Home
Su
La storia
A zonzo 1
A zonzo 2
A zonzo 3
A zonzo 4
A zonzo 5
A zonzo 6

 

Piazza Trieste e Trento (San Ferdinando) - Piazza del Plebiscito - Via San Carlo

Che il visitatore giunga a Napoli per via aerea, e quindi da Capodichino, o per ferrovia in piazza Garibaldi, o in auto dall'Autostrada del Sole oppure dall'antica via Domitiana, o ancora che arrivi per via mare alla stazione marittima, noi gli diamo appuntamento nell'antica Piazza San Ferdinando, oggi Trieste e Trento, che riteniamo il vero cuore nonché l'epicentro irra­diante di tutti gli itinerari storico-artistici e turistici della città.

Inizieremo, perciò, e concluderemo qui gli itinerari, in questo piccolo largo tanto caro ai napoletani, che insistono a chiamarlo, anziché piazza Trieste e Trento, S. Ferdinando, col nome che gli deriva dall'antica chiesa dedicata da un re Borbone al suo santo protettore. Visitiamo dunque innanzi tutto questa piazza così asimmetrica e perciò caratteristica e quella adiacente, e più estesa del Plebiscito: dando le spalle a via Toledo, la Chiesa di San Ferdinando è alla nostra sinistra, mentre sulla destra si erge un Palazzo vicereale, attualmente sede di un accogliente circolo cittadino: all'inizio poi della via Chiaja, appare l'attuale sede della Prefettura; lontano si scorgono nella piazza del Plebi­scito i due imponenti monumenti equestri, la Basilica palatina di San Francesco di Paola col suo colonnato ed infine il Palazzo Salerno, sede del Comando della Regione Militare. Di fronte a noi, sulla sinistra, vediamo invece la sontuosa Reggia, nella quale a suo tempo entreremo curando di soffermarci su tutto quanto c'è di bello, soprattutto negli appartamenti, oggi adibiti a museo. Visiteremo altresì, uscendo dalla porta secondaria dei giardini reali, il vicino Teatro San Carlo e la Galleria Umberto I che gli è di fronte, e avremo così percorso il primo itinerario indispensa­bile per chi voglia conoscere un po' Napoli.

Al centro della piazza fa bella mostra di sé la Fontana donata alla città da Achille Lauro quando fu sindaco di Napoli: una vasca circolare che, per la sua forma, è stata prontamente denominata dall'arguzia popolare la fontana del Carciofo.

La Chiesa di San Ferdinando che fa da sfondo, costruita nel secolo XVII dalla Compagnia di Gesù, non è certamente tra le più belle edificate in quell'epoca ma è tuttavia ugualmente molto cara ai napoletani.

Dedicata in origine al santo gesuita Francesco Saverio, martire delle Indie, aveva annessi il convento dei religiosi ed una « scuola di grammatica ».

Occorre qui ricordare che i gesuiti all'inizio non ebbero una vita se­rena nella nostra città, nonostante l'Ordine religioso fondato da Sant'Igna­zio de Loyola fosse di origine spagnola: infatti lo stesso viceré, che per di più all'epoca era 11 cardinale Zapata, non era molto faverevole a que­st'ordine religioso, che visse perciò piuttosto stentatamente finché una gentildonna, la vedova del viceré conte di Lemos Pedro de Castro, Caterina della Cerda y Sandoval, parente del gesuita Francesco Borgia canonizzato poi dalla Chiesa, avendo ricevuto dal re Filippo di Spagna un donativo di 30.000 ducati nella caratteristica formula chiamata « pianelle e gale », che le spettavano perché come viceregina aveva prestato servizio per la Corona, passò la somma ai gesuiti. Questi, finalmente, sollevati dalle loro ristret­tezze, commissionarono al pittore Salvator Rosa un gran quadro raffigurante San Francesco Saverio da porre sull'altare maggiore della chiesa; poiché, però, il dipinto del grande artista non piacque, ne fu ordinato un secondo ad un parente di Salvator Rosa, Cesare Fracanzano, che ugualmente non fu accettato. Si pensò allora di rivolgersi ad un altro illustre pittore del­l'epoca, Luca Giordano. Quest'ultimo, forse perplesso per la sfortuna dei suoi colleghi che avevano avuto l'incarico prima di lui, non si decideva a consegnare il suo lavoro, e il superiore dei gesuiti volle rivolgersi al vi­ceré perché facesse pressione sul pittore. Il marchese del Carpio, quindi, incaricato dal viceré della questione, si recò personalmente a casa di Luca Giordano in vico Carminiello, e con sua grande meraviglia constatò che l'artista non aveva fatto ancora nemmeno il bozzetto. Le minacce del marchese dovettero essere così persuasive che il pittore, abbandonato ogni altro lavoro, si dedicò con tanto zelo all'opera che in sole 40 ore il quadro era terminato e consegnato, e quando il viceré seppe del miracolo di svel­tezza e di bravura compiuto dal Giordano, soddisfatto esclamò che chi aveva fatto tanto doveva essere un angelo o un demonio. Dopo aver am­mirato l'opera, volle conoscerne l'artefice: mandatolo quindi a chiamare ne fu talmente entusiasta che gli fece allestire uno studio nella reggia affinché « nelle ore che potea dispensarsi delle gravi cure del governo po­tesse avere il diritto di veder dipingere Luca ».

Anche un altro grande pittore dipinse per la chiesa di S. Francesco Saverio, Giuseppe Ribera detto lo Spagnoletto, perché nativo di Jàtiva in Spagna. Egli fu l'autore di un pregevole quadro che raffigurava San Bar­tolomeo e che ha anch'esso la sua storia: si racconta infatti che il duca di Ossuna, Pedro Giron, a quel tempo viceré di Napoli, affacciandosi dal suo palazzo notasse un grande andirivieni di gente senza riuscire a comprenderne il motivo. Apprese poi che nella chiesa era stato affisso un quadro dello Spagnoletto talmente bello che tutti accorrevano per ammirarlo. Il duca ordinò allora che il quadro venisse portato al suo cospetto : e tanto sublime ed espressivo dovè apparirgli il dipinto che, entusiasta, commis­sionò all'autore un altro quadro che raffigurasse Sant'Antonio di Padova da donare a questa chiesa.

In effetti il tempio gesuita fu poi sempre protetto dai vari viceré che l'arricchirono di importanti dipinti, fra cui gli affreschi di Paolo De Matteis, discepolo di Luca Giordano. In seguito Ferdinando IV, su proposta del ministro Tanucci, scacciò i gesuiti e, nel 1767 diede la chiesa ai Ca­valieri Costantiniani; Io stesso sovrano volle altresì dedicare la chiesa al suo santo protettore e, quindi, dal 1769 quest'ultima si chiamò « di San Ferdinando »; inoltre il quadro di Luca Giordano che raffigurava San Francesco Saverio fu trasferito nel Museo Borbonico e sostituito da uno raffigurante S. Ferdinando di Antonio Sarnelli, discepolo di Paolo De Mat-teis. Il sovrano borbonico e i suoi successori imposero che a nessuno venisse dato il permesso di interrare i defunti nella chiesa; unica ec­cezione fu fatta per la duchessa di Floridia, Lucia Migliaccio, moglie morganatica di Ferdinando IV, che ebbe sepoltura in un bel Monumento marmoreo di Tito Angelini addossato alla parete del transetto sinistro. Questa donna ebbe grande importanza nella vita del sovrano : figlia del duca di Floridia, Vincenzo, e di donna Dorotea Borgia, nata a Siracusa nel 1770, aveva sposato il principe di Partanna Benedetto Grifeo di cui era poi rimasta vedova ancora in giovane età; aveva quarantaquattro anni quando, poco tempo dopo la morte della consorte Maria Carolina, Ferdi­nando IV volle sposarla morganaticamente. A tutti sembrò molto strano questo matrimonio effettuato a così poca distanza dalla morte della regina e lo stesso figlio del re, Francesco, ne ebbe gran dolore. Alla duchessa di Floridia il re volle offrire una magnifica villa al Vomero, che fu chiamata appunto Floridiana, ed un terreno, entrambi attigui a quella palazzina, de­nominata Villa Lucia dal nome della nobildonna.

Entriamo, dunque, in questa chiesa, non prima però di esserci sof­fermati sulla facciata che, pur non bella, fu disegnata con perizia da Giovan Giacomo Conforto nel 1628 e poi rifatta da Cosimo Fanzago in­sieme   all'abside, al portale e ad alcune cappelle. Nell'interno, che è a croce latina ad unica navata, fanno bella mostra di sé gli affreschi di Paolo De Matteis cui abbiamo prima accennato, rappresentanti, alcuni, Scene di vita dei santi gesuiti Francesco Saverio, Ignazio de Loyola e Francesco Borgia, e altri nei peducci della cupola, Le Virtù teologali della Giustizia; di questi ultimi, quello che mostra San Francesco Saverio da­vanti alle spoglie della regina Isabella è senz'altro uno dei migliori. Gli affreschi esistenti nella cupola sono invece di Giovanni Diano, mentre il San Ferdinando posto sull'altare maggiore è opera di Federico Maldarelli. Sull'altare del transetto destro vi è un Cristo che appare a Sant'Ignazio del napoletano Francesco Antonio Altobello; nel transetto sinistro una Conce­zione di Cesare Fracanzano e due statue raffiguranti David e Mosè che portano la firma di Lorenzo e Domenico Antonio Vaccaro. Nella chiesa ha sede la nobile Arciconfraternita « di San Ferdinando di Palazzo » detta anche « di Nostra Signora dei Sette Dolori », fondata nel lontano 1522 e ospitata un tempo nel demolito tempio di Santo Spirito di Palazzo. Questa pia istituzione, ebbe l'onore di annoverare fra i suoi confratelli anche il re di Napoli Carlo di Borbone e godette della protezione di Giuseppe Bo-naparte e di quella di Francesco I di Borbone. Questi confermò nel 1828 il decreto che stabiliva che la congregazione potesse apporre al suo nome il titolo di « Reale », essendone confratelli anche numerosi pontefici, i reali borbonici e le regine: Maria Amalia, Maria Carolina, Maria Isabella, Maria Teresa, Maria Sofia, nonché principi di casa regnante fra cui il principe di Salerno Leopoldo di Borbone, il conte di Lecce Antonio, il principe di Capua Carlo, il conte di Siracusa Leopoldo, il conte di Trapani Francesco Paolo, il conte di Trani Luigi, il conte di Caserta Alfonso Maria, il conte di Girgenti Gaetano Maria e il conte di Bari Pasquale Maria. Dopo l'av­vento della casa Sabauda, superiore di questa reale associazione fu Vittorio Emanuele III e confratelli la regina Elena e Umberto II, ultimo re d'Italia. In questa chiesa le funzioni sono officiate in modo sontuoso, specie quelle della Settimana Santa; basti pensare che sino a pochi anni orsono nel giorno del venerdì santo venivano celebrate le tre ore di agonia con la partecipazione degli artisti lirici e dell'orchestra del Teatro San Carlo che eseguivano lo Stabat mater del Pergolesi composto proprio in omaggio alla reale confraternita. La chiesa di San Ferdinando, dove è sempre espo­sto il SS. Sacramento, essendo situata nel punto più « strategico » della città, è frequentatissima durante tutto il giorno.

Terminata la nostra visita alla storica chiesa, torniamo in questa piazza che ha un fascino tutto particolare e certamente doveva averne di più negli anni passati, quando gli « elegantoni » si soffermavano davanti allo scomparso Caffè di Vari Boi e Feste situato all'angolo con la via Nardones per attendere il passaggio delle signore che, provenendo dai palazzi magnatizi di Toledo, di Spaccanapoli o di Costantinopoli a piedi o in carrozza termi­navano qui la loro passeggiata, quando non si spingevano fino al mare di Santa Lucia.

Un'ultima nota merita la già nominata Fontana del Carciofo, opera di Comite e del Massari, che appare estremamente sugge­stiva specialmente la sera, quando è illuminata.

Riportandoci ora nuovamente con le spalle a via Toledo, notiamo sulla destra l'antico Palazzo Vicereale, sito di fronte alla chiesa di San Ferdinando, che una volta al piano terra ospitava il Caffè Europa.

In questo edificio hanno avuto sede due circoli e precisa­mente quello del Whist, ora non più esistente, che occupava tutto il primo piano e l'Artistico, ancora oggi molto frequentato.

Sorto nel 1864, tipicamente borbonico e legittimista, anche dopo la venuta dei Savoia, il circolo del Whist era il punto d'incontro di tutti i fedelissimi a casa Borbone: esso ebbe come presidenti nobili personaggi, entrati poi a far parte della nostra storia napoletana. Poi, nel 1919, motivi finanziari portarono alla fusione di questo circolo borbonico con il Nazio­nale, nettamente in antitesi.

Fondato invece nel 1888 da coloro che amavano le arti, le lettere e la cultura, frequentato ancor oggi da tutte le classi professionistiche, il circolo Artistico in primo tempo occupò un ammezzato dello storico pa­lazzo all'angolo di via Chiaja; e in un giorno di carnevale dello stesso anno fu inaugurato con un ballo ed una mostra di pittura di grandi artisti dell'ottocento napoletano come il Morelli, il Dalbono ed il Michetti. I soci furono così numerosi che si diceva che facevano la storia dell'ultimo ot­tocento napoletano con i grandi nomi di Mario Costa, Enrico De Leva, Matteo Schilizzi, Edoardo Scarfoglio, Matilde Serao, Nicola Amore, Matteo Renato Imbriani, Antonio Cardarelli, Mariano Semmola e tanti altri. All'ini­zio di questo secolo, e precisamente con la venuta a Napoli di Cesare Pa-scarella, il circolo organizzò manifestazioni di cultura e di arte: confe­renze, recite, concerti, organizzati da grandi come Pietro Mascagni, Antonio Mancini, Vincenzo Gemito, Carlo Siviero, Matilde Serao e non ultimi Fer­dinando Russo, Adolfo Scalerà, Raffaele Viviani, Salvatore Di Giacomo ed Ernesto Murolo; molto graditi furono altresì i concerti eseguiti con la partecipazione di grandi artisti lirici come Maria Caniglia, Ebe Stignani, Gianna Pederzini, Rosa Raisa, Alessandro Bonci, Fernando De Lucia, Titta Ruffo, Gemma Bellincioni, Aureliano Pertile, Enrico Caruso, Beniamino Gi­gli, Tito Schipa, il baritono napoletano Vito Vittorio con Tatiana Menotti, e il compianto Ugo Romano. Tra i presidenti di questo glorioso circolo, poliedrico per le sue manifestazioni, ricorderemo Luigi Maria Foschini ed il conte Paolo Caracciolo di Torchiarolo, chiamato il presidente « della Lanterna del Molo » per la sua opposizione alla demolizione della lanterna che peraltro lo costrinse a lasciare la presidenza, alla quale fu poi Nicola Sansanelli che si avvalse dell'opera collaboratrice del conte Paolo Minucci. Tutti personaggi che, unitamente a quel grande parlatore che fu Mattia Limoncelli, successore del Sansanelli, i napoletani di certo non hanno di­menticato. Chi dirigeva ed organizzava le mostre di pittura era il grande maestro scomparso lo scorso anno, Francesco Galante ultimo pittore na­poletano del nostro «Otocento»: in esse si poterono ammirare opere del Michetti, di Gemito, di Gabriele Rossetti, di Luigi Crisconio, di Lord Man­cini, di Pasquale D'Angelo e di tanti altri.

Trascurando ora altre notizie non del tutto necessarie e significative, lasciando la piazza Trieste e Trento, così come ufficialmente dovrebbe essere chiamata, attraversiamo via Chiaia, che per noi costituirà un itinerario a parte.

Ci ricevono nell'altra pedana i tavolini variopinti dell'antico Caffè Gambrinus che è incorporato nel Palazzo della Prefettura. Anni addietro, di caffè, nella zona ve ne erano parecchi e special­mente nella via Toledo, ma nessuno poteva competere con il Gambrinus, ad eccezione forse di quel Caffè Europa già men­zionato.

A conferma di ciò, bisogna aggiungere che il proprietario di que­st'ultimo, Mariano Vacca, per non avere la concorrenza del Gambrinus decise di acquistarlo aderendo ad un concorso bandito dall'Amministra­zione Provinciale; fu così che questo caffé divenne il più caratteristico ed elegante di Napoli. In codesto locale, che era considerato dai napoletani il solo vero ritrovo della città, si beveva esclusivamente birra e cioccolata; in seguito però, fu aggiunta anche la sala ristorante, dove si potevano consumare lauti pasti per un prezzo fisso di lire 4,50: il pranzo era com­posto di solito di un consommé, un pasticcio di maccheroni, un piatto di pesce, uno di carne con legumi, verdure o insalata, dolce, formaggio e frutta. Quando il Vacca cedette il locale ai fratelli Esposito, come direttore del rinomato locale fu assunto un  siciliano di nome Ragusa.

L'ingresso principale era quello che dava nella nostra piazza San Fer­dinando, ma ve ne erano degli altri nella piazza del Plebiscito e nella strada di Chiaja. È necessario precisare però che, prima che subentras­sero i fratelli Esposito il locale alla morte di Mariano Vacca avvenuta nel 1893, era passato al figlio di questo, Enrico che volle rinnovare gli ambienti affidando il compito all'architetto Antonio Curri, che aveva stu­diato pittura col De Sanctis, Esposito, Caprile, Volpe e Cambriani e poi  architettura  con  Enrico Alvino.  Era  questi  un  buon  artista  che, divenuto noto anche per la decorazione della vicina Galleria Umberto I, morì però povero nel 1916 in una stanzetta « 'ncopp' 'e quartieri ». Il Curri, nato nel 1848 ad Alberobello, in un primo tempo voleva dare al locale la forma di trullo, ma in seguito si attenne, così come gli era stato richiesto, ad un progetto classico. Assolse il suo compito brillantemente aiutato nella pittura da maestri ed artisti famosi quali il napoletano De Sanctis, allievo di Domenico Morelli e Gioacchino Toma, l'amalfitano Pietro Scoppetta, che dopo aver iniziato a dipingere con De Chirico divenne poi famoso per quel suo Medico del Villaggio acquistato da re Umberto, il Caprile, discepolo di Filippo Palizzi nonché amico di Salvatore Di Giacomo, il piemontese Fabbron della scuola di Gabriele Smargiassi ed Antonio Mancini, il Capone, discepolo prima di Tommaso De Vivo e poi di Ce­sare Fracassini, il ritrattista Volpe, allievo del Morelli e successore del suo maestro nell'insegnamento all'Istituto di Belle Arti, il napoletano Bran­caccio, discepolo ed amico di Edoardo Dalbono, il paesaggista romagnolo Pratella, il Cambriani, appartenente alla cosiddetta « repubblica di Por­tici » e tanto amico del D'Orsi e del De Nittis, il salernitano Esposito, che finì i suoi giorni tragicamente per un amore infelice, il ritrattista Salva­tore Postiglione, allievi di Domenico Morelli, il salernitano Tafuri, se­guace del Gemito e del Curri, l'abruzzese Biondi, discepolo di Gioacchino Toma ed amico di Giuseppe Casciaro, il napoletano poeta e musicista De Curtis, che era figlio del grande decoratore Giuseppe, il Toro, discepolo di Domenico Morelli, il molisano Cocco, discepolo di Michele Cammarano e di Vincenzo Volpe che lasciò belle opere nel Circolo Ufficiali di Pre­sidio del Palazzo Salerno, il poeta napoletano Ragione, allievo di Stani­slao Lista, l'Aldina, nella scuola d'Ignazio Perricci, che si rese celebre per le sue pitture a Palazzo Cellamare e a Palazzo d'Avalos, il pugliese Storrano, allievo di Giuseppe Mancinelli, l'irolli, seguace del Morelli e del Michetti, ed il leccese paesaggista Casciaro, allievo di Filippo Palizzi; per la parte scultorea i lavori furono eseguiti dal napoletano Cepparulo, resosi poi celebre per la statua dell'Italia a pie del monumento di Vittorio Emanuele II in piazza Municipio, dal Renda, discepolo di Gioacchino Toma, dal napoletano Alfano, dal pugliese De Matteis e dal siciliano Sor-tino. Detto ciò, non riteniamo sia azzardato affermare che questo Caffé era una vera e propria galleria d'arte: si trattava infatti di artisti tutti di vasta fama ma ognuno tanto diverso dall'altro per tendenze e gusti da provocare, alla fine dei lavori di rinnovo del locale, un vero movimento artistico-culturale che indubbiamente diede un'impronta indelebile a tutta l'arte figurativa napoletana. Era il tempo dei «Café chantants», pieni di allegria e di mondanità; anche il nostro Coffe, dunque veniva frequentato assiduamente da tutto il bel mondo napoletano e non mancavano i più bei nomi del mondo artistico e culturale.

Il Gambrinus divenne un vero cenacolo d'arte e di cultura, in quanto era frequentato anche da scrittori e giornalisti dell'epoca dei quali ricor­diamo Decio Carli, il Dell'Erba, La Rotonda, Roberto Bracco, Salvatore Di Giacomo, Ferdinando Russo, Eduardo Scarfoglio e Gabriele D'Annun­zio che spesso era solito incontrarvisi con la sua amica contessa Anguissola. Non mancavano uomini politici come Francesco Girardi o il Marchese del Carretto o ancora imponenti cattedratici come Giorgio Arcoleo, Enrico Pes-sina e Luigi Miraglia, principi del foro come Enrico De Nicola e Camillo Porzio, letterati come Mario Giobbe, Ettore Marroni, Saverio Procida, Adolfo Scalerà, Vittorio Pica, Valentino Gervasi e Nicola Daspuro, autore quest'ultimo del libretto dell'opera di Pietro Mascagni « L'amico Fritz ». Gli artisti napoletani c'erano tutti, da Luca Postiglione a Vincenzo Migliaro, da Pietro Scoppetta a Giuseppe De Sanctis, da Edoardo Casciaro all'ungherese Sigismondo Tawsky.

S'intende che il caffé era frequentato anche dalla buona borghesia che amava gustare un « sorbetto » o accanirsi su uno di quei « pezzi duri » che, sino agli inizi dell'ultima guerra mondiale, erano da considerarsi il vero cavallo di battaglia dello storico Gambrinus. I tavolini più richiesti erano quelli che stavano nella Piazza del Plebiscito perché era possibile vedere un continuo viavai di gente ed assistere al cambio della guardia del Palazzo Reale che rappresentava pur sempre, come del resto oggi in altre nazioni,   un'attrattiva.

Oggi il caffé esiste ancora, ma in condizioni di ambiente molto ri­dotte, senza dire che è frequentato soprattutto da persone di passaggio; gran parte dei locali è occupata da un'agenzia bancaria e lasciamo al tu­rista il commento su questa decisione, non prima però di essere entrati all'interno per ammirare quanto rimane di quello che fu il famoso Gambrinus, il vertice mondano, artistico, letterario e politico della città. C'è chi l'ha chiamato l'ultimo « seggio di Napoli », e chi « il cataletto » della Na­poli ottocentesca, ma è certo che questa è stata la vera culla dell'ottocento napoletano.

Questo caffé, anello di congiunzione tra le due note piazze, tutt'oggi è spesso teatro di dimostrazioni popolari, in quanto il palazzo in cui ha sede ospita la Prefettura, ed è anche residenza del rappresentante del go­verno, il Prefetto di Napoli, commissario governativo della Regione.

Nel 1938 il caffé venne soppresso mentre era prefetto di Napoli Mar­ziale, e all'epoca alcuni dissero che la moglie, malata di nervi, non potesse più sopportare i suoni delle orchestrine e la voce dei rumorosi frequen­tatori del locale; è certo comunque che il prefetto Marziale decise di sopprimere questo storico caffé, diventato un vero semenzaio di barzellette antifasciste e  perciò  assolutamente  non  tollerate  dal  regime  totalitario.

Il Palazzo della Prefettura, al cui piano terra, come si è detto, è quanto rimane del Caffè Gambrinus, è l'antico palazzo della Foresteria destinato ad alloggiare ospiti di casa Borbone.

Costruito dall'architetto Laperuta intorno al 1815, l'edificio ospitò al piano terra, sin dall'epoca borbonica, la famosa Libreria Detken e Ro­dioti, che vantava una bottega di antiquariato veramente importante, oltre ad un archivio di notizie e manoscritti su tutte le famiglie napoletane. Soltanto qui si potevano acquistare gazzette e giornali stranieri e per questa vendita la libreria era divenuta un focolaio di reazione antiborbo­nica. Poiché i guadagni erano rilevanti i due titolari si decisero a diven­tare editori; oggi, comunque, quella libreria famosa è solo un ricordo.

Sulla destra di codesto imponente stabile si erge la superba Basilica palatina di S. Francesco di Paola, mentre il Palazzo Salerno ed il Palazzo Reale sono situati rispettivamente di fronte ed a sinistra dell'edificio stesso.

La magnifica piazza del Plebiscito che può dirsi la continuazione di Piazza San Ferdinando altro non è che l'antico Largo di Palazzo, ricco di monasteri e conventi, eretti poco distanti l'uno dall'altro: tra questi ri­cordiamo quello della SS. Croce, quello di Santo Spirito, di San Luigi, di San Giovanni ad lampades, di San Marco, e quello della Congrega dei la-naioli e tessitori. Il più antico tra tutti era quello della SS. Croce, dove Roberto d'Angiò fece seppellire le spoglie del nipotino Carlo Martello; la sua fama è inoltre legata al fatto che la regina Sancia, dopo la morte del re Roberto, volle rinchiudersi proprio lì dove morì e fu sepolta nel 1345.

Anche il convento dì Santo Spirito era molto antico, poiché fu co­struito nel 1326 dal principe Landolfo Caracciolo; mentre il monastero della SS. Croce doveva sorgere dove oggi si trova il Palazzo Salerno, questo convento si trovava dove è oggi il Palazzo della Prefettura ed era officiato dai monaci armeni di San Basilio che nel 1448 furono sostituiti da dome­nicani. Il convento di San Giovanni ad lampades, poi, doveva essere dove è oggi San Francesco di Paola, e quando questo santo venne a Napoli lo occupò con i frati del suo Ordine che per umiltà volle chiamare « minimi ». Il monastero venne poi occupato da altri confratelli di San Francesco ed ingrandendosi mutò di nome chiamandosi invece di San Luigi e Martiniello.

Nel 1555 fu costruito il Regio Palazzo, chiamato poi Palazzo Vecchio per distinguerlo dall'attuale Reggia, e ciò portò alla demolizione del con­vento di Santo Spirito, che fu fatto ricostruire dal viceré Francesco Alvarez Ribera in una traversa di Chiaia con lo stesso nome. Il palazzo vec­chio fu edificato dagli architetti Ferdinando Maglione e Giovanni Benincasa, affrescato da Matteo Lama e decorato da Giovanni Tommaso Villani. Fu soltanto dopo la costruzione di questo Palazzo Regio, che la piazza ebbe il nome di Largo di Palazzo. In questo largo vi era anche la famosa Fontana di Fonseca che prese il nome dal Viceré, conte di Monterey. Essa fu costruita dall'architetto Cosimo Fanzago, e la famosa statua che la adornava fu  chiamata il  Gigante  perché  era una gigantesca figura priva degli arti, elemento di scavo rinvenuto nel Tempio dei Giganti. Era pog­giata su una base in marmo che originariamente portava impressa una lunghissima iscrizione latina, andata poi perduta verso la fine del secolo XVIII. C'era chi diceva che il Gigante raffigurasse Giove Terminale, chi Giove Olimpico, mentre altri invece la ritenevano semplicemente un'erma; certo di valore artistico ne aveva ben poco, anche se una certa impor­tanza storica le va riconosciuta. Era il Pasquino napoletano e mentre al Pasquino di Roma che è nei pressi di piazza Navona si affìggevano le sa­tire al governo papale, presso la Statua del Gigante a Napoli si trovavano  <<pasquinate>> che, non avendo alcun valore letterario, erano delle satire a sfondo politico. Queste pasquinate divennero ben presto uno strumento di vendetta o di critica o peggio ancora di accuse anonime contro i vari viceré: si ritiene che molte di queste satire fossero opera di Salvator Rosa che le inviava da Roma, se ne sospettò anche Ferdinando Galiani, l'abate Lorenzi e il poetastro Onofrio Galeota, ma certo questo « Pasquino » napoletano fu principalmente un annunziatore di critica politica. Infatti nel periodo repubblicano del '99 mise la coccarda di giacobino, mentre le truppe del cardinale Ruffo Io fecero diventare realista. Durante il decurìonato francese queste satire cominciarono a non essere più sopporta­bili; inveivano addirittura contro re Giuseppe Bonaparte. Una mattina giunse l'ultima frecciata: era il « testamento» del Gigante che lasciava « la testa al Consiglio di Stato, le braccia ai ministri, Io stomaco ai ciambellani; le gambe ai generali » e poi soffermandosi su alcuni particolari... tutto il rimanente a re Giuseppe Bonaparte. Fu così che fu ordinata prima la de­molizione della statua e poi il suo ricovero in un magazzeno della reggia. In piazza del Plebiscito avevano luogo feste popolari fra le quali non si può dimenticare quella famosa della «Cuccagna»: in tale occasione, proprio davanti al Palazzo Regio, veniva innalzato un albero su di una col­linetta ricoperta di prati ed alberelli su cui venivano appesi i migliori sa­lami e caciocavalli delle province napoletane; da alcune fontanelle, inoltre, sgorgava vino bianco e rosso, e il popolo si divertiva così a « saccheg­giare » tutte quelle leccornie prelibate. Tralasciando le « Cuccagne » che di volta in volta vennero organizzate dai viceré, occorre ricordare quella che si fece per l'arrivo di Carlo di Borbone, poi preparata allo stesso modo quando Ferdinando IV salì sul trono di Napoli.

Domina al centro della piazza il colonnato ad emiciclo che è quanto rimane del Foro Murat voluto da re Giacchino, opera per la quale fu posta la prima pietra il 25 marzo del 1809, giorno in cui ricorreva il genetliaco del sovrano francese che pur si distinse durante il suo breve regno napoletano. Ferdinando di Borbone lo volle poi a corona della Basilica Palatina di San Francesco di Paola, costruita per un voto che aveva fatto se fosse riuscito a riconquistare il regno dai francesi.

Quando la chiesa fu edificata, sembrò adempiersi una profezia di San Francesco di Paola, il quale avrebbe detto a Ferrante d'Aragona che in quel luogo sarebbe stato un giorno eretta una chiesa splendida e quello spiazzo sarebbe diventato il più importante della città. Fu quindi ema­nato un regolare bando per la costruzione di questo monumentale tempio ed il concorso fu vinto dallo svizzero italiano Pietro Bianchi di Lugano, discepolo del Tiranesi.

All'architetto « fu imposto lo spazio rinchiuso tra i due palazzi della Foresteria e del principe di Salerno », ma gli fu ingiunto che l'altezza del tempio non dovesse superare quella della reggia.

La costruzione della chiesa fu decretata però soltanto nel 1816 e l'opera terminò nel 1846 « ricca di marmi, ma quanto speciosa per dipinti e sculture da commettere a' migliori artisti sì napoletani che forestieri senza ri­guardi a spese ». Non mancarono però le critiche, anche se si disse che gli artisti, pur non dei migliori, avevano portato a termine una chiesa eccellente che ricordava il Pantheon di Roma. Bellissime appaiono all'osservatore la magnifica cupola e la facciata nonché l'importante pronao su sei colonne a due pilastri ionici, il tutto coronato da un triangolare tim­pano ove spiccano le statue raffiguranti San Francesco a sinistra, San Ferdinando sulla destra ed al centro, sul vertice, la Religione.  L'interno, preceduto da un atrio formato da cappelle laterali, è costituito da una ro­tonda centrale sulla quale si eleva la cupola alta 53 metri e sorretta da trentaquattro colonne corinzie e trentaquattro pilastri in giro esterno, tutti in marmo di Mondragone così come i confessionali e l'altare che, pur es­sendo stato costruito prima delle disposizioni del Concilio Vaticano II, è rivolto verso i fedeli; finemente intarsiato di porfido, di agate, diaspri di Sicilia e lapislazzoli, opera di Anselmo Cangiano del 1641, era prima nella chiesa dei SS. Apostoli.

Nell'interno della chiesa, nudo e molto ampio, vi sono otto statue lungo le pareti. Da destra: San Giovanni Crisostomo, opera di Gennaro Cali, Sant'Ambrogio, di Tito Angelini, San Luca, di Antonio Cali, San Matteo, del Finelli, San Giovanni Evangelista, di Pietro Temerani, San Marco, di Giuseppe De Fabbris, Sant'Agostino, di Tommaso Arnaud e San­t'Atanasio di Angelo Solari, che è poi l'autore di quelle statue sul porticato raffiguranti la Fortezza e l'Umiltà. I dipinti non sono di gran valore artistico: notiamo da destra un San Nicola da Tolentino di Natale Carta, che è l'autore del San Francesco di Paola, La Comunione del Santo di Pietro Benvenuti, Il Transito di San Giuseppe di Camillo Guerra e l'Im­macolata di Tommaso De Vivo, che è anche l'autore della Morte di San­t'Andrea.

Tra la prima e la seconda cappella vi è la sacrestia, ove si possono ammirare due quadri, e precisamente la Circoncisione di Antonio Campi del 1586 ed un'altra Immacolata del piacentino Gaspare Landi della fine del secolo XVIII, mentre nell'abside una magnifica tela del romano Vincenzo Camuccini raffigura San Francesco di Paola che risuscita un cadavere. Uscendo dalla chiesa, ammireremo le quarantotto colonne di questo por­ticato che sono di pietra di Pozzuoli come i pilastri, gli zoccoli e i capi­telli, mentre le cornici e le lastre convesse della cupola sono di pietra calcarea di Gaeta.

Fuori dalla chiesa, a destra, vi è una stradina piuttosto erta con delle scale attraverso le quali si arriva alla piazzetta Deme­trio Salazar, intitolata al pittore e patriota calabrese, che, fu ferito nei moti del '48 e partecipò anche a quelli di Parigi, ove fu arrestato per il colpo di stato del 2 dicembre; la dedica a questo artista è giustificata anche dal fatto che il Salazar ebbe il merito di fondare l'Istituto d'arte sito appunto in questa piazzetta. Il piccolo largo precedentemente era chiamato « della Croce alla Paggeria » per ricordare sia l'antico convento ove, come si è detto, morì e fu sepolta la regina Sancia, sia la Real Paggeria, vale a dire la scuola dei paggi di corte chiusa nel 1730 per la decisione del re di scegliere i suoi 12 paggi tra i cadetti della Real Accademia Militare; Francesco I di Borbone soppresse poi questa istituzione nel 1825.

Alla metà del secolo scorso, dopo che fu fondato il Real Istituto di Incoraggiamento per le Arti, che doveva servire per avviare i giovani allo studio dell'arte e del lavoro artistico, alcuni personaggi napoletani, come Carlo Santangelo ed il Novi, fondarono questo istituto che però fu realiz­zato soltanto nel 1878 per opera di un comitato costituito da Demetrio Salazar, Saverio Altamura, Gaetano Filangieri, Domenico Morelli e Filippo Palizzi con la collaborazione del ministro della Pubblica Istruzione Fran­cesco De Sanctis e di Enrico Alvino e Gioacchino Toma. L'istituto riunì scuole di vario indirizzo artistico e col tempo ospitò anche un museo, per desiderio dei grandi pittori Filippo Palizzi e Domenico Morelli, mentre il cortile finemente maiolicato veniva trasformato in un ameno giardino con piante pregiate offerte dall'Orto Botanico e dall'Istituto Agrario di Portici. Primo presidente dell'Istituto d'Arte fu il principe Filangieri che ebbe anche l'idea di far maiolicare dagli stessi allievi la facciata dell'Isti­tuto. Attualmente l'istituto accoglie scuole di disegno e di plastica, laboratori d'insegnamento pratico, scuole di decorazioni pittoriche, di scultura, di arti grafiche, di ceramica, di ebanisteria, di decorazione in ferro e in cuoio. Il portico appare però, oggi, molto danneggiato ed è un vero peccato in quanto il rivestimento di ceramica policroma, realizzato dagli al­lievi di Domenico Morelli e di Filippo Palizzi, è davvero splendido. Molto interessante è altresì il museo ricco di opere d'arte, di campioni di pavimenti eseguiti per il Vaticano, tessuti copti del V secolo, vasi di scavo e resti di pavimenti pregiati in maiolica, ceramiche di Capodimonte, Giustiniani, tedesche e rustiche; di notevole bellezza sono inoltre il pavimento settecentesco al primo piano e i dipinti di Domenico Morelli e di Filippo Palizzi esìstenti nell'ufficio del presidente della scuola.

Percorrendo ora a ritroso la stessa stradina, ritorniamo nella nostra Piazza del Plebiscito, dove, subito a destra, un modesto ingresso con una rustica scalea immette in quel che rimane della Chiesa del Monastero della SS. Croce, attigua al Palazzo Salerno, che attualmente non conserva nulla che possa ricordare la bel­lezza e l'importanza dell'antico convento. Prima di parlare del Palazzo Salerno, osserveremo le statue equestri, simmetrica­mente disposte, raffiguranti Carlo e Ferdinando IV di Borbone.

Quest'ultima è del Canova ed il cavallo, bellissimo, ricorda la razza di Persano, mentre nella prima scultura il personaggio è del Cali ed il cavallo del Canova. Una nota curiosa riguardo a quest'ultima statua eque­stre: essa mostra sulla groppa re Carlo, mentre avrebbe dovuto esservi Napoleone, in quanto l'opera era stata commissionata nel 1807 da Giuseppe Bonaparte. Ferdinando IV, ritornato sul trono, fece chiamare il Canova e gli confermò l'ordinazione, a patto che il cavaliere fosse il primo re della dinastia dei Borbone. Su queste due statue equestri del 1860 il popolo, che si era « liberato » dei Borbone, voleva sfogare il suo odio, ma il cappel­lano dei garibaldini, padre Gavazzi, cercò di far capire ai forsennati che si trattava di due opere d'arte e che... in seguito avrebbero sempre potuto mettervi su Vittorio Emanuele e il dittatore Garibaldi! E così le due statue rimasero fortunatamente al loro posto ed ancora oggi le possiamo ammirare.

L'edificio che si trova sulla destra della piazza guardando la reggia è il Palazzo Salerno, attualmente sede del Comando della Regione Militare Meridionale.

Esso fu costruito dove era prima il convento dei frati Riformati nel 1775, quando Ferdinando di Borbone volle vicino alla sua Reggia il Batta­glione Cadetti, un corpo che si era distinto valorosamente nella battaglia di Velletri. Questo corpo scelto, formato da circa 300 uomini, era stato ri­costituito nel 1772 allo scopo di preparare i giovani alla carriera delle armi col grado di ufficiale; comandante ne era il re, colonnello governatore e direttore il maresciallo di campo di S.M. don Francesco Pignatelli, e ispet­tore il colonnello Scalfati. Nel 1775 questi ultimi due provvidero alla tra­sformazione del convento in caserma. Il palazzo subì poi un'ulteriore mu­tamento nel 1791, quando ospitò prima il ministro Acton e poi i vari mi­nisteri di Stato. Nel 1825, questi furono trasferiti al palazzo San Giacomo, oggi sede del Municipio di Napoli.

Il Palazzo nel 1798 per ragioni di simmetria fu rifatto dall'architetto Francesco Securo con la facciata, uguale a quella del prospiciente palazzo della Foresteria, oggi sede della Prefettura. L'ala che sopravanza fa parte invece della primitiva costruzione e conserva ancora il nome di Palazzo Croce, derivatogli dal vecchio convento che vi era un tempo, del quale resta soltanto la chiesetta.

Il Palazzo Salerno prese il nome dal predicato del principe Leopoldo Giovanni Giuseppe di Borbone, figlio di Ferdinando IV e Maria Carolina d'Austria che vi abitò per circa cinque lustri. Egli fu prima comandante del Corpo Volontari Nobili di Cavalleria, poi Comandante Generale ed Ispettore della Guardia Reale e infine a capo del Corpo di spedizione delle truppe na­poletane, siciliane ed inglesi per la riconquista del regno occupato dalle truppe francesi di Gioacchino Murat. Tornato a Napoli da Vienna, dove si era recato per fidanzarsi con la quindicenne arciduchessa Maria Cle­mentina,   fu  nominato  Presidente del Supremo Consiglio di Guerra e si stabilì nel palazzo tra il 1825 ed il 1826 rimanendovi sino al giorno della sua morte, avvenuta il 10 marzo del 1851.

In effetti, le notizie che si hanno di questo edificio sono poche ed incerte fino alla data dell'Unità d'Italia, quando esso diventò sede del I Comando Militare Italiano, chiamato il Comando Generale Militare delle Province Napoletane, con a capo il Conte della Rocca generale Enrico Morozzo. Questi ne prese possesso dopo aver debellato a Capua le truppe borboniche con il V Corpo dell'esercito piemontese, e da allora Palazzo Salerno è stato sempre sede dei vari comandi militari succedutisi a Napoli.

Può interessare sapere che sotto questo edificio vi è stato per un certo periodo il Caffé Turco che come il Gambrinus aveva tavoli sulla strada ed offriva agli avventori spettacoli di varietà. Vi diedero spettacoli Adolfo Narciso, macchiettisti e comici dell'importanza del Mongelluzzo. Durante la guerra libica del 1911 il locale fu chiamato invece Caffé Tripoli, e dopo la grande guerra chiuse per sempre i  suoi battenti.

Di notevole interesse senza dubbio è la storia della Reggia, la cui costruzione fu decisa alla fine del secolo decimosesto, in previsione di una visita di Filippo III, per sostituire il Palazzo Regio o, come fu chiamato poi, Palazzo Vecchio, che sembrava inadeguato ad accogliere il re di Spagna con il  suo  seguito.

L'altro palazzo doveva esistere sin dal 1555, come si deduce da un'an­tica cronaca dove è riportato che « a Mastro Matteo De Lama erano stati dati ben 125 ducati per le pitture fatte nelle stanze del Regio Palazzo et a Poggio Reale ». Si ritiene che gli architetti di questo Palazzo Vecchio, che era stato decorato in stucco ed oro da Giovanni Tommaso Villani, siano stati Ferdinando Maglione e Giovanni Benincasa. Dopo la sua costruzione il Largo si chiamò appunto « di Palazzo » mentre la piazza San Ferdinando era in quel tempo chiamata Largo di S. Spirito.

Durante il vicereame del conte di Miranda, vale a dire fin dal 1593, l'architetto Domenico Fontana era « ingegnere maggiore » della città e del regno; a lui fu affidato il progetto della costruzione dell'attuale Reggia, che fu però realizzato solo nel 1600 dal viceré conte di Lemos don Ferrante Ruiz de Castro y Andrado quando si seppe che Filippo III aveva deciso di visitare Napoli il palazzo regio o palazzo vecchio, infatti, non fu ritenuto degno di ospitare un re di Spagna e per questo si pensò di sfruttare l'an­tica idea del conte di Miranda scegliendo un'area che da Castelnuovo giungesse sino alla salita del Gigante con un prospetto principale di 520 palmi di lunghezza e 110 di altezza. Domenico Fontana, dopo aver effettuato il progetto, volle sottoporlo al viceré per l'approvazione, che fu peraltro immediatamente data e quando di lì ad un anno morì il conte dì Lemos, il figlio Francesco, che era il capitano ed il luogotenente generale del regno, si preoccupò di continuare l'opera intrapresa; oggi, ai lati del­l'ingresso centrale, due lapidi ricordano i due uomini.

Il Fontana, che era stato anche architetto di Sisto V, si era già distinto per il Palazzo Lateranense, la scalinata di Trinità dei Monti, l'ac­quedotto dell'Acqua Felice, e la sistemazione del Quirinale. Aveva inoltre curato personalmente l'erezione degli obelischi di piazza San Pietro, di Santa Maria Maggiore e di San Giovanni in Laterano, oltre alla costru­zione della cupola di San Pietro sul tamburo di Michelangelo. Per questo lavoro, al quale collaborò con lui Giacomo Della Porta, non gli furono risparmiate, anche per invidia, critiche, a volte severe, tanto che si finì per non attenersi completamente al disegno originario. Soprattutto l'osteg­giò un suo collega, Giovan Battista Cavagna che, romano, mal sopportava che nella sua città tanti lavori portassero la firma del Fontana che invece era nativo di Melide, in Svizzera. Non pago di palesare a chiunque la sua disapprovazione, il Cavagna volle metterla persino per iscritto in un opuscoletto.

Ritornati alla Reggia, vi entreremo, accedendo al primo cortile, rimasto come era nel disegno originario del Fontana, ad eccezione di qualche variante effettuata da Ferdinando II intorno al 1838 e di altre apportate dai successori del Fontana, cioè il figlio Giulio Cesare, Bartolomeo Picchiatti, Onofrio Antonio Gìsolfi e Francesco Antonio Picchiatti. Esso fu poi re­staurato da Gaetano Genovese, quando aggiunse dei corpi di fabbrica ai lati e alle spalle  della reggia per aumentarne la mole. Anche la facciata e l'esterno conservano la forma originaria, tranne che per i balconi che prima erano isolati e poi furono uniti in un'unica loggia; una modi­fica fu apportata anche nel portico poiché il Vanvitelli, per aumentarne la solidità della costruzione, propose la chiusura alterna dei varchi e ri­cavò nelle arcate chiuse delle nicchie, che poi, come vedremo, furono usate per la collocazione delle otto statue dei re di Napoli.

La Reggia era costituita originariamente da tre corpi principali, quello verso il mare con finestre al primo piano, quello occidentale che dava sul largo del Palazzo e quello settentrionale che dava più o meno nell'at­tuale Teatro San Carlo: essa, in un primo tempo chiamata Palazzo Nuovo, avrebbe potuto ospitare il sovrano e la sua corte, ma poiché Filippo III disdisse la sua visita, fu adibita a residenza dei viceré. Una sera del lu­glio del 1647, con una carrozza di corte tirata da sei cavalli bianchi e scortata da alabardieri e lacchè, vi giunse Masaniello per essere ricevuto dal viceré, mentre la viceregina si intratteneva con la moglie del pescatore rivoluzionario, Bernardina Pisa; non passò molto tempo, però, che Bernardina e la madre del pescatore tornarono per chiedere misericordia ed aiuto.

Nel periodo vicereale si diedero in questa reggia molte feste, memo­rabili soprattutto quelle date quando Filippo IV nel 1657 ebbe finalmente un erede; all'insegna del gran lusso furono altresì le feste date dal viceré spagnolo Pedro d'Aragona che consumò tanto denaro per l'organizzazione dei suoi ricevimenti da lasciare al Tesoro un debito di 500.000 ducati mentre in cassa ve ne erano soltanto 700! Durante il vicereame austriaco l'im­portanza della reggia scemò sensibilmente, ma del resto i trentadue anni di questa dominazione rappresentano una delle parentesi più scialbe della storia napoletana; con la venuta a Napoli di Carlo di Borbone, infine, il palazzo divenne  una vera reggia.

Poiché i viceré austriaci avevano ridotto il palazzo in condizioni pre­carie, il sovrano e la sua consorte Maria Amalia, figlia di Augusto III di Sassonia re di Polonia, ebbero cura di apportarvi le necessarie modifiche e di compiervi gli opportuni lavori di restauro: gli appartamenti furono abbelliti con decorazioni ed affreschi di Domenico Antonio Vaccaro, del Ricciardello, del Rossi, del Righini e del De Mura, che affrescò anche egregiamente l'alcova dei reali. Grande fasto ebbero i festeggiamenti dati nel 1739 per le nozze del fratello del re e nel 1740 per la gravidanza ed il parto della regina. Si susseguirono ricevimenti diplomatici e molta festa si fece il giorno dell'onomastico della regina, il 12 luglio del 1740.

Morto il fratello Ferdinando VI, re Carlo, come si è detto, andò a cin­gere la corona di Spagna, dopo che una giunta di ministri e di medici ebbe decretato che il primogenito era di malferma salute egli volle abdi­care in favore del figlio Ferdinando. Con Ferdinando IV il Palazzo Reale visse un periodo di massimo splendore, specialmente al tempo delle nozze con Maria Carolina d'Austria: esso ospitava i reali quando questi non erano nella reggia dì Caserta, che finì col diventare per la corte borbo­nica una  « maison  de  plaisance ».

Anche durante il periodo francese la nostra reggia fu oggetto di cure ed attenzione : gli appartamenti furono infatti arricchiti di mobili e sup­pellettili francesi, che Carolina Bonaparte aveva portato con sé dall'Eliseo, e grandiosi festeggiamenti vennero organizzati per ricevere la nuova regina di Napoli, sorella del grande Napoleone; quando poi Murat, sconfitto dagli austriaci, partì per la Francia, anche la regina Carolina dovè andare via dalla reggia che aveva sontuosamente arredata. Ella aveva infatti fatto ri­vestire il suo appartamento di raso bianco e specchi, aveva fatto trasfor­mare il suo « boudoir » e le « toilettes » sì che quando Ferdinando IV tornò a Napoli, dovè essere soddisfatto di riscontrare nei suoi apparta­menti tante migliorie. In seguito, sotto il regno di Ferdinando li, un incendio distrusse gran parte dell'edificio; si provvide quindi a ricostruirlo, creandovi la nuova grande ala verso l'arsenale. Furono ingrandite le* ter­razze superiori; su quella a mezzogiorno, venne creato il giardino pensile, mentre l'altra, quella che dà verso il San Carlo, fu chiusa da una vetrata.

Riguardo alla facciata della reggia, aggiungeremo che in quelle nicchie ricavate sotto gli archi chiusi, per desiderio di Umberto I di Savoia fu­rono poste le statue dei re di Napoli che risultarono però troppo grandi e sproporzionate. Ne riportiamo il personaggio e il relativo autore, a par­tire dalla sinistra: Ruggero il Normanno di Emilio Franceschi, Federico II di Svevia di Emanuele Caggìano, Carlo I d'Angiò di Tommaso Solari, Alfonso I d'Aragona di Achille d'Orsi, Carlo V di Vincenzo Gemito, Carlo di Borbone di Raffaele Belliazzi, Gioacchino Marat di Giovan Battista Amendola ed in ultimo Vittorio Emanuele II di Savoia di Francesco Jerace. Data la scarsa profondità delle nicchie, le statue effettivamente sembrano straripare dallo spazio loro assegnato: inoltre la figura di Federico II è piuttosto scialba, quella di Alfonso d'Aragona alquanto inespressiva, la sta­tua di Carlo V sembra del tutto ingiustificata in quanto questo re con Napoli non ha avuto mai gran che da fare; Gioacchino Murat è un po'... troppo maschio nella sua baldanzosa divisa, mentre re Vittorio appare statico e  senza alcuna espressione.

Dal cortile principale del palazzo, di cui sopra abbiamo scritto, si accede al primo piano, un tempo sede dei viceré e poi dei sovrani bor­bonici, attraverso il maestoso scalone costruito dal Picchiatti nel 1655, ai cui lati si ammirano quattro statue raffiguranti la Giustizia, la Fortuna, la Clemenza e la Prudenza, rispettivamente opere di Gennaro Cali, di An­tonio Cali, di Tito Angelini e del Solari.

La balaustra dello scalone d'onore e la scalea stessa furono restaurate dal Genovese dal 1838 al 1842 con marmi policromi di Trapani, di Vitulano e di Sicilia. Alla sommità dello scalone vi è una loggia che gira intorno al cortile e dà accesso all'Appartamento Storico; subito a destra vi è in­vece l'ingresso al  Teatro  di Corte.

Questo Teatro di corte ai tempi dell'architetto Fontana non esisteva né era prevista la sua costruzione.

In seguito, poiché ai viceré piacevano gli spettacoli teatrali, ma per questione di prestigio non potevano recarsi a vederli nei teatri pubblici, si volle adibire a teatro la Gran Sala al primo piano, fornendola di un palcoscenico: in tal modo la famiglia vicereale e i dignitari di corte po­tevano assistere a rappresentazioni teatrali quando volevano. Sotto i viceré conte di Lemos, duca d'Ossuna, duca d'Alba, e conte di Monterey, furono spesso rappresentate farse, egloghe e commedie in spagnolo, in lingua italiana o in dialetto napoletano e anzi, a dir di Giovanni Vincenzo Impe­riali e del cardinal Savelli, sotto il vicereame del conte dì Monterey ogni lunedì a palazzo vi era una diversa rappresentazione teatrale che destava ammirazione, oltre che per la bravura degli attori anche « per i sollazze­voli intermedi e le macchine giranti ».

Nel 1651, durante il vicereame del conte d'Ognatte, fu rappresentata per la prima volta a Napoli la commedia in musica, non nella Gran Sala ma in un locale a pianterreno che era adibito prima « per giuoco della palla ». La famosa compagnia dei « Febi armonici » interpretò uno dei primi drammi musicali che siano stati rappresentati a Napoli, « L'inco­ronazione di Poppea » del Monteverdi, e da questo palcoscenico i drammi musicali passarono poi nei teatri napoletani. Nel 1696, sotto il viceré duca di Medinacoeli, continuò l'esecuzione di opere in musica e, questo no­biluomo, un gran donnaiolo, si contornò di una corte di gaudenti di cui facevano parte cantanti come la famosa « Giorgina », Angela Voglia che Io aveva raggiunto a Napoli venendo da Roma. Essa, riuscita a sfuggire alla gendarmeria pontificia per la protezione di Cristina di Svezia e per la debolezza di papa Innocenzo XI quando stava per essere acciuffata, fu nominata dal viceré dama di corte della viceregina! Questa sgualdrina portò il parapiglia nella corte vicereale sia per la sua civetteria che per la gelosia del suo protettore che al suo ritorno in Spagna, nel 1701, volle portarla con sé; nel 1709 il duca, che aveva l'incarico di ministro degli esteri, dopo essere stato accusato di svariate colpe, morì, si disse, di ve­leno, e la « Giorgina » fu  scacciata dalla Spagna.

I migliori attori del tempo calcarono il palcoscenico del teatrino di corte, fra cui Geronimo Favella, il Frittellino, ovvero Pier Maria Cecchino, Silvio Fiorillo, Gabriello Costantino, Giulia de Caro e quasi tutte le ma­schere napoletane con a capo Pulcinella, don Anselmo Tartaglia e Coviello.

Nei trentadue anni di vicereame austriaco il teatrino ebbe un periodo di stasi, ma dopo la venuta di Carlo di Borbone, esso conobbe il suo pe­riodo aureo: la sala fu arricchita di lampadari e specchi e nel 1768, poi, si diede incarico a Ferdinando Fuga di trasformarla in un teatro di corte vero e proprio. Le pareti quindi furono divise in lesene con capitelli do­rati e mensole, fu creata una grande balaustra decorata e adornata con maschere dorate ed al centro fu messo il palco reale. Nel 1789 poi Antonio Dominici, con la collaborazione di Giovan Battista Rossi e Crescenzo La Gamba, decorò il soffitto con dipinti allegorici, mentre in dodici nicchie furono poste delle statue di cartapesta rappresentanti le Muse, Apollo, Mi­nerva  e Mercurio, opere dello scultore Angelo Viva. L'incendio del 1838 danneggiò anche il teatro ma poi, insieme ai lavori di rifacimento e di restauro, vi furono effettuate delle altre decorazioni: altre modifiche, dopo il 1860, furono apportate da Ignazio Perricci. Gli eventi bellici del 1943, infine, causarono ulteriori disastri, poiché andò distrutta la volta del tea­tro, ma si salvarono le statue del Viva. Per un certo tempo la sala fu adoperata per le rappresentazioni di spettacoli cinematografici per le truppe alleate, e solo nel 1950 furono iniziati i lavori di restauro, oltre che del teatro, di tutto l'appartamento storico; si cercò di restituire al teatrino l'originaria linea settecentesca provvedendo alla ricostruzione del tetto e del palcoscenico ed al restauro delle decorazioni della sala, scrostando il rivestimento di cemento messo dagli alleati e rispettando le parti non colpite. Fu rifatto il pavimento e furono riparate le mensole e i capitelli nonché alcune delle statue di cartapesta, ad opera dello scultore Antonio Lebbre Venne inoltre restituita al suo splendore la balaustra e rifatta la decorazione del soffitto su disegno di Cesare Maria Cristini, che si ispirò a quanto aveva fatto nello scorso secolo il Genovese. Gravi difficoltà si presentarono per quest'ultimo lavoro, essendosi rivelato impossibile ripro­durre fedelmente le opere distrutte; tuttavia i pittori napoletani Vincenzo Ciardo, Antonio Bresciano, Alberto Chiancone ed il compianto Francesco Galante ispirandosi all'opera del Dominici riuscirono a compiere un'opera decorosa e di gran lunga superiore a quella vasta tela del Dominici che era originariamente nel soffitto. La decorazione centrale, opera di Fran­cesco Galante, raffigura Anfitrite e Poseidone: vi sono inoltre dei pae­saggi, opere del Chiancone, del Bresciani e del Ciardi, mentre i putti e gli  amorini  sono  di Cesare Maria Cristini.

Si provvide in seguito a dotare il palcoscenico di un gran sipario di velluto ed a tutte le rifiniture necessarie al completo restauro, dopo di che il teatrino di corte ha potuto riprendere a funzionare : attualmente viene usato per conferenze, riunioni, o per spettacoli ad inviti dati dal­l'Ente Turismo e dall'Azienda Autonoma di Soggiorno.

Prima di visitare l'Appartamento Storico ricorderemo che dopo l'in­cendio del 1838, l'architetto Genovese fece abbattere tutte quelle fabbri­che che, a suo avviso, deturpavano il secondo ordine degli archi nel cor­tile principale; rifece poi la cornice, restaurò tutto il primo piano com­pletando il secondo col belvedere, ed effettuò altre radicali innovazioni for­mando un complesso architettonico abbastanza omogeneo. Dopo l'incendio, i sovrani abitarono al secondo piano, mentre il primo venne usato per le feste e per «la pompa dei baciamani».

Tutti gli ambienti e le sale fu­rono decorati dai migliori artisti dell'epoca; il nuovo appartamento, e precisamente quello dove è oggi la Biblioteca Nazionale, fu riservato ai balli di corte. Gli stucchi furono eseguiti da Andrea Cariello e Cosimo De Rosa, i saloni modellati da Gennaro Aveta, sempre su disegno dell'ar­chitetto Genovese, e ai soffitti delle sale lavorarono Giuseppe Cammarano, Filippo Marsigli, Camillo Guerra, Gennaro Maldarelli, mentre gli stucchi in bianco ed oro furono eseguiti da Costantino Beccalli e Gennaro De Cre­scenzo. Alla decorazione degli appartamenti collaborarono anche Pasquale Ricca, Luigi Paliotti, i fratelli Conte, Luigi Botta e Costantino Bichen-comer. II secondo piano, ricco di suppellettili e di dipinti dell'800 fra i quali spiccano i paesaggi di Filippo e Nicola Palizzi e di Consalvo Ca­relli, fu destinato, come si è detto, ad appartamento privato dei sovrani.

Iniziamo ora la descrizione di quanto « dovrebbe » essere nelle varie Sale degli appartamenti. Preferiamo usare il condizionale in quanto molto spesso ciò che si è visto ieri, oggi non c'è o perché il pezzo è in restauro o perché è stato trasferito altrove: personalmente ci auguriamo che il vi­sitatore possa trovare tutto quanto abbiamo avuto modo di ammirare.

Nella I Sala dopo il teatrino, Francesco De Mura ornò il soffitto con un gran dipinto allegorico, attualmente in restauro, eseguito per espresso desiderio della madre di Carlo di Borbone, Elisabetta Farnese. I disegni, infatti, furono inviati a Madrid alla regina aggiungendo che rappresen­tavano un'allegoria delle Virtù del figlio Carlo e della regina Maria Amalia.

I due bellissimi arazzi in lana e seta alle pareti son opere degli arazzieri Behagle e Latour della fabbrica di Gobelin: essi raffigurano l'Aria e il Fuoco e fanno parte di una serie, insieme ad altri due che sono attual­mente nella sala V. Completano l'arredamento mobili rococò, specchiere, orologi e candelabri.

Il balcone di questa sala è quello centrale della Reggia, a cui si affacciavano i viceré e i  reali per salutare il  popolo.

La II Sala ha nel soffitto affreschi di Belisario Corenzio che illustrano le glorie della casa aragonese. Nei sei scomparti si possono ammi­rare i seguenti dipinti: Genova che offre le chiavi ad Alfonso d'Aragona, L'ingresso trionfale di Alfonso nella città di Napoli, Offerta ad Alfonso dell'Ordine del Toson d'Oro, Alfonso mecenate delle Arti e delle Lettere, Ad Alfonso il Pontefice Eugenio dà l'investitura delle terre conquistate. Alle pareti fanno bella mostra un dipinto di Giuseppe Ribera raffigurante la Vergine che mostra il Bambino a San Brunone, uno di Massimo Stanzione raffigurante la Vestizione di Sant'Ignazio, un Orfeo che incanta gli animali di scuola caravaggesca, da alcuni attribuito a Gherardo Delle Notti e da altri a Gerrit Honthorts, ed un San Giovanni Battista della scuola di  Guido  Reni.

Nella III Sala, alle pareti, due grandi paesaggi della scuola di Paolo Bril, pregiato pittore nato ad Anversa nel 1554, che lavorò per un certo periodo a Napoli. Nella volta si ammira una Minerva che premia la Virtù di Giuseppe Cammarano, e sulla parete centrale un settecentesco arazzo di fattura napoletana raffigurante II Fuoco: il modello fu eseguito dal giovane pittore Girolamo Starace Franchis, molto apprezzato per la sua arte da Luigi Vanvitelli, mentre l'arazzo, datato 1763, porta la firma del Durante.

La IV Sala, quella del Trono, è stata negli ultimi anni rivestita di broccato; gli stucchi sono opera di Camillo Beccalli, i bassorilievi alle pa­reti raffiguranti le Province del Regno, sono attribuiti al Cariello e al De Rosa; il trono ed il baldacchino furono eseguiti intorno al 1853.

Segue la Sala chiamata degli Ambasciatori, riccamente arredata con mobili e divani impero. Anche qui troviamo quattro magnifici arazzi dei quali due sono incorniciati con quadri e raffigurano La morte dell'Ammi­raglio Coligny nella notte di San Bartolomeo e II duca di Sully ferito. Di fronte ai primi vi sono gli altri due arazzi Gobelin che completano la serie degli Elementi, con quelli della prima sala: essi raffigurano La Terra e II Mare. La decorazione della volta, di Belisario Corenzio, è suddivisa in quattordici scomparti: a sinistra della parete settentrionale notiamo La guerra contro Alfonso di Portogallo, La guerra contro Luigi di Francia, Genova attaccata dai francesi e difesa dagli spagnoli, La presa delle Ca­narie, La conquista di Granata, La battaglia sui monti di Alpuxaerras, L'entrata dei vincitori a Barcellona, Gli ebrei messi al bando, La scoperta del nuovo mondo, I siciliani giurano fedeltà a Filippo II, L'imbarco della sposa di Filippo III l'arciduchessa Marianna a Finale, L'entrata dell'arci­duchessa a Madrid, Le nozze reali e Ferrante d'Aragona che riceve San Francesco di Paola.

La Sala seguente, la VI, è chiamata di Maria Cristina perché fu dap­prima la camera da letto della regina Maria Amalia e poi quella di Maria Cristina di Savoia, prima moglie di Ferdinando II di Borbone. La sala aveva affreschi di Francesco De Mura che durante l'occupazione militare al­leata furono totalmente distrutti: attualmente vi si ammira, a sinistra dell'ingresso una Vergine col Bambino, in un primo tempo attribuita a Giulio Romano ed oggi a Pedro Ruviales allievo di Polidoro da Caravag­gio; sulla parete centrale spicca un dipinto di Jan Lys — prima attribuito ad Andrea Vaccaro — raffigurante Davide con le Vergini, di fronte un Ritratto di un cardinale attribuito al genovese Gian Battista Gaulli detto il Baciccia, e su una consolle, di fianco, una dolcissima Sacra famiglia di Filippino Lippi su tavola. Davanti ai balconi vi sono due imponenti vasi di Sèvres con vedute del Parco di Monfontaine di Saint Germain; sulle consolles fanno bella mostra due orologi francesi impero e quattro vasi di bronzo dorato, opere del parigino Filippo Thomire.

Adiacente a questa sala vi è la Cappellina privata di Maria Cristina di Savoia, che ha un grazioso altare barocco in legno dipinto e dorato: vi si ammirano inoltre tre tele: una Fuga in Egitto, una Visita di San­t'Elisabetta di Anton Raphael Mengs e una Madonna col Bambino di Ia­copo da Ponte detto il Bassano.

Segue la VII sala, affrescata secondo alcuni da Belisario Corenzio e secondo altri da Battistello Caracciolo con le Vittorie di Consalvo de Cordova contro i francesi e la sua entrata a Napoli. Gravi danni riportò questa Sala durante l'occupazione militare alleata, ma attualmente è pos­sibile ammirarvi al centro un grazioso tavolo da lavoro settecentesco, dono della regina di Francia Maria Antonietta alla sorella Maria Carolina regina di Napoli. Alle pareti un bell'arazzo di Pietro Duranti del 1766, su disegno di Francesco De Mura, raffigurante la Purità e dodici tavole con i Proverbi illustrati,  che furono  attribuiti  a Federico  Zuccari o  al  napoletano Francesco Saraceni. Ai lati del balcone vi sono una Veduta di Venezia attri­buita al Maneschi, due Marine di Carlo Growenbrock, che fu pittore di corte di Luigi XV e due Paesaggi del napoletano Gaetano Martoriello. AI centro del balcone colpisce l'attenzione del visitatore una Gabbietta di porcellana e bronzo che poggia su un tavolo rotondo decorato con ve­dute, dono di Nicola I di Russia a Ferdinando II  di Borbone.

L'VIII sala, affrescata dal napoletano Gennaro Maldarelli con dipinto raffigurante Re Tancredi che rimanda Costanza ad Arrigo VI, ha alle pa­reti un Vasari, un Ritratto di Giovanetta di Sofonisba Anguissola, un Calvario di Andrea da Salerno, una Crocefissione di ignoto napoletano del '500 e una Vergine con Bambino di Andrea Sabatini da Salerno; su una consolle, un settecentesco orologio inglese di Carlo Clay.

Segue la Sala chiamata delle Guardie del Corpo, la IX, quella dove si fermava la guardia d'onore costituita da nobili napoletani. Alle pareti vi sono arazzi, fra i quali i quattro più grandi formano la serie degli Ele­menti. Di fattura napoletana, tessuti dal 1746 al 1750, raffigurano L'Aria, Il mare, L'Acqua e La Terra. I mobili di epoca impero, sono adorni di vasi di porcellana cinese, candelabri ed orologi.

La sala X ha nel soffitto, un affresco di Gennaro Maldarelli, raffigu­rante Ruggero il Normanno che sbarca a Palermo. Mobili francesi destano una certa attenzione: un piccolo secretaire, un canterano ed un tavolo impero, opera di A. Weisweiler. Vi son inoltre una libreria impero di co­struzione napoletana, ai cui lati sono due bei Paesaggi, uno di Salvatore e l'altro di Francesco Fergola; completano l'arredamento vasi, orologi, lumi e barometri.

Nell'XI Sala vi sono molti dipinti di pittori napoletani: il Figliuol Prodigo di Mattia Preti; di fronte ai balconi due opere di Andrea Vac­caro e precisamente Orfeo e le baccanti e L'incontro di Rachele con Gia­cobbe. Alla parete seguente notiamo Lot e le figlie di Massimo Stanziane; a fianco ai balconi, un Gesù fra i dottori di G. A. Galli detto lo Spadarino e una Testa di Apostolo di Cesare Fracanzano.

Nella Sala che segue, la XII, vi sono dei quadri dipinti per la serie degli arazzi fabbricati sotto la direzione di Pietro Durante raffiguranti Scene di don Chisciotte: i loro autori sono Antonio Guastaferro, Antonio De Dominici, Giuseppe Bonito e Benedetto della Torre, e vi si riconosce Sancio all'osteria, La regina Mica Miconi con don Chisciotte, Don Chisciotte all'osteria e Don Chisciotte contro i mulini a vento. Gli altri due dipinti raffiguranti Gli invitati straordinari del sultano sono anche essi modelli per arazzi, e furono eseguiti per volere di Carlo di Borbone dal pittore Giu­seppe Bonito.

La XIII Sala offre al visitatore soprattutto opere di pittori stranieri: Due Finanzieri del belga Giovanni Massijs, che li ha raffigurati mentre an­notano gli incassi fiscali, un Ritratto di Maria Clementina d'Austria della Vigèe Lebrun, un Ritratto di gentiluomo dell'olandese Abramo van der Tem­pie da Leeuwarden, Una giovane donna di Ludolf de Yong, un altro pittore della scuola settecentesca olandese, tre Ritratti di Gentiluomini e uno di Gentildonna di Abraham Tempel, una Vecchia signora dell'olandese Nicola Maes, il Suonatore di flauto del francese Alessio Grimou.

La sala XIV contiene alcuni ritratti : quelli di Augusto III di Sassonia e Giuseppina d'Austria di G. Doyen, una figura intera di Ferdinando IV del Camuccini, il Ritratto di Barbara Maddalena, regina di Spagna, di ignoto, un Ritratto di giovane donna in arazzo su cartone di Maurice Quentin de la Tour e quello di Ranuccio Farnese, opera di Giacomo Denys. La XV Sala presenta dipinti a carattere sacro: un Gesù sotto la Croce di Giorgio Vasari, un Calvario di un discepolo di Andrea da Salerno, San Francesco attribuito al secentesco fiorentino Carlo Dolci, una Sacra famiglia anche dì Bartolomeo Schedoni, San Giuseppe in estasi della scuola del Guercino, San Giovanni Battista anche dello Schedoni e la Carità dello stesso artista. Altri magnifici quadri di pittori napoletani sono esposti nella sala XVI: tre Paesaggi di Guglielmo Giusti, Salvatore Giusti e uno di Gabriele Smargiassi; una Primavera, opera giovanile di Filippo Palizzi acquistata da Ferdinando II in una mostra di pittura del 1841, un Tramonto di Nicola Palizzi e due Interni di Stalla di Consalvo Carelli. La Sala XVII, o salone dei Ricevimenti, era la prima Sala Reale: fu rifatta nel 1840 e da allora fu chiamata Sala d'Ercole perché vi era un modello in gesso dell'Ercole Farnese; fu ancora restaurata dopo l'av­vento al trono dei Savoia. I grandi lampadari di Murano che illumina­vano   questa   sala   furono   distrutti   durante   l'occupazione   militare  alleata e sono stati sostituiti da lampadari in bronzo. Attualmente la sala è adorna di arazzi napoletani eseguiti verso la fine del secolo XVIII, e pre­cisamente tra il 1783 e il 1786, sotto la direzione di Pietro Durante su cartoni di Antonio De Dominici, Giuseppe Bonito e Fedele Fischietti: cin­que di essi raffigurano scene allegoriche ricordanti La favola di Amore e Psiche; sugli altri quattro sono raffigurate delle architetture e le statue di Licurgo, Solone, Ermete e Nurna Pompilio. Vi sono inoltre quattro im­portanti vasi di Limoges che furono finemente decorati da A. Giovine e porcellane francesi.

La fabbrica napoletana di arazzi si trovava a San Carlo alle Mortelle; nel 1778, poi fu portata a Palazzo Reale dove durante i moti della Repub­blica Partenopea del  1799 andò distrutta quasi del tutto.

Ci auguriamo che il visitatore trovi le opere nello stesso ordine in cui le abbiamo descritte, ma anche in questo appartamento storico avvengono spesso spostamenti di mobili e di quadri.

Molto interessante è la Cappella, che si trova al primo piano di fronte all'ingresso principale: essa fu ideata da Cosimo Fanzago intorno al 1640 e, dedicata all'Assunta, fu consacrata nel 1646 durante il vicereame del duca d'Arcos. Nel 1656 fu abbellita ed ingrandita ancora dal viceré conte di Castrillo e gli stucchi in oro furono apposti a cura del Modanino. Una nuova consacrazione, con grandi funzioni, fu fatta nel 1668 dal vescovo di Molfetta e da allora la Real Cappella fu adibita alla celebrazione di matrimoni, battesimi e funzioni solenni, come i « Te Deum » ai quali in determinate occasioni interveniva tutta la corte. Il disegno originario della costruzione fu poi col tempo modificato e rimaneggiato anche perché, a dire il vero, non era un'opera tra le migliori del Fanzago; così, agli inizi del secolo XIX, e precisamente tra il 1808 e il 1815, il real architetto An­tonio De Simone e Gaetano Genovese vi effettuarono radicali modifiche costruendovi anche una tribuna con balaustra, mentre si facevano affre­scare le pareti da Giuseppe Cammarano, Ferdinando II, poco prima della morte, ne dispose un nuovo ingrandimento, e quindi il figlio Francesco II nel 1859 fece ultimare questi lavori facendo rinforzare il soffitto, rifare le arcate e costruire ai lati del presbiterio le due cappelle con le cupolette decorate. Quando fu rinnovato l'interno nel 1815, furono distrutte le de­corazioni che erano state eseguite da Giacomo Del Po e quelle ancora più antiche del 1705, e restarono soltanto alcune figure di angeli. Quanto al soffitto, che era formato da canne in stucco, essendo crollato nel 1687 per un lieve movimento tellurico, fu rifatto da Niccolò Rossi, discepolo di Luca Giordano; anche questo affresco andò poi distrutto, e la magnifica Assunta che vi si vede fu dipinta da Domenico Morelli nel 1863. Que­st'opera, veramente stupenda, fu ideata dall'artista, come egli stesso rac­conta, in una delle tante belle giornate napoletane in cui « alzando gli oc­chi allo zenit s'incontra un turchino profondo e se in quel momento passa una leggiadra nuvola bianca è quella la nota più bella e più pittorica che si possa immaginare ». Insieme al Morelli, collaborarono alla decorazione di questa graziosa capella anche altri pittori dell'800 napoletano: Spano, Rizzo, Marinelli, Sagliata, Licata, Altamura, Maldarelli e Giuseppe Cam­marano, che ne decorò le pareti al di sopra della tribuna e ai lati del­l'altare. Purtroppo i dipinti di questi artisti furono danneggiati da un bombardamento alleato nel 1943 e non rimase che l'Assunta di Domenico Morelli.

L'altare maggiore, opera di Dionisio Lazzari del 1687, è forse la cosa più bella della cappella reale: esso è composto dal paliotto, da un ciborio con porticine di rame dorato, ed è arricchito da lapislazzuli ed agate intarsiate. Costruito in origine per la chiesa di Santa Teresa al Museo, fu qui trasferito nel 1808 in occasione della settimana santa per desiderio di Ferdinando IV, e vi fu celebrato un pontificale con paramenti lavorati dalla regina Maria Teresa e dalle principesse reali.

La cappella fino al 1860 fu officiata del clero « palatino », costituito da un cappellano maggiore, dodici cappellani ordinari, tre cappellani in­signiti, diciotto cappellani di cotta e rocchetto, dodici chierici ordinari e diciotto straordinari; vi erano inoltre musici, cantori e maestri di cap­pella tra i quali furono famosi Scarlatti, Porpora, Cimarosa e Paisiello; ugualmente famose rimasero le funzioni in occasione delle « Quarantore », il periodo durante il quale rimaneva esposto il SS. Sacramento. Queste funzioni ebbero inizio verso la fine del secolo XVII e nel 1686 l'arcivescovo dispose che il Sacramento venisse esposto in otto delle novantasei chiese della città ogni mese per quattro giorni continui incominciando dalla cat-

tedrale; in questa occasione alla real cappella poteva accedere il popolo, a cui si permetteva anche di assistere alle funzioni e alla messa solenne, con l'intervento dell'arcivescovo. Riteniamo che l'ultima cerimonia religiosa de­gna di rilievo avvenuta in questa cappella sia stato il battesimo di Maria Pia di Savoia, primogenita di re Umberto, avvenuto il 18 ottobre 1934. Pur­troppo durante la guerra, e precisamente durante l'occupazione militare alleata, la cappella fu adibita a deposito con grande vergogna per coloro che  disposero  questo  sacrilegio!

Nella Reggia hanno sede l'Azienda di Soggiorno Cura e Tu­rismo e la Biblioteca Nazionale con ingresso da Via San Carlo e dalla reggia.

Per entrare nell'ala del palazzo ove ha sede la Biblioteca Nazionale bisogna attraversare i giardini reali. Il nucleo iniziale di questa Biblioteca, che fu aperta al pubblico soltanto nel 1804, fu costituito dalla grandiosa raccolta Farnese, portata a Napoli da Carlo di Borbone; vi furono poi annesse l'officina dei papiri trovati ad Ercolano nel 1752, la Biblioteca Lucchesi Palli, la San Giacomo, la San Martino, la Brancacciana, quella di Maria Carolina d'Austria e la Provinciale.

Gravi danni apportarono gli eventi del '43 alle sale di quest'ala della reggia, ma nel rimettere a posto le opere, è stata possibile una più razio­nale suddivisione ed una più funzionale ripartizione dei volumi e degli argomenti. La biblioteca è stata altresì arricchita dai volumi del Fondo Aosta, da diecimila libri della Palatina e da quelli della biblioteca del Collegio Militare dell'Annunziatella. Attualmente la Biblioteca Nazionale di Napoli contiene circa un milione e quattrocentocinquantamila opere, quat-tromilacinquecentoquarantaquattro incunaboli, diecimilanovecentoquaranta manoscritti e millesettecentottantacinque papiri ercolanesi, rinvenuti in quella villa ad Ercolano che da allora si chiamò la villa dei papiri.

Sarà bene a questo punto menzionare gli incunaboli più rari che sono raccolti in questa biblioteca: il Catholicon di Giovanni Baldi del 1460, una Bibbia del 1462, un Lattanzio del 1465, il Bartolo da Sassoferrato del 1471, un Omero del 1488, e vari incunaboli napoletani tra i quali una Bibbia del 1476, un Esopo del 1485, ed alcuni finemente illustrati e decorati come il De re militari del 1472, una Divina Commedia del 1481 che riporta alcuni disegni del Botticelli, il Sogno di Polifilo del 1499 e un Liber Chronicarum di Hartmann Schedel. Vi sono inoltre importanti manoscritti e palinsesti le cui scritture risalgono al periodo dal III al VI secolo. Molto interes­santi sono alcuni codici, come quello con l'Alessandra di Licofrone, alcuni frammenti biblici in dialetto copto del V secolo e manoscritti anche mi­niati. Degna di nota è anche una raccolta rarissima di documenti ed epi­stole  con  autografi  di  notevole  importanza e  edizioni pregiate.

Usciti dalla Biblioteca, possiamo visitare il Teatro San Carlo, uno dei migliori e più gloriosi teatri lirici d'Europa. Esso fu co­struito per volontà di Carlo di Borbone e inaugurato il 4 no­vembre del 1737, giorno onomastico del sovrano, con l'Achille in Sciro del Metastasio e musica di Domenico Sarro. Seguirono La Clemenza di Tito musicata da Leonardo Leo e L'Olimpiade di Niccolò Porpora.

Il funzionamento del nostro Massimo veniva curato dall'Uditore del­l'Esercito: non si poteva applaudire, chiedere bis, o entrare nel palco­scenico, e solo il sovrano presente in sala poteva disporre le cose in modo differente. II primo impresario del teatro fu, come vedremo, il suo co­struttore seguito dal barone di Liveri, e poi dal notaio Diego Tufarelli, da Gaetano Grossatesta, e da Giovanni Tedeschi che era stato un cantante. Nel 1764 le recite al San Carlo furono sospese: fu costituita la Giunta dei Teatri e all'Uditore si aggiunsero come componenti di questa giunta due  consiglieri.   Ritornò  come   impresario   il   Grossatesta  ed  in   occasione delle nozze tra re Ferdinando e Maria Carolina, Adolfo Hasse compose la Partenope.

In questo teatro sono stati rappresentati in prima visione drammi dei migliori compositori con i più validi cantanti, a cominciare da quell'al­lievo del Porpora che fu Gaetano Maiorana detto il Cantarello. Tra i com­positori ricorderemo Niccolò Iommelli, Gaetano Latilla, che era maestro nel Conservatorio di Venezia, Leonardo Leo che invece insegnava nel Con­servatorio napoletano della Pietà dei Turchini, Adolfo Hasse che, anche es­sendo tedesco, aveva studiato a Napoli, Baldassarre Galuppi, Davide Puca, Cristoforo Gluck che il 4 novembre 1752 con la sua Clemenza di Tito e poi con l'Orfeo e con YAlceste ebbe tre grandi successi. Giunse poi da Bari Niccolò Piccinni del quale trionfò la Zenobia del Metastasio; furono rappresentate opere di Nicola Sala, che insegnò per un lunghissimo periodo al Conservatorio della Pietà dei Turchini, di Antonio Sacchini, venuto a Napoli nel settembre del 1761, Giovanni Cristiano Bach del quale furono rappresentate il Catone e l'Alessandro. Della scuola napoletana ricordiamo Tommaso Traetta, allievo del Porpora e del Durante, del quale fu data la Bidone scritta espressamente per questo teatro; Giovanni Paisiello, che anche se tarantino, fu allievo del Conservatorio napoletano di Sant'Onofrio a Capuana e discepolo del grande Francesco Durante.

II San Carlo fu dunque il più importante teatro lirico italiano. Nel 1786 terminò l'amministrazione della Deputazione e la sorveglianza sul funzionamento del teatro passò ad un Ministro economico che a quel tempo era il Barone Ventapane. Si provvide a riordinare l'orchestra e gli orchestrali giunsero al numero di cinquantanove per un spesa annua di duecentosessantacinque ducati; cantanti di grido calcarono il palcosce­nico e tra questi desideriamo ricordare la Brigida Banti che, cosa più unica che rara, non aveva mai studiato musica pur essendo stata alla Scala di Milano e all'inaugurazione della Fenice di Venezia nel 1792; cite­remo inoltre la Bellington e Giuseppina Grassini che riuscì ad affascinare col suo canto Napoleone e che, secondo alcuni, fu la causa del divorzio del Bonaparte da Giuseppina; ella fu poi nominata cantante di camera del­l'Imperatore  con un  diritto di pensione  di ben quindicimila franchi.

L'orchestra del San Carlo ebbe quindi una radicale riforma e l'in­carico di sovraintendere fu dato al maestro Paisiello: in seguito, con i moti della Repubblica partenopea del 1799, allo stabile del teatro furono arre­cati  parecchi  danni  che però al  rientro  dei  sovrani furono sanati.

Nel secolo XIX, e precisamente nel novembre del 1800, la carica di impresario fu data a Lorenzo d'Amico; venivano rappresentate in questo periodo opere del Fioramante, di Giacomo Tritto, del Guglielmi, di Gae­tano Andreozzi, che poi fu anche impresario del teatro. Con la venuta a Napoli dei francesi si diedero opere del Pavesi, del Farinelli, dello Zin-garelli e di altri, e nel 1810 fu nominato impresario Domenico Barbaja, ri­velatosi subito il migliore che il teatro avesse mai avuto. Egli fece rap­presentare opere dello Spontini, la Vestale e la Ifigenia in Aulide di Gluck, mentre nel 1815 apparivano i grandi nomi di Gioacchino Rossini e della grande artista Isabella Colibran che, al contrario della Catalani, fu sonoramente fischiata. Di quest'ultimo grande compositore furono rap­presentati la Elisabetta Regina d'Inghilterra, l'Otello e l'Armida, che però non ebbe un gran successo, ed infine il Mosè e la Gazza Ladra. Si affac­ciava in questo periodo sulle scene anche il compositore Saverio Mer-cadante e venne a Napoli per due concerti Niccolò Paganini; grosso suc­cesso riscossero anche due fra le maggiori opere del Rossini, il Bar­biere di Siviglia e la Zelmira; nel 1826, infine, furono rappresentate le prime opere di Vincenzo Bellini e di Gaetano Donizetti, pur essendo ancora Ros­sini il più richiesto. Nel 1840 Barbaja si ritirò e la carica di impresario fu presa da Eduardo Guillaume; venne rappresentata in tale periodo la prima opera di Giuseppe Verdi, Oberto Conte di San Bonifacio, che non piacque, come non erano piaciute in un primo momento le composizioni del Mercadante e del Donizetti, che si erano poi brillantemente affermati.

Anche Verdi non tardò a riscuotere il meritato successo e l'ebbe in­fatti con l'Attila, col Nabucco e con l'Emani, finché conquistò definiti­vamente il pubblico con I Lombardi alla prima Crociata e con la Luisa Miller, che fu scritta appositamente per il San Carlo. Avvenimento molto atteso a Napoli fu la prima rappresentazione del Trovatore, nel 1853, seguita dalla Traviata e dal Rigoletto, che suscitò peraltro critiche del tutto  negative.

Dopo  l'unione  del  Regno  di  Napoli  al  Regno  d'Italia, il Teatro San Carlo visse un periodo molto travagliato e la sua amministrazione divenne governativa: passò poi ad un impresario di nome Antonio Musella per un quinquennio durante il quale diede alla scena soltanto le opere di Verdi e di Rossini. Ben presto il Musella rinunciò al suo incarico, e la gestione divenne sempre più difficile anche se non mancarono grandi artisti e famosi compositori, mentre il pubblico e la stessa amministrazione non erano soddisfatti dell'andamento delle cose. Non intendiamo far qui la storia della lirica, ma non possiamo passar sotto silenzio i gloriosi trascorsi di questo grande teatro, che continuò ad essere uno dei più brillanti d'Italia dagli inizi del secolo sino al 1940 quando si giunse alla determina­zione  di  sostituire  all'Amministrazione  un  Ente Autonomo.

Il teatro San Carlo fu costruito, come abbiamo accennato, per volere di Carlo di Borbone: il re nel 1736 osservò che il vecchio teatro San Bar­tolomeo, nonostante i lavori di abbellimento, non poteva più soddisfare le esigenze della corte e della nobiltà e occorreva pertanto costruirne uno nuovo per il quale si poteva usufruire del materiale di risulta di quello che si andava a demolire. Fu deciso di appaltare la costruzione all'archi­tetto Angelo Carasale, con l'impegno che dovesse esser consegnato entro il mese di ottobre del 1737: c'è da considerare che il contratto fu fatto il 4 marzo di quell'anno e che quindi il tempo era ristrettissimo, otto mesi e dieci giorni. I cinque palchi a destra e i cinque a sinistra del palco reale rimasero a disposizione del sovrano, che contribuì nella spesa con ventimila dei centomila ducati che si spesero in totale: dodicimilaottan-tasei furono ricavati dalla demolizione del San Bartolomeo, al cui posto fu fatta erigere una chiesa.

Sul teatro, dedicato a San Cario Borromeo, Santo del sovrano, fu ap­posta una epigrafe in latino dettata da Bernardo Tanucci, che andò di­strutta nell'incendio del  1816.

L'inaugurazione avvenne il 4 novembre, giorno di San Carlo e quindi onomastico del sovrano, con la rappresentazione dell'Achille del Metastasio. Lo storico settecentesco Pietro Colletta racconta che re Carlo nel congra­tularsi col Carasale che aveva il grado di Colonnello Brigadiere, gli con­fidò che avrebbe gradito un passaggio dalla reggia al teatro e che ... il Carasale sarebbe riuscito a farlo fare durante lo spettacolo (!). Comun­que, anche se non in poche ore, il passaggio fu veramente fatto a spese del re per un importo di trentaduemila ducati. Il Carasale fu poi anche impresario del teatro, ma tanta fortuna lo rese così inviso che furono inviate al re delle denunce nelle quali si insinuava che la sua ammini­strazione non era delle più oneste. Venne quindi aperta un'inchiesta, men-tra il Carasale veniva arrestato e rinchiuso nelle carceri della Vicaria prima e poi nel Castel Sant'Elmo. Qui il poveretto morì di dolore nel 1742, e fu poi sepolto proprio in quella chiesa di San Bartolomeo che egli stesso aveva fatto edificare dove era stato demolito il teatro. Il San Carlo nel 1762 fu abbellito a cura dell'architetto Ferdinando Fuga in concomitanza con l'occasione delle nozze di Ferdinando IV con l'arciduchessa d'Austria Maria Carolina. Esso conservò la sua forma a semicerchio, ma vennero costruiti palchetti di proscenio tra i pilastri del boccascena, fu variata l'addobbatura e le pareti della sala furono arricchite con cristalli e specchi. Altre modifiche furono effettuate nei 1797 in occasione della venuta dell'arcidu­chessa d'Austria Maria Clementina che andava sposa al princie ereditario : in questa occasione fu dato incarico all'architetto Domenico Chelli per l'abbellimento e il rifacimento interno. Con la venuta dei francesi fu or­dinato il progetto di una nuova facciata, ma l'architetto toscano Antonio Niccolini, a cui fu demandata l'approvazione del disegno lo bocciò. Si decise quindi di bandire un concorso, e questo!... guarda caso!... fu vinto dallo stesso Niccolini che l'aveva proposto, e nel 1810 furono iniziati i la­vori, che prevedevano anche la costruzione dell'atrio e della loggia della facciata. Sulla cornice del portico, a cinque archi che corrispondono agli ingressi, furono messi dei bassorilievi raffiguranti Orfeo e Anfione, Apollo con le Muse, l'Apoteosi di Sofocle e Euripide, e dietro ad una grande balaustra fu costruito un loggiato con quattordici colonne ioniche sormon­tate da un frontone a triangolo che reggeva al centro una statua di Par­tenope e lateralmente due tripodi; nel 1816 il teatro fu purtroppo distrutto da un incendio, ma re Ferdinando diede ordine al Niccolini ed ad Anto­nio De Simone di rifarlo completamente: nella ricostruzione naturalmente furono usati nuovi criteri: il parapetto di ogni quarto palco fu ornato da un bassorilievo, furono aumentati gli ingressi secondari, il palco reale fu ornato con  un  sontuoso  drappeggio  purpureo  con gigli  in  oro,  il  centro del soffitto fu adornato da un dipinto a tempera di Giuseppe Cammarano raffigurante Apollo che presenta a Minerva i poeti, e il tetto fu realizzato con un'armatura che per quel tempo sembrò veramente audace. Dal 1841 al 1844 re Ferdinando diede incarico ad Antonio Niccolini di effettuare altre innovazioni nell'interno del teatro con l'aiuto del figlio Fausto e di Fran­cesco Maria del Giudice. Il nuovo sipario fu eseguito da Giuseppe Camma­rano in collaborazione con Gennaro Maldarelli, Camillo Guerra, Giovanni ed Antonio Cammarano e Giuseppe Castagna, mentre si disponevano l'aper­tura di nuovi ingressi verso l'attuale autoparcheggio di Piazza Trieste e Trento e si provvedeva a dotare il teatro di illuminazione a gas all'interno. Nel 1854 Ferdinando II ordinò il restauro degli ornamenti del vestibolo e della scala, il rifacimento della platea e la messa in opera di sculture e fregi al vestibolo e alla scala, Giuseppe Mancinelli dipinse il nuovo si­pario in collaborazione con Salvatore Fergola con una raffigurazione del Parnaso. Nel 1890 finalmente si ebbe l'illuminazione elettrica del teatro; nel 1927, e fino al 1928 il tetto fu sopraelevato, il palcoscenico fu nuova­mente ingrandito, e fu costruito un attico con ringhiera di ferro presso la piazza Trieste e Trento; vennero altresì rifatti i candelabri in legno secondo il modello originario e venne aggiunto al sipario un altro di sicu­rezza. Nel 1937 Michele Platania disegnò un corpo laterale sulla facciata orientale; la sala venne ancora abbellita intorno al 1941 e per aumentarne la sonorità fu costruita una navicella acustica.

Entrando nel teatro, nel vestibolo a destra, troviamo una statua di Giuseppe Sorbilli raffigurante Domenico Cimarosa e a sinistra una statua di Stanislao Lista del 1861 raffigurante Paisiello.

Molto imponente è la sala, che ha una superficie di metri 28,65 per 22,51; con 184 palchi, oltre a quello reale, il teatro ha una capienza com­plessiva di circa tremila spettatori. L'enorme palcoscenico misura metri 33,13 per 34,41.

Con l'ampliamento del teatro San Carlo che, come si è visto, avvenne dopo l'incendio, ad opera dell'architetto Antonio Niccolini, si ottennero dei locali, anzi delle magnifiche sale da ricevimento, che furono richieste dall'impresario Barbaja al re, perché potessero essere adibite a ridotto del teatro ed a sale da gioco. Poiché il gioco si protraeva fin nelle ore nottur­ne, fioccarono ricorsi e suppliche al punto che, nel 1822, Ferdinando II di Borbone preferì concedere questi locali alla Reale Accademia dei Cava­lieri, precedentemente chiamata Nobile Accademia di ballo e di musica delle signore dame e cavalieri napoletani. L'Accademia, molto fiorente, orga­nizzava spesso balli e concerti ai quali partecipava tutta l'aristocrazia del Regno ed era quindi ritenuta il centro più mondano ed elegante della ca­pitale. Poiché però anche per l'Accademia continuavano a giungere recla­mi, si decise di stabilire che i soci venissero ammessi soltanto se appar­tenenti alle famiglie di nobile rango, e che le feste dovessero essere au­torizzate dal  sovrano.

Dopo l'annessione del Regno di Napoli a quello d'Italia, scioltasi l'Ac­cademia dei Cavalieri, i locali di cui stiamo parlando vennero concessi ad un nuovo sodalizio, il Casino dell'Unione, il cui nome adombrava il suo intento di fondere l'aristocrazia e i rappresentanti dell'intellettualismo na­poletano. Uscirono dalle galere i patrioti, altri rientrarono dall'esilio e Carlo Poerio propose agli amici che avevano le sue stesse idee politiche di entrare a far parte di questo circolo: ne furono quindi soci il sindaco di Napoli Guglielmo Capitelli, il prefetto marchese di Montefalcone, depu­tati liberali come Valerio Beneventani e patrioti come Federico Bellelli ed Achille Dì Lorenzo. Il Casino dell'Unione in un primo tempo occupò dei locali nel Palazzo Falanga di via Cappella Vecchia: ne fu nominato pre­sidente onorario re Vittorio e soci onorari e di diritto i principi di casa Savoia, mentre l'effettiva presidenza veniva affidata a Carlo Poerio. Fu appunto il patriota che riuscì ad ottenere dal re, per il suo prestigio per­sonale, le sale della disciolta Accademia Borbonica. Durante l'occupa­zione militare, prima tedesca e poi alleata, questi locali furono occupati per tre anni da un « Officer's Club»: in seguito furono restituiti al Casino dell'Unione che, nel tempo, si era fuso con un altro circolo, il Na­zionale, prendendo il nome di Circolo Nazionale dell'Unione.

Questo circolo gode diritto di reciprocanza con vari circoli, come quelli romani degli Scacchi e dalla Caccia, quello fiorentino dell'Unione, il Domino dì Bologna e il Whist di Torino, quindi i soci di questi sodalizi possono frequentarlo.

Sia il Circolo Nazionale dell'Unione che la Biblioteca Nazionale Vitto­rio Emanuele affacciano nei giardini della reggia. Questi furono sistemati una prima volta ai tempi del viceré Pedro d'Aragona dall'architetto Fer­rante Maglione; a quell'epoca le sue mura di cinta seguivano il tracciato della via San Carlo, racchiudendo però anche una parte di piazza San Ferdinando ed una parte dell'attuale piazza del Plebiscito. Dopo la costru­zione della Reggia, molte aiuole del parco furono distrutte e rimase sol­tanto la parte verso Castel Nuovo, che restò unita al parco del castello per mezzo di un ponte costruito da Benvenuto Cortelli nel 1574. In questo giardino nel 1771 fu edificato l'edificio che doveva servire alla lavorazione della nobile  porcellana che si chiamò poi  di Capodimonte.

Quando la reggia fu rifatta dall'architetto Genovese, furono sistemati anche quel Iato del parco che dà verso la piazza San Ferdinando, il giar­dino pensile e il giardino di fronte a via Verdi; nel 1846 fu poi ricavato lo spazio per quei due cavalli chiamati di bronzo (e che sono invece di ferro), che l'imperatore Nicola di Russia volle regalare a Ferdinando II. Queste due statue sono opera del barone Giacomo Cloot; nel 1926 per con­sentire libero accesso a quell'ala del palazzo destinata a biblioteca, fu­rono relegate ai lati di un cancello verso Castel Nuovo.

Per terminare questo itinerario, accenneremo qualche notizia sulla Gallerìa Umberto I, la cui facciata principale è proprio di fronte al teatro San Carlo.

Progettata su disegno di Emanuele Rocco, essa fu costruita tra il 1887 ed il 1890 da Antonio Curri ed Ernesto Di Mauro, che provvide alla de­corazione di stile rinascimentale mentre la cupola in vetri ed in ferro è opera di Paolo Boubée: vi si accede dalla via San Carlo superando un porticato a colonne, da via Verdi, da via Santa Brigida e da via Toledo.

La galleria, di forma ottagonale, è larga m. 15, alta circa m. 34,50 con un diametro di circa m. 36,50 nell'ottagono: la cupola è alta m. 56,70, la pavi­mentazione è in marmo.

Piazza Piedigrotta - Galleria delle Quattro Giornate - Piazza Italia - Via Caio Duilio - La Loggetta - Viale Augusto - Piazza Vincenzo Tecchio - Via Kennedy - Via Domitiana - Agnano - Bagnoli - Coroglio - Nisida - Via Diocleziano - Via Giulio Cesare - Via Fuorigrotta - Galleria della Laziale - Piazza Jacopo Sannazzaro.

Per raggiungere Fuorigrotta ed Agnano possiamo partire da piazza Sannazzaro e imboccare la Galleria della Laziale, chiamata anche Galleria di Posillipo o partire da piazza Piedigrotta e pas­sando sotto la stazione di Mergellina delle Ferrovie dello Stato imboccare la Galleria delle Quattro Giornate lasciando a sinistra il Parco Virgiliano che abbiamo già visitato. Entrambe queste gallerie conducono nel rione di Fuorigrotta: la Laziale in via Fuorigrotta, che ha a destra via della Grotta vecchia, via Costan­tino e via delle Legioni, e giunge in piazza Italia dopo aver incro­ciato a sinistra via Brigata Bologna e via delle Crociate. La Gal­leria delle Quattro Giornate esce invece in via Caio Duilio ed ha a destra via Alessandro Scarpati che si biforca a sinistra in via della Canzanella vecchia e quindi, cambiato il nome in via Con­salvo raggiunge la zona chiamata La Loggetta con le strade di via B. Quaranta, via G. Petrucelli, via Mario Gigante, via Porcelli.

Ci conviene a questo punto fare una breve digressione per esaurire questa direttiva: per via Nino Bixio o per via Consalvo, superando il quadrivio di via Michelangelo da Caravaggio, im­bocchiamo via Cassiodoro, che incontra sulla sinistra il viale Traiano e poi piazza Vitale e l'omonimo rione Traiano. Sulla destra invece via Giustiniani ci porterebbe in via Nuova Agnano, sulla quale sfociano da sinistra le vie Adriano, Tulio Ostilio, Nerva, e Numa Pompilio e quindi la moderna via Epomeo. Que­st'ampia arteria ha a sua volta sulla sinistra via Garzilli e sulla destra via della Valle e via Montevergine intersecata da via Perrotti e da via Percopo. Altre strade di questo nuovo rione sono via Marra, via Pierantoni, via Quattro Novembre, che ha sulla destra la via Contieri che si congiunge con via Alveo Con-tieri che sfocia in Madonna delle Grazie.

Via Caio Duilio giunge al Largo Lala, nel quale convergono viale Augusto e via Giacomo Leopardi, in parallelo con la via Cumana e la via Giovanni Pascoli, entrambe intersecate da via della Ginestra e dalla piccola via Ruffa. Inizieremo la visita di Fuorigrotta imboccando il proseguimento di via Fuorigrotta, via Giulio Cesare, che ha in parallelo via Fabio Massimo e si con­giunge a viale Augusto con via degli Scipioni.

Alla nostra sinistra c'è la linea ferroviaria, tra via Giulio Cesare e via Campegna: via Campegna si collega con via Giulio Cesare tramite via Missionari ed ha sulla sinistra via Caravaglios, quasi in parallelo sulla destra via Tiberio e più avanti a sinistra via Coriolano. Proseguendo per via Campegna troveremo sulla destra via Giuseppe Testa, via Giulia, via Venezia, via Amerigo Crispo e via Carnaro, oltre a via Marco Polo intersecata da via Ronchi, che si collega con via Carnaro proseguendo per via dei Legionari e lasciando a sinistra via Dalmazia. Via Marco Polo, che abbiamo visto, sfocia in via Cavalleggeri, intersecata da via Polo e da via Cesare Frea e quasi in parallelo con via Daniele Manin ha sulla sinistra via Redipuglia, via Sandonà, via Luigi Rizzo ed in parallelo via Cincinnato e via de Grenet. Queste strade, infine, raggiungono la via Cavalleggeri Aosta in piazza Neghelli; in questo rione vi sono ancora via Giacinto De Sivo, via Divisione Siena, la traversa Cavalleggeri Aosta che parte dal­l'ex caserma Cavalleggeri Aosta sulla cui circonvallazione sfocia la via Nuova San Clemente.

Ritorniamo ora nella via Giulio Cesare, che dopo aver "sor­passato a sinistra la stazione ferroviaria di piazza Leopardi giunge in piazzale Tecchio, dov'è l'altra stazione dei Campi Flegrei: dopo piazza Vincenzio Tecchio il proseguimento di via Giulio Cesare prende il nome di via Diocleziano e continua con la linea ferroviaria a sinistra e a destra via Mario Menichini e via Pa­squale Formisano che la collegano con la parallela via Kennedy. Più avanti sulla destra di via Diocleziano troviamo via Filippo Illuminato, sulla sinistra la via Cavalleggeri e ancora a destra via Capuozzo; via Diocleziano ci porta quindi sino a Bagnoli e alla via Nuova Bagnoli lasciando a sinistra via Enrico Cocchia e gli stabilimenti dell'ILVA.

Ritorniamo ora al nostro punto di partenza, Largo Lala, ed imbocchiamo questa volta lo spazioso viale Augusto. Troveremo poco più avanti a sinistra la piazza San Vitale con la Chiesa moderna di San Vitale; seguono, sempre sulla sinistra, via Attilio Regolo e via degli Scipioni ed il viale sfocia finalmente in piazza Vincenzo Tecchio, dove si nota all'angolo sinistro il gran palazzo del Politecnico della Facoltà d'Ingegneria, che ha sulla sinistra la via Fabio Massimo. Nella piazza vi è la stazione della Ferrovia Cumana, e di fronte al Politecnico l'ingresso principale alla Mostra d'Oltremare, quartiere fieristico creato nel 1939 che, essendo stato danneggiato per gli eventi bellici, fu poi ricostruito nel 1952.

L'ampia zona ha un'area di 675.000 mq. e circa 12 Km. di viali car­rozzabili, e contiene 22 padiglioni, compresi per la maggior parte tra l'in­gresso e la Fontana dell'Esedra. Questa fontana è di grande effetto di sera, quando è illuminata. Fra le costruzioni che sono in questo impor­tante complesso ricordiamo la Torre delle Nazioni, il Padiglione Europa, opera di Elena Mendia, il Padiglione Italia di C. Cocchia, il Palazzo dei Congressi di L. Piccinato, il Palazzo del Turismo di Della Maione, il Pa­lazzo dell'Africa di Giulio De Luca, il Palazzo dell'America del Nord di C. Cocchia, il Teatro Mediterraneo opera di L. Piccinato con ampio pal­coscenico e con una ricettività di 1.200 persone, l'Arena Flegrea per 10.000 spettatori, ideata da Giulio De Luca ma rifatta e rimodernata per ragioni di sicurezza lo scorso anno, il Teatro dei piccoli, la Piscina olimpionica, il Parco dei divertimenti ed infine il Giardino Zoologico ed il Cinodromo Domiziano. È annesso alla zona della Mostra anche Edenlandia, un Parco di  divertimenti.

Sulla destra dell'ingresso della Mostra vi è il Largo Barsanti e Matteucci, nel quale confluiscono via Claudio, proveniente da piazza Gabriele D'Annunzio e via Guglielmo Marconi che ha sulla

sinistra alcuni edifici della Rai e sulla destra l'Istituto Nazionale Motori il cui ingresso principale è il Largo Barsanti. Poiché ci troviamo in questo largo ricorderemo che sulla sua destra, retro­cedendo di poco vi è Io Stadio San Paolo, e imboccando via Le­panto, parallela del viale Augusto, si può giungere in piazza Co­lonna che si collega con il viale Augusto tramite via Doria ripor­tandoci quasi al punto di partenza. Via Lepanto, via Giulio Cesare e viale Augusto sono parallele: la prima, sfociando in piazza Co­lonna, fa angolo con via Giacomo Leopardi il cui proseguimento porta a via Terracina, al Cimitero di Fuorigrotta e all'imbocco della Tangenziale. Percorrendo via Giacomo Leopardi nel senso opposto, troveremo sulla sinistra via delle Scuole Pie, via Pom­ponio Gaurico, via Benedetto Cariteo, via Gianbattista Marino e via Tansillo, intersecate da via Jacopo de' Gennaro, via Francesco Galeota e via Giulia Gonzaga; sulla destra invece la via Leopardi ha via Gabriele Rossetti, via E. Petraccone e via Enrico Arlotta, intersecate dalla via Nunzio Faraglia che tramuta poi il nome in via Luigi Mercantini e da via Pietro Napoli Signorelli che cambia nome in via Cerlone, ambedue partite da via Davide Winspeare, che si unisce ad angolo con via Pietro Metastasio. Via Giacomo Leopardi ha ancora sulla sinistra la via Pirandello, dopo il Rione Lauro e si ritrova quindi alle spalle dello Stadio' San Paolo in piazza Gabriele D'Annunzio.

La via Lepanto, che iniziando da piazza Colonna segue un tracciato parallelo al viale Augusto, sfocia anch'essa in piazzale Tecchio, dopo aver incontrato sulla sinistra via Sebastiano Ve­rnerò, via Degni, via Gennaro Fermariello e via Morosini. Da piazzale Vincenzo Tecchio si imbocca via Kennedy, al cui inizio a sinistra vediamo il Palazzo dell'ACI e il Palazzo dell'ANAS: in effetti di qui inizia la via Domitiana che lasciando sulla destra la conca di Agnano, porta a Roma via Formia.

La via Kennedy incontra sulla destra via Barbagallo e via Labriola che la collegano a via Giochi del Mediterraneo; tra queste due strade è il Palazzetto dello Sport. A sua volta la via Giochi del Mediterraneo è collegata con via Terracina che dal quadrivio di via Michelangelo da Caravaggio giunge in via Nuova Agnano. Via Giochi del Mediterraneo, superato il quadrìvio di Agnano, cambia nome in via della Liberazione lasciando sulla destra la Scuola di Equitazione e fermandosi all'ingresso della NATO: di qui per via Carafa o per via Girolamo Cerbone, che passa sotto un ponte delle Ferrovie, si può andare a Bagnoli. Il proseguimento di via Diocleziano, via Nuova Bagnoli di cui abbiamo già parlato, forma con la via litoranea e con via Carafa un triangolo isoscele nel quale sono comprese innumerevoli pic­cole stradette che tralasceremo di nominare. Da piazza Bagnoli, poi, per via Coroglio, lasciando a sinistra gli altiforni dell'Uva e la Cementir si può giungere al lido di Coroglio e all'isoletta di Nisida.

Questa piccola isola il cui nome deriva del greco Nesis, che vuol dire appunto isoletta, è quasi circolare: essa è un cratere vulcanico la cui aper­tura superiore ha un diametro di 500 mt; il piccolo porto è chiamato Paone. Su questa isoletta, Bruto, che vi aveva una villa, congiurò con Cassio contro Cesare e varie volte vi ricevette la visita di Marco TulIio Cicerone: di qui Bruto partì per la Grecia e qui la moglie Porcia dopo la battaglia di Filippi si suicidò. Sulla sommità di Nisida vi è una costruzione angioina trasformata in prigione dai sovrani borbonici, che riteniamo sia ancora la sede di una colonia di redenzione per minorenni; perciò la visita dell'isola non è permessa ed è possibile solo dietro ri­chiesta effettuata al comando militare che è all'inizio della strada.

Ritornati indietro in piazza Bagnoli, imboccando di nuovo via Nuova Bagnoli e poi via Nuova Agnano ritorneremo al qua­drivio di Agnano. Di qui, lasciando sulla sinistra la Domitiana che ci porterebbe fuori città, proseguiremo per visitare le Terme di Agnano, l'Ippodromo e il parco degli Astroni.

Agnano fin dall'antichità è nota per le sue Terme alimentate da varie sorgenti, in quanto questa località non è altro che un cratere vulcanico da ritenersi forse il più antico del terzo periodo eruttivo dei Flegrei. Prima ancora dei romani gli stessi calcidesi conoscevano ed usavano i fanghi e le acque di Agnano. Cronache di epoca posteriore riportano poi che un vescovo di Capua, San Germano, guarì per merito di queste cure di una malattia abbastanza seria. Il nome di Agnano deriva da quello della famiglia Ania di Pozzuoli a cui la zona apparteneva: Anianum, quindi, come si ricava da un documento del 997. Col tempo Anianum si tramutò prima in Agnanum, come può rilevarsi da un documento del 1219 e poi, sin dalla fine del secolo XIV in Agnano. Lo stabilimento termale è stato attualmente rimodernato e ampliato: esso costituisce attualmente un moderno complesso per cure termali di bagni, fanghi e stufe, cure fisiote­rapiche, estetiche, idropiniche e inalatone. Vicino ad esso vi sono i ru­deri delle antiche Terme romane, a sei piani; sono stati messi in luce il frigidarium, una piscina semi circolare, un'altra piscina rettangolare, al terzo piano un laconico semi circolare, un tepidarium ed un altro laco­nico con doppio pavimento, oltre a un calidarium. Nei pressi si può vi­sitare una grotta chiamata del cane, in quanto essendovi esalazioni di acido carbonico, per il passato vi venivano portate queste bestiole per essere barbaramente eliminate.

Uscendo sulla nostra strada ci porteremo verso via Pisciarellì, che si trova alle spalle della Solfatara e sulla destra troveremo l'Ippodromo, che è da ritenersi uno dei più importanti esistenti in Italia. La strada comincia poi a salire e porta in una piazzetta nella quale vi è l'ingresso al Parco degli Astroni e la torre omo­nima che fu costruita sotto il governo borbonico per il servizio di vigilanza e di custodia del personale addetto al parco.

Anche questa località è un cratere che doveva essere attivo nel X se­colo a.C. II nome dì questo parco si ritiene derivi dalla presenza di « strunis », cioè uccelli, oppure da stregoni che vi trovavano ricetto: fu per primo Alfonso d'Aragona ad utilizzarlo per battute di caccia facendovi convogliare animali selvatici e talvolta anche feroci. Nel periodo vicereale gli Astroni furono venduti alla famiglia Giovine, che li donò ai Gesuiti, e questi nel 1739 li permutarono con il feudo di Casolla con Carlo di Bor­bone. Vi sono state in questa tenuta reale importanti cacce a cavallo, che tuttora di tanto in tanto si organizzano per coloro che si dedicano an­cora a questo sport.

Il bosco è molto fitto e vale la pena di visitarlo; inoltre dalla Torre degli Astroni si gode un magnifico panorama.

Mergellina - Posillipo - Piazza Salvatore Di Giacomo - Via Boc­caccio - Via Lucrezio Caro - Marechiaro - Via Alessandro Man­zoni - Villanova - Piazza Europa - Largo Santo Stefano - Il Vomero Vecchio.

Partendo da via Mergellina, ci proponiamo ora di visitare l'amena collina di Posillipo percorrendo l'omonima strada, che segue le sinuosità della costa sino al Capo, e quindi tornando verso l'entroterra esaminare prima le strade a mezza costa e dopo quella sul crinale, via Manzoni, fino a toccare l'altra collina del Vomero.

Via Posillipo, che si snoda all'inizio appena un po' al di sopra della frastagliata costa di questa splendida altura, salendo man mano sino a raggiungerne la sommità, fu iniziata nel 1812 da re Gioacchino Murat e terminata nel 1823. Questo lato del golfo è ridente, dolcemente degradante verso il mare e ricoperto da una fitta e verde vegetazione. Il suo nome deriva dal greco Pausìllipon, che vorrebbe significare il luogo dove si dimenticano i dolori, sans-souci, quindi, fine della tristezza. Pausillipus la j collina fu chiamata in epoca romana, poi Mons Posilipensis e nel periodo angioino Casale Posilipi.

Appena imboccata via Posillipo troviamo a sinistra Villa Chierchia e a destra una stradetta che conduce al largo Sermoneta. Seguono immediatamente a sinistra, Villa Quercia, at­tualmente rifatta e restaurata e a destra una magnifica villa patrizia ove ha sede l'Istituto Santa Dorotea.

A pochi passi incontriamo lo storico Palazzo Donn'Anna, attualmente in cattive condizioni esteriori: diruto ma solenne, il vecchio edificio sporge sul mare, testimone di un passato fosco e leggendario, e persino, secondo la leggenda, degli amori perversi della regina Giovanna.

In effetti queste mura a picco sul mare nulla hanno a che fare con le esecrate regine alle quali una ininterrotta tradizione popolare ha attri­buito ogni sorta di efferatezze e di lussurie, maestre di venefici e di al­cove, turpi e bellissime femmine smaniose di amori e di sangue. Nel '400 il palazzo apparteneva a Dragonetto Bonifacio del Sedile di Portanova, figlio di Roberto, nobile d'Oria e di Lucrezia Cicara, che fu nominato marchese da Carlo V. Uomo di cultura, egli si interessava allo studio delle lettere, della chimica e dell'alchimia. Fu allievo di Pietro Summonte, amico di Alfonso d'Avalos e di Jacopo Sannazaro, per il quale ebbe sin­cera amicizia ed ammirazione, come si rileva dai suoi versi in latino ed in volgare. Morì molto giovane, si disse per una caduta da cavallo, o per un esperimento di alchimia non riuscito. Nel 1571 il palazzo passò ai Ravaschieri che ne fecero una sontuosa residenza e vi ospitarono la più alta nobiltà napoletana; da loro fu venduto al principe Luigi Carafa di Stigliano. Lo ereditò quindi il figlio Antonio dal quale nacque donn'Anna Carafa alla quale l'edifìcio deve il suo nome.

La ricca ereditiera, imparentata con gli Orsini e gli Aldobrandini, ebbe molti pretendenti, tutti importanti e di nobile lignaggio, come il nipote di Urbano Vili, Alfonso III di Modena, Francesco d'Este, ma per istigazione del viceré Olivares, il re di Spagna impose che la fanciulla non potesse sposarsi senza il suo consenso. Il disegno dell'astuto viceré era quello di riservare il pingue patrimonio degli Stigliano al duca di Medina las Torres don Ramiro Guzman, vedovo di sua figlia, che dopo questo matrimonio sarebbe stato eletto viceré. L'ambizione della princi­pessa prevalse su ogni sentimento e giunse quindi dalla Spagna... il prin­cipe azzurro, che preferì sbarcare a Procida e farsi precedere da una galea colma di doni.

Le nozze ebbero luogo in palazzo Cellamare: nel 1637 don Ramiro fu nominato viceré e quindi l'ambiziosa donn'Anna divenne viceregina. Nel 1642 ella fece ingrandire ad abbellire il palazzo a Posillipo da Cosimo Fan-zago che vi lavorò ben due anni con circa quattrocento operai. Vi fu co­struito anche un teatro che fu causa di un infausto avvenimento. Come ci ha raccontato Matilde Serao nelle sue «Leggende Napoletane», vi si recitava un dramma che aveva come interpreti la giovane ed attraente Mercedes de las Torres, nipote della viceregina, nella parte di una schiava, e il principe Gaetano di Casapesenna, l'amico di donn'Anna. La recita­zione dei due era tanto verista che questa si ingelosì, e invitò la bella nipote a lasciare in pace il principe. Poiché la tresca, però, continuava, la viceregina fece rinchiudere la giovane in un convento e trasferire il prin­cipe su un campo di battaglia ove trovò la morte.

Nel 1644 il consorte dovè rientrare in Spagna, ed ebbe finalmente una buona scusa per abbandonare al suo destino la moglie, che volle ritirarsi in una villa a Portici ove l'anno seguente morì abbandonata da tutti, amici e nemici.

Nel 1647 il popolo, per l'odio ancora vivo contro la vecchia proprie­taria, saccheggiò il palazzo, che fu poi rimesso a nuovo da Nicola Maria Guzman, a tre piani, con finestroni rettangolari e nicchie in due delle tre facciate e tre portoni di ingresso. Pochi anni dopo, però, nel 1688, il ter­remoto danneggiò moltissimo il fabbricato e tra le sue macerie trovò la morte anche il proprietario. In seguito il palazzo passò ad un Carafa di San Lorenzo che a sua volta lo vendette al marchese di Calitri che era vedovo di una Carafa di Stigliano; nel 1807 divenne poi proprietà di Mat­tia Durante. Con l'allargamento della strada sotto il regno di Ferdinando IV una parte del palazzo donn'Anna andò distrutto: quel che rimase nel 1824 fu comprato da una fabbrica di cristalli, poi dalla famiglia Manzi, poi ancora da un certo Geiser ed infine, dopo essere stato per un periodo della Banca d'Italia, dalla famiglia francese Genevois; lo acquistarono in­fine i Capece Minutolo di Bugnano insieme ai Colonna di Paliano.

Subito dopo, sempre a sinistra vi è VOspizio Marino dei padri Bigi, un Ordine religioso fondato nel 1822 dal venerabile Ludovico da Casoria, davanti al quale vi è una statua raffigurante San Francesco che benedice Dante, Giotto e Colombo. Sulla si­nistra troviamo magnifiche ville circondate da parchi lussureg­gianti che scendono sino al mare, mentre sulla destra si susse­guono anonimi caseggiati e si apre poi piazza San Luigi, una spe­cie di grande cava con la roccia a strapiombo sul lato a monte, circondata di brutti palazzi moderni.

Continuando a salire verso il Capo di Posillipo, con lo stesso panorama di lussureggianti parchi secolari che si riflettono sul mare azzurro, non possiamo fare a meno di notare qualche bella costruzione e di ricordare una storica villa^ quella del duca di Roccaromana.

La Villa Roccaromana ha una graziosa pagoda che si affaccia in una insenatura del mare di Posillipo contornata da pini e da alti alberi che ricorda tanto la pagoda dei d'Angri; era prima decorata di madreperle e conchiglie in uno stile molto « roccocò ».

Sulla destra è invece l'ingresso a Villa Peirce con un'iscri­zione che ricorda un soggiorno  di Garibaldi nel  1860;  notevoli ancora Villa Campione, Villa Maria, e Villa Gallotti, tutte sul mare, con un panorama che può considerarsi tra i più belli che possa offrire la natura. Sulla destra troviamo il Mausoleo di Schilizzi, un edificio in stile egizio costruito da un miliardario livornese ebreo con l'intenzione di farvi la sua tomba di famiglia. La costruzione fu iniziata nel 1883 su disegno di Alfonso Guerra ma fu interrotta nel 1889 ed infine nel 1923 il municipio di Napoli decise di riscattarla per trasformarla in un Mausoleo per i Caduti della I guerra mondiale; quindi attualmente questa costruzione è chiamata Ara votiva ai Caduti per la Patria.

Le cariatidi in bronzo nel propileo sono opera di Giovan Battista Amendola di Episcopio di Sarno ed i lavori di riadattamento furono ese­guiti magistralmente dall'architetto Camillo Guerra.

Si giunge poi alla graziosa piazza Salvatore Di Giacomo e alla piccola Chiesa di Santa Maria di Bellavista del 1860 com­pletamente restaurata in questi anni; a sinistra la via Ferdinando Russo porta alla piccola insenatura di Rivafiorita, rasentando i meravigliosi giardini delle grandiose Ville Barracco e Maria Pia, già Roserbery, proprietà del demanio dello Stato a cui fu do­nata dall'ultimo re d'Italia.

Costruita in un parco secolare ricco di elei coniche, di querce, di aiuole fiorite, di erme e tempietti che, in dolce declivio, lentamente di­gradano verso il mare, la villa appartenne al fratello di re Ferdinando, il conte d'Aquila Luigi di Borbone.

Di un nitido biancore, è ornata di fregi architettonici e da un gra­zioso ed armonioso portico di quattro colonne joniche, con terrazza, fini ringhiere e cornici ai balconi. Ha un bel cornicione classico che corona in alto il fabbricato, ed è dotato di una grande foresteria e di una pic­cola « dependence » costituita da un grazioso villino. Dalla Casina Reale, che è il fabbricato principale della villa, si raggiunge il mare per una bella gradinata fiancheggiata da una gran serra ricca di piante rarissime e di ogni tipo di fiori.

Verso la fine del secolo XVIII la villa, che apparteneva al conte di Thurn, fu acquistata dalla principessa Maria Antonietta Serra di Gerace che l'arricchì e l'abbellì facendone una vera dimora principesca. I suoi salotti ospitarono la corte reale e la elegante società del tempo; vi fu ospite con la graziosa moglie, Lord Hamilton il cui nome è legato alle tristi vicende della Rivoluzione Napoletana del 1799.

Interessante è il grande appartamento ove tra numerosi dipinti, degno di menzione, è quello, opera del Tichbein, che raffigura una battuta di caccia nel bosco a cui partecipavano re Ferdinando, il marchese di Pesca­ra, il duca di Sussex, i cavalieri Cordua e Brancaccio, il conte di Sapo-naro, il duca di Castagneto e uno sciame di belle signore, assidue fre­quentatoci della villa tra le quali la duchessa Serra di Cassano, la gran­duchessa Luisa di Toscana, la regina Maria Carolina e la bellissima amica di Orazio Nelson,  Emma Lyona.

La villa nel 1835 fu acquistata dal conte d'Aquila Luigi di Borbone che, da quel gaudente che era, mise al bando corte e nobiltà, preferendo la dolce compagnia di graziose donnine non titolate, in massima parte piccanti artiste tra le quali Aminta Boschetto del San Carlo che divenne poi l'amica del barbuto e canuto don Luigi. Il conte provvide ad abbel­lire ulteriormente la villa con una pineta ed un altro parco e rimodernò il  suo appartamento  rendendolo moderno  e confortevole.

Liberale convinto, troncò ogni rapporto con la Casa Reale. Ammi­raglio della Flotta Borbonica, non solo non aveva mai comandato una nave, ma l'unica volta che prese il mare fu quando, nel 1844, si recò in Brasile per sposare la sorella di don Pedro II, cognato di re Ferdinando. Alunno dell'abruzzese Gabriele Smargiassi, fu invece un  discreto pittore.

La bella Aminta Boschetto, allorquando i Borbone nel 1860 lasciarono Napoli, piantò il vecchio amico in non più floride condizioni finanziarie e di salute e accettò la « protezione » del generoso banchiere Stolte che le offrì una villa a Portici. Rimasto solo, il nostro principe, dopo la bufera di quegli anni, vendette tutto il complesso al francese De La Haude. Man­dato in esilio a Roma, invano chiese aiuti finanziari a Casa Savoia e, in sempre più disagiate condizioni economiche, fu da tutti dimenticato e schernito: gli esiliati borbonici che erano a Roma, invece di chiamarlo il conte Aquila lo chiamavano « il conte porco »!

Il De La Haude, a sua volta, cedette la villa al conte di Rosebery, lord Archibald P. Philips Primrose che, ministro degli Esteri con Glads-tone, ritiratosi dalla vita politica, volle venirsene in Ttalia e si stabilì a Napoli ove, per il suo amore per l'arte, era già conosciuto da tutti i mercanti d'arte di quel tempo. Ricchissimo ed innamorato delle antiche cose, costituì una ricca raccolta di quadri, di sculture e di stampe e, alla sua morte, stabilì che la villa fosse destinata a dimora estiva del­l'ambasciatore Britannico presso il Quirinale affidandola, per la cura e la manutenzione,  al  Consolato  Inglese  di  Napoli.

La villa ebbe ospiti illustri tra i quali Edoardo VII d'Inghilterra. Il figlio del Conte nel 1923 la regalò a Benito Mussolini che, a sua volta, la donò alla città di Napoli. Vi soggiornò in ultimo Vittorio Emanuele III prima di partire per il suo esilio in Egitto.

Scendendo ancora per questa ripida strada troviamo alla fine l'ottocentesca Villa Volpicelli e quindi il piccolo caratteristico molo.

Ritornando in via Posillipo giungiamo al quadrivio del Capo, donde una discesa a sinistra porta a Marechiaro mentre una salita sulla destra raggiunge il Parco della Rimembranza.

Imboccheremo quindi la strada a sinistra per vedere il pic­colo specchio d'acqua divenuto celebre per la bellissima canzone omonima e la famosa « finestrella ». La strada scende tra ville e quel che resta dei vigneti di Posillipo, che producevano un vino prelibato ricordato sin dal tempo dei romani. Si raggiunge un larghetto dove vi è la piccola Chiesa di Santa Maria del Faro ed un piccolo agglomerato dove termina la strada. Per giungere al mare bisogna proseguire per una lunga gradinata, e solo al termine, a picco sull'insenatura, troviamo la delicata settecen­tesca finestrella al cui davanzale un vasetto di garofani ed una lapide ricordano la canzone musicata da Francesco Paolo Tosti su malinconici versi di Salvatore Di Giacomo. Affacciandoci sul mare costellato di scogli vediamo, appena a destra, un vecchio palazzo diroccato chiamato il Palazzo degli Spiriti che è in realtà il rudere di un edifìcio romano. Anche sul fianco della scaletta che abbiamo appena discesa vi sono le colonne di una antica villa romana.

Ritornando sulla nostra strada, lasciando sulla destra via Boccaccio proseguiamo per il bel vialone dal quale a sinistra si apre via Tito Lucrezio Caro. Di qui parte a sinistra la stradetta per la Gaiola, ma proseguendo si giunge al parco di Posillipo, dove, all'estrema curva del promontorio da una terrazza si può ammirare tutto l'arco del golfo di Napoli: dal porto a Capri, Ischia, Procida, Capo Miseno, alla zona Flegrea e Pozzuoli, men­tre l'isoletta di Nisida e Coroglio giacciono ai nostri piedi.

Prima di lasciare la collina di Posillipo e proseguire, vogliamo ricor­dare alcuni palazzi ed alcune ville scomparse che ci sono note attraverso le descrizioni dei patri scrittori: la Villa del marchese Cedronìo, ricordata principalmente per una ricchissima raccolta di conchiglie di ogni specie e qualità; la Villa Paesler, famosa per l'amena veduta, essendo situata sul punto più alto della collina, accanto alla quale vi era la fabbrica di cappelli di un tale Luigi Hachar, il Palazzo Morra, dove era anche la dogana nel 1812, i Palazzi Guida, Postiglioni, e quello del conte di Frìsio che so­vrastava il famoso scoglio sul quale un tempo vi era una trattoria. Verso i due scogli isolati chiamati « di San Pietro ai due frati » vi erano due Villette sul mare, una della lamiglia Ayale e l'altra Amato, vi era inoltre dopo la villa Roccaromana un antico convento dedicato a San Gerolamo ed attigua a questa una casa chiamata dei Pini, di proprietà della famiglia Crocchi. Ricorderemo inoltre la Villa del principe della Scaletta, la Villa Greven, appartenuta alla Margravia di Assia, che l'ebbe in dono da Ferdi­nando IV, il piccolo Palazzo Amulo e il quartiere militare fortificato che era al capo di Posillipo dal quale nel 1648 il duca di Guisa attaccò gli spa­gnoli;  esistono ancora la Villa Costa e l'altra della famiglia Lablache.

Percorriamo ancora un tratto di via Tito Lucrezio Caro, poi­ché vai la pena di soffermarsi in questa zona, lasciando a destra la strada che conduce alla Grotta di Seiano. Dopo essere entrati attraverso un cancello in una proprietà privata possiamo vedere i ruderi della Villa di Velio Pollione che fu paragonata da Ovidio a una città.

Plinio ne parla soffermandosi sull'eleganza e sul lusso col quale era stata costruita, raccontandoci di vaste piscine ove venivano allevate voraci murene alle quali non di rado si davano in pasto schiavi infedeli o ribelli. Anche Seneca riporta che questi infelici venivano buttati vivi in queste piscine e Svetonio racconta che uno schiavo colpevole solo di aver rotto una preziosa anfora di cristallo mentre serviva ad un banchetto offerto da Pollione ad Augusto, venne condannato a questa atroce sorte per pu­nizione. A nulla valsero le insistenze di Augusto perché il poveretto venisse risparmiato sinché alla fine l'imperatore, indignato, ordinò che si rompesse tutto il ricchissimo vasellame dell'ospite e che lo schiavo fosse graziato. Alla sua morte Pollione lasciò la villa ad Augusto e dopo che il potente imperatore venne di tanto in tanto ad abitarvi sorsero intorno altre case ed altre ville. Secondo alcuni scrittori latini anche Giulio Cesare aveva in questa zona una villa ricca di piscine e di ameni giardini. Nel 1842 l'ar­chitetto Bechi effettuando degli scavi portò alla luce un Teatro, un Odeon e due edifici che riteniamo oncora oggi non identificati, gli avanzi di un acquedotto, di una piscina e di uno stadio. Il teatro aveva una cavea con un diametro di quarantanove metri e diciassette ordini di posti a sedere intersecati da due praecinctiones: il posto per l'orchestra ha un diametro di undici metri e vi si nota una vasca rettangolare che doveva essere una fontana, forse per poter trasformare il teatro in ninfeo, mentre quando il teatro funzionava normalmente la vasca doveva essere coperta da lastre di marmo; la costruzione è in opus reticulatum. L'Odeon, ben conservato, ha la sua cavea volta al teatro e ben dieci ordini di posti intervallati da sette scalee; il diametro è di ventotto metri e doveva in origine essere rico­perto di marmo. Vi è un posto su un piedistallo all'altezza del quarto sedile riservato all'imperatore ed in fondo una nicchia dove doveva esservi una statua poggiata su una base ancora esistente; vi si possono ammirare altresì delle colonne corinzie in marmo cipollino.

Raggiungendo la spiaggia, vediamo di fronte tre isolotti di tufo, il maggiore dei quali, imbruttito da una villetta moderna, viene chiamato la Gaiola. Questo isolotto anticamente era chia­mato Euplea, da uno dei nomi di Venere; quindi probabilmente vi era un piccolo tempio dedicato alla dea ove i naviganti venivano a raccomandarsi prima di iniziare i loro viaggi. A destra vi sono altri ruderi romani che sono volgarmente chiamati della Scuola di Virgilio in quanto un'antica tradizione vuole che qui il grande poeta avesse una scuola: alcuni li chiamano Casa del Mago, sempre riferendosi a Virgilio che si riteneva avesse magici poteri.

Ritorniamo al nostro quadrivio e imboccando via Boccaccio, al termine di  questa vediamo sulla sinistra il ponte o Cavalcavia della Montagna Spaccata e a destra la strada del Casale di Posillipo che porta al piccolo agglomerato di Santo Strato, il santo protettore di Posillipo, mentre la continuazione della strada prende il nome di via Manzoni. Sulla sinistra poco più avanti vi è la Stazione Superiore della funivia della Mostra d'Oltremare e continuando sulla nostra salita troveremo sulla destra una strada che si collega con il Casale di Posillipo e poi l'ampia, panoramicissima ed assolata via Petrarca. Qui dobbiamo deci­dere se proseguire per via Manzoni o girare a destra ed imboc­care via Petrarca. Accenneremo brevemente a questa zona resi­denziale di Napoli alla quale, come abbiamo detto quando siamo giunti a Mergellina, si accede da via Orazio, che comincia a destra della Stazione della Quarta Funicolare e si arrampica con ripida pendenza. A mezza costa della collina da essa si diparte via Petrarca, la stessa strada il cui termine abbiamo adesso in­contrato dal lato opposto, che percorrendo il fianco della collina pressappoco parallelamente alla più bassa via Posillipo, gode di un panorama vastissimo: Capri immediatamente di fronte e lo scorcio dall'alto della costa di Posillipo, la costiera sorrentina, la città con la bella via Caracciolo a sinistra, e più in alto, ancora più a sinistra, il Vomero e Castel Sant'Elmo. Questa zona resi­denziale, essendo moderna, è priva di qualsiasi interesse storico o monumentale, ma merita una visita per la sua bellezza. Via Petrarca è unita a via Manzoni ed a via Orazio da una rete di trasversali: via Pacuvio, via Nevio, via Catullo, via Stazio, via Scipione Capece nonché da altre strade di parchi privati. In que­sta zona residenziale vi sono: su via Petrarca l'antica Chiesa di Santa Brigida di Svezia, annessa al Seminario Teologico Cam­pano dei padri Gesuiti, su via Orazio all'angolo di via Nevio la modernissima Chiesa di San Gioacchino e più a valle, sul ver­sante di Piedigrotta, la seicentesca Chiesa di Sant'Antonio a Po­sillipo con l'annesso convento dei padri Domenicani che per un voto fatto dai fedeli è illuminato tutte le notti.

Questa chiesa e questo convento furono eretti nel 1631 con le elemo­sine raccolte da un pio frate di nome Paolo Anzalone e l'officiatura fu affi­data prima ai frati Conventuali del Terzo Ordine francescano e dopo, come si è detto, ai domenicani. La chiesa non offre nulla di notevole da segnalare ma dallo spiazzo antistante si ammira un magnifico panorama.

Ritorniamo ora a via Alessandro Manzoni che da Posillipo raggiunge il modernissimo corso Europa. Essendo sul crinale della collina, essa offre anche la visione del versante opposto, quindi della zona flegrea con Bagnoli, Pozzuoli, Capo Miseno, Baia, Bacoli, Monte di Procida, le isole di Procida e di Ischia e lo sguardo può allungarsi sino alla provincia di Caserta, al lido di Mondragone. Qui all'altezza di duecento metri, dalle ter­razze di alcuni palazzi o ville si può ammirare l'intero arco del Golfo di Napoli sul lato destro e sulla sinistra fino a Capo Miseno e oltre.

La collina di Posillipo era divisa anticamente in quattro villaggi: Santo Strato, Magalia, Spollano e Ancari, che costitui­vano il Casale di Posillipo. Del villaggio di Ancari resta l'edificio settecentesco chiamato Torre Ranieri. Lasciando alle nostre spalle

il villaggio di Santo Strato e il Casale di Posillipo troviamo, andando avanti per la nostra via Manzoni, Torre Ranieri, dove comincia la zona di Villanova. Sulla sinistra vedremo il grande Ospedale Fatebenefratelli e poi ville e villette di cui una vuole imitare un castello. Sulla destra incontriamo il termine di via Orazio, la stazione terminale della Quarta Funicolare, quella che parte da Mergellina e poi sempre sulla destra il termine di via Stazio, una deviazione di via Orazio. In questo terzo tratto di via Manzoni riteniamo notevoli l'antica Villa Patrizi con i ma­gnifici ed imponenti cipressi e sulla sinistra la Villa Vittoria, ove dimorò nel 1873 lo statista Urbano Rattazzi che fu a capo dell'opposizione nella Camera Subalpina e che strinse l'unione con la Destra liberale guidata da Camillo Cavour. Egli aveva sposato Maria Wyse, figlia di Letizia Bonaparte, principessa di Solms. La strada prosegue e lasciando a destra il vasto parco di Villa Matarazzo, sfocia in un trivio dove a sinistra vi è la via Michelangelo da Caravaggio che scende all'imbocco della tangen­ziale ed al Cimitero di Fuorigrotta. A destra invece una discesa molto breve conduce in piazza Europa dove, sempre sulla destra, incontriamo la modernissima Chiesa dei PP. Pallottini e la parte terminale di via Tasso. Sulla sinistra di questa piazza vi è l'im­ponente edificio del nuovo Istituto del Sacro Cuore, qui trasfe­ritosi dall'antica villa Manzo che abbiamo visto all'inizio di via Crispi in Piazza Amedeo.

Segue il largo Santo Stefano e, lasciando a destra la piccola cappella dedicata al Santo ed a sinistra le modernissime vie Piave e Timavo, la nuova strada chiamata corso Europa che at­traversa la zona che prima era chiamata del Vomero vecchio. In questa moderna arteria incontriamo a destra Villa Salve, a sinistra Villa Ricciardi e ancora a destra una deviazione che conduce alla Chiesa di Santa Maria della Libera, proprio al centro del Vomero vecchio, ove vi sono tuttora la Villa Regina e la Villa Belvedere, che fu bellissima ma è oggi in condizioni mise­revoli. Questa zona pittoresca fu il primo centro abitato sul Vomero e per distinguerlo dalla restante parte del grosso rione, una vera cittadina incorporata nella nostra città, viene ancora chiamato Vomero Vecchio.

Piazzetta Piedigrotta - Parco Virgiliano - Corso Vittorio Emanuele - Via Francesco Giordani - Piazzetta delle Quattro Stagioni -Via Tasso - Via Aniello Falcone - Il Petraio - San Carlo alle Mortelle - Cariati - L'inizio di Spaccanapoli - Via Pasquale Scura -Pignasecca - Corso Vittorio Emanuele - Piazza Mazzini - Piazza Gesù e Maria - Salvator Rosa.

Per percorrere questo itinerario, a mezza costa tra il mare e la collina, partiremo dalla Piazzetta Piedigrotta, nella quale incontriamo immediatamente l'antichissima chiesa omonima, che conserva però solo il ricordo delle sue origini remote. La Chiesa di Santa Maria di Piedigrotta all'inizio non era che una piccola cappella nella quale si venerava una effige della Vergine del Ser­pente o dell'Idra, così chiamata perché raffigurata mentre schiac­cia col piede il serpente che rappresenta il demonio, e prese verso il secolo XIV il nome di Madonna « de pede rotta » a causa della sua posizione « ai piedi della grotta ».

Il Boccaccio nel 1339, scrivendo ad un suo amico, Franceschino de' Bardi, la nomina raccontando che era andato a raccomandarsi alla « Ma­donna de Pederotta » perché Io proteggesse dai pericoli delle conseguenze di una sua... imprudenza amorosa. Una leggenda vuole che l'8 settembre del 1353 la Madonna apparisse in sogno a tre personaggi differenti: un monaco di nome Benedetto dell'abazia di S. Maria a Cappella, un eremita di nome Pietro che viveva in una caverna nei pressi di una grotta e una monaca appartenente alla reale famiglia di Durazzo di nome Karia che stava in un convento sull'isolotto del Salvatore; perciò, da al­lora, rimase l'abitudine di recarsi a venerarla in questo giorno e in quelli successivi. Questa Vergine è sempre stata molto miracolosa, ed anche il Petrarca ricorda nei suoi scritti che oltre al popolo napoletano anche co­loro che si trovavano di passaggio per Napoli si recavano a venerare in quel giorno la prodigiosa immagine. La chiesa fu poi ingrandita a cura di Alfonso d'Aragona che ne affidò l'onciatura ai Canonici Lateranensi e que­sti allargarono a loro spese il convento costruendo anche il chiostro, opera del Malvito, che attualmente fa parte dell'Ospedale Militare di Marina. Questo era ad otto arcate con colonne di marmo e capitelli di ordine composito,  ma  purtroppo  le  colonne  sono   state  cinte  da  pilastri.

Nel secolo XVI il tempio fu ancora ingrandito da Vincenzo Galeota e infine in epoca borbonica fu deturpato da un restauro che l'ha imbrut­tito sia all'interno che all'esterno. Questa chiesa, oltre ad essere legata alla nostra storia, è particolarmente cara ai napoletani; vi si recarono a vene­rare la Madre del Signore i re angioini, Alfonso e Ferrante di Aragona, che per un voto dopo la vittoria sui francesi nel 1495, volle partecipare alla festa dell'8 settembre con tutta la corte. Nel 1571 fu la volta di Gio­vanni d'Austria, il vincitore della battaglia di Lepanto e dopo di lui Vi­ceré e regine, come Maria d'Austria, sorella di Filippo V, vollero andare ad impetrare grazie dalla Beata Vergine. Dopo la vittoria di Velletri Carlo di Borbone proclamò questo giorno festa nazionale, e quindi il popolo napoletano in questa occasione poteva ammirare truppe ed ufficiali nelle brillanti e sfolgoranti divise da parata. La partecipazione dell'esercito venne abolita durante la breve parentesi repubblicana del 1799 e durante il de-curionato francese, ma la festa continuò dopo il ritorno definitivo di Fer­dinando IV a Napoli riacquistando il suo splendore; i sovrani passavano in rivista le truppe lungo la riviera di Chiaja e quando raggiungevano infine la piazza, la flotta, che era ormeggiata verso Posillipo, sparava a salve in segno di giubilo. Nel 1849 anche Pio IX, che era ospite dei sovrani volle recarsi a pregare nella chiesa di Piedigrotta l’8 settembre. Il ponte­fice partito da Portici, dove si trovava, e sbarcato dal « real vapore » Del­fino sul litorale di Mergellina nel luogo chiamato « la Torretta » fu ricevuto in un padiglione appositamente costruito, da tutti i dignitari della corte e ricevette gli onori militari dalla guardia reale. Quindi percorse il resto del cammino scortato dagli ussari, e trovò ad attenderlo in chiesa il car­dinale arcivescovo, l'abate del monastero e i canonici lateranensi, dai quali dopo la funzione si racconta che volesse ascoltare la storia della chiesa. Il Santo Padre uscì poi nella piazza per benedire la folla che lo attendeva. Durante l'unico anno di regno di Francesco II la parata e la rivista militare furono abolite, in quanto purtroppo il precipitare degli eventi non permetteva di pensare alle feste; quindi, nel 1860 l'organizzazione della « Piedigrotta » passò ad un giornalaio di nome Capuozzi che, al posto della parata militare... organizzò un cavalcata di asini con i suoi colleghi,  circa un  centinaio  fra  giornalai  e   strilloni.

Anche Garibaldi volle recarsi a Piedigrotta nel settembre del 1860,, poiché la festa coincise coi giorni in cui egli giunse trionfalmente a Napoli, ma sentendosi forse malsicuro, volle essere accompagnato in car­rozza dall'ex ministro della polizia borbonica, Liborio Romano. La sua passeggiata, infatti, non si svolse senza complicazioni, poiché, a quanto si racconta, mentre una parte della folla che lo circondava applaudiva, una parte scherniva minacciosamente con sberleffi di pretta marca partenopea, chiedendo a gran voce che il dittatore si togliesse il berretto. Per evitare... fastidi, convenne acconsentire e... accelerare, appena fu possibile, l'anda­tura della carrozza.

Nel 1861, partecipò alla festa il generale Cialdini che in veste di Luo­gotenente di re Vittorio Emanuele II di Savoia a Napoli passò anch'egli in rivista le truppe che erano schierate lungo la riviera. Questo fu l'ultimo anno in cui la festa ebbe un carattere di ufficialità, mentre da allora essa venne continuata solo dal popolo, che in quei giorni prese a scate­narsi in una sfrenata baldoria. Attualmente la Piedigrotta si è di gran lunga ridimensionata ed anche la sua rumorosa allegria fa parte soltanto della nostra storia.

Ci è sembrata utile questa breve digressione sulla festa di Piedigrotta data l'importanza  storica e  turistica di  questa caratteristica celebrazione.

Parliamo ora della chiesa, che si presenta con una brutta facciata del 1853 opera dell'architetto Enrico Alvino e con il campanile interamente ri­fatto nel 1937. L'interno è molto semplice, a croce latina e ad unica na­vata, con la cupola decorata da Eugenio Cisterna nel 1902 e la volta della navata da Gaetano Gigante nel 1812. Nella prima cappella a destra vi è la Madonna dì Piedigrotta di Fabrizio Santafede e nella seconda una Pietà di un ignoto quattrocentesco; a sinistra una Crocefissione di ignoto quat­trocentesco lombardo. Nella cappella a destra del presbiterio si trovano opere di Giuseppe Mancinelli del 1859 e il bel Monumento a Gaetano e a Carlo Filangieri di Nicola Renda. Una statua raffigurante la Vergine di scuola senese trecentesca è rinchiusa in un tabernacolo di Pietro Paolo Farinelli che si raggiunge da due scale ai lati dell'altare maggiore. Nel­l'abside un cinquecentesco coro ligneo e nelle cappelle a sinistra un Cal­vario e una Pietà di Vencesclao Cobergher, ed una Epifania su tavola da alcuni attribuita a Marco Pino. Nell'ultima cappella, affrescata da Belisario Corenzio, vi è una tavola di Giovan Bernardo Lama rappresentante la Pietà.

Dopo aver parlato della chiesa ci affrettiamo a spiegare quale fosse quella « grotta » ai cui piedi essa si trovava: si trattava in effetti di una galleria, scavata in tempi antichissimi nella col­lina per facilitare gli scambi commerciali con la fiorente città di Puteoli,  oggi   Pozzuoli,  e  perciò  chiamata  Grotta di  Pozzuoli.

Si vuole che fosse voluta da Lucullo nel III secolo a.C, o, secondo altri, sarebbe stata scavata col lavoro di centomila schiavi dall'architetto Cocceio per desiderio di Agrippa; nel medioevo se ne attribuiva l'apertura alle virtù magiche di Virgilio, e il Petrarca in un suo soggiorno napole­tano avrebbe   chiesto ironicamente a re Roberto d'Angiò se credesse a questa baggianata. Originariamente la galleria era molto bassa e poteva essere percorsa soltanto a piedi, come raccontano Petronio e Seneca, anche se in modo difforme da quanto disse poi Strabone; in seguito essa fu molto ampliata per volere dei sovrani aragonesi ad opera di Bruno Risparella,  come  si  poteva leggere  su un'epigrafe.

Secondo lo scrittore marsigliese Petronio Arbitro, che ne parlò nel suo « Satyricon », nella galleria vi sarebbe stato un tempio dedicato a Priapo, figlio di Dionisio e di Afrodite, dio della Fecondità, il cui culto si basava su riti fallici notturni. Anche nel periodo in cui era viceré don Pedro de Toledo, a metà del percorso vi era una cappellina scavata nel tufo, e poiché pur essendo dedicata a Santa Maria della Grotta vi avve­nivano gli stessi riti osceni che avevano avuto luogo nelle grotte platamonie, si diede incarico al vescovo di Pozzuoli di organizzare... un ser­vizio di vigilanza.

Sino alla fine del secolo scorso, poi, sulla destra della grotta vi era una piccola cappella della quale aveva cura un vecchio eremita che con le elemosine che raccoglieva non faceva mai mancare i ceri sul piccolo altare.

La grotta fu illuminata soltanto nel 1806 da Giuseppe Bonaparte e nel 1893 a cura degli architetti Virgilio Marangio e Adolfo Gianbarba fu restaurata, ma ben presto apparvero delle pro­fonde lesioni che resero prudente vietarvi il transito. L'ingresso di questa vecchia grotta attualmente è in alto a sinistra rispetto al tunnel delle Quattro Giornate. Esso doveva trovarsi sullo stes­so livello dell'antica strada, la Puteolana, che portava a Pozzuoli. Appunto poco prima dell'imbocco della nuova galleria vi è sulla sinistra un cancello dal quale si accede al cosiddetto Parco Virgiliano, un recinto che fu messo a posto nel 1930 per il bi­millenario della nascita del vate mantovano: in esso è stata data degna sepoltura ad un altro grande poeta italiano, Giacomo Leopardi.

Volendo visitarlo si giunge prima alla Tomba di Giacomo Leopardi, che fu costruita nel 1939 quando i resti del poeta vi furono traslati dall'antica chiesa di S. Vitale a Fuorigrotta.

A quell'epoca intorno alle povere ossa del cantore di Recanati sorsero delle chiacchiere e delle supposizioni degne di un romanzo giallo. Come è noto il poeta morì il 14 giugno del 1837 a Napoli, in un modesto palazzetto ancora esistente in via S. Teresa al Museo ed il suo amico Antonio Ranieri, dopo aver fatto benedire la salma da un frate agosti­niano, dovè darsi da fare non poco per evitare che le spoglie venissero buttate in una fossa comune dato che infuriava il colera e le norme igie­niche erano severe ed uguali per tutti. Poiché fortunatamente conosceva il Marchese del Carretto, all'epoca ministro di Polizia, il Ranieri riuscì ad ottenere il permesso di trasportare le spoglie del poeta fuori città e di farle inumare nella chiesa di S. Vitale a Fuorigrotta. Il trasporto si dovè effettuare di notte nel massimo segreto e poiché il poeta sembra che non fosse morto cristianamente, non si potè seppellirlo all'interno della chiesa, ma bisognò farlo nel pronao. In seguito Antonio Ranieri fece fare per il suo amico dall'architetto Michele Ruggero un semplice ma decoroso se­polcro  sul  quale  fu  messa una epigrafe  dettata  da  Pietro  Giordano.

Umberto I di Savoia dichiarò questa tomba monumento nazionale e i resti in questa occasione furono messi in un sarcofago in pietra; nel 1939 infine, poiché la chiesa doveva essere abbattuta per la sistemazione del nuovo rione di Fuorigrotta, si decise di tumulare le spoglie del Leo­pardi nel parco Virgiliano.

Quella che viene indicata da secoli come la Tomba di Virgilio si trova più in alto, proprio sulla destra dell'antica grotta di Pozzuoli,   su  uno  scosceso  banco  di  tufo.

Si tratta di un colombario romano di età augustea con un basamento sovrapposto al quale si accede da una piccola scala, ma riteniamo che l'ingresso originario della tomba dovesse essere rivolto verso la via Puteolana. Esternamente vi sono delle iscrizioni commemorative tra le quali una del 1594 che dice:

Qui cineres?  tumuli haec vestigia; conditur olim

 Ille hic qui cecinit pascua,  rura,  duces.

La tomba di Virgilio fu restaurata nel 1930, quando fu sistemato tutto il parco, mentre prima per accedervi bisognava scendere per un dirupo dalla chiesa di S. Antonio a Posillipo; tuttavia in verità essa non ha avuto ancora una degna sistemazione. Il primo descrittore di questo sepolcro fu Silio Italico, il poeta latino governatore dell'Asia, morto nel 100, che com­pose il poema « Punica » in 17 libri, il quale raccontò che il colombario si trovava nella sua villa, che aveva comprato dallo stesso Virgilio, e che vi era scritto quel famoso distico che sarebbe stato dettato dallo stesso vate:

Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc

 Partenope, cecini Pascua, Rura, Duces.

Non sappiamo se ciò corrisponda a verità o se questa iscrizione sia stata aggiunta in epoca successiva ma è certo che su queste ceneri e su questo colombario romano vi sono dubbi e diffidenze. Esso appartiene al­l'ultimo periodo della repubblica ma la sua semplice forma e le sue mo­deste proporzioni fanno dubitare che dovesse essere destinato a racco­gliere le ossa del grande Virgilio. Tuttavia anche il Villani nella sua « Cro­nica » riporta che Virgilio « fu seppellito in quel loco, dove si chiama, sancta Maria dell'Iria, in una sepoltura, ad un piccolo tempio quadrato con quattro cantoni fabbricati di tigule, sotto ad un marmone scripto, e formato a suo epitaphio de litere antique, le quali marmore foro sane al riempo degli anni 1326 ».

Nel '500 la tomba apparteneva ai religiosi che officiavano la chiesa di Piedigrotta poiché si trovava sul terreno di pertinenza di questa congre­gazione ed un giorno durante uno scavo effettuato nei pressi, nella villa dei marchesi Della Ripa si trovò un frammento in marmo che recava questa iscrizione:

Siste viator,  quaeso, pauca, legito.

 Hic Maro situs est.

Una notizia veramente sconcertante ci è giunta da uno scrittore che racconta che nella metà del '400 questo colombario, costituito da un plinto da una camera a volta e da loculi nei quali si trovano delle urne era stato trasformato... in taverna. Re Alfonso, avendo saputo di tale scempio, avreb­be voluto recarvisi personalmente con il poeta Antonio Beccadelli, chiamato il Panormita  e  con  Pier  Candido Decembri.

La tomba di Virgilio fu spesso visitata da Roberto d'Angiò, da Fran­cesco Petrarca e da Giovanni Pontano; anzi si narra che il Petrarca vi piantasse un lauro che si trovava ancora lì accanto nel 1615, poi sradi­cato da una violenta tempesta. La Margravia di Dajreuth ne avrebbe in­viato un ramo al fratello Federico II di Prussia con alcuni versi di Vol­taire.

Durante la repubblica napoletana del 1799 i francesi su proposta di Eleonora Pimentel Fonseca decretarono di innalzare un grande monumento al poeta, ma questo proposito non si trasformò in realtà per mancanza di tempo. Agli inizi del secolo XIX il terreno apparteneva ad un cittadino francese che vi ricevette, su una terrazza belvedere che aveva fatto co­struire, Giuseppe Bonaparte. Quando fu ministro della Pubblica Istruzione del governo italiano il letterato toscano Ferdinando Martini, fu sistemato il sepolcro ed il terreno che lo ospitava, del quale all'epoca era proprie­tario un tale di nome Marescotti che a sue spese volle farvi murare questa epigrafe :

Siste viator  quaeso, Pauca  legito

Hic. P. Virgilius Maro S.E.

V. Marescotti, Huius tumuli herus.

Lasciando a sinistra la grotta, che percorreremo quando vedremo la  zona  flegrea,   e  la  brutta  Stazione  Ferroviaria  di Mergellina, seguiamo il Corso Vittorio Emanuele, una lunga ar­teria che per circa sei chilometri percorre a mezza costa la collina, giudicata dal Gregorovius per il suo panorama una delle più belle strade del mondo. L'idea della sua costruzione è attribuita a Ferdinando II di Borbone, progettisti furono gli architetti Alvino, Cangiano, Francesconi, Gavaudan e Saponieri. I lavori, iniziati nel 1852, terminarono soltanto nel 1860, e la strada fu chiamata inizialmente Corso Maria Teresa, dal nome della re­gina, e si chiamò Corso Vittorio Emanuele solo quando il regno di Napoli fu unito al Piemonte. Sulla destra, un po' prima della curva, vi è la Chiesa dei Cappuccini, di nessun interesse, seguita da una caserma dove alloga un reggimento di Carabinieri. Qui incontriamo un bivio, ed il Corso Vittorio Emanuele prosegue sulla sinistra, mentre la strada a destra prende il nome di via Arangio Ruiz e nella sua prosecuzione di via Andrea d'Isernia. Quest'ultima va ad intersecare la discesa dell'Arco Mirelli.

Il corso Vittorio Emanuele incontra poi a sinistra la via privata del Parco Comola-Ricci e a destra la via Francesco Gior­dani, che dopo aver incrociato la via Michelangelo Schipa ci porta nella piazzetta dove è sita una Stazione della Ferrovia Cumana; alla sinistra di questa stazione vi è una strada intitolata a Maria Cristina di Savoia che congiunge il Corso Vittorio Emanuele a via Tasso. Proseguendo troviamo la piazzetta delle Quattro Sta­gioni dove sulla destra è stata costruita una modernissima Chiesa dedicata al Sacro Cuore, quindi il termine della salita dell'Arco Mirelli che continua sulla sinistra con i Gradoni di S. Francesco fino al Vomero. Poco più avanti incontriamo sem­pre sulla destra via Pontano e quindi, sul lato opposto, la im­portante arteria intitolata al poeta Torquato Tasso, aperta nel 1855, che collega il centro di Napoli al Vomero ricongiungendosi a via Aniello Falcone ed al corso Europa. Subito dopo l'incrocio di via Tasso vediamo due alberghi, seguiti dal Palazzo d'Ayala e dalla sua Cappella trasformata poi in parrocchia dedicata al SS. Redentore. Sulla destra si ammira il panorama del golfo e immediatamente al disotto, quanto rimane del parco dell'ex Villa Manzo, già Istituto del Sacro Cuore. Il prossimo incrocio si al­laccia sulla destra alla via del Parco Margherita e sulla sinistra alla salita del Parco Grifeo dove fa spicco il castellaccio che ospitò l'Hotel Bertolini.

Il nome di questo antico parco è quello del principe di Partanna, pa­trizio siciliano del quale era vedova quella Lucia Migliaccio che fu poi sposa morganatica di re Ferdinando IV. I suoi figli fecero parte del mini­stero degli esteri borbonico ed uno di loro fu ministro in Prussia, in Sar­degna e poi ambasciatore a Madrid: Salvatore fu segretario di legazione a Parigi e Luigi segretario di ambasciata a Berlino. Si affacciano lungo que­sta strada belle ville e sontuosi palazzi che godono di una delle migliori vedute della città.

Continuando lungo il Corso troviamo a sinistra la Stazione intermedia della Funicolare di Chiaia, che collega il Parco Mar­gherita con il Vomero, e più avanti in una curva la Chiesa di S. Maria Apparente, di scarso valore artistico, alla quale si ac­cede da un'ampia scalea a doppia rampa. Proseguendo incon­triamo sempre sulla sinistra la pittoresca Salita del Petraio che si arrampica con larghi gradoni verso il Vomero. Un tempo era chiamata Imbrecciata in quanto era pavimentata con ciottoli, che in termine napoletano vengono chiamati « vrecce », ma an­che il nome di Petraio o Petraro in effetti indica una strada sassosa.

Riprendendo la nostra strada ci fermiamo di tanto in tanto per fare delle deviazioni allo scopo di non farci sfuggire qualche particolare interessante. Imboccando le scale del vico S. Carlo alle Mortelle, sulla destra accanto alla Chiesa del Cenacolo, pos­siamo giungere alla Chiesa di San Carlo alle Mortelle che fu costruita nel 1616 da Giovanni Colla, ma ebbe la facciata rifatta nel 1743 dal domenicano Enrico Pini.

Essa era officiata dai padri Barnabiti, e vi era annesso il convento dei religiosi. Nell'interno si può ammirare soltanto un dipinto di Luca Giordano raffigurante S. Liborio sull'altare della terza cappella a sinistra ed ai lati del presbiterio alcune tele di ignoto pittore napoletano del '700, che rappresentano scene della vita dei religiosi dell'Ordine fondato da S. Antonio Maria Zaccaria.

Se scendessimo ancora per l'angusta stradetta giungeremmo al Largo Mondragone, dal nome del predicato della duchessa Elena Aldobrandini che qui nel 1653 fondò una chiesa ed un conser­vatorio per donne sole che riunendosi in uno pseudo-ordine reli­gioso si facevano chiamare « monache gesuite ». Da qui si im­bocca a sinistra via Giovanni Nicotera, intitolata al famoso ba­rone calabrese, combattente nella legione garibaldina, che operò in difesa della Repubblica Romana del 1849, fu ferito con Gof­fredo Mameli e andò poi esule a Genova ed a Torino; fu anche luogotenente del Pisacane nella sfortunata spedizione di Sapri. Potremmo ritornare alla piazzetta S. Maria degli Angeli o scen­dendo a destra per le Rampe Brancaccio, riportarci in via dei Mille, ma noi risaliremo al Corso Vittorio Emanuele, dove ci troveremo sulla destra la Salita Cariati che di qui scende la­sciando a sinistra i vicoli di Toledo e a destra via S. Caterina da Siena dove si nota la bella Chiesa di Santa Caterina.

È questa un'opera cinquecentesca rifatta interamente nel secolo XVIII dall'architetto Mario Gioffredo, dove si conservano dipinti di Fedele Fi-schetti del 1776 raffiguranti un S. Agostino e un S. Domenico oltre a un Calvario ed una Circoncisione di Giacinto Diano, opere per le quali vai la pena di fermarsi.

Riprendendo il Corso incontriamo sulla sinistra la Stazione intermedia della Funicolare Centrale che collega Toledo con il Vomero e sulla destra la piazzetta Cariati che prende il nome dal settecentesco Palazzo Cariati oggi sede dell'Istituto Pontano dei padri Gesuiti; vi è, a sinistra, l'imponente Istituto di Suor Orsola Benincasa, fondato nel secolo XVI da questa pia donna e portato a termine dopo la peste del  1656.

La Benincasa, figlia dell'architetto Giovanni, fondò un convento di mo­nache di clausura, chiamate volgarmente « sepolte vive », ma l'edificio fu trasformato poi in una scuola femminile.

Subito a sinistra incontriamo una piazzetta con una insigni­ficante chiesa e poco dopo il convento francescano e l'attigua Chiesa di S. Lucia al Monte; a destra i gradoni di Santa Lucia conducono sulla discesa dell'Ospedale Militare e quindi a Spaccanapoli.

Si giunge poi ad un bivio con una strada ancora di cam­pagna chiamata Pedamentina che conduce sino a S. Martino al Vomero, mentre a destra una ripida discesa conduce all'Ospe­dale Militare Principale, sito nei locali dell'ex Convento della Trinità, costruito nel 1608.

Questo monastero fu fondato da una pia suora di nome Eufrosina, al secolo la gentildonna spagnola Vittoria de Silva, che dopo essere stata fi­danzata di un conte Caracciolo, per una dolorosa delusione preferì in­dossare  il  saio  del  Terzo Ordine  francescano.

II convento, nel quale ancora oggi, potendo entrarvi, vi sarebbero da ammirare tante cose belle, era tuttavia ben poca cosa di fronte alla bellezza della Chiesa, chiamata della Trinità delle Monache, il cui imponente in­gresso con la balaustra è stato di recente restaurato. Iniziata nel 1621 da Francesco Grimaldi e terminata da Cosimo Fanzago, la chiesetta era in origine talmente bella e ricca da esser paragonata alla cappella del Tesoro di San Gennaro. Purtroppo oggi è adibita a farmacia dell'Ospedale Mi­litare. Fra le opere d'arte che vi erano all'interno, vi ricordiamo il taber­nacolo dell'altare maggiore di Francesco Duquesnoy detto il Fiammingo, un vero capolavoro di oreficeria barocca, e dipinti di Palma il Vecchio raffigu­ranti L'ingresso di Cristo in Gerusalemme e La discesa al limbo offerti da Leone XI alle monache della Trinità. Vi era inoltre una magnifica tela di Fabrizio Sanfelice rappresentante La Trinità che incorona la Vergine, e poi opere di Luigi Rodriguez e di Giuseppe Ribera detto lo Spagnoletto, che oggi possono ammirarsi a Capodimonte. La scala esterna, attualmente radicalmente restaurata, è del Fanzago e rappresenta un grazioso ed ar­monioso lavoro di scultura: essa si allarga elegantemente man mano che giunge al termine ed è ornata lateralmente da una delicata balaustra so­stenuta alle estremità iniziali e terminali da cariatidi. Il portale d'in­gresso della chiesa, incorniciato da eleganti lesene in marmo colorato, è sormontato da un timpano nel quale in un riquadro è raffigurata una colomba, simbolo dello Spirito Santo. Quando i monasteri furono sop­pressi, le opere d'arte furono involate, e da un rigoroso inventario di tutti gli oggetti d'arte esistenti nella chiesa a quell'epoca, molte opere risultarono mancanti e purtroppo non si è più riuscito a sapere che fine abbiano fatto. Basti dire che dovevano esservi anche due quadri di Marco da Siena, di cui si sono perse completamente le tracce.

Il monastero della Trinità delle Monache fu destinato sin dal 1806 da Giuseppe Bonaparte ad ospedale militare, nonostante le rimostranze del cardinale arcivescovo. Anche il governo italiano riconfermò la decisione di Giuseppe Bonaparte, ma nel gennaio del 1879, quando già la preziosa chiesa apparteneva all'ospedale ed era in un abbandono che fu ritenuto « colpevole e indegno di un paese civile », subito dopo che un ingegnere militare l'aveva dichiarata stabile e quindi adatta all'uso di magazzino, crollò uccidendo alcuni soldati! In questa triste occasione opere di scultura del Bottiglieri, marmi preziosi ed affreschi che vi erano ancora rimasti, fu­rono trasferiti in parte al Museo di San Martino e in parte al Museo Nazionale.

Sulla destra, quasi di fronte alla chiesa di cui abbiamo testé parlato vi è la Chiesetta dei Sette Dolori. Su questa chiesetta c'è una simpatica leggenda.

Si dice che in un orto chiamato Belvedere un giovane avesse una statua di fattura greca, in cui i villici di quella zona avevano voluto identificare la Vergine Maria. Nel 1411, per alcuni miracoli che questa Vergine aveva fatti, si pensò di erigerle una cappellina, che si volle intitolare a Santa Maria Ognibene, ma fu solo durante la pestilenza del 1656 che un tale di nome Caputo, insieme con altri amici, offrì la miracolosa statua ai frati Serviti. In tale occasione la rustica cappella fu trasformata in una graziosa   chiesetta  e  l'immagine,   rivestita  con  una   nera   tunica, fu chiamata « Addolorata » o dei Sette Dolori. La chiesa fu rifatta alla fine del secolo XVII e ne fu per un certo periodo maestro di cappella Giovan Battista Pergolesi. Nell'interno è da ammirarsi un San Sebastiano di Mattia Preti.

La strada continua verso il basso col nome di via Francesco Girardi, eminente avvocato penalista e deputato che fu sindaco di Napoli: essa è chiamata anche volgarmente Salita di Magne-cavallo, dal nome di un Ortensio Magnocavallo che nel 1594 vi eresse un gran palazzo che dominava tutta la zona. Suo figlio Francesco fondò la Chiesa di Santa Maria Ognibene. A sinistra scende la ripida via Pasquale Scura intitolata ad un magistrato borbonico che fu poi esule a Genova nel '48, e ministro di Grazia e  Giustizia   dopo  l'unione  del   Regno  di   Napoli  al   Piemonte.

Questa strada porta alla Pignasecca, che rappresenta uno dei maggiori mercati popolari di Napoli, una coreografia iridescente alternativa di co­lori, di voci, di offerte: dalle argentate mostre di pesce a quelle vario­pinte di frutta, dai graveolenti banchi di carne e frattaglie a quelli dorati delle friggitorie, alle verdure, allo scatolame, ai sottaceti, la strada offre tutto ciò che è commestibile ed altro ancora in un disordine pittoresco, in un caleidoscopio rutilante di colori troppo forti, di odori troppo vivi, di rumori troppo stridenti, che stordisce chi non è avvezzo, ed è esila­rante come un gas misterioso per chi nella città è nato.

Quando questa zona era ancora fuori delle mura di Napoli qui vi era un orto ameno e fertile di proprietà del principe Fabrizio PignatelK, chiamato Biancomangiare, pare, perché durante le gite che la nobile famiglia vi faceva con gruppi di amici, dopo le colazioni all'aperto veniva servito un dolce squisito, detto appunto Biancomangiare, ricavato da una vecchis­sima ricetta che altro non era che... il leucophagon degli antichi Greci.

Il nome di Pignasecca sembra che derivi da un albero di pino dell'orto dei Pignatelli che seccò... per essere stato troppo saccheggiato dagli « scu­gnizzi ». Un'altra versione sostiene invece che su questo pino « le piche depositavano oggetti preziosi che rubavano nelle case circostanti; invano la civile autorità cercava dei ladri, finché avendo l'arcivescovo emanato la scomunica agli autori di furti, che fu affissa al pino, questi immanti­nente seccò, onde il nome di Pignasecca ».

Ritorniamo ora al Corso Vittorio Emanuele, che sta per ter­minare, e vi troveremo la Stazione intermedia della Funicolare che partendo da Piazza Montesanto conduce a San Martino al Vomero; sulla destra una ripida scalinata può condurre anche a piedi a Montesanto. Poco più innanzi a sinistra troveremo un ottocentesco palazzo sul quale una lastra marmorea ricorda che vi abitò e morì Raffaele Viviani, uno dei massimi esponenti del teatro e della poesia dialettale napoletani.

Troviamo ancora a sinistra l'imponente secentesco Palazzo Montemiletto, malamente restaurato nello scorso secolo, apparte­nuto alla famiglia Tocco che aveva questo predicato principesco e poco più avanti giungiamo al termine del nostro panoramico itinerario in Piazza Mazzini. Al centro di questo largo, come spesso accade a Napoli, anziché un monumento a Mazzini, come ci si aspetterebbe, si trova il Monumento a Paolo Emilio Imbriani letterato e statista, opera di Tito Angelini che ha sul basamento dei medaglioni nei quali sono raffigurati la moglie e i figli del personaggio.

Dalla destra del monumento parte una strada che conduce in piazza Gesù e Maria, dove è l'omonimo Ospedale, i cui locali erano quelli di un convento domenicano. La annessa Chiesa di Gesù e Maria fu costruita su disegno di Domenico Fontana tra la fine del secolo XVI e la prima decade del secolo successivo.

L'interno ha interessanti stucchi e affreschi eseguiti da Giovan Bernardino Azzolino, tra i quali sono particolarmente da ammirarsi una Vergine del Rosario nel transetto destro e gli affreschi nei peducci della cupoletta antistante. Giuseppe e Bartolomeo Gallo nel 1693 eseguirono il bell'altare maggiore e la balaustra in marmi di vario colore; nell'abside si nota un S. Domenico di Paolo De Maio del 1742 ed a sinistra un prege­vole dipinto di Giovan Bernardo Lama del 1588 raffigurante S. Anna con S. Pietro e Gesù.

Se volessimo scendere per la strada che segue, chiamata Discesa o Salita Pontecorvo, dal cognome di una famiglia che qui aveva un imponente palazzo gentilizio, troveremmo a sinistra una chiesa dell'Ordine dei Barnabiti, poi l'Istituto dei Sordomuti e sboccheremmo infine in via Tarsia a Montesanto; poiché è la seconda volta che incontriamo questo nome sarà bene informare il visitatore che qui è la Chiesa di S. Maria del Monte Carmelo o di Montesanto ove è la Tomba del musicista Alessandro Scarlatti. Ritornando a piazza Mazzini, dove è terminato il nostro itinerario, osserviamo la via Salvator Rosa che attraversando la piazza da un lato scende al Museo Nazionale e dall'altro sale verso il Vomero

Home La storia A zonzo 1 A zonzo 2 A zonzo 3 A zonzo 4 A zonzo 5 A zonzo 6

Ultimo aggiornamento:  12-11-08