Maria Carolina, Adolfo Hasse compose la
Partenope.
In questo teatro sono stati rappresentati in prima
visione drammi dei migliori compositori con i più
validi cantanti, a cominciare da quell'allievo del
Porpora che fu Gaetano Maiorana detto il Cantarello.
Tra i compositori ricorderemo Niccolò Iommelli,
Gaetano Latilla, che era maestro nel Conservatorio
di Venezia, Leonardo Leo che invece insegnava nel
Conservatorio napoletano della Pietà dei Turchini,
Adolfo Hasse che, anche essendo tedesco, aveva
studiato a Napoli, Baldassarre Galuppi, Davide Puca,
Cristoforo Gluck che il 4 novembre 1752 con la sua
Clemenza di Tito e poi con l'Orfeo e
con YAlceste ebbe tre grandi successi. Giunse
poi da Bari Niccolò Piccinni del quale trionfò la
Zenobia del Metastasio; furono rappresentate
opere di Nicola Sala, che insegnò per un lunghissimo
periodo al Conservatorio della Pietà dei Turchini,
di Antonio Sacchini, venuto a Napoli nel settembre
del 1761, Giovanni Cristiano Bach del quale furono
rappresentate il Catone e l'Alessandro.
Della scuola napoletana ricordiamo Tommaso
Traetta, allievo del Porpora e del Durante, del
quale fu data la Bidone scritta espressamente
per questo teatro; Giovanni Paisiello, che anche se
tarantino, fu allievo del Conservatorio napoletano
di Sant'Onofrio a Capuana e discepolo del grande
Francesco Durante.
II San Carlo fu dunque il più importante teatro
lirico italiano. Nel 1786 terminò l'amministrazione
della Deputazione e la sorveglianza sul
funzionamento del teatro passò ad un Ministro
economico che a quel tempo era il Barone Ventapane.
Si provvide a riordinare l'orchestra e gli
orchestrali giunsero al numero di cinquantanove per
un spesa annua di duecentosessantacinque ducati;
cantanti di grido calcarono il palcoscenico e tra
questi desideriamo ricordare la Brigida Banti che,
cosa più unica che rara, non aveva mai studiato
musica pur essendo stata alla Scala di Milano e
all'inaugurazione della Fenice di Venezia nel 1792;
citeremo inoltre la Bellington e Giuseppina
Grassini che riuscì ad affascinare col suo canto
Napoleone e che, secondo alcuni, fu la causa del
divorzio del Bonaparte da Giuseppina; ella fu poi
nominata cantante di camera dell'Imperatore con
un diritto di pensione di ben quindicimila
franchi.
L'orchestra del San Carlo ebbe quindi una radicale
riforma e l'incarico di sovraintendere fu dato al
maestro Paisiello: in seguito, con i moti della
Repubblica partenopea del 1799, allo stabile del
teatro furono arrecati parecchi danni che però
al rientro dei sovrani furono sanati.
Nel secolo XIX, e precisamente nel novembre del
1800, la carica di impresario fu data a Lorenzo
d'Amico; venivano rappresentate in questo periodo
opere del Fioramante, di Giacomo Tritto, del
Guglielmi, di Gaetano Andreozzi, che poi fu anche
impresario del teatro. Con la venuta a Napoli dei
francesi si diedero opere del Pavesi, del Farinelli,
dello Zin-garelli e di altri, e nel 1810 fu nominato
impresario Domenico Barbaja, rivelatosi subito il
migliore che il teatro avesse mai avuto. Egli fece
rappresentare opere dello Spontini, la Vestale
e la Ifigenia in Aulide di Gluck, mentre
nel 1815 apparivano i grandi nomi di Gioacchino
Rossini e della grande artista Isabella Colibran
che, al contrario della Catalani, fu sonoramente
fischiata. Di quest'ultimo grande compositore furono
rappresentati la Elisabetta Regina
d'Inghilterra, l'Otello e l'Armida, che
però non ebbe un gran successo, ed infine il Mosè
e la Gazza Ladra. Si affacciava in
questo periodo sulle scene anche il compositore
Saverio Mer-cadante e venne a Napoli per due
concerti Niccolò Paganini; grosso successo
riscossero anche due fra le maggiori opere del
Rossini, il Barbiere di Siviglia e la
Zelmira; nel 1826, infine, furono rappresentate
le prime opere di Vincenzo Bellini e di Gaetano
Donizetti, pur essendo ancora Rossini il più
richiesto. Nel 1840 Barbaja si ritirò e la carica di
impresario fu presa da Eduardo Guillaume; venne
rappresentata in tale periodo la prima opera di
Giuseppe Verdi, Oberto Conte di San Bonifacio,
che non piacque, come non erano piaciute in un
primo momento le composizioni del Mercadante e del
Donizetti, che si erano poi brillantemente
affermati.
Anche Verdi non tardò a riscuotere il meritato
successo e l'ebbe infatti con l'Attila, col
Nabucco e con l'Emani, finché
conquistò definitivamente il pubblico con I
Lombardi alla prima Crociata e con la Luisa
Miller, che fu scritta appositamente per il San
Carlo. Avvenimento molto atteso a Napoli fu la prima
rappresentazione del Trovatore, nel 1853,
seguita dalla Traviata e dal Rigoletto,
che suscitò peraltro critiche del tutto
negative.
Dopo l'unione del Regno di Napoli al Regno
d'Italia, il Teatro San
Carlo
visse un periodo molto
travagliato e la sua amministrazione divenne
governativa: passò poi ad un impresario di nome
Antonio Musella per un quinquennio durante il quale
diede alla scena soltanto le opere di Verdi e di
Rossini. Ben presto il Musella rinunciò al suo
incarico, e la gestione divenne sempre più difficile
anche se non mancarono grandi artisti e famosi
compositori, mentre il pubblico e la stessa
amministrazione non erano soddisfatti dell'andamento
delle cose. Non intendiamo far qui la storia della
lirica, ma non possiamo passar sotto silenzio i
gloriosi trascorsi di questo grande teatro, che
continuò ad essere uno dei più brillanti d'Italia
dagli inizi del secolo sino al 1940 quando si giunse
alla determinazione di sostituire
all'Amministrazione un Ente Autonomo.
Il teatro San Carlo fu costruito, come abbiamo
accennato, per volere di Carlo di Borbone: il re nel
1736 osservò che il vecchio teatro San Bartolomeo,
nonostante i lavori di abbellimento, non poteva più
soddisfare le esigenze della corte e della nobiltà e
occorreva pertanto costruirne uno nuovo per il quale
si poteva usufruire del materiale di risulta di
quello che si andava a demolire. Fu deciso di
appaltare la costruzione all'architetto Angelo
Carasale, con l'impegno che dovesse esser consegnato
entro il mese di ottobre del 1737: c'è da
considerare che il contratto fu fatto il 4 marzo di
quell'anno e che quindi il tempo era ristrettissimo,
otto mesi e dieci giorni. I cinque palchi a destra e
i cinque a sinistra del palco reale rimasero a
disposizione del sovrano, che contribuì nella spesa
con ventimila dei centomila ducati che si spesero in
totale: dodicimilaottan-tasei furono ricavati dalla
demolizione del San Bartolomeo, al cui posto fu
fatta erigere una chiesa.
Sul teatro, dedicato a San Cario Borromeo, Santo del
sovrano, fu apposta una epigrafe in latino dettata
da Bernardo Tanucci, che andò distrutta
nell'incendio del 1816.
L'inaugurazione avvenne il 4 novembre, giorno di San
Carlo e quindi onomastico del sovrano, con la
rappresentazione dell'Achille del Metastasio.
Lo storico settecentesco Pietro Colletta racconta
che re Carlo nel congratularsi col Carasale che
aveva il grado di Colonnello Brigadiere, gli
confidò che avrebbe gradito un passaggio dalla
reggia al teatro e che ... il Carasale sarebbe
riuscito a farlo fare durante lo spettacolo (!).
Comunque, anche se non in poche ore, il passaggio
fu veramente fatto a spese del re per un importo di
trentaduemila ducati. Il Carasale fu poi anche
impresario del teatro, ma tanta fortuna lo rese così
inviso che furono inviate al re delle denunce nelle
quali si insinuava che la sua amministrazione non
era delle più oneste. Venne quindi aperta
un'inchiesta, men-tra il Carasale veniva arrestato e
rinchiuso nelle carceri della Vicaria prima e poi
nel Castel Sant'Elmo. Qui il poveretto morì di
dolore nel 1742, e fu poi sepolto proprio in quella
chiesa di San Bartolomeo che egli stesso aveva fatto
edificare dove era stato demolito il teatro. Il San
Carlo nel 1762 fu abbellito a cura dell'architetto
Ferdinando Fuga in concomitanza con l'occasione
delle nozze di Ferdinando IV con l'arciduchessa
d'Austria Maria Carolina. Esso conservò la sua forma
a semicerchio, ma vennero costruiti palchetti di
proscenio tra i pilastri del boccascena, fu variata
l'addobbatura e le pareti della sala furono
arricchite con cristalli e specchi. Altre modifiche
furono effettuate nei 1797 in occasione della venuta
dell'arciduchessa d'Austria Maria Clementina che
andava sposa al princie ereditario : in questa
occasione fu dato incarico all'architetto Domenico
Chelli per l'abbellimento e il rifacimento interno.
Con la venuta dei francesi fu ordinato il progetto
di una nuova facciata, ma l'architetto toscano
Antonio Niccolini, a cui fu demandata l'approvazione
del disegno lo bocciò. Si decise quindi di bandire
un concorso, e questo!... guarda caso!... fu vinto
dallo stesso Niccolini che l'aveva proposto, e nel
1810 furono iniziati i lavori, che prevedevano
anche la costruzione dell'atrio e della loggia della
facciata. Sulla cornice del portico, a cinque archi
che corrispondono agli ingressi, furono messi dei
bassorilievi raffiguranti Orfeo e Anfione, Apollo
con le Muse, l'Apoteosi di Sofocle e Euripide, e
dietro ad una grande balaustra fu costruito un
loggiato con quattordici colonne ioniche sormontate
da un frontone a triangolo che reggeva al centro una
statua di Partenope e lateralmente due tripodi; nel
1816 il teatro fu purtroppo distrutto da un
incendio, ma re Ferdinando diede ordine al Niccolini
ed ad Antonio De Simone di rifarlo completamente:
nella ricostruzione naturalmente furono usati nuovi
criteri: il parapetto di ogni quarto palco fu ornato
da un bassorilievo, furono aumentati gli ingressi
secondari, il palco reale fu ornato con un
sontuoso drappeggio purpureo con gigli in oro,
il centro del soffitto fu adornato da un dipinto a
tempera di Giuseppe Cammarano raffigurante Apollo
che presenta a Minerva i poeti, e il tetto fu
realizzato con un'armatura che per quel tempo sembrò
veramente audace. Dal 1841 al 1844 re Ferdinando
diede incarico ad Antonio Niccolini di effettuare
altre innovazioni nell'interno del teatro con
l'aiuto del figlio Fausto e di Francesco Maria del
Giudice. Il nuovo sipario fu eseguito da Giuseppe
Cammarano in collaborazione con Gennaro Maldarelli,
Camillo Guerra, Giovanni ed Antonio Cammarano e
Giuseppe Castagna, mentre si disponevano l'apertura
di nuovi ingressi verso l'attuale autoparcheggio di
Piazza Trieste e Trento e si provvedeva a dotare il
teatro di illuminazione a gas all'interno. Nel 1854
Ferdinando II ordinò il restauro degli ornamenti del
vestibolo e della scala, il rifacimento della platea
e la messa in opera di sculture e fregi al vestibolo
e alla scala, Giuseppe Mancinelli dipinse il nuovo
sipario in collaborazione con Salvatore Fergola con
una raffigurazione del Parnaso. Nel 1890
finalmente si ebbe l'illuminazione elettrica del
teatro; nel 1927, e fino al 1928 il tetto fu
sopraelevato, il palcoscenico fu nuovamente
ingrandito, e fu costruito un attico con ringhiera
di ferro presso la piazza Trieste e Trento; vennero
altresì rifatti i candelabri in legno secondo il
modello originario e venne aggiunto al sipario un
altro di sicurezza. Nel 1937 Michele Platania
disegnò un corpo laterale sulla facciata orientale;
la sala venne ancora abbellita intorno al 1941 e per
aumentarne la sonorità fu costruita una navicella
acustica.
Entrando nel teatro, nel vestibolo a destra,
troviamo una statua di Giuseppe Sorbilli
raffigurante Domenico Cimarosa e a sinistra
una statua di Stanislao Lista del 1861 raffigurante
Paisiello.
Molto imponente è la sala, che ha una superficie di
metri 28,65 per 22,51; con 184 palchi, oltre a
quello reale, il teatro ha una capienza complessiva
di circa tremila spettatori. L'enorme palcoscenico
misura metri 33,13 per 34,41.
Con l'ampliamento del teatro San Carlo che, come si
è visto, avvenne dopo l'incendio, ad opera
dell'architetto Antonio Niccolini, si ottennero dei
locali, anzi delle magnifiche sale da ricevimento,
che furono richieste dall'impresario Barbaja al re,
perché potessero essere adibite a ridotto del teatro
ed a sale da gioco. Poiché il gioco si protraeva fin
nelle ore notturne, fioccarono ricorsi e suppliche
al punto che, nel 1822, Ferdinando II di Borbone
preferì concedere questi locali alla Reale
Accademia dei Cavalieri, precedentemente
chiamata Nobile Accademia di ballo e di musica
delle signore dame e cavalieri napoletani.
L'Accademia, molto fiorente, organizzava spesso
balli e concerti ai quali partecipava tutta
l'aristocrazia del Regno ed era quindi ritenuta il
centro più mondano ed elegante della capitale.
Poiché però anche per l'Accademia continuavano a
giungere reclami, si decise di stabilire che i soci
venissero ammessi soltanto se appartenenti alle
famiglie di nobile rango, e che le feste dovessero
essere autorizzate dal sovrano.
Dopo l'annessione del Regno di Napoli a quello
d'Italia, scioltasi l'Accademia dei Cavalieri, i
locali di cui stiamo parlando vennero concessi ad un
nuovo sodalizio, il Casino dell'Unione, il cui nome
adombrava il suo intento di fondere l'aristocrazia e
i rappresentanti dell'intellettualismo napoletano.
Uscirono dalle galere i patrioti, altri rientrarono
dall'esilio e Carlo Poerio propose agli amici che
avevano le sue stesse idee politiche di entrare a
far parte di questo circolo: ne furono quindi soci
il sindaco di Napoli Guglielmo Capitelli, il
prefetto marchese di Montefalcone, deputati
liberali come Valerio Beneventani e patrioti come
Federico Bellelli ed Achille Dì Lorenzo. Il
Casino dell'Unione in un primo tempo occupò dei
locali nel Palazzo Falanga di via Cappella Vecchia:
ne fu nominato presidente onorario re Vittorio e
soci onorari e di diritto i principi di casa Savoia,
mentre l'effettiva presidenza veniva affidata a
Carlo Poerio. Fu appunto il patriota che riuscì ad
ottenere dal re, per il suo prestigio personale, le
sale della disciolta Accademia Borbonica. Durante
l'occupazione militare, prima tedesca e poi
alleata, questi locali furono occupati per tre anni
da un « Officer's Club»: in seguito furono
restituiti al Casino dell'Unione che, nel tempo, si
era fuso con un altro circolo, il Nazionale,
prendendo il nome di Circolo Nazionale
dell'Unione.
Questo circolo gode diritto di reciprocanza con vari
circoli, come quelli romani degli Scacchi e
dalla Caccia, quello fiorentino
dell'Unione, il Domino dì Bologna e il
Whist di Torino, quindi i soci di questi
sodalizi possono frequentarlo.
Sia il Circolo Nazionale dell'Unione che la
Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele
affacciano nei giardini della reggia. Questi furono
sistemati una prima volta ai tempi del viceré Pedro
d'Aragona dall'architetto Ferrante Maglione; a
quell'epoca le sue mura di cinta seguivano il
tracciato della via San Carlo, racchiudendo però
anche una parte di piazza San Ferdinando ed una
parte dell'attuale piazza del Plebiscito. Dopo la
costruzione della Reggia, molte aiuole del parco
furono distrutte e rimase soltanto la parte verso
Castel Nuovo, che restò unita al parco del castello
per mezzo di un ponte costruito da Benvenuto
Cortelli nel 1574. In questo giardino nel 1771 fu
edificato l'edificio che doveva servire alla
lavorazione della nobile porcellana che si chiamò
poi di Capodimonte.
Quando la reggia fu rifatta dall'architetto
Genovese, furono sistemati anche quel Iato del parco
che dà verso la piazza San Ferdinando, il giardino
pensile e il giardino di fronte a via Verdi; nel
1846 fu poi ricavato lo spazio per quei due cavalli
chiamati di bronzo (e che sono invece di ferro), che
l'imperatore Nicola di Russia volle regalare a
Ferdinando II. Queste due statue sono opera del
barone Giacomo Cloot; nel 1926 per consentire
libero accesso a quell'ala del palazzo destinata a
biblioteca, furono relegate ai lati di un cancello
verso Castel Nuovo.
Per terminare questo itinerario, accenneremo qualche
notizia sulla
Gallerìa
Umberto I,
la cui facciata principale è proprio di fronte al
teatro San Carlo.
Progettata su disegno di Emanuele Rocco, essa fu
costruita tra il 1887 ed il 1890 da Antonio Curri ed
Ernesto Di Mauro, che provvide alla decorazione di
stile rinascimentale mentre la cupola in vetri ed in
ferro è opera di Paolo Boubée: vi si accede dalla
via San Carlo superando un porticato a colonne, da
via Verdi, da via Santa Brigida e da via Toledo.
La galleria, di forma ottagonale, è larga m. 15,
alta circa m. 34,50 con un diametro di circa m.
36,50 nell'ottagono: la cupola è alta m. 56,70, la
pavimentazione è in marmo.
Piazza Piedigrotta - Galleria delle Quattro Giornate
- Piazza Italia - Via Caio Duilio - La Loggetta -
Viale Augusto - Piazza Vincenzo Tecchio - Via
Kennedy - Via Domitiana - Agnano - Bagnoli -
Coroglio - Nisida - Via Diocleziano - Via Giulio
Cesare - Via Fuorigrotta - Galleria della Laziale -
Piazza Jacopo Sannazzaro.
Per raggiungere Fuorigrotta ed Agnano possiamo
partire da piazza Sannazzaro e imboccare la Galleria
della Laziale, chiamata anche Galleria di Posillipo
o partire da piazza Piedigrotta e passando sotto la
stazione di Mergellina delle Ferrovie dello Stato
imboccare la Galleria delle Quattro Giornate
lasciando a sinistra il Parco Virgiliano che abbiamo
già visitato. Entrambe queste gallerie conducono nel
rione di Fuorigrotta: la Laziale in via Fuorigrotta,
che ha a destra via della Grotta vecchia, via
Costantino e via delle Legioni, e giunge in piazza
Italia dopo aver incrociato a sinistra via Brigata
Bologna e via delle Crociate. La Galleria delle
Quattro Giornate esce invece in via Caio Duilio ed
ha a destra via Alessandro Scarpati che si biforca a
sinistra in via della Canzanella vecchia e quindi,
cambiato il nome in via Consalvo raggiunge la zona
chiamata La Loggetta con le strade di via B.
Quaranta, via G. Petrucelli, via Mario Gigante, via
Porcelli.
Ci conviene a questo punto fare una breve
digressione per esaurire questa direttiva: per via
Nino Bixio o per via Consalvo, superando il
quadrivio di via Michelangelo da Caravaggio,
imbocchiamo via Cassiodoro, che incontra sulla
sinistra il viale Traiano e poi piazza Vitale e
l'omonimo rione Traiano. Sulla destra invece via
Giustiniani ci porterebbe in via Nuova Agnano, sulla
quale sfociano da sinistra le vie Adriano, Tulio
Ostilio, Nerva, e Numa Pompilio e quindi la moderna
via Epomeo. Quest'ampia arteria ha a sua volta
sulla sinistra via Garzilli e sulla destra via della
Valle e via Montevergine intersecata da via Perrotti
e da via Percopo. Altre strade di questo nuovo rione
sono via Marra, via Pierantoni, via Quattro
Novembre, che ha sulla destra la via Contieri che si
congiunge con via Alveo Con-tieri che sfocia in
Madonna delle Grazie.
Via Caio Duilio giunge al Largo Lala, nel quale
convergono viale Augusto e via Giacomo Leopardi, in
parallelo con la via Cumana e la via Giovanni
Pascoli, entrambe intersecate da via della Ginestra
e dalla piccola via Ruffa. Inizieremo la visita di
Fuorigrotta imboccando il proseguimento di via
Fuorigrotta, via Giulio Cesare, che ha in parallelo
via Fabio Massimo e si congiunge a viale Augusto
con via degli Scipioni.
Alla nostra sinistra c'è la linea ferroviaria, tra
via Giulio Cesare e via Campegna: via Campegna si
collega con via Giulio Cesare tramite via Missionari
ed ha sulla sinistra via Caravaglios, quasi in
parallelo sulla destra via Tiberio e più avanti a
sinistra via Coriolano. Proseguendo per via Campegna
troveremo sulla destra via Giuseppe Testa, via
Giulia, via Venezia, via Amerigo Crispo e via
Carnaro, oltre a via Marco Polo intersecata da via
Ronchi, che si collega con via Carnaro proseguendo
per via dei Legionari e lasciando a sinistra via
Dalmazia. Via Marco Polo, che abbiamo visto, sfocia
in via Cavalleggeri, intersecata da via Polo e da
via Cesare Frea e quasi in parallelo con via Daniele
Manin ha sulla sinistra via Redipuglia, via Sandonà,
via Luigi Rizzo ed in parallelo via Cincinnato e via
de Grenet. Queste strade, infine, raggiungono la via
Cavalleggeri Aosta in piazza Neghelli; in questo
rione vi sono ancora via Giacinto De Sivo, via
Divisione Siena, la traversa Cavalleggeri Aosta che
parte dall'ex caserma Cavalleggeri Aosta sulla cui
circonvallazione sfocia la via Nuova San Clemente.
Ritorniamo ora nella via Giulio Cesare, che dopo
aver "sorpassato a sinistra la stazione ferroviaria
di piazza Leopardi giunge in piazzale Tecchio, dov'è
l'altra stazione dei Campi Flegrei: dopo piazza
Vincenzio Tecchio il proseguimento di via Giulio
Cesare prende il nome di via Diocleziano e continua
con la linea ferroviaria a sinistra e a destra via
Mario Menichini e via Pasquale Formisano che la
collegano con la parallela via Kennedy. Più avanti
sulla destra di via Diocleziano troviamo via Filippo
Illuminato, sulla sinistra la via Cavalleggeri e
ancora a destra via Capuozzo; via Diocleziano ci
porta quindi sino a Bagnoli e alla via Nuova Bagnoli
lasciando a sinistra via Enrico Cocchia e gli
stabilimenti dell'ILVA.
Ritorniamo ora al nostro punto di partenza, Largo
Lala, ed imbocchiamo questa volta lo spazioso viale
Augusto. Troveremo poco più avanti a sinistra la
piazza San Vitale con la Chiesa moderna di
San Vitale; seguono, sempre sulla sinistra, via
Attilio Regolo e via degli Scipioni ed il viale
sfocia finalmente in piazza Vincenzo Tecchio, dove
si nota all'angolo sinistro il gran palazzo del
Politecnico della Facoltà d'Ingegneria, che ha
sulla sinistra la via Fabio Massimo. Nella piazza vi
è la stazione della Ferrovia Cumana, e di fronte al
Politecnico l'ingresso principale alla
Mostra d'Oltremare,
quartiere fieristico creato nel 1939 che, essendo
stato danneggiato per gli eventi bellici, fu poi
ricostruito nel 1952.
L'ampia zona ha un'area di 675.000 mq. e circa 12
Km. di viali carrozzabili, e contiene 22
padiglioni, compresi per la maggior parte tra
l'ingresso e la Fontana dell'Esedra. Questa
fontana è di grande effetto di sera, quando è
illuminata. Fra le costruzioni che sono in questo
importante complesso ricordiamo la Torre delle
Nazioni, il Padiglione Europa, opera di
Elena Mendia, il Padiglione Italia di C.
Cocchia, il Palazzo dei Congressi di L.
Piccinato, il Palazzo del Turismo di Della
Maione, il Palazzo dell'Africa di Giulio De
Luca, il Palazzo dell'America del Nord di C.
Cocchia, il Teatro Mediterraneo opera di L.
Piccinato con ampio palcoscenico e con una
ricettività di 1.200 persone, l'Arena Flegrea
per 10.000 spettatori, ideata da Giulio De Luca ma
rifatta e rimodernata per ragioni di sicurezza lo
scorso anno, il Teatro dei piccoli, la
Piscina olimpionica, il Parco dei
divertimenti ed infine il Giardino Zoologico
ed il Cinodromo Domiziano. È annesso alla
zona della Mostra anche Edenlandia, un Parco
di divertimenti.
Sulla destra dell'ingresso della Mostra vi è il
Largo Barsanti e Matteucci, nel quale confluiscono
via Claudio, proveniente da piazza Gabriele
D'Annunzio e via Guglielmo Marconi che ha sulla
sinistra alcuni edifici della Rai e sulla destra
l'Istituto Nazionale Motori il cui ingresso
principale è il Largo Barsanti. Poiché ci troviamo
in questo largo ricorderemo che sulla sua destra,
retrocedendo di poco vi è Io Stadio San Paolo, e
imboccando via Lepanto, parallela del viale
Augusto, si può giungere in piazza Colonna che si
collega con il viale Augusto tramite via Doria
riportandoci quasi al punto di partenza. Via
Lepanto, via Giulio Cesare e viale Augusto sono
parallele: la prima, sfociando in piazza Colonna,
fa angolo con via Giacomo Leopardi il cui
proseguimento porta a via Terracina, al Cimitero di
Fuorigrotta e all'imbocco della Tangenziale.
Percorrendo via Giacomo Leopardi nel senso opposto,
troveremo sulla sinistra via delle Scuole Pie, via
Pomponio Gaurico, via Benedetto Cariteo, via
Gianbattista Marino e via Tansillo, intersecate da
via Jacopo de' Gennaro, via Francesco Galeota e via
Giulia Gonzaga; sulla destra invece la via Leopardi
ha via Gabriele Rossetti, via E. Petraccone e via
Enrico Arlotta, intersecate dalla via Nunzio
Faraglia che tramuta poi il nome in via Luigi
Mercantini e da via Pietro Napoli Signorelli che
cambia nome in via Cerlone, ambedue partite da via
Davide Winspeare, che si unisce ad angolo con via
Pietro Metastasio. Via Giacomo Leopardi ha ancora
sulla sinistra la via Pirandello, dopo il Rione
Lauro e si ritrova quindi alle spalle dello Stadio'
San Paolo in piazza Gabriele D'Annunzio.
La via Lepanto, che iniziando da piazza Colonna
segue un tracciato parallelo al viale Augusto,
sfocia anch'essa in piazzale Tecchio, dopo aver
incontrato sulla sinistra via Sebastiano Vernerò,
via Degni, via Gennaro Fermariello e via Morosini.
Da piazzale Vincenzo Tecchio si imbocca via Kennedy,
al cui inizio a sinistra vediamo il Palazzo
dell'ACI e il Palazzo dell'ANAS: in
effetti di qui inizia la via Domitiana che lasciando
sulla destra la conca di Agnano, porta a Roma via
Formia.
La via Kennedy incontra sulla destra via Barbagallo
e via Labriola che la collegano a via Giochi del
Mediterraneo; tra queste due strade è il
Palazzetto dello Sport. A sua volta la via
Giochi del Mediterraneo è collegata con via
Terracina che dal quadrivio di via Michelangelo da
Caravaggio giunge in via Nuova Agnano. Via Giochi
del Mediterraneo, superato il quadrìvio di Agnano,
cambia nome in via della Liberazione lasciando sulla
destra la Scuola di Equitazione e fermandosi
all'ingresso della NATO: di qui per via Carafa o per
via Girolamo Cerbone, che passa sotto un ponte delle
Ferrovie, si può andare a Bagnoli. Il proseguimento
di via Diocleziano, via Nuova Bagnoli di cui abbiamo
già parlato, forma con la via litoranea e con via
Carafa un triangolo isoscele nel quale sono comprese
innumerevoli piccole stradette che tralasceremo di
nominare. Da piazza Bagnoli, poi, per via Coroglio,
lasciando a sinistra gli altiforni dell'Uva e la
Cementir si può giungere al lido di Coroglio e
all'isoletta di Nisida.
Questa piccola isola il cui nome deriva del greco
Nesis, che vuol dire appunto isoletta, è quasi
circolare: essa è un cratere vulcanico la cui
apertura superiore ha un diametro di 500 mt; il
piccolo porto è chiamato Paone. Su questa isoletta,
Bruto, che vi aveva una villa, congiurò con Cassio
contro Cesare e varie volte vi ricevette la visita
di Marco TulIio Cicerone: di qui Bruto partì per la
Grecia e qui la moglie Porcia dopo la battaglia di
Filippi si suicidò. Sulla sommità di Nisida vi è una
costruzione angioina trasformata in prigione dai
sovrani borbonici, che riteniamo sia ancora la sede
di una colonia di redenzione per minorenni; perciò
la visita dell'isola non è permessa ed è possibile
solo dietro richiesta effettuata al comando
militare che è all'inizio della strada.
Ritornati indietro in piazza Bagnoli, imboccando di
nuovo via Nuova Bagnoli e poi via Nuova Agnano
ritorneremo al quadrivio di Agnano. Di qui,
lasciando sulla sinistra la Domitiana che ci
porterebbe fuori città, proseguiremo per visitare le
Terme di Agnano,
l'Ippodromo
e il parco degli Astroni.
Agnano fin dall'antichità è nota per le sue Terme
alimentate da varie sorgenti, in quanto questa
località non è altro che un cratere vulcanico da
ritenersi forse il più antico del terzo periodo
eruttivo dei Flegrei. Prima ancora dei romani gli
stessi calcidesi conoscevano ed usavano i fanghi e
le acque di Agnano. Cronache di epoca posteriore
riportano poi che un vescovo di Capua, San Germano,
guarì per merito di queste cure di una malattia
abbastanza seria. Il nome di Agnano deriva da quello
della famiglia Ania di Pozzuoli a cui la zona
apparteneva: Anianum, quindi, come si ricava
da un documento del 997. Col tempo Anianum si
tramutò prima in Agnanum, come può rilevarsi
da un documento del 1219 e poi, sin dalla fine del
secolo
XIV
in Agnano. Lo stabilimento termale è stato
attualmente rimodernato e ampliato: esso costituisce
attualmente un moderno complesso per cure termali di
bagni, fanghi e stufe, cure fisioterapiche,
estetiche, idropiniche e inalatone. Vicino ad esso
vi sono i ruderi delle antiche Terme romane, a sei
piani; sono stati messi in luce il frigidarium,
una piscina semi circolare, un'altra piscina
rettangolare, al terzo piano un laconico semi
circolare, un tepidarium ed un altro
laconico con doppio pavimento, oltre a un
calidarium. Nei pressi si può visitare una
grotta chiamata del cane, in quanto
essendovi esalazioni di acido carbonico, per il
passato vi venivano portate queste bestiole per
essere barbaramente eliminate.
Uscendo sulla nostra strada ci porteremo verso via
Pisciarellì, che si trova alle spalle della
Solfatara e sulla destra troveremo
l'Ippodromo,
che è da ritenersi uno dei più importanti esistenti
in Italia. La strada comincia poi a salire e porta
in una piazzetta nella quale vi è l'ingresso al
Parco degli Astroni
e la torre omonima che fu costruita sotto il
governo borbonico per il servizio di vigilanza e di
custodia del personale addetto al parco.
Anche questa località è un cratere che doveva essere
attivo nel
X
secolo a.C.
II
nome dì questo parco si ritiene derivi dalla
presenza di « strunis », cioè uccelli, oppure da
stregoni che vi trovavano ricetto: fu per primo
Alfonso d'Aragona ad utilizzarlo per battute di
caccia facendovi convogliare animali selvatici e
talvolta anche feroci. Nel periodo vicereale gli
Astroni furono venduti alla famiglia Giovine, che li
donò ai Gesuiti, e questi nel 1739 li permutarono
con il feudo di Casolla con Carlo di Borbone. Vi
sono state in questa tenuta reale importanti cacce a
cavallo, che tuttora di tanto in tanto si
organizzano per coloro che si dedicano ancora a
questo sport.
Il bosco è molto fitto e vale la pena di visitarlo;
inoltre dalla Torre degli Astroni si gode un
magnifico panorama.
Mergellina - Posillipo - Piazza Salvatore Di Giacomo
- Via Boccaccio - Via Lucrezio Caro - Marechiaro -
Via Alessandro Manzoni - Villanova - Piazza Europa
- Largo Santo Stefano - Il Vomero Vecchio.
Partendo da via Mergellina, ci proponiamo ora di
visitare l'amena collina di Posillipo percorrendo
l'omonima strada, che segue le sinuosità della costa
sino al Capo, e quindi tornando verso l'entroterra
esaminare prima le strade a mezza costa e dopo
quella sul crinale, via Manzoni, fino a toccare
l'altra collina del Vomero.
Via Posillipo, che si snoda all'inizio appena un po'
al di sopra della frastagliata costa di questa
splendida altura, salendo man mano sino a
raggiungerne la sommità, fu iniziata nel 1812 da re
Gioacchino Murat e terminata nel 1823. Questo lato
del golfo è ridente, dolcemente degradante verso il
mare e ricoperto da una fitta e verde vegetazione.
Il suo nome deriva dal greco Pausìllipon, che
vorrebbe significare il luogo dove si dimenticano i
dolori, sans-souci, quindi, fine della
tristezza. Pausillipus la j collina fu
chiamata in epoca romana, poi Mons Posilipensis
e nel periodo angioino Casale Posilipi.
Appena imboccata via Posillipo troviamo a sinistra
Villa Chierchia
e a destra una stradetta che conduce al largo
Sermoneta. Seguono immediatamente a sinistra,
Villa Quercia, attualmente rifatta e restaurata
e a destra una magnifica villa patrizia ove ha sede
l'Istituto Santa Dorotea.
A pochi passi incontriamo lo storico
Palazzo Donn'Anna,
attualmente in cattive condizioni esteriori: diruto
ma solenne, il vecchio edificio sporge sul mare,
testimone di un passato fosco e leggendario, e
persino, secondo la leggenda, degli amori perversi
della regina Giovanna.
In effetti queste mura a picco sul mare nulla hanno
a che fare con le esecrate regine alle quali una
ininterrotta tradizione popolare ha attribuito ogni
sorta di efferatezze e di lussurie, maestre di
venefici e di alcove, turpi e bellissime femmine
smaniose di amori e di sangue. Nel '400 il palazzo
apparteneva a Dragonetto Bonifacio del Sedile di
Portanova, figlio di Roberto, nobile d'Oria e di
Lucrezia Cicara, che fu nominato marchese da Carlo
V.
Uomo di cultura, egli si interessava allo studio
delle lettere, della chimica e dell'alchimia. Fu
allievo di Pietro Summonte, amico di Alfonso
d'Avalos e di Jacopo Sannazaro, per il quale ebbe
sincera amicizia ed ammirazione, come si rileva dai
suoi versi in latino ed in volgare. Morì molto
giovane, si disse per una caduta da cavallo, o per
un esperimento di alchimia non riuscito. Nel 1571 il
palazzo passò ai Ravaschieri che ne fecero una
sontuosa residenza e vi ospitarono la più alta
nobiltà napoletana; da loro fu venduto al principe
Luigi Carafa di Stigliano. Lo ereditò quindi il
figlio Antonio dal quale nacque donn'Anna Carafa
alla quale l'edifìcio deve il suo nome.
La ricca ereditiera, imparentata con gli Orsini e
gli Aldobrandini, ebbe molti pretendenti, tutti
importanti e di nobile lignaggio, come il nipote di
Urbano Vili, Alfonso III di Modena, Francesco
d'Este, ma per istigazione del viceré Olivares, il
re di Spagna impose che la fanciulla non potesse
sposarsi senza il suo consenso. Il disegno
dell'astuto viceré era quello di riservare il pingue
patrimonio degli Stigliano al duca di Medina las
Torres don Ramiro Guzman, vedovo di sua figlia, che
dopo questo matrimonio sarebbe stato eletto viceré.
L'ambizione della principessa prevalse su ogni
sentimento e giunse quindi dalla Spagna... il
principe azzurro, che preferì sbarcare a Procida e
farsi precedere da una galea colma di doni.
Le nozze ebbero luogo in palazzo Cellamare: nel 1637
don Ramiro fu nominato viceré e quindi l'ambiziosa
donn'Anna divenne viceregina. Nel 1642 ella fece
ingrandire ad abbellire il palazzo a Posillipo da
Cosimo Fan-zago che vi lavorò ben due anni con circa
quattrocento operai. Vi fu costruito anche un
teatro che fu causa di un infausto avvenimento. Come
ci ha raccontato Matilde Serao nelle sue «Leggende
Napoletane», vi si recitava un dramma che aveva come
interpreti la giovane ed attraente Mercedes de las
Torres, nipote della viceregina, nella parte di una
schiava, e il principe Gaetano di Casapesenna,
l'amico di donn'Anna. La recitazione dei due era
tanto verista che questa si ingelosì, e invitò la
bella nipote a lasciare in pace il principe. Poiché
la tresca, però, continuava, la viceregina fece
rinchiudere la giovane in un convento e trasferire
il principe su un campo di battaglia ove trovò la
morte.
Nel 1644 il consorte dovè rientrare in Spagna, ed
ebbe finalmente una buona scusa per abbandonare al
suo destino la moglie, che volle ritirarsi in una
villa a Portici ove l'anno seguente morì abbandonata
da tutti, amici e nemici.
Nel 1647 il popolo, per l'odio ancora vivo contro la
vecchia proprietaria, saccheggiò il palazzo, che fu
poi rimesso a nuovo da Nicola Maria Guzman, a tre
piani, con finestroni rettangolari e nicchie in due
delle tre facciate e tre portoni di ingresso. Pochi
anni dopo, però, nel 1688, il terremoto danneggiò
moltissimo il fabbricato e tra le sue macerie trovò
la morte anche il proprietario. In seguito il
palazzo passò ad un Carafa di San Lorenzo che a sua
volta lo vendette al marchese di Calitri che era
vedovo di una Carafa di Stigliano; nel 1807 divenne
poi proprietà di Mattia Durante. Con l'allargamento
della strada sotto il regno di Ferdinando
IV
una parte del palazzo donn'Anna andò distrutto: quel
che rimase nel 1824 fu comprato da una fabbrica di
cristalli, poi dalla famiglia Manzi, poi ancora da
un certo Geiser ed infine, dopo essere stato per un
periodo della Banca d'Italia, dalla famiglia
francese Genevois; lo acquistarono infine i Capece
Minutolo di Bugnano insieme ai Colonna di Paliano.
Subito dopo, sempre a sinistra vi è
VOspizio
Marino
dei padri Bigi, un Ordine religioso fondato nel 1822
dal venerabile Ludovico da Casoria, davanti al quale
vi è una statua raffigurante San Francesco che
benedice Dante, Giotto e Colombo. Sulla
sinistra troviamo magnifiche ville circondate da
parchi lussureggianti che scendono sino al mare,
mentre sulla destra si susseguono anonimi
caseggiati e si apre poi piazza San Luigi, una
specie di grande cava con la roccia a strapiombo
sul lato a monte, circondata di brutti palazzi
moderni.
Continuando a salire verso il Capo di Posillipo, con
lo stesso panorama di lussureggianti parchi secolari
che si riflettono sul mare azzurro, non possiamo
fare a meno di notare qualche bella costruzione e di
ricordare una storica villa^ quella del duca di
Roccaromana.
La
Villa Roccaromana
ha una graziosa pagoda che si affaccia in una
insenatura del mare di Posillipo contornata da pini
e da alti alberi che ricorda tanto la pagoda dei
d'Angri; era prima decorata di madreperle e
conchiglie in uno stile molto « roccocò ».
Sulla destra è invece l'ingresso a
Villa Peirce
con un'iscrizione che ricorda un soggiorno di
Garibaldi nel 1860; notevoli
ancora
Villa Campione,
Villa Maria,
e Villa Gallotti,
tutte sul mare, con un panorama che può considerarsi
tra i più belli che possa offrire la natura. Sulla
destra troviamo il
Mausoleo di Schilizzi,
un edificio in stile egizio costruito da un
miliardario livornese ebreo con l'intenzione di
farvi la sua tomba di famiglia. La costruzione fu
iniziata nel 1883 su disegno di Alfonso Guerra ma fu
interrotta nel 1889 ed infine nel 1923 il municipio
di Napoli decise di riscattarla per trasformarla in
un Mausoleo per i Caduti della
I
guerra mondiale;
quindi attualmente questa costruzione è chiamata
Ara votiva ai Caduti per la Patria.
Le cariatidi in bronzo nel propileo sono opera di
Giovan Battista Amendola di Episcopio di Sarno ed i
lavori di riadattamento furono eseguiti
magistralmente dall'architetto Camillo Guerra.
Si giunge poi alla graziosa piazza Salvatore Di
Giacomo e alla piccola
Chiesa di Santa Maria di Bellavista
del 1860 completamente restaurata in questi anni; a
sinistra la via Ferdinando Russo porta alla piccola
insenatura di Rivafiorita, rasentando i meravigliosi
giardini delle grandiose
Ville Barracco
e
Maria Pia,
già
Roserbery,
proprietà del demanio dello Stato a cui fu donata
dall'ultimo re d'Italia.
Costruita in un parco secolare ricco di elei
coniche, di querce, di aiuole fiorite, di erme e
tempietti che, in dolce declivio, lentamente
digradano verso il mare, la villa appartenne al
fratello di re Ferdinando, il conte d'Aquila Luigi
di Borbone.
Di un nitido biancore, è ornata di fregi
architettonici e da un grazioso ed armonioso
portico di quattro colonne joniche, con terrazza,
fini ringhiere e cornici ai balconi. Ha un bel
cornicione classico che corona in alto il
fabbricato, ed è dotato di una grande foresteria e
di una piccola « dependence » costituita da un
grazioso villino. Dalla Casina Reale, che è il
fabbricato principale della villa, si raggiunge il
mare per una bella gradinata fiancheggiata da una
gran serra ricca di piante rarissime e di ogni tipo
di fiori.
Verso la fine del secolo
XVIII
la villa, che apparteneva al conte di Thurn, fu
acquistata dalla principessa Maria Antonietta Serra
di Gerace che l'arricchì e l'abbellì facendone una
vera dimora principesca.
I
suoi salotti ospitarono la corte reale e la elegante
società del tempo; vi fu ospite con la graziosa
moglie, Lord Hamilton il cui nome è legato alle
tristi vicende della Rivoluzione Napoletana del
1799.
Interessante è il grande appartamento ove tra
numerosi dipinti, degno di menzione, è quello, opera
del Tichbein, che raffigura una battuta di caccia
nel bosco a cui partecipavano re Ferdinando, il
marchese di Pescara, il duca di Sussex, i cavalieri
Cordua e Brancaccio, il conte di Sapo-naro, il duca
di Castagneto e uno sciame di belle signore, assidue
frequentatoci della villa tra le quali la duchessa
Serra di Cassano, la granduchessa Luisa di Toscana,
la regina Maria Carolina e la bellissima amica di
Orazio Nelson, Emma Lyona.
La villa nel 1835 fu acquistata dal conte d'Aquila
Luigi di Borbone che, da quel gaudente che era, mise
al bando corte e nobiltà, preferendo la dolce
compagnia di graziose donnine non titolate, in
massima parte piccanti artiste tra le quali Aminta
Boschetto del San Carlo che divenne poi l'amica del
barbuto e canuto don Luigi. Il conte provvide ad
abbellire ulteriormente la villa con una pineta ed
un altro parco e rimodernò il suo appartamento
rendendolo moderno e confortevole.
Liberale convinto, troncò ogni rapporto con la Casa
Reale. Ammiraglio della Flotta Borbonica, non solo
non aveva mai comandato una nave, ma l'unica volta
che prese il mare fu quando, nel 1844, si recò in
Brasile per sposare la sorella di don Pedro
II,
cognato di re Ferdinando. Alunno dell'abruzzese
Gabriele Smargiassi, fu invece un discreto pittore.
La bella Aminta Boschetto, allorquando i Borbone nel
1860 lasciarono Napoli, piantò il vecchio amico in
non più floride condizioni finanziarie e di salute e
accettò la « protezione » del generoso banchiere
Stolte che le offrì una villa a Portici. Rimasto
solo, il nostro principe, dopo la bufera di quegli
anni, vendette tutto il complesso al francese De La
Haude. Mandato in esilio a Roma, invano chiese
aiuti finanziari a Casa Savoia e, in sempre più
disagiate condizioni economiche, fu da tutti
dimenticato e schernito: gli esiliati borbonici che
erano a Roma, invece di chiamarlo il conte Aquila lo
chiamavano « il conte porco »!
Il De La Haude, a sua volta, cedette la villa al
conte di Rosebery, lord Archibald P. Philips
Primrose che, ministro degli Esteri con Glads-tone,
ritiratosi dalla vita politica, volle venirsene in
Ttalia e si stabilì a Napoli ove, per il suo amore
per l'arte, era già conosciuto da tutti i mercanti
d'arte di quel tempo. Ricchissimo ed innamorato
delle antiche cose, costituì una ricca raccolta di
quadri, di sculture e di stampe e, alla sua morte,
stabilì che la villa fosse destinata a dimora estiva
dell'ambasciatore Britannico presso il Quirinale
affidandola, per la cura e la manutenzione, al
Consolato Inglese di Napoli.
La villa ebbe ospiti illustri tra i quali Edoardo
VII d'Inghilterra. Il figlio del Conte nel 1923 la
regalò a Benito Mussolini che, a sua volta, la donò
alla città di Napoli. Vi soggiornò in ultimo
Vittorio Emanuele III prima di partire per il suo
esilio in Egitto.
Scendendo ancora per questa ripida strada troviamo
alla fine l'ottocentesca
Villa Volpicelli
e quindi il piccolo caratteristico molo.
Ritornando in via Posillipo giungiamo al quadrivio
del Capo, donde una discesa a sinistra porta a
Marechiaro mentre una salita sulla destra raggiunge
il Parco della Rimembranza.
Imboccheremo quindi la strada a sinistra per vedere
il piccolo specchio d'acqua divenuto celebre per la
bellissima canzone omonima e la famosa « finestrella
». La strada scende tra ville e quel che resta dei
vigneti di Posillipo, che producevano un vino
prelibato ricordato sin dal tempo dei romani. Si
raggiunge un larghetto dove vi è la piccola
Chiesa di Santa Maria del Faro
ed un piccolo agglomerato dove termina la strada.
Per giungere al mare bisogna proseguire per una
lunga gradinata, e solo al termine, a picco
sull'insenatura, troviamo la delicata settecentesca
finestrella al cui davanzale un vasetto di garofani
ed una lapide ricordano la canzone musicata da
Francesco Paolo Tosti su malinconici versi di
Salvatore Di Giacomo. Affacciandoci sul mare
costellato di scogli vediamo, appena a destra, un
vecchio palazzo diroccato chiamato il Palazzo
degli Spiriti che è in realtà il rudere di un
edifìcio romano. Anche sul fianco della scaletta che
abbiamo appena discesa vi sono le colonne di una
antica villa romana.
Ritornando sulla nostra strada, lasciando sulla
destra via Boccaccio proseguiamo per il bel vialone
dal quale a sinistra si apre via Tito Lucrezio Caro.
Di qui parte a sinistra la stradetta per la Gaiola,
ma proseguendo si giunge al parco di Posillipo,
dove, all'estrema curva del promontorio da una
terrazza si può ammirare tutto l'arco del golfo di
Napoli: dal porto a Capri, Ischia, Procida, Capo
Miseno, alla zona Flegrea e Pozzuoli, mentre
l'isoletta di Nisida e Coroglio giacciono ai nostri
piedi.
Prima di lasciare la collina di Posillipo e
proseguire, vogliamo ricordare alcuni palazzi ed
alcune ville scomparse che ci sono note attraverso
le descrizioni dei patri scrittori: la Villa del
marchese Cedronìo, ricordata principalmente per
una ricchissima raccolta di conchiglie di ogni
specie e qualità; la Villa Paesler, famosa
per l'amena veduta, essendo situata sul punto più
alto della collina, accanto alla quale vi era la
fabbrica di cappelli di un tale Luigi Hachar, il
Palazzo Morra, dove era anche la dogana nel
1812, i Palazzi Guida, Postiglioni, e quello
del conte di Frìsio che sovrastava il famoso
scoglio sul quale un tempo vi era una trattoria.
Verso i due scogli isolati chiamati « di San Pietro
ai due frati » vi erano due Villette sul
mare, una della lamiglia Ayale e l'altra
Amato, vi era inoltre dopo la villa Roccaromana
un antico convento dedicato a San Gerolamo ed
attigua a questa una casa chiamata dei Pini,
di proprietà della famiglia Crocchi. Ricorderemo
inoltre la Villa del principe della Scaletta,
la Villa Greven, appartenuta alla Margravia
di Assia, che l'ebbe in dono da Ferdinando
IV,
il piccolo Palazzo Amulo e il quartiere
militare fortificato che era al capo di Posillipo
dal quale nel 1648 il duca di Guisa attaccò gli
spagnoli; esistono ancora la Villa Costa e
l'altra della famiglia Lablache.
Percorriamo ancora un tratto di via Tito Lucrezio
Caro, poiché vai la pena di soffermarsi in questa
zona, lasciando a destra la strada che conduce alla
Grotta di Seiano. Dopo essere entrati attraverso un
cancello in una proprietà privata possiamo vedere i
ruderi della
Villa di Velio Pollione
che fu paragonata da Ovidio a una città.
Plinio ne parla soffermandosi sull'eleganza e sul
lusso col quale era stata costruita, raccontandoci
di vaste piscine ove venivano allevate voraci murene
alle quali non di rado si davano in pasto schiavi
infedeli o ribelli. Anche Seneca riporta che questi
infelici venivano buttati vivi in queste piscine e
Svetonio racconta che uno schiavo colpevole solo di
aver rotto una preziosa anfora di cristallo mentre
serviva ad un banchetto offerto da Pollione ad
Augusto, venne condannato a questa atroce sorte per
punizione. A nulla valsero le insistenze di Augusto
perché il poveretto venisse risparmiato sinché alla
fine l'imperatore, indignato, ordinò che si rompesse
tutto il ricchissimo vasellame dell'ospite e che lo
schiavo fosse graziato. Alla sua morte Pollione
lasciò la villa ad Augusto e dopo che il potente
imperatore venne di tanto in tanto ad abitarvi
sorsero intorno altre case ed altre ville. Secondo
alcuni scrittori latini anche Giulio Cesare aveva in
questa zona una villa ricca di piscine e di ameni
giardini. Nel 1842 l'architetto Bechi effettuando
degli scavi portò alla luce un Teatro, un
Odeon e due edifici che riteniamo oncora oggi
non identificati, gli avanzi di un acquedotto, di
una piscina e di uno stadio. Il teatro aveva una
cavea con un diametro di quarantanove metri e
diciassette ordini di posti a sedere intersecati da
due praecinctiones: il posto per l'orchestra
ha un diametro di undici metri e vi si nota una
vasca rettangolare che doveva essere una fontana,
forse per poter trasformare il teatro in ninfeo,
mentre quando il teatro funzionava normalmente la
vasca doveva essere coperta da lastre di marmo; la
costruzione è in opus reticulatum. L'Odeon,
ben conservato, ha la sua cavea volta al
teatro e ben dieci ordini di posti intervallati da
sette scalee; il diametro è di ventotto metri e
doveva in origine essere ricoperto di marmo. Vi è
un posto su un piedistallo all'altezza del quarto
sedile riservato all'imperatore ed in fondo una
nicchia dove doveva esservi una statua poggiata su
una base ancora esistente; vi si possono ammirare
altresì delle colonne corinzie in marmo cipollino.
Raggiungendo la spiaggia, vediamo di fronte tre
isolotti di tufo, il maggiore dei quali, imbruttito
da una villetta moderna, viene chiamato la
Gaiola. Questo
isolotto anticamente era chiamato Euplea, da
uno dei nomi di Venere; quindi probabilmente vi era
un piccolo tempio dedicato alla dea ove i naviganti
venivano a raccomandarsi prima di iniziare i loro
viaggi. A destra vi sono altri ruderi romani che
sono volgarmente chiamati della
Scuola di Virgilio
in quanto un'antica tradizione vuole che qui il
grande poeta avesse una scuola: alcuni li chiamano
Casa del Mago, sempre riferendosi a Virgilio
che si riteneva avesse magici poteri.
Ritorniamo al nostro quadrivio e imboccando via
Boccaccio, al termine di questa vediamo sulla
sinistra il ponte o Cavalcavia della Montagna
Spaccata e a destra la strada del Casale di
Posillipo che porta al piccolo agglomerato di Santo
Strato, il santo protettore di Posillipo, mentre la
continuazione della strada prende il nome di via
Manzoni. Sulla sinistra poco più avanti vi è la
Stazione Superiore della funivia della Mostra
d'Oltremare e continuando sulla nostra salita
troveremo sulla destra una strada che si collega con
il Casale di Posillipo e poi l'ampia,
panoramicissima ed assolata via Petrarca. Qui
dobbiamo decidere se proseguire per via Manzoni o
girare a destra ed imboccare via Petrarca.
Accenneremo brevemente a questa zona residenziale
di Napoli alla quale, come abbiamo detto quando
siamo giunti a Mergellina, si accede da via Orazio,
che comincia a destra della Stazione della Quarta
Funicolare e si arrampica con ripida pendenza. A
mezza costa della collina da essa si diparte via
Petrarca, la stessa strada il cui termine abbiamo
adesso incontrato dal lato opposto, che percorrendo
il fianco della collina pressappoco parallelamente
alla più bassa via Posillipo, gode di un panorama
vastissimo: Capri immediatamente di fronte e lo
scorcio dall'alto della costa di Posillipo, la
costiera sorrentina, la città con la bella via
Caracciolo a sinistra, e più in alto, ancora più a
sinistra, il Vomero e Castel Sant'Elmo. Questa zona
residenziale, essendo moderna, è priva di qualsiasi
interesse storico o monumentale, ma merita una
visita per la sua bellezza. Via Petrarca è unita a
via Manzoni ed a via Orazio da una rete di
trasversali: via Pacuvio, via Nevio, via Catullo,
via Stazio, via Scipione Capece nonché da altre
strade di parchi privati. In questa zona
residenziale vi sono: su via Petrarca l'antica
Chiesa di Santa Brigida di Svezia,
annessa al Seminario Teologico Campano dei padri
Gesuiti, su via Orazio all'angolo di via Nevio la
modernissima
Chiesa di San Gioacchino
e più a valle, sul versante di Piedigrotta, la
seicentesca
Chiesa di Sant'Antonio a Posillipo
con l'annesso convento dei padri Domenicani che per
un voto fatto dai fedeli è illuminato tutte le
notti.
Questa chiesa e questo convento furono eretti nel
1631 con le elemosine raccolte da un pio frate di
nome Paolo Anzalone e l'officiatura fu affidata
prima ai frati Conventuali del Terzo Ordine
francescano e dopo, come si è detto, ai domenicani.
La chiesa non offre nulla di notevole da segnalare
ma dallo spiazzo antistante si ammira un magnifico
panorama.
Ritorniamo ora a via Alessandro Manzoni che da
Posillipo raggiunge il modernissimo corso Europa.
Essendo sul crinale della collina, essa offre anche
la visione del versante opposto, quindi della zona
flegrea con Bagnoli, Pozzuoli, Capo Miseno, Baia,
Bacoli, Monte di Procida, le isole di Procida e di
Ischia e lo sguardo può allungarsi sino alla
provincia di Caserta, al lido di Mondragone. Qui
all'altezza di duecento metri, dalle terrazze di
alcuni palazzi o ville si può ammirare l'intero arco
del Golfo di Napoli sul lato destro e sulla sinistra
fino a Capo Miseno e oltre.
La collina di Posillipo era divisa anticamente in
quattro villaggi: Santo Strato, Magalia, Spollano e
Ancari, che costituivano il Casale di Posillipo.
Del villaggio di Ancari resta l'edificio
settecentesco chiamato
Torre Ranieri.
Lasciando alle nostre spalle
il villaggio di Santo Strato e il Casale di
Posillipo troviamo, andando avanti per la nostra via
Manzoni, Torre Ranieri, dove comincia la zona di
Villanova. Sulla sinistra vedremo il grande
Ospedale Fatebenefratelli e poi ville e villette
di cui una vuole imitare un castello. Sulla destra
incontriamo il termine di via Orazio, la stazione
terminale della Quarta Funicolare, quella che parte
da Mergellina e poi sempre sulla destra il termine
di via Stazio, una deviazione di via Orazio. In
questo terzo tratto di via Manzoni riteniamo
notevoli l'antica
Villa Patrizi
con i magnifici ed imponenti cipressi e sulla
sinistra la Villa Vittoria,
ove dimorò nel 1873 lo statista Urbano Rattazzi che
fu a capo dell'opposizione nella Camera Subalpina e
che strinse l'unione con la Destra liberale guidata
da Camillo Cavour. Egli aveva sposato Maria Wyse,
figlia di Letizia Bonaparte, principessa di Solms.
La strada prosegue e lasciando a destra il vasto
parco di
Villa Matarazzo,
sfocia in un trivio dove a sinistra vi è la via
Michelangelo da Caravaggio che scende all'imbocco
della tangenziale ed al Cimitero di Fuorigrotta. A
destra invece una discesa molto breve conduce in
piazza Europa dove, sempre sulla destra, incontriamo
la modernissima
Chiesa dei PP. Pallottini
e la parte terminale di via Tasso. Sulla sinistra di
questa piazza vi è l'imponente edificio del nuovo
Istituto del Sacro Cuore, qui trasferitosi
dall'antica villa Manzo che abbiamo visto all'inizio
di via Crispi in Piazza Amedeo.
Segue il largo Santo Stefano e, lasciando a destra
la piccola cappella dedicata al Santo ed a sinistra
le modernissime vie Piave e Timavo, la nuova strada
chiamata corso Europa che attraversa la zona che
prima era chiamata del Vomero vecchio. In questa
moderna arteria incontriamo a destra
Villa Salve,
a sinistra
Villa Ricciardi
e ancora a destra una deviazione che conduce alla
Chiesa di Santa Maria della Libera,
proprio al centro del Vomero vecchio, ove vi sono
tuttora la Villa Regina
e la Villa Belvedere,
che fu bellissima ma è oggi in condizioni
miserevoli. Questa zona pittoresca fu il primo
centro abitato sul Vomero e per distinguerlo dalla
restante parte del grosso rione, una vera cittadina
incorporata nella nostra città, viene ancora
chiamato Vomero Vecchio.
Piazzetta Piedigrotta - Parco Virgiliano - Corso
Vittorio Emanuele - Via Francesco Giordani -
Piazzetta delle Quattro Stagioni -Via Tasso - Via
Aniello Falcone - Il Petraio - San Carlo alle
Mortelle - Cariati - L'inizio di Spaccanapoli - Via
Pasquale Scura -Pignasecca - Corso Vittorio Emanuele
- Piazza Mazzini - Piazza Gesù e Maria - Salvator
Rosa.
Per percorrere questo itinerario, a mezza costa tra
il mare e la collina, partiremo dalla Piazzetta
Piedigrotta, nella quale incontriamo immediatamente
l'antichissima chiesa omonima, che conserva però
solo il ricordo delle sue origini remote. La
Chiesa di Santa Maria di
Piedigrotta all'inizio non era che una
piccola cappella nella quale si venerava una effige
della Vergine del Serpente o dell'Idra, così
chiamata perché raffigurata mentre schiaccia col
piede il serpente che rappresenta il demonio, e
prese verso il secolo XIV il nome di Madonna
« de pede rotta » a causa della sua posizione « ai
piedi della grotta ».
Il Boccaccio nel 1339, scrivendo ad un suo amico,
Franceschino de' Bardi, la nomina raccontando che
era andato a raccomandarsi alla « Madonna de
Pederotta » perché Io proteggesse dai pericoli delle
conseguenze di una sua... imprudenza amorosa. Una
leggenda vuole che l'8 settembre del 1353 la Madonna
apparisse in sogno a tre personaggi differenti: un
monaco di nome Benedetto dell'abazia di S. Maria a
Cappella, un eremita di nome Pietro che viveva in
una caverna nei pressi di una grotta e una monaca
appartenente alla reale famiglia di Durazzo di nome
Karia che stava in un convento sull'isolotto del
Salvatore; perciò, da allora, rimase l'abitudine di
recarsi a venerarla in questo giorno e in quelli
successivi. Questa Vergine è sempre stata molto
miracolosa, ed anche il Petrarca ricorda nei suoi
scritti che oltre al popolo napoletano anche coloro
che si trovavano di passaggio per Napoli si recavano
a venerare in quel giorno la prodigiosa immagine. La
chiesa fu poi ingrandita a cura di Alfonso d'Aragona
che ne affidò l'onciatura ai Canonici Lateranensi e
questi allargarono a loro spese il convento
costruendo anche il chiostro, opera del Malvito, che
attualmente fa parte dell'Ospedale Militare di
Marina. Questo era ad otto arcate con colonne di
marmo e capitelli di ordine composito, ma
purtroppo le colonne sono state cinte da
pilastri.
Nel secolo XVI il tempio fu ancora ingrandito da
Vincenzo Galeota e infine in epoca borbonica fu
deturpato da un restauro che l'ha imbruttito sia
all'interno che all'esterno. Questa chiesa, oltre ad
essere legata alla nostra storia, è particolarmente
cara ai napoletani; vi si recarono a venerare la
Madre del Signore i re angioini, Alfonso e Ferrante
di Aragona, che per un voto dopo la vittoria sui
francesi nel 1495, volle partecipare alla festa
dell'8 settembre con tutta la corte. Nel 1571 fu la
volta di Giovanni d'Austria, il vincitore della
battaglia di Lepanto e dopo di lui Viceré e regine,
come Maria d'Austria, sorella di Filippo V, vollero
andare ad impetrare grazie dalla Beata Vergine. Dopo
la vittoria di Velletri Carlo di Borbone proclamò
questo giorno festa nazionale, e quindi il popolo
napoletano in questa occasione poteva ammirare
truppe ed ufficiali nelle brillanti e sfolgoranti
divise da parata. La partecipazione dell'esercito
venne abolita durante la breve parentesi
repubblicana del 1799 e durante il de-curionato
francese, ma la festa continuò dopo il ritorno
definitivo di Ferdinando IV a Napoli riacquistando
il suo splendore; i sovrani passavano in rivista le
truppe lungo la riviera di Chiaja e quando
raggiungevano infine la piazza, la flotta, che era
ormeggiata verso Posillipo, sparava a salve in segno
di giubilo. Nel 1849 anche Pio IX, che era ospite
dei sovrani volle recarsi a pregare nella chiesa di
Piedigrotta l’8 settembre. Il pontefice partito da
Portici, dove si trovava, e sbarcato dal « real
vapore » Delfino sul litorale di Mergellina nel
luogo chiamato « la Torretta » fu ricevuto in un
padiglione appositamente costruito, da tutti i
dignitari della corte e ricevette gli onori militari
dalla guardia reale. Quindi percorse il resto del
cammino scortato dagli ussari, e trovò ad attenderlo
in chiesa il cardinale arcivescovo, l'abate del
monastero e i canonici lateranensi, dai quali dopo
la funzione si racconta che volesse ascoltare la
storia della chiesa. Il Santo Padre uscì poi nella
piazza per benedire la folla che lo attendeva.
Durante l'unico anno di regno di Francesco II la
parata e la rivista militare furono abolite, in
quanto purtroppo il precipitare degli eventi non
permetteva di pensare alle feste; quindi, nel 1860
l'organizzazione della « Piedigrotta » passò ad un
giornalaio di nome Capuozzi che, al posto della
parata militare... organizzò un cavalcata di asini
con i suoi colleghi, circa un centinaio fra
giornalai e strilloni.
Anche Garibaldi volle recarsi a Piedigrotta nel
settembre del 1860,, poiché la festa coincise coi
giorni in cui egli giunse trionfalmente a Napoli, ma
sentendosi forse malsicuro, volle essere
accompagnato in carrozza dall'ex ministro della
polizia borbonica, Liborio Romano. La sua
passeggiata, infatti, non si svolse senza
complicazioni, poiché, a quanto si racconta, mentre
una parte della folla che lo circondava applaudiva,
una parte scherniva minacciosamente con sberleffi di
pretta marca partenopea, chiedendo a gran voce che
il dittatore si togliesse il berretto. Per
evitare... fastidi, convenne acconsentire e...
accelerare, appena fu possibile, l'andatura della
carrozza.
Nel 1861, partecipò alla festa il generale Cialdini
che in veste di Luogotenente di re Vittorio
Emanuele II di Savoia a Napoli passò anch'egli in
rivista le truppe che erano schierate lungo la
riviera. Questo fu l'ultimo anno in cui la festa
ebbe un carattere di ufficialità, mentre da allora
essa venne continuata solo dal popolo, che in quei
giorni prese a scatenarsi in una sfrenata baldoria.
Attualmente la Piedigrotta si è di gran lunga
ridimensionata ed anche la sua rumorosa allegria fa
parte soltanto della nostra storia.
Ci è sembrata utile questa breve digressione sulla
festa di Piedigrotta data l'importanza storica e
turistica di questa caratteristica celebrazione.
Parliamo ora della chiesa, che si presenta con una
brutta facciata del 1853 opera dell'architetto
Enrico Alvino e con il campanile interamente
rifatto nel 1937. L'interno è molto semplice, a
croce latina e ad unica navata, con la cupola
decorata da Eugenio Cisterna nel 1902 e la volta
della navata da Gaetano Gigante nel 1812. Nella
prima cappella a destra vi è la Madonna dì
Piedigrotta di Fabrizio Santafede e nella
seconda una Pietà di un ignoto
quattrocentesco; a sinistra una Crocefissione
di ignoto quattrocentesco lombardo. Nella cappella
a destra del presbiterio si trovano opere di
Giuseppe Mancinelli del 1859 e il bel Monumento a
Gaetano e a Carlo Filangieri di Nicola Renda.
Una statua raffigurante la Vergine di scuola
senese trecentesca è rinchiusa in un tabernacolo di
Pietro Paolo Farinelli che si raggiunge da due scale
ai lati dell'altare maggiore. Nell'abside un
cinquecentesco coro ligneo e nelle cappelle a
sinistra un Calvario e una Pietà di
Vencesclao Cobergher, ed una Epifania su
tavola da alcuni attribuita a Marco Pino.
Nell'ultima cappella, affrescata da Belisario
Corenzio, vi è una tavola di Giovan Bernardo Lama
rappresentante la Pietà.
Dopo aver parlato della chiesa ci affrettiamo a
spiegare quale fosse quella « grotta » ai cui piedi
essa si trovava: si trattava in effetti di una
galleria, scavata in tempi antichissimi nella
collina per facilitare gli scambi commerciali con
la fiorente città di Puteoli, oggi Pozzuoli, e
perciò chiamata
Grotta di Pozzuoli.
Si vuole che fosse voluta da Lucullo nel III secolo
a.C, o, secondo altri, sarebbe stata scavata col
lavoro di centomila schiavi dall'architetto Cocceio
per desiderio di Agrippa; nel medioevo se ne
attribuiva l'apertura alle virtù magiche di
Virgilio, e il Petrarca in un suo soggiorno
napoletano avrebbe chiesto ironicamente a re
Roberto d'Angiò se credesse a
questa baggianata.
Originariamente la galleria era molto bassa e poteva
essere percorsa soltanto a piedi, come raccontano
Petronio e Seneca, anche se in modo difforme da
quanto disse poi Strabone; in seguito essa fu molto
ampliata per volere dei sovrani aragonesi ad opera
di Bruno Risparella, come si poteva leggere su
un'epigrafe.
Secondo lo scrittore marsigliese Petronio Arbitro,
che ne parlò nel suo « Satyricon », nella galleria
vi sarebbe stato un tempio dedicato a Priapo, figlio
di Dionisio e di Afrodite, dio della Fecondità, il
cui culto si basava su riti fallici notturni. Anche
nel periodo in cui era viceré don Pedro de Toledo, a
metà del percorso vi era una cappellina scavata nel
tufo, e poiché pur essendo dedicata a Santa Maria
della Grotta vi avvenivano gli stessi riti osceni
che avevano avuto luogo nelle grotte platamonie, si
diede incarico al vescovo di Pozzuoli di
organizzare... un servizio di vigilanza.
Sino alla fine del secolo scorso, poi, sulla destra
della grotta vi era una piccola cappella della quale
aveva cura un vecchio eremita che con le elemosine
che raccoglieva non faceva mai mancare i ceri sul
piccolo altare.
La grotta fu illuminata soltanto nel 1806 da
Giuseppe Bonaparte e nel 1893 a cura degli
architetti Virgilio Marangio e Adolfo Gianbarba fu
restaurata, ma ben presto apparvero delle profonde
lesioni che resero prudente vietarvi il transito.
L'ingresso di questa vecchia grotta attualmente è in
alto a sinistra rispetto al tunnel delle Quattro
Giornate. Esso doveva trovarsi sullo stesso
livello dell'antica strada, la Puteolana, che
portava a Pozzuoli. Appunto poco prima dell'imbocco
della nuova galleria vi è sulla sinistra un cancello
dal quale si accede al cosiddetto
Parco Virgiliano,
un recinto che fu messo a posto nel 1930 per il
bimillenario della nascita del vate mantovano: in
esso è stata data degna sepoltura ad un altro grande
poeta italiano, Giacomo Leopardi.
Volendo visitarlo si giunge prima alla
Tomba di Giacomo Leopardi,
che fu costruita nel 1939 quando i resti del poeta
vi furono traslati dall'antica chiesa di S.
Vitale a Fuorigrotta.
A quell'epoca intorno alle povere ossa del cantore
di Recanati sorsero delle chiacchiere e delle
supposizioni degne di un romanzo giallo. Come è noto
il poeta morì il 14 giugno del 1837 a Napoli, in un
modesto palazzetto ancora esistente in via S. Teresa
al Museo ed il suo amico Antonio Ranieri, dopo aver
fatto benedire la salma da un frate agostiniano,
dovè darsi da fare non poco per evitare che le
spoglie venissero buttate in una fossa comune dato
che infuriava il colera e le norme igieniche erano
severe ed uguali per tutti. Poiché fortunatamente
conosceva il Marchese del Carretto, all'epoca
ministro di Polizia, il Ranieri riuscì ad ottenere
il permesso di trasportare le spoglie del poeta
fuori città e di farle inumare nella chiesa di S.
Vitale a Fuorigrotta. Il trasporto si dovè
effettuare di notte nel massimo segreto e poiché il
poeta sembra che non fosse morto cristianamente, non
si potè seppellirlo all'interno della chiesa, ma
bisognò farlo nel pronao. In seguito Antonio Ranieri
fece fare per il suo amico dall'architetto Michele
Ruggero un semplice ma decoroso sepolcro sul
quale fu messa una epigrafe dettata da Pietro
Giordano.
Umberto I di Savoia dichiarò questa tomba monumento
nazionale e i resti in questa occasione furono messi
in un sarcofago in pietra; nel 1939 infine, poiché
la chiesa doveva essere abbattuta per la
sistemazione del nuovo rione di Fuorigrotta, si
decise di tumulare le spoglie del Leopardi nel
parco Virgiliano.
Quella che viene indicata da secoli come la
Tomba di Virgilio si
trova più in alto, proprio sulla destra dell'antica
grotta di Pozzuoli, su uno scosceso banco di
tufo.
Si tratta di un colombario romano di età augustea
con un basamento sovrapposto al quale si accede da
una piccola scala, ma riteniamo che l'ingresso
originario della tomba dovesse essere rivolto verso
la via Puteolana. Esternamente vi sono delle
iscrizioni commemorative tra le quali una del 1594
che dice:
Qui cineres? tumuli haec vestigia; conditur olim
Ille hic qui cecinit pascua, rura, duces.
La tomba di Virgilio fu restaurata nel 1930, quando
fu sistemato tutto il parco, mentre prima per
accedervi bisognava scendere per un dirupo dalla
chiesa di S. Antonio a Posillipo; tuttavia in verità
essa non ha avuto ancora una degna sistemazione. Il
primo descrittore di questo sepolcro fu Silio
Italico, il poeta latino governatore dell'Asia,
morto nel 100, che compose il poema « Punica » in
17 libri, il quale raccontò che il colombario si
trovava nella sua villa, che aveva comprato dallo
stesso Virgilio, e che vi era scritto quel famoso
distico che sarebbe stato dettato dallo stesso vate:
Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc
Partenope, cecini Pascua, Rura, Duces.
Non sappiamo se ciò corrisponda a verità o se questa
iscrizione sia stata aggiunta in epoca successiva ma
è certo che su queste ceneri e su questo colombario
romano vi sono dubbi e diffidenze. Esso appartiene
all'ultimo periodo della repubblica ma la sua
semplice forma e le sue modeste proporzioni fanno
dubitare che dovesse essere destinato a raccogliere
le ossa del grande Virgilio. Tuttavia anche il
Villani nella sua « Cronica » riporta che Virgilio
« fu seppellito in quel loco, dove si chiama, sancta
Maria dell'Iria, in una sepoltura, ad un piccolo
tempio quadrato con quattro cantoni fabbricati di
tigule, sotto ad un marmone scripto, e formato a suo
epitaphio de litere antique, le quali marmore foro
sane al riempo degli anni 1326 ».
Nel '500 la tomba apparteneva ai religiosi che
officiavano la chiesa di Piedigrotta poiché si
trovava sul terreno di pertinenza di questa
congregazione ed un giorno durante uno scavo
effettuato nei pressi, nella villa dei marchesi
Della Ripa si trovò un frammento in marmo che recava
questa iscrizione:
Siste viator, quaeso, pauca, legito.
Hic Maro situs est.
Una notizia veramente sconcertante ci è giunta da
uno scrittore che racconta che nella metà del '400
questo colombario, costituito da un plinto da una
camera a volta e da loculi nei quali si trovano
delle urne era stato trasformato... in taverna. Re
Alfonso, avendo saputo di tale scempio, avrebbe
voluto recarvisi personalmente con il poeta Antonio
Beccadelli, chiamato il Panormita e con Pier
Candido Decembri.
La tomba di Virgilio fu spesso visitata da Roberto
d'Angiò, da Francesco Petrarca e da Giovanni
Pontano; anzi si narra che il Petrarca vi piantasse
un lauro che si trovava ancora lì accanto nel 1615,
poi sradicato da una violenta tempesta. La
Margravia di Dajreuth ne avrebbe inviato un ramo al
fratello Federico II di Prussia con alcuni versi di
Voltaire.
Durante la repubblica napoletana del 1799 i francesi
su proposta di Eleonora Pimentel Fonseca decretarono
di innalzare un grande monumento al poeta, ma questo
proposito non si trasformò in realtà per mancanza di
tempo. Agli inizi del secolo XIX il terreno
apparteneva ad un cittadino francese che vi
ricevette, su una terrazza belvedere che aveva fatto
costruire, Giuseppe Bonaparte. Quando fu ministro
della Pubblica Istruzione del governo italiano il
letterato toscano Ferdinando Martini, fu sistemato
il sepolcro ed il terreno che lo ospitava, del quale
all'epoca era proprietario un tale di nome
Marescotti che a sue spese volle farvi murare questa
epigrafe :
Siste viator quaeso, Pauca legito
Hic. P. Virgilius Maro S.E.
V. Marescotti, Huius tumuli herus.
Lasciando a sinistra la grotta, che percorreremo
quando vedremo la zona flegrea, e la brutta
Stazione Ferroviaria di
Mergellina, seguiamo il
Corso Vittorio Emanuele, una lunga arteria che per
circa sei chilometri percorre a mezza costa la
collina, giudicata dal Gregorovius per il suo
panorama una delle più belle strade del mondo.
L'idea della sua costruzione è attribuita a
Ferdinando II di Borbone, progettisti furono gli
architetti Alvino, Cangiano, Francesconi, Gavaudan e
Saponieri. I lavori, iniziati nel 1852, terminarono
soltanto nel 1860, e la strada fu chiamata
inizialmente Corso Maria Teresa, dal nome della
regina, e si chiamò Corso Vittorio Emanuele solo
quando il regno di Napoli fu unito al Piemonte.
Sulla destra, un po' prima della curva, vi è la
Chiesa dei Cappuccini,
di nessun interesse, seguita da una caserma dove
alloga un reggimento di Carabinieri. Qui incontriamo
un bivio, ed il Corso Vittorio Emanuele prosegue
sulla sinistra, mentre la strada a destra prende il
nome di via Arangio Ruiz e nella sua prosecuzione di
via Andrea d'Isernia. Quest'ultima va ad intersecare
la discesa dell'Arco Mirelli.
Il corso Vittorio Emanuele incontra poi a sinistra
la via privata del Parco Comola-Ricci e a destra la
via Francesco Giordani, che dopo aver incrociato la
via Michelangelo Schipa ci porta nella piazzetta
dove è sita una Stazione della Ferrovia Cumana; alla
sinistra di questa stazione vi è una strada
intitolata a Maria Cristina di Savoia che congiunge
il Corso Vittorio Emanuele a via Tasso. Proseguendo
troviamo la piazzetta delle Quattro Stagioni dove
sulla destra è stata costruita una modernissima
Chiesa dedicata al Sacro Cuore,
quindi il termine della salita dell'Arco Mirelli che
continua sulla sinistra con i Gradoni di S.
Francesco fino al Vomero. Poco più avanti
incontriamo sempre sulla destra via Pontano e
quindi, sul lato opposto, la importante arteria
intitolata al poeta Torquato Tasso, aperta nel 1855,
che collega il centro di Napoli al Vomero
ricongiungendosi a via Aniello Falcone ed al corso
Europa. Subito dopo l'incrocio di via Tasso vediamo
due alberghi, seguiti dal
Palazzo d'Ayala e dalla sua Cappella
trasformata poi in
parrocchia dedicata al SS. Redentore.
Sulla destra si ammira il panorama del golfo e
immediatamente al disotto, quanto rimane del parco
dell'ex Villa Manzo, già Istituto del Sacro
Cuore. Il prossimo incrocio si allaccia sulla
destra alla via del Parco Margherita e sulla
sinistra alla salita del Parco Grifeo dove fa spicco
il castellaccio che ospitò l'Hotel Bertolini.
Il nome di questo antico parco è quello del principe
di Partanna, patrizio siciliano del quale era
vedova quella Lucia Migliaccio che fu poi sposa
morganatica di re Ferdinando IV. I suoi figli fecero
parte del ministero degli esteri borbonico ed uno
di loro fu ministro in Prussia, in Sardegna e poi
ambasciatore a Madrid: Salvatore fu segretario di
legazione a Parigi e Luigi segretario di ambasciata
a Berlino. Si affacciano lungo questa strada belle
ville e sontuosi palazzi che godono di una delle
migliori vedute della città.
Continuando lungo il Corso troviamo a sinistra la
Stazione intermedia della Funicolare di Chiaia, che
collega il Parco Margherita con il Vomero, e più
avanti in una curva la
Chiesa di S. Maria Apparente, di scarso
valore artistico, alla quale si accede da un'ampia
scalea a doppia rampa. Proseguendo incontriamo
sempre sulla sinistra la pittoresca Salita del
Petraio che si arrampica con larghi gradoni verso il
Vomero. Un tempo era chiamata Imbrecciata in
quanto era pavimentata con ciottoli, che in termine
napoletano vengono chiamati « vrecce », ma anche il
nome di Petraio o Petraro in effetti indica una
strada sassosa.
Riprendendo la nostra strada ci fermiamo di tanto in
tanto per fare delle deviazioni allo scopo di non
farci sfuggire qualche particolare interessante.
Imboccando le scale del vico S. Carlo alle Mortelle,
sulla destra accanto alla
Chiesa del Cenacolo,
possiamo giungere alla
Chiesa di San Carlo alle Mortelle
che fu costruita nel 1616 da Giovanni Colla, ma ebbe
la facciata rifatta nel 1743 dal domenicano Enrico
Pini.
Essa era officiata dai padri Barnabiti, e vi era
annesso il convento dei religiosi. Nell'interno si
può ammirare soltanto un dipinto di Luca Giordano
raffigurante S. Liborio sull'altare della
terza cappella a sinistra ed ai lati del presbiterio
alcune tele di ignoto pittore napoletano del '700,
che rappresentano scene della vita dei religiosi
dell'Ordine fondato da S. Antonio Maria Zaccaria.
Se scendessimo ancora per l'angusta stradetta
giungeremmo al Largo Mondragone, dal nome del
predicato della duchessa Elena Aldobrandini che qui
nel 1653 fondò una chiesa ed un conservatorio per
donne sole che riunendosi in uno pseudo-ordine
religioso si facevano chiamare « monache gesuite ».
Da qui si imbocca a sinistra via Giovanni Nicotera,
intitolata al famoso barone calabrese, combattente
nella legione garibaldina, che operò in difesa della
Repubblica Romana del 1849, fu ferito con Goffredo
Mameli e andò poi esule a Genova ed a Torino; fu
anche luogotenente del Pisacane nella sfortunata
spedizione di Sapri. Potremmo ritornare alla
piazzetta S. Maria degli Angeli o scendendo a
destra per le Rampe Brancaccio, riportarci in via
dei Mille, ma noi risaliremo al Corso Vittorio
Emanuele, dove ci troveremo sulla destra la Salita
Cariati che di qui scende lasciando a sinistra i
vicoli di Toledo e a destra via S. Caterina da Siena
dove si nota la bella
Chiesa di Santa Caterina.
È questa un'opera cinquecentesca rifatta interamente
nel secolo XVIII dall'architetto Mario Gioffredo,
dove si conservano dipinti di Fedele Fi-schetti del
1776 raffiguranti un S. Agostino e un S.
Domenico oltre a un Calvario ed una
Circoncisione di Giacinto Diano, opere per le
quali vai la pena di fermarsi.
Riprendendo il Corso incontriamo sulla sinistra la
Stazione intermedia della Funicolare Centrale che
collega Toledo con il Vomero e sulla destra la
piazzetta Cariati che prende il nome dal
settecentesco
Palazzo Cariati
oggi sede dell'Istituto Pontano dei padri Gesuiti;
vi è, a sinistra, l'imponente Istituto di Suor
Orsola Benincasa, fondato nel secolo XVI da
questa pia donna e portato a termine dopo la peste
del 1656.
La Benincasa, figlia dell'architetto Giovanni, fondò
un convento di monache di clausura, chiamate
volgarmente « sepolte vive », ma l'edificio fu
trasformato poi in una scuola femminile.
Subito a sinistra incontriamo una piazzetta con una
insignificante chiesa e poco dopo il convento
francescano e l'attigua
Chiesa di S. Lucia al Monte;
a destra i gradoni di Santa Lucia conducono sulla
discesa dell'Ospedale Militare e quindi a
Spaccanapoli.
Si giunge poi ad un bivio con una strada ancora di
campagna chiamata Pedamentina che conduce
sino a S. Martino al Vomero, mentre a destra una
ripida discesa conduce all'Ospedale Militare
Principale, sito nei locali dell'ex
Convento della Trinità,
costruito nel 1608.
Questo monastero fu fondato da una pia suora di nome
Eufrosina, al secolo la gentildonna spagnola
Vittoria de Silva, che dopo essere stata fidanzata
di un conte Caracciolo, per una dolorosa delusione
preferì indossare il saio del Terzo Ordine
francescano.
II convento, nel quale ancora oggi, potendo
entrarvi, vi sarebbero da ammirare tante cose belle,
era tuttavia ben poca cosa di fronte alla bellezza
della Chiesa, chiamata della Trinità delle
Monache, il cui imponente ingresso con la
balaustra è stato di recente restaurato. Iniziata
nel 1621 da Francesco Grimaldi e terminata da Cosimo
Fanzago, la chiesetta era in origine talmente bella
e ricca da esser paragonata alla cappella del Tesoro
di San Gennaro. Purtroppo oggi è adibita a farmacia
dell'Ospedale Militare. Fra le opere d'arte che vi
erano all'interno, vi ricordiamo il tabernacolo
dell'altare maggiore di Francesco Duquesnoy detto il
Fiammingo, un vero capolavoro di oreficeria barocca,
e dipinti di Palma il Vecchio raffiguranti
L'ingresso di Cristo in Gerusalemme e La
discesa al limbo offerti da Leone XI alle
monache della Trinità. Vi era inoltre una magnifica
tela di Fabrizio Sanfelice rappresentante La
Trinità che incorona la Vergine, e poi opere di
Luigi Rodriguez e di Giuseppe Ribera detto lo
Spagnoletto, che oggi possono ammirarsi a
Capodimonte. La scala esterna, attualmente
radicalmente restaurata, è del Fanzago e rappresenta
un grazioso ed armonioso lavoro di scultura: essa
si allarga elegantemente man mano che giunge al
termine ed è ornata lateralmente da una delicata
balaustra sostenuta alle estremità iniziali e
terminali da cariatidi. Il portale d'ingresso della
chiesa, incorniciato da eleganti lesene in marmo
colorato, è sormontato da un timpano nel quale in un
riquadro è raffigurata una colomba, simbolo dello
Spirito Santo. Quando i monasteri furono soppressi,
le opere d'arte furono involate, e da un rigoroso
inventario di tutti gli oggetti d'arte esistenti
nella chiesa a quell'epoca, molte opere risultarono
mancanti e purtroppo non si è più riuscito a sapere
che fine abbiano fatto. Basti dire che dovevano
esservi anche due quadri di Marco da Siena, di cui
si sono perse completamente le tracce.
Il monastero della Trinità delle Monache fu
destinato sin dal 1806 da Giuseppe Bonaparte ad
ospedale militare, nonostante le rimostranze del
cardinale arcivescovo. Anche il governo italiano
riconfermò la decisione di Giuseppe Bonaparte, ma
nel gennaio del 1879, quando già la preziosa chiesa
apparteneva all'ospedale ed era in un abbandono che
fu ritenuto « colpevole e indegno di un paese civile
», subito dopo che un ingegnere militare l'aveva
dichiarata stabile e quindi adatta all'uso di
magazzino, crollò uccidendo alcuni soldati! In
questa triste occasione opere di scultura del
Bottiglieri, marmi preziosi ed affreschi che vi
erano ancora rimasti, furono trasferiti in parte al
Museo di San Martino e in parte al Museo Nazionale.
Sulla destra, quasi di fronte alla chiesa di cui
abbiamo testé parlato vi è la
Chiesetta dei Sette Dolori.
Su questa chiesetta c'è una simpatica leggenda.
Si dice che in un orto chiamato Belvedere un giovane
avesse una statua di fattura greca, in cui i villici
di quella zona avevano voluto identificare la
Vergine Maria. Nel 1411, per alcuni miracoli che
questa Vergine aveva fatti, si pensò di erigerle una
cappellina, che si volle intitolare a Santa Maria
Ognibene, ma fu solo durante la pestilenza del 1656
che un tale di nome Caputo, insieme con altri amici,
offrì la miracolosa statua ai frati Serviti. In tale
occasione la rustica cappella fu trasformata in una
graziosa chiesetta e l'immagine, rivestita
con una nera tunica, fu chiamata « Addolorata »
o dei Sette Dolori. La chiesa fu rifatta alla fine
del secolo XVII e ne fu per un certo periodo maestro
di cappella Giovan Battista Pergolesi. Nell'interno
è da ammirarsi un San Sebastiano di Mattia
Preti.
La strada continua verso il basso col nome di via
Francesco Girardi, eminente avvocato penalista e
deputato che fu sindaco di Napoli: essa è chiamata
anche volgarmente Salita di Magne-cavallo, dal nome
di un Ortensio Magnocavallo che nel 1594 vi eresse
un gran palazzo che dominava tutta la zona. Suo
figlio Francesco fondò la Chiesa di Santa Maria
Ognibene. A sinistra scende la ripida via
Pasquale Scura intitolata ad un magistrato borbonico
che fu poi esule a Genova nel '48, e ministro di
Grazia e Giustizia dopo l'unione del Regno
di Napoli al Piemonte.
Questa strada porta alla Pignasecca, che rappresenta
uno dei maggiori mercati popolari di Napoli, una
coreografia iridescente alternativa di colori, di
voci, di offerte: dalle argentate mostre di pesce a
quelle variopinte di frutta, dai graveolenti banchi
di carne e frattaglie a quelli dorati delle
friggitorie, alle verdure, allo scatolame, ai
sottaceti, la strada offre tutto ciò che è
commestibile ed altro ancora in un disordine
pittoresco, in un caleidoscopio rutilante di colori
troppo forti, di odori troppo vivi, di rumori troppo
stridenti, che stordisce chi non è avvezzo, ed è
esilarante come un gas misterioso per chi nella
città è nato.
Quando questa zona era ancora fuori delle mura di
Napoli qui vi era un orto ameno e fertile di
proprietà del principe Fabrizio PignatelK, chiamato
Biancomangiare, pare, perché durante le gite
che la nobile famiglia vi faceva con gruppi di
amici, dopo le colazioni all'aperto veniva servito
un dolce squisito, detto appunto Biancomangiare,
ricavato da una vecchissima ricetta che altro non
era che... il leucophagon degli antichi
Greci.
Il nome di Pignasecca sembra che derivi da un
albero di pino dell'orto dei Pignatelli che seccò...
per essere stato troppo saccheggiato dagli «
scugnizzi ». Un'altra versione sostiene invece che
su questo pino « le piche depositavano oggetti
preziosi che rubavano nelle case circostanti; invano
la civile autorità cercava dei ladri, finché avendo
l'arcivescovo emanato la scomunica agli autori di
furti, che fu affissa al pino, questi immantinente
seccò, onde il nome di Pignasecca ».
Ritorniamo ora al Corso Vittorio Emanuele, che sta
per terminare, e vi troveremo la Stazione
intermedia della Funicolare che partendo da Piazza
Montesanto conduce a San Martino al Vomero; sulla
destra una ripida scalinata può condurre anche a
piedi a Montesanto. Poco più innanzi a sinistra
troveremo un ottocentesco palazzo sul quale una
lastra marmorea ricorda che vi abitò e morì Raffaele
Viviani, uno dei massimi esponenti del teatro e
della poesia dialettale napoletani.
Troviamo ancora a sinistra l'imponente secentesco
Palazzo Montemiletto,
malamente restaurato nello scorso secolo,
appartenuto alla famiglia Tocco che aveva questo
predicato principesco e poco più avanti giungiamo al
termine del nostro panoramico itinerario in Piazza
Mazzini. Al centro di questo largo, come spesso
accade a Napoli, anziché un monumento a Mazzini,
come ci si aspetterebbe, si trova il Monumento a
Paolo Emilio Imbriani letterato e statista,
opera di Tito Angelini che ha sul basamento dei
medaglioni nei quali sono raffigurati la moglie e i
figli del personaggio.
Dalla destra del monumento parte una strada che
conduce in piazza Gesù e Maria, dove è l'omonimo
Ospedale, i cui locali erano quelli di un
convento domenicano. La annessa
Chiesa di Gesù e Maria
fu costruita su disegno di Domenico Fontana tra la
fine del secolo XVI e la prima decade del secolo
successivo.
L'interno ha interessanti stucchi e affreschi
eseguiti da Giovan Bernardino Azzolino, tra i quali
sono particolarmente da ammirarsi una Vergine del
Rosario nel transetto destro e gli affreschi nei
peducci della cupoletta antistante. Giuseppe e
Bartolomeo Gallo nel 1693 eseguirono il bell'altare
maggiore e la balaustra in marmi di vario colore;
nell'abside si nota un S. Domenico di Paolo
De Maio del 1742 ed a sinistra un pregevole dipinto
di Giovan Bernardo Lama del 1588 raffigurante S.
Anna con S. Pietro e Gesù.
Se volessimo scendere
per la strada che segue, chiamata Discesa o Salita
Pontecorvo, dal cognome di una famiglia che qui
aveva un imponente palazzo gentilizio, troveremmo a
sinistra una chiesa dell'Ordine dei Barnabiti, poi
l'Istituto dei Sordomuti e sboccheremmo infine in
via Tarsia a Montesanto; poiché è la seconda volta
che incontriamo questo nome sarà bene informare il
visitatore che qui è la
Chiesa di S. Maria del Monte Carmelo o di Montesanto
ove è la Tomba del musicista Alessandro
Scarlatti. Ritornando a piazza Mazzini, dove è
terminato il nostro itinerario, osserviamo la via
Salvator Rosa che attraversando la piazza da un lato
scende al Museo Nazionale e dall'altro sale verso il
Vomero |