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II mito delle origini di Napoli tra­manda che la sirena Partenope, non essendo riuscita a sedurre Ulisse con l’aiuto della sua voce e dileggiata, per questo insuccesso, dalle sorelle e compagne, Ligea e Leucosia, si sia buttata in mare e che la corrente ne abbia ri­portato il corpo a riva, sull'isoletta di Megaride, dove poi sorse il castello di Lucullo, oggi Castel dell'Ovo.

La più antica e mitica città (di nome Partenope) si sarebbe estesa probabilmente dal Monte Echia (Pizzofalcone) verso il mare di S. Lucia, con davanti l'isoletta di Megaride (Castel dell'Ovo), raggiungendo la zona dell'attuale Palaz­zo Reale.

Storicamente accertata la città greca di Neapolis occupava un'area assai ristretta, per i quasi 30 mila abitanti che le si attribuiscono già nel 421 a.C., dopo l'invasione sannitica. Era limitata a nord dall'attuale via Foria, a sud dal Corso Umberto I, a ovest dalle strade di S. Sebastiano e di Costantinopoli, ad est dalla via Colletta e dal Castel Capuano. Vi erano aggregati dei pagus (villaggi) suburbani, sviluppatisi specie intorno al porto, in uno dei quali si trovava la tomba della sirena Partenope, assai venerata dagli abitanti. La città, costruita secondo il sistema di Ippodamo da Mileto, era a pianta regolare, tagliata ad angoli retti da tre decumani - le strade longitudinali - intersecati dai cardini — le strade tra­sversali. Il decumano centrale corri­spondeva alla odierna via dei Tribunali, ad oriente della Porta Capuana; quello superiore corrispondeva alla via della Sapienza, dell'Anticaglia (dove si scorgono ancora gli archi dell'Odeon) e dei SS. Apostoli, e terminava ad oriente con la Porta Romana; quello inferiore corrispondeva a S. Biagio dei Librai e a Forcella, con due punti ter­minali: uno a Porta Cumana, l'altro a Porta Nolana.

Un cardine importantissimo era quel­lo degli Alessandrini — l'odierna via Mezzocannone — che vi formavano una colonia, la quale raggiunse il massimo della sua espansione sotto Nerone. La regione da essi abitata fu chiamata Nìlense e, a documento di ciò, esiste ancora, pur dopo molte restaurazioni, il monumento che gli alessandrini eres­sero al fiume Nilo, nel luogo dove cer­tamente si trovava anche il tempio della dea Iside. A metà corso l'agorà, il Foro della Napoli greco-romana, dove fer­veva e pulsava tutta la vita cittadina, politica, religiosa, economica.

Vi si adunavano le assemblee del popolo per eleggere i magistrati e per discutere sulle questioni preminenti de­gli interessi cittadini. Vi sorgevano la Basilica, - l'attuale S. Lorenzo - la Curia, l’Aerarium, le scuole, il carcere. Dove oggi è S. Gregorio Armeno, sor­geva il tempio di Cerere, divinità ado­rata dai Napoletani quale propiziatrice della fecondità dei campi; il tempio di Apollo sorgeva dove oggi è S. Restituta; il tempio dei Dioscuri sorgeva dove è ora la chiesa di S. Paolo Mag­giore, in cui se ne conservano tre colon­ne corinzie e i torsi delle statue. L'im­ponente gruppo dei templi era comple­tato da quello in onore di Giove, dov'è oggi la Cappella del Pontano, e dal Caesareum o Augusteum, per il culto della famiglia Giulia, eretto in omag­gio all'imperatore. L'impianto viario e il complesso monumentale della Neapolis greco-romana è ancora ricostrui­bile ripercorrendo le strade dell'antico Corpo di Napoli, ove si svolgeva la vera vita cittadina, della quale il popolo napoletano conserva usanze tradiziona-lissime che ancora oggi si riproducono quasi allo stesso modo. A prova, riporto qui dalla « Napoli greco-romana » dello storico Bartolomeo Capasso (Napoli, 1905) la vivacissima descrizione che egli fa della vita che si svolgeva nel Foro napoletano, al tempo dei romani. « Essendo destinato specialmente al mercato, il Foro era frequentato da tutti quelli che venivano la mattina ad approvvigionare la città, e le botteghe più ricche ed eleganti facevano bella mostra di sé intorno ad esso. Vi si an­dava in tutte le ore del giorno per com­perare, per disbrigare le faccende e in­contrare le persone che si aveva biso­gno di vedere. Vi convenivano cittadini e forestieri, uomini e donne di ogni età e condizione; vi si vedevano gli Ales­sandrini e le persone venute dal lontano Oriente, che si riconoscevano dai pen­denti che portavano alle orecchie; i Greci, col pallio, i sandali e dalla voce sottile; i Romani con la toga e le scar­pe. Nelle tabernae argentariae o botte­ghe di affari si prendeva il danaro ad usura, si compravano vasi ed oggetti preziosi. In un angolo del Foro si fermava il venditore di carni cotte. Era un giovine che aveva davanti un caldaio, nel quale i pezzi di carne erano tenuti in caldo dal braciere sottoposto; e dal caldaio sporgeva il manico di un rama­iuolo, che serviva a prendere il brodo per unirlo alla carne. Mentre il vendi­tore rivolgeva la parola a qualcuno, un giovane gli prendeva le molle, per sce­gliere da se stesso il pezzo di carne, e aggruppati aspettavano attorno gli altri avventori della cucina ambulante. Più in là una fanciulla esponeva in vendita mazzolini di fiori esposti sopra un tavolo, fichi ed altra frutta raccolta dentro i panieri. Sedute sul margine del portico e col capo coperto da un panno stava­no le donne che vendevano erbaggi. Uomini e donne, che vendevano panni, ovvero abiti usati, li portavano sulle braccia o sulle spalle e li dispiegavano a quelli che si accostavano per com­prare. I mestieranti disoccupati, come i cuochi, i suonatori di tibie, ed altri passeggiavano o stavano fermi aspet­tando un padrone. Si affacciava sul Fo­ro anche la scuola pubblica. I fanciulli, seduti sui banchi, con i libri aperti sul­le ginocchia, imparavano la lezione; in­tanto una frotta di essi, in altra parte del Foro, faceva il chiasso: qualcuno gettava in aria un fico, una pera o altro frutto, per raccoglierlo con la bocca, qualche altro sopra una lunga canna fingeva di andare a cavallo, altri gioca­vano a pari e caffo. Altrove una corona di popolo circondava e guardava a boc­ca aperta o un ciarlatano, che ingoiava un'acutissima spada e la faceva riuscire per sotto; o un ciurmatore della regione dei Marsi, che scherzava impavido con grossi serpenti. Si vedeva sotto i portici un pastillarius a maneggiare lungamente sopra un banco di marmo un pezzo di miele, per condensarlo e farlo divenire bianco; dopo averlo ridotto in forma cilindrica, lo sbatteva a più riprese al palo attaccato al banco e così allungato e assottigliato lo divideva in piccoli pezzi.

All'aperto, i venditori di castagne al forno, modo di cuocere le castagne in­ventato dai napoletani, o i venditori di noci e di ceci abbrustoliti, si aggiravano vantando tra la folla la loro mercé. Que­sto era l'aspetto ordinario, questa la vita quotidiana del Foro della nostra città »

I napoletani - altra caratteristica distintiva della loro indole — predilessero sempre i giochi e i pubblici divertimenti e si gloriarono dei luoghi splendidi ad essi destinati. Dietro il tempio ai Dioscuri - come si apprende da Stazio - c'erano il teatro coperto - Odeon - e quello scoperto, dei quali rimangono copiosi avanzi in laterizi al­le Anticaglie. Gli attori napoletani — come ancora oggi — erano giustamente famosi per la loro bravura e ricercati anche a Roma. Bruto — ci informa Plutarco - venne di proposito a Napoli per scritturare l'attore Canuzio per una serie di recite a Roma. Nerone — come racconta Svetonio - amò cantare sui palcoscenici napoletani; e Claudio vi fe­ce rappresentare una sua commedia in onore di Germanico.

Oltre a magnifici teatri, Napoli pos­sedeva un vasto ippodromo e uno stadio, situati fuori le mura. Vi erano, poi, le palestre, in cui si esercitavano i corpi per ringiovanirsi ed illeggia­drirsi. E come si curavano i corpi, così si dava alimento allo spirito dei gio­vani, nelle sale annesse allo Stadio, ove retori e filosofi disputavano di scienza, i poeti declamavano versi, i precettori insegnavano. Benché fondata dai greci e rimasta a lungo sotto l'influenza culturale greca, Neapolis non si ellenizzò completamente, fino a divenire nel Mediterraneo occidentale quel focolare di ellenismo che Alessandria d'Egitto divenne in quello orientale. In questo fu favorita dalla politica dei Romani che mal tolleravano, per loro norma di dominio, che la cultura e il costume greco inquinassero la ro­manità integrale del popolo napoletano. Analizzando, infatti, le istituzioni politiche della Napoli romana, ci accorgeremo come siano nel torto quegli scrit­tori i quali han creduto di riscontrare in esse la copia perfetta della costitu­zione di Atene.

Ed ora guardiamo questa città nuova (Neapolis) durante la dominazione ro­mana.

Il paradiso terrestre, che si apre allo sguardo di chi, fin dai tempi più remoti, appena doppiate le bocche di Capri, penetra nel golfo di Napoli e ap­proda, dal mare, sulle coste, quel para­diso di bellezza e di fecondità, che meritò alla Campania l'attributo di felix, non formò mai la felicità e la ricchezza dei napoletani, ma, anzi, fu causa della loro infelicità e della loro povertà. Quelle terre non appartennero mai ad essi, ma a spietati invasori e domina­tori, che, attratti dalla pingue preda, se ne impossessarono con la frode e con la forza, costringendo gli abitanti dei

luoghi alla servitù e alla miseria. Né i dominatori si appagarono di ciò; ma i napoletani, ridotti allo stremo della po­vertà, furono ancora da essi crudelmente offesi e spremuti, spinti a combat­tere per altrui interessi, sempre oppo­sti ai propri, ostacolati in ogni tenta­tivo di elevazione morale e spirituale. E' questo il motivo vero per cui l'animo del napoletano è scettico di fronte alle avventure e teme che ogni novità piuttosto che giovargli, debba peggiorare la sua condizione. Scettici­smo, dunque, che - come dicevamo - non è congenito al carattere dei na­poletani, ma è il triste frutto delle dure esperienze, cui la storia li ha sottoposti, in ogni epoca.

I Romani, buttatisi presto sulla bella preda della Campania, di cui fecero l'oasi preferita per le loro villeg­giature, i loro ozi e i loro piaceri, dopo essersi estesi fino alle falde del Vesu­vio, cominciarono a guardare con in­quieta gelosia alla città di Neapolis che si sviluppava al centro dell'arco del golfo, in ottima posizione stra­tegica. I Romani erano turbati dal fatto che la città subisse l'influenza dei forti Sanniti, coi quali avevano più di un conto da regolare. Meditavano, secondo la loro prassi del massimo ri­sultato col minimo sforzo, sul modo migliore per attrarla nella loro orbita: la guerra aperta o il sottile gioco di­plomatico. Prevalse il partito della guer­ra che vide i Romani vittoriosi. Da quell'anno Napoli visse sempre al­l'ombra di Roma, a cui fu fedelissima. Conservò un'autonomia apparente, re­golata dal foedus neapolitanum, che ne rispettò i riti, gli usi, i costumi e la lin­gua greca, che continuò ad esser quella degli atti ufficiali. E anche quando, nel 90 av. Cr., per effetto della lex Julia, Napoli, città alleata, divenne municipio, non fu trattata con l'inflessibile durez­za con cui i romani erano soliti trattare tutti gli altri municipi. Continuò ad es­servi tollerata la cultura greca, le mo­nete continuarono a portare l'incisione della testa di Pallade, vi si celebrarono ancora i ludi lampadici in onore di Par-tenope, istituiti dallo stratega ateniese Diotimo. Quella di conservare una par­venza di libertà ai popoli soggetti, ai quali effettivamente la toglievano, era arte somma dei romani. Ma, in realtà, i gravami della dipendenza da Roma si facevano sentire assai forti sulla vita dei napoletani: essi dovevan fornire un pe­sante tributo di navi e di marinai per le guerre navali; e se questo, come acu­tamente nota Gino Doria, giovò, in un certo senso, ai napoletani stessi, che ne trassero buone esperienze marinaresche da essi sfruttate con vantaggio nelle guerre successive, è pur vero che noc-que al loro traffico marittimo mercan­tile. Il passivo della dominazione ro­mana si ripercosse assai gravemente an­che sul morale dei napoletani. Tolse lo­ro il senso virile della libertà, senza cui non vi è dignità; ne fiaccò lo spirito combattivo, poiché si sentivano protetti per la loro incolumità dalla potenza romana (come avvenne contro Pirro, nel 280 av. Cr., e contro Annibale nella seconda guerra punica); e si dedicarono ai facili e non sempre onesti guadagni dell'industria dei forestieri, che afflui­vano continuamente nella città.

Durante l'epoca romana, inoltre, in Napoli, come in tutte le città viventi sul lusso e sui piaceri voluttuari dei do­minatori, erano sorte una infinità di in­dustrie, di commerci, di mestieri al ser­vizio di quel lusso e di quei piaceri. Le antiche epigrafi ci danno notizie delle corporazioni napoletane del lavoro, tra le quali particolarmente forte era quel­la degli architetti e degli edili, che la­voravano per quei ricchi romani che si venivan costruendo le loro sontuose ville e terme e teatri lungo tutto l'arco del golfo, tra Capo Misene, Baia, Pozzuoli, Lucrino, Posillipo, e, via via, fino a Pompei, ad Ercolano, a Stabia. Ville ed edifici, venuti alla luce negli scavi, meravigliano anche noi moderni per la loro arte e per i conforti che offrivano. Accanto agli architetti, fiorirono, neces­sariamente, le arti sussidiarie: marmo­rarii, fabbri, lignarii, ferrarii, aurarii, lanisti, istruttori e allenatori di gla­diatori, saponarii e unguentarii, tutti riuniti in corporazioni. Sicché quando, con la cessazione dei facili lucri della dominazione romana, i napoletani doveron provvedere a nuove fonti di gua­dagno, poteron riprendere quei mestie­ri, in cui si erano allora specializzati. E la vita corporativa valse a formare in loro il senso dei diritti e dei doveri dei lavoratori. A Napoli, nel VI secolo, si ebbero le prime lotte sindacali quan­do i saponari insorsero contro i so­prusi del magistrato imperiale palatino Giovanni, invocando ad arbitro della loro vertenza nientemeno che l'inter­vento di Papa Gregorio Magno.

Verso la fine dell'Impero, Napoli aveva oltrepassato di molto i 30.000 abitanti e si era dilatata fino a San Se­bastiano e a Santa Maria La Nova, da una parte, e dall'altra, oltre San Nicola dei Caserti. E, fin da quel tempo, ebbe le acque del Serino e del Bolla.

Simbolicamente, l'Impero, che aveva dominato e romanizzato la città, già di­sgregato dalle invasioni barbariche, ago­nizzò a Napoli nella persona dell'ulti­mo imperatore, che - per tragica iro­nia del destino - portò insieme con­giunti i nomi del grande fondatore del­l'Urbe e quello del grande fondatore dell'Impero: Romolo Augusto. Egli si spense, infatti, nel 476 d. Cr., nella vil­la di Lucullo, ov'era tenuto prigioniero da Odoacre.

A proposito della denominazione di Castel dell’Ovo, molte e leggendarie so­no le versioni che se ne danno. La più probabile e realistica è che essa derivi dalla forma ovoidale della sua pianta. Molto diffusa è, poi, la leggenda del­l'uovo di Virgilio, il grande poeta, che era considerato - non sappiamo bene perché, forse per equivoco ingenerato dal nome della madre, che si chiamava Magia - un po’ mago anche lui. Il poeta, dunque, avrebbe messo un uovo in una gabbia e lo avrebbe collocato in un angolo remoto del castello. Natural­mente, era un uovo incantato, che, fin quando fosse rimasto integro, avrebbe garantito la incolumità dell'edificio. Et­tore Imparato, nella sua «Piccola Sto­ria di Napoli», afferma di aver sentito da un tedesco che la denominazione, più probabilmente, era da rapportarsi al fatto che l'intonaco del castello fosse stato impastato con bianco d'uovo, per renderlo più resistente. Ipotesi strana, in verità!

Per quanto attiene alla sua storia, vi era, in antico, una dipendenza della son­tuosa villa di Lucullo, il quale, per co­struirsela, fece tagliare il monte Echia, all'altezza dell'attuale via Ghiaia, crean­do un canale, e, sull'isolotto di Megaride, innalzò il famoso castello, ricco di marmi, di statue, scintillante di ori, con diverse sale da pranzo, pareti con diver­si colori, a ognuno dei quali corrispon­deva un « menu » diverso, secondo la importanza degli ospiti che riceveva. Bastava che dicesse ai suoi cuochi: «Oggi si pranza nella sala rosa, o ver­de, o azzurra», e quelli capivano che tipo di cena dovevano approntare.

Lo stesso Imparato afferma che, fino a qualche decennio fa, nelle acque in­torno al Castello si rinvenivano ancora pezzi d'argento e d'oro.

In seguito, vi sorse la chiesa basiliana del Salvatore. I normanni lo trasfor­marono in rocca, ampliata successiva­mente dagli Svevi e dagli Angioini. La forma attuale di fortino circolare l'as­sume nel 1961. Nell'interno sono an­cora visibili tracce della villa romana del cenobio basiliano e dei rifacimenti trecenteschi.

Di questo lungo periodo della civiltà greco-romana, Napoli conserva molti avanzi archeologici, il più cospicuo dei quali è da considerarsi, senza dubbio, il corpo originario di Neapolis, che si può ancor oggi, senza troppo sforzo ri­costruire mentalmente, nonostante le brutte sovrapposizioni edilizie e le tra­sformazioni avvenute nel corso dei se­coli. E' ancora possibile individuare i tre decumani paralleli, e i cardini ad essi corrispondenti in senso perpendico­lare, seguendo via Tribunali, corrispon­dente al decumano centrale, la piazzetta di San Gaetano, la Chiesa di San Pao­lo, dove due colonne corinzie scanalate rappresentano le vestigia del tempio dei Dioscuri, che occupava il sito dell'attuale basilica cristiana, la chiesa di San Lorenzo, e, più in là, gli archi dell'An­ticaglia, appartenenti alle terme e al tea­tro coperto (l'Odeon). Tutto l'insieme costituisce un grandioso complesso mo­numentale, che suggerisce alla fantasia del visitatore un'immagine suggestiva di ciò che fu, un tempo, il Corpus di Neapolis.

Avanzi delle mura di Neapolis, di co­struzione greca, consistenti in grossi blocchi rettangolari di granito, racchiu­si, purtroppo, in una cancellata, si pos­sono osservare nella piazzetta dell'at­tuale cinemateatro Splendore, dove si trova l'ospedale Ascalesi, allo sbocco di via Forcella, e in Piazza Bellini, tra San Sebastiano e via Costantinopoli.

Dette mura solide ed imponenti, di cui non si conosce l'esatto perimetro, dovevano però estendersi da Foria a Costantinopoli, a San Domenico Mag­giore, fino all'attuale Corso Umberto e prolungarsi sino a Forcella e ai Tri­bunali, includendo anche nella loro cerchia Santa Maria La Nova.

I moderni archeologi danno per si­curo che l'attuale via Forcella e i vicoli circostanti e quelli che sboccano in es­sa, corrispondono esattamente al primi­tivo tracciato greco.

Notevoli, per il tipico carattere ar­chitettonico degli acquedotti romani, sono pure le arcate superstiti in matto­ni rossi, dette, perciò « Ponti rossi » di un'antica conduttura d'acqua ro­mana.

Ma, più che nella città, dove il sovrapporsi tumultuoso e violento di dominazione a dominazione si acca­niva a distruggere e a cancellare fin le ultime tracce di quanto il domina­tore precedente aveva costruito di buo­no, le tracce gloriose e stupende della civilizzazione greco-romana s'impongono all'ammirazione del mondo nelle dis­sepolte e redivive città di Pompei, di Ercolano, di Stabia, di Cuma, di Baia, di Pozzuoli, di Miseno e nei tesori ar­cheologici, raccolti nel Museo Nazio­nale, fondato da Carlo III di Borbone. Opere di scultura, di pittura, d'archi­tettura, opere di ingegneria idraulica, di cui non si sa se più ammirare l'ardi­mento del genio che le ha create o la imponenza della mole, la solidità del­le strutture che sfidano il tempo, o la raffinata eleganza e la suprema grazia che le ravviva. Il mondo classico rivive soprattutto a Napoli, città solare, nello spirito dei suoi abitanti e nel loro culto della bellezza.

Insieme coi monumenti della classi­cità greco-romana, mentre il paganesi­mo si va lentamente spegnendo, a Na­poli si ritrova anche la prima fioritura della monumentalità del cristianesimo, di cui sono antichissimo documento le catacombe di San Gennaro, che forano le colline a settentrione della città. Es­se, risalenti al II secolo, contengono se­polture di martiri in stile primitivo, vestigia di altari, di cattedre episcopali, di fonti battesimali, di epigrafi e presentano un quadro eminentemente sug­gestivo ed emotivo, non solo per chi ha fede nella vita misteriosa, difficile ed eroica dei primi cristiani.

Generalmente trascurate dal turismo, che preferisce le aure vivificanti del mare e dei colli di Napoli, le catacom­be napoletane meritano, proprio per il loro valore artistico e per ciò che rap­presentano della vita sotterranea dei primi cristiani, di essere ricordate con particolare insistenza. Esse si trovano sotto le pendici di Capodimonte e pe­netrano, coi loro misteriosi cunicoli, nel masso tufaceo, dalle Fontanelle alla Sanità e dai Miracoli a Miradois.

La più importante (quella che qui ci limitiamo a descrivere invitando i let­tori a scoprire le altre da sé) è la cata­comba di San Gennaro, che risale al II secolo d. Cr.. In essa, benché in parte guaste dal tempo e dall'incuria, si am­mirano molte e belle pitture paleocri­stiane. In origine, era una tomba gen­tilizia, che, man mano ingranditasi, di­venne il cimitero della chiesa cristiana napoletana. Vi furono sepolti S. Agrippina, e, nel V secolo, il martire S. Gen­naro. Quando, nel IX secolo, il principe di Benevento, Sicone, rapì il corpo del Santo, la catacomba perdette importan­za, finché nel secolo XIII fu abbando­nata e devastata. Consta di due piani: quello inferiore è costituito dalla Ba­silica cimiteriale di San Gennaro, con in fondo l'altare, e, dietro di esso la cattedra episcopale. A destra dell'altare, si vedono due arcosolii con pitture del IX secolo, raffiguranti vescovi napoleta­ni; nella cripta, avanzi di mosaici e di affreschi sulle pareti.

Le catacombe — a giudizio di Ferdinando Gregorovius — sono gli unici monumenti del tempo antico possedu­ti da Napoli, che, insieme con la strana grotta di Posillipo, conservino, quasi intatta, la loro struttura antichissima. I due monumenti sono ambedue sotter­ranei: ed è questa, forse, la causa per cui hanno meno sofferto della manomis­sione degli uomini.

Nel trapasso dal paganesimo al cri­stianesimo e dal potere degli imperatori al potere politico dei pontefici, si viene operando una profonda trasformazione degli organismi sociali e delle coscien­ze dei cittadini. Il Medioevo, dunque, non è più un periodo di involuzione e di decadenza, ma di evoluzione, sia pure lenta e faticosa, verso le conce­zioni moderne dei diritti dell'uomo e del cittadino.

Napoli cessa di essere la città del pia­cere, il delizioso giardino degli ozi dei romani, e viene facendosi, a poco a po­co, una coscienza nuova, che si mani­festa in una più virile volontà di lavoro, sotto lo stimolo di una forte colonia di ebrei. S'incrementano industrie e commerci specie con l'Oriente; si intensi­fica la coltivazione della terra e la popolazione sale rapidamente fino a sfiorare a metà del VII secolo i 40.000 abitanti.

Né, per questo, si trascura la cultu­ra, che, se non è più quella del tempo aureo della Napoli greco-romana, è te­nuta su dai monaci basiliani, uno dei cui abati, Eugipio, è elogiato da Cassiodoro per la profonda conoscenza della letteratura classica e di quella cristiana.

La trasformazione fu lenta ma radi­cale. E agì in tutti i campi, dalla reli­gione alla cultura, dalla politica all'arte, dagli ordinamenti amministrativi alla morale e alle strutture sociali.

I bizantini mantennero, per un certo tempo, le istituzioni romane: non per nulla, infatti, gli imperatori d'Oriente e, segnatamente, Giustiniano, si consi­deravano gli eredi e i continuatori di Roma e miravano alla riunificazione del­l'Impero, riconquistandone l'Occidente. A Napoli furono preceduti dai Goti che per il breve tempo del loro do­minio, e per il timore delle continue minacce dei Longobardi, non avevano potuto metter mano a nulla: (per tutto il secolo VI, d'altronde, le dominazioni si succedettero assai rapidamente e caoticamente, perché qualcuna di esse avesse potuto imprimere il proprio se­gno all'assetto della città).

Sulla fine del VI secolo, incombevano sui napoletani i pericoli e le mi­nacce dei Longobardi, che allargavano sempre più la loro espansione in Italia. Da Benevento, essi puntavano diretta­mente verso il Tirreno, considerato sbocco naturale della loro potenza. Nel 581 assediarono Napoli con esito nega­tivo. Il loro impeto si infranse contro le possenti mura della città che i Bizan­tini avevano avuto fretta di ricostruire, dopo la distruzione operata da Teia. In­sisterono, però, nell'impresa; e, nel

592, Arechi di Benevento e Ariulfo di Spoleto, mossero di nuovo all'assalto e, forse, dato lo scarso presidio bizantino che difendeva la città, questa volta sa­rebbero riusciti a impadronirsene, se papa Gregorio I, sostituendosi all'iner­te Esarca, non avesse inviato a Napoli il tribuno Costanze ad organizzarvi la resistenza del popolo.

Un terzo tentativo, nel 599, fallì an­ch'esso. L'intervento di Gregorio I eb­be un effetto salutare sullo spirito dei napoletani. Diede loro la coscienza di valere, sol che ne avessero la volontà, a provvedere da soli alla difesa della loro città e della loro libertà, rintuz­zando l'offesa di qualsiasi nemico anche potente. Tutti i campani, che si sentiva­no minacciati nei loro paesi dai Longo­bardi, si rifugiarono a Napoli sicuri di trovarvi valida protezione ed asilo sicu­ro. Non solo: ma, per la prima volta nel corso della loro storia, i napoletani si sentirono fieri e gelosi della loro indi­pendenza. Avendo, infatti, Gregorio I dimostrato di voler porre Napoli sotto lo scudo protettivo dello Stato della Chiesa, i napoletani gli si opposero fer­mamente. Nelle loro coscienze, fermen­tava già qualcosa di quello spirito, che, nel VII secolo, li rese capaci di scrivere la pagina più gloriosa della loro storia: quella del Ducato autonomo.

Sul frontone principale del palazzo reale di Napoli c'è, nelle statue dei re, la sintesi pietrificata della storia di Na­poli. Manca - però - la statua che raffiguri il Ducato Autonomo. Omis­sione grave, perché, certo, il monumen­to avrebbe concorso a far conoscere al popolo napoletano che non sempre, lun­go il corso della storia, esso fu assog­gettato a dominazioni straniere, ma eb­be un periodo di gloriosa indipendenza, durante il quale i napoletani dimostra­rono fierezza, ardimento, spirito di di­sciplina civile e capacità di lotta e di vittoria, confermando l'esperienza sto­rica di Niccolo Machiavelli, il quale af­ferma che le nazioni tanto più danno il massimo di sé alla cosa pubblica, quanto più sono consapevoli di difendere la propria libertà. Quanti napoletani sanno - mi domando — chi fu quel Cesario Console, al quale è intitolata una delle più belle vie cittadine? Io penso che - se ne fossero richiesti -si troverebbero in un imbarazzo peg­giore di quello in cui si trovò Don Abbondio di fronte al nome di Carneade. La scarsa conoscenza della propria sto­ria contribuisce, purtroppo, a formare quei complessi di inferiorità che trasci­nano i popoli alla decadenza. Perciò, Ugo Foscolo ammoniva gli italiani allo studio della loro storia; e con questo fine, io penso, storici maggiori e mino­ri hanno tenuto a scrivere la storia di Napoli, e ricordo qui Benedetto Croce, Michelangelo Schipa, Gino Doria, dal­le cui opere - lo dichiaro una volta per tutte - ho tratto, come da fonti inesauribili, tanti dati e tante notizie. I quattro secoli del Bucato Autono­mo rivelano tutte le virtù del popolo napoletano: dall'audacia più ardimen­tosa alla prudenza più saggia, messe a servizio di una politica intesa a preser­vare l'indipendenza del piccolo Stato dalle invasioni straniere e dai pericoli di disgregazione interna, in un periodo in cui lotte di razze e di contrastanti interessi, per quanto violente, andarono sempre ad infrangersi, come marosi con­tro scogliere, ai piedi delle mura di Na­poli. I papi, i longobardi, i re franchi, gli imperatori bizantini, i predoni sara­ceni, il furore musulmano, tutto si spezza di fronte alla sapiente politica dei napoletani, che, con un gioco ge­niale di alleanze e di ostilità, ora con la guerra, ora con la pace, con la scaltrez­za e l'astuzia dei trattati, sempre all'er­ta, riescono a deludere e a frustrare le cupidigie di quanti agognano alla bella preda.

I duchi, infatti, non solo provvedevano alla difesa della indipendenza di Napoli, con una politica saggia, corag­giosa e lungimirante, ma ne incrementavano le industrie, i commerci, la cultura, le arti, facendone un centro di civiltà degno di gareggiare con i maggiori d'Italia e delle altre nazioni.

Un solo punto al passivo di Napoli deve segnalarsi nel secolo X: la perdita del primato marittimo, che passò ad Amalfi.

La popolazione di Napoli, nel perio­do aureo della sua storia, era salita a circa 40.000 abitanti. Ma, agli inizi dell’XI secolo, dovè ridursi intorno ai 30 mila, su per giù quanti ne contava nel­l'epoca greco-romana. La superficie del­la città era, però, alquanto più vasta, a giudicare dalla pianta delle mura, che lo storico Bartolomeo Capasso fece esegui­re per le sue ricerche topografiche su Napoli medioevale. Si era ampliata spe­cie a sud, col nuovo Castello, le chiese e i conventi fuori mura, il campo Mo­ricino, dove si andarono stabilendo log­ge e banchi di mercanti, che conferi­rono alla zona quel caratteristico aspet­to di immenso bazar, che ancora con­serva, in piazza del Mercato e adiacenze.

Il traffico marittimo era assai vivo. I due porti, l'Arcina, tra l'Immacolatella Vecchia e la moderna via Depretis, e il Vulpilum, a Piazza Municipio e adiacenze, anche quando decadde la na­vigazione napoletana di lungo corso, continuarono ad avere un movimento intenso di piccolo cabotaggio per le na­vi che trasportavano a Napoli i pro­dotti dei campi e della pesca, da Gaeta, da Salerno, da altri punti del golfo.

Una caratteristica della città erano le case a due piani, circondate da orti e giardini, che man mano scomparvero, invasi da fabbriche al tempo di Carlo II d'Angiò. Un particolare ornamento era­no i portici, uno dei quali, bellissimo, e dal quale si spaziava su un meravi­glioso panorama, sorgeva intorno al Palazzo dei duchi; ed altri ne sorgevano in tanti altri punti della città, che si tra­sformarono, poi, nei « tocchi » o « se­dili ». La città era ricca di bagni pub­blici, secondo la tradizione greco-roma­na, e offriva tante altre attrattive e comodità, che ne rendevano amabile e confortevole il soggiorno. Ma il suo ve­ro splendore architettonico veniva dalle chiese, le due più antiche delle quali, Santa Restituta, già esistente, sotto al­tro nome, fin dal IV secolo e la Stefania - così detta perché ricostruita, nell'VIII secolo, da Stefano II, dopo un incendio — congiunta alla prima, co­stituivano la Sancta neapolitana eccle­sia, la Cattedrale, che un anonimo agiografo di S. Atanasio paragonò al Vec­chio e al Nuovo Testamento. Santa Re­stituta, prima basilica di Napoli, intito­lata al Salvatore, nella restaurazione angioina del Duomo perdette la faccia­ta ed alcuni elementi, ricostruiti in for­ma gotica e deformati, in seguito, dal restauro del 1808. Attualmente, è una cappella del Duomo con 27 colonne an­tiche, a tre navate, di cui, quella di de­stra, conserva frammenti di un affre­sco della scuola del Cavallini; la cen­trale è stata affrescata da Luca Gior­dano.

Di fronte alla basilica c'erano il battistero e la chiesa di San Lorenzo Mag­giore, antichissima e di somma impor­tanza artistica, la cui storia è stretta­mente collegata non solo alla vita reli­giosa, ma agli avvenimenti civili della città. Sulla facciata, rifatta dal Sanfelice nel 1742, si vede ancora il bellissimo portale del 1325. In San Lorenzo G. Boccaccio si innamorò di Fiammetta, la figlia naturale di re Roberto, Maria d'Aquino. Sulla destra, è il convento francescano con un portale del 400, sormontato dagli stemmi a colori dei Seggi, cioè delle rappresentanze dei va­rii rioni della città. Vi fu ospite Fran­cesco Petrarca, nel 1345. Divenuto in seguito sede del Tribunale di San Lo­renzo, il convento cadde in possesso del Comune di Napoli, il quale, lo trasfor­mò in uffici e depositi, che arrecarono ad esso gravi danni.

C'erano, poi, le quattro basiliche cattoliche maggiori: S. Giorgio, che la tra­dizione vorrebbe fondata da Costantino, ma, in realtà, è opera di S. Severo e ri­sale al IV secolo; i SS. Apostoli, fon­data nel 468 dal vescovo Sotero; S. Maria Maggiore, fondata dal vescovo san Pomponio, intorno alla metà del VI secolo; e S. Giovanni Maggiore, an­che questa attribuita a Costantino, ma storicamente fondata dal vescovo Vin­cenzo, tra il 555 e il 560. San Giorgio Maggiore fu rifatta, nel secolo XVI, dal Fanzago, dopo un violento incendio.

Tramontato il Ducato, Napoli passò sotto la guida dei Normanni che già da tempo si erano insediati in alcune loca­lità dell'Italia meridionale.

Ruggero il Normanno entrò in città nel settembre del 1140, tra le più fe­stose accoglienze non solo del popolo, ma dei nobili, dei cavalieri e del clero che gli andarono incontro fuori la porta di Capua e lo scortarono fino all'Epi­scopio. I napoletani sono facili agli en­tusiasmi e può ben essere che i nor­manni avessero scaldata la loro fantasia e il loro sentimento. Quegli uomini del Nord, che, in periodo pienamente sto­rico, seppero crearsi una leggenda epica, con avventure e imprese quasi incredi­bili, si conquistarono l'animo di questa gente del Sud, amante delle audacie sensazionali. Tanto più che Ruggero, il giorno seguente il suo ingresso in Na­poli, volle rendersi conto dello stato della città, attraversandone le strade a cavallo e, convocato il popolo nel ca­stello del Salvatore, parlò affabilmente, discutendo con esso della libertà e degli interessi dei cittadini e promettendo buone cose a tutti per il futuro.

In seguito Ruggero, pur avendo vi­sitato Salerno, Capua, Gaeta ed Aver-sa, non tornò più a Napoli. Ma non venne meno alle promesse e governò con giustizia e saggezza, senza far sen­tire alla città il peso del suo dominio; ne fece duca il figlio Anfuso; e, morto costui (1144), insignì dello stesso titolo l'altro figlio Guglielmo, principe di Tarante e di Capua.

Mantenne in vita, almeno formalmente, gli antichi ordinamenti giuridici e amministrativi, ma soppresse ogni au­tonomia reale ed ogni avvio alla isti­tuzione di un libero comune napole­tano. Sicché mentre il Comune si affer­mava, nell'Italia Settentrionale, come la nuova forma di libero regime delle grandi e medie e piccole città, impri­mendo, ovunque, un potente impulso di vita nuova; nel Sud la dominazione degli stranieri assumeva la forma sta­gnante del regime feudale.

Gran politico, ma idolatra della po­tenza dello Stato accentratore, Ruggero finse di rispettare l'autonomia di Na­poli, mostrandosi benigno verso i na­poletani e cattivandosene l'animo con concessioni e privilegi, come pure fe­cero i suoi discendenti, specie Gugliel­mo II e Tancredi, verso i quali pure essi si mostrarono grati e fedeli.

Il re Ruggero morì nel febbraio del 1154. Gli successe il figlio Guglielmo I, passato ai posteri - - non sappiamo con quanta giustizia - con l'attributo di « il Malo ». Il suo regno fu agitatissimo: contro di lui si mossero, tutti in­sieme, papa Adriano IV, il Barbarossa, l'imperatore di Bisanzio Emanuele Comneno, i vassalli, sobillati e guidati dal cugino, conte di Loritello. La guerra raggiunse il punto cruciale nel biennio 1155-1156: i bizantini occuparono le città pugliesi, i vassalli la Terra del La­voro e Roberto di Capua si accampò ad Aversa. Ma Napoli, Salerno ed Amalfi resistettero, per opera, soprattutto, di Maione di Bari, sagace consigliere di re Guglielmo.

Ai re normanni, i napoletani ebbero occasione di rinnovare le manifestazioni della loro fedeltà, quando, nel dicem­bre del 1176, le feste natalizie furono rallegrate dall'arrivo della sposa di Gu­glielmo II, Giovanna d'Inghilterra, giunta con una scorta di 25 navi e ac­compagnata dall'arcivescovo di Capua, Alfonso, dal conte di Caserta, Roberto, e da largo seguito di funzionati siciliani.

Il popolo napoletano ama i contra­sti. E come aveva affibbiato l'epiteto « il Malo » al padre, così gratificò quel­lo di « il Buono » al figlio. La storia ci ha mandato assai poco di lui; Dante lo definisce « il giusto rege »: e avrà, cer­to, avuto i suoi motivi che noi ignoria­mo. Non pose mai piede a Napoli, ma fu a Capua e a Salerno. Gli successe il nipote Tancredi, conte di Lecce (1180), ma l'aristocrazia normanna avrebbe pre­ferito vedere sul trono la figlia di Ruggiero, Costanza, moglie di Enrico VI, quella che Dante incontra nel ciclo del­la Luna, e della quale fa dire a Picarda Donati:

« Quest'è la luce della gran Costanza,

che, dal secondo vento di Soave,

generò il terzo e l'ultima possanza ».

Fu l'odio per i tedeschi, fortissimo nell'Italia Meridionale, ma più in Sici­lia, che fruttò a Tancredi il trono. Co­stanza aveva il primato della legittimità; ma era moglie di un tedesco: perciò fu scartata. Tancredi, brutto di faccia e basso di statura rappresentava un'ec­cezione fra i normanni. Ma possedeva una mente acuta e sagace. Egli esordì nel regno, compensando quanti lo ave­vano favorito. E Napoli, specialmente, dove la discordia fra le classi aveva avuto fine, Sessa e Gaeta ottennero da lui larghi privilegi tra il 1190-91.

Tancredi considerò Napoli la città a lui più devota: tanto che, avendo la popolazione di Palermo dimostrata vi­va simpatia per Costanza, egli la fece trasferire a Napoli, nel castello del Sal­vatore e ve la ritenne prigioniera, sotto la custodia di Aligerno Cottone, fino a quando, liberata, per intervento del papa, potè tornare in Germania.

Enrico VI ebbe ragione della tenace resistenza di Napoli solo nel 1194. La flotta sveva, pisana e genovese, conqui­stata Gaeta, navigò verso Napoli e l'imperatore marciò contro la città, alla testa del suo esercito, dalla parte di terra.

Tancredi era morto, non vinto. E il regno, debolmente rette dalla regina ve­dova Sibilla, tutrice del figlio minoren­ne re Guglielmo III, non era in grado di resistere. I napoletani, perciò, che già avevano inviato ambasciatori allo Svevo, quando questi era ancora a Pi­sa, gli aprirono le porte della loro città. E toccò ad Aligerno Cottone il triste ufficio di riconoscere l'autorità imperia­le. Nello stesso tempo si sottomisero Ischia, Procida, Capri. Ma la sottomis­sione non evitò che Enrico VI punisse i napoletani, nel modo per essi più of­fensivo, l'abbattimento delle mura, che avevano sempre avuto un ruolo deter­minante per la loro difesa. Anche dopo, le mura furono ricostruite, tanto è mu­tevole il corso della storia. Ma per quel­l'atto, che essi considerarono oltraggio, l'odio che già i napoletani nutrivano contro i tedeschi, si rinfocolò.

Sotto i normanni, nonostante le in­quietudini e le guerre, la città aveva potuto prosperare nei commerci, anche per il declino già iniziato di Amalfi, per cui il porto di Napoli ridiveniva il più trafficato della Campania. A Napoli, i normanni avevano il loro fondaco di terraferma più importante, congiunto con la Dohana. La popolazione, sulla fine del secolo XII, oltrepassava -- pa­re — i 40.000 abitanti, ma la città non si era proporzionalmente estesa in su­perficie. Tuttavia, l'edilizia dovè pur co­struire, in numero più o meno rilevan­te, degli edifici, in quello stile siculo-normanno, di cui ammiriamo una così ricca fioritura d'arte in altre città del Mezzogiorno e, specialmente, in Sicilia, ma di cui nulla avanza a Napoli, quasi per un singolare destino di alcune ci­viltà che vi dominarono, come nessun documento esiste, in base al quale ci si possa fare un giudizio esatto sulla cultura del tempo. In Napoli normanna vivevano — lo sappiamo dalle relazioni dei viaggi in Italia di Beniamino Tudela, — 500 famiglie ebraiche, anima del commercio cittadino, 600 a Salerno, 300 a Capua. Ma non si sa con cer­tezza se gli ebrei fossero anche qua confinati nei ghetti - iudeca - benché sussistano ancora una strada e un vicolo della Giudecca. La denominazione po­trebbe esser derivata dal fatto che gli ebrei vi svolgevano le loro attività com­merciali, come per la Loggia dei Pisani, così detta perché quella colonia vi ave­va il suo fondaco.

Napoli non fu mai benigna verso gli Svevi. Eppure — senza dubbio — mol­ti e grandi furono i benefici alla città concessi sia da Federico II che da Man­fredi. Valga, per tutti, la fondazione dello Studio generale (Università), don­de si effuse tanta luce di dottrina e tanto prestigio e decoro per la città, oltre ai molteplici vantaggi morali, in­tellettuali e materiali, che Pietro Giannone potè scrivere: « Lo Studio fece che Napoli si levasse sopra tutte le altre città e questo fu la pietra fonda­mentale onde poi si rendesse metropoli del regno ».

Facciamo la storia dello Studio, Le Lettere Generali, che lo istituirono, so­no datate da Siracusa, il 5 giugno 1224. Pare che ne siano stati ispiratori Pier della Vigna, secondo alcuni, il bene­ventano Roffredo, secondo altri. Nello ottobre dello stesso anno, lo Studio era già in attività, ma non si è potuto mai stabilire in quale edificio della città. E subito si rese famoso per la valentia dei maestri, che vi furon chiamati a insegnare, tra i quali ricordiamo: Roffre­do da Benevento, Piero da Isernia, Bartolomeo Pignatelli da Brindisi, inse­gnante di decretali, Matteo da Pisa, di diritto civile, il grammatico Gerardino, il filosofo Arnaldo Catalano, morto sul­la cattedra mentre discuteva sulla natu­ra dell'anima.

Nonostante tutto, le cose, sul princi­pio, non dovettero filar bene tanto che l'imperatore pensò di chiuderlo. Ma ce­dette alle suppliche di professori e sco­lari, che gli inviarono a Lodi una dele­gazione. E, nel 1293, tra altre provvi­denze, decretò che studenti di ogni par­te d'Italia e anche stranieri vi fossero ammessi, ciò che accrebbe di molto la importanza e la fama dello Studio na­poletano in Europa.

Dopo la morte di Federico II i suoi deboli successori non lasciarono un ri­cordo durevole se si esclude la patetica storia di Corradino, ultimo rampollo di Casa Sveva che lasciò la sua testa bionda sul patibolo tra la folla assie­pata in Piazza del Mercato.

Tramontata la Casa Sveva, incomin­cia la dominazione angioina di cui pri­mo re fu Carlo d'Angiò.

I napoletani, sempre avidi di novità, accolsero festosamente il nuovo re, più per odio verso gli Svevi che per sim­patia verso di lui, e, a mezzo di Fran­cesco Loffredo, che, per l'occasione, pronunciò un'ampollosa allocuzione, gli fecero consegnare le chiavi della città, in segno di dedizione. Assurta, così al rango di capitale, Napoli perde la sua autonomia municipale, ma ci guadagnò sotto tanti altri punti di vista: l'edili zia, i costumi, la cultura. Divenne la città «lieta, pacifica, abbondevole, ma­gnifica» come la vide Giovanni Boc­caccio. Era cresciuta non tanto di estensione, quanto di popolazione e nuovi rioni urbani andavano sorgendo, spe­cie intorno alla Reggia, trasferita da Castel Capuano a Castel Nuovo, nei cui pressi principi e dignitari angioini si costruirono le loro decorose abitazioni private. Si iniziò un periodo di tran­quillità e di prosperità, che ridiede alla città solare l'aspetto ridente, che è pro­prio del suo ciclo e del suo mare. Nu­merose e attive colonie di provenzali, di catalani, di fiamminghi, di genovesi, di veneziani, di pisani ne incrementa­rono le industrie e i commerci, specie l'industria della seta; e un nuovo porto, detto di mezzo, poiché ubicato fra i due antichi, aumentò il volume dei traffici marittimi.

Fiorirono, simultaneamente, l'arte e la cultura, che attrassero a Napoli i più grandi ingegni dell'epoca, come Tommaso d'Aquino, che sotto Carlo, vi in­segnò teologia, il Petrarca, che, ospite del convento di S. Lorenzo, vi descrisse la peste, che flagellò Napoli nel 1343; il Boccaccio, che vi alternò studi ed amori, e tanti altri sapienti, quali Bartolomeo di Capua, Bartolomei Prigna­no, che fu papa Urbano VI, Andrea d'Isernia, Cino da Pistoia, i quali face­vano corona a Roberto d'Angiò, il « re da sermone » di Dante.

Dopo Carlo I regnarono Carlo II e Roberto d'Angiò.

Ai tempi di questo re, la città aveva cambiato volto: da mediocre città pro­vinciale era divenuta già una metropoli europea, con più di 60.000 abitanti.

Ma questa non era che la cornice: ben diverso era il quadro. Col concen­tramento amministrativo nelle mani del governo del re, i napoletani dovettero ravvedersi e accorgersi che il regime angioino li aveva ridotti al lastrico e che il decoro della capitale non li com­pensava delle strettezze fiscali cui eran sottoposti.

Il fiscalismo estremo degli angioini, sempre cupidi di danaro per la soddi­sfazione della loro grandezza, tanto più esosamente gravava sul popolo, quanto più numerosi erano i privilegi e le esen­zioni. Esenti i nobili e il clero, esenti i provenzali del regno, esenti gli scolari e i docenti dello Studio. Specie nelle province la pressione fiscale era intol­lerabile e la brutalità degli esattori spietata.

Non c'era voce che non fosse tassata.

A riscuotere tutte le gabelle era ad­detta una burocrazia particolarmente esperta, cui nulla sfuggiva. La tesoreria regia indebitata a fondo verso le ban­che fiorentine dei Bardi, degli Acciaiuoli, dei Bonaccorsi, che ad essa anti­cipavano grosse somme, premeva sugli esattori e questi mettevano i contri­buenti al torchio.

Molti forestieri ingombravano la cit­tà, vi occupavano i posti migliori ed erano protetti e favoriti in tutto: pisani, veneziani, catalani, marsigliesi, fiam­minghi, alle cui imprese i re d'Angiò si associarono per bramosia di « mettere in arca » — secondo l'espressione dan­tesca — cioè, di batter cassa con ogni mezzo, non bastando loro il ricavato delle tasse, sempre più gravose.

Il Castello del Salvatore, sotto Car­lo I, era diventato un deposito di mer­canzie: sete dell'Acaia, cotone della Si­ria e della Calabria, lino della Lombar­dia. Re Roberto non doveva poi essere quell'astratto teologo « re da sermone » se aveva intrecciato solidi rapporti com­merciali con mercanti borghesi, come i Cossa, gli Assante, i Cipolletta d'Ischia, i Buonocore da Positano!

Ma tutto questo, che, oggi, si chia­merebbe un « boom » commerciale, non giovava a migliorare le condizioni economiche del popolo, che non ne traeva alcun vantaggio, né diretto né indiretto. La moneta napoletana era svilita: e ciò provocò una sommossa popolare, nel 1319, anche per il dila­gare dell'usura, sempre più esosa, alla quale la piccola gente, stretta alla gola dalle necessità quotidiane, si vedeva in­dotta a ricorrere. Usura, che, a quanto pare, anche oggi costituisce una delle piaghe più dolenti di Napoli.

L'arte della lana, più che le altre, vi ebbe eccezionale sviluppo, al tempo di Carlo II, per opera dei fiorentini, che, tra il 1308 e il 1335, vi impian­tarono parecchie fabbriche di stoffe di lana e di pelo di cammello.

Conseguenza dello sviluppo dell'arte della lana, fu il fiorire di quelle della tintoria: a Napoli, a Capua, a Ravello. Ma quando queste arti avevano raggiun­to un alto livello di perfezione tecnica, cominciò il loro tracollo, causato, certo, dalla indiscussa superiorità dei similari prodotti fiorentini, propagandati anche a Napoli, ma anche dalle forti tasse che il fisco angioino impose — more so­lito - sulla tintura.

Nel sessantennio e più tra Carlo I e Roberto IV (1282-1343), la città, che contava ormai 60.000 abitanti, si esten­deva, presso a poco, così: da Castel Capuano, che rimaneva metà dentro, metà fuori le mura, la cerchia urbana seguiva, approssimativamente, questa direzione: da via S. Giovanni a Carbo­nara a Santa Sofia, per Donnaregina fi­no a Porta S. Gennaro. Di qua, salen­do a Capo Napoli, incluso Sant'Agnello, ridiscendeva a Costantinopoli, donde, attraverso Porta Donnorso (S. Pietro a Maiella) e San Sebastiano, proseguiva verso la Trinità Maggiore e la Piazza del Gesù. Piegava, poi, a gomito, per via Monteoliveto verso Porta Petraccia (S. Bartolomeo) e continuava per la strada di Porto, i Lanzieri, S. Pietro Martire, gli Orefici, Porta S. Arcange­lo, S. Agostino alla Zecca, la Nunziata, il Supportico dei Caserti e la Maddalena, tornando a Castel Capuano.

Carlo I mise subito mano alle nuove costruzioni. Nel 1279, iniziò quella della nuova Reggia, in Campum oppidi, presso il porto dei Pisani, su progetto ed esecuzione di architetti francesi. I lavori terminarono nel 1282. Ma Car­lo I non vi risiedè mai. L'abitò, invece, Carlo II, che la completò e vi ospitò papa Celestino V, colui che fece « per viltade il gran rifiuto — come dice Dan­te. E, caso strano, il gran rifiuto fu fat­to proprio nella stessa sala, da cui uscì, eletto pontefice, il Papa simoniaco Bonifacio VIII, lo schiaffeggiato di Anagni. Intorno alla Reggia — Castel Nuo­vo - - si ingrandì il quartiere residen­ziale con l'Ospizio Tarentino, del prin­cipe Filippo di Taranto; col palazzo dei fratelli di Carlo; con la Corte del Vica­rio; con le abitazioni di molte famiglie patrizie, specie di gentiluomini e gentil­donne che prestavano servizio alla Corte. Ma Carlo II si fece costruire anche un'altra reggia, la Casa Nova, fuori le mura, in cui morì nel 1309.

Il fastoso re Roberto abitò in Castel Nuovo: ma lo ampliò di nuove fabbri­che e, nella Torre bruna, costruì una camera blindata per il tesoro. Chiamò Giotto e altri artisti ad affrescarne le due cappelle, sistemò meravigliosi giar­dini, nei quali, certo, il Petrarca pas­seggiò, meditando, e il Boccaccio fol­leggiando con la sua Fiammetta. Castel Nuovo subì, nei secoli, parecchie deva­stazioni e trasformazioni. La forma, in cui noi lo ammiriamo oggi è quella del restauro fattone dal conte Municchi, nel 1922-23. La sua fosca storia si intrec­cia di leggende ancora più fosche.

Abbiamo già accennato alle grandi costruzioni sacre dovute agli Angiò - in primis - Santa Chiara, intitolata, in origine « Sancti Corporis Christi » con cui la regina Sancha di Maiorca im­mortalò se stessa, e alla quale altre ne potremmo aggiungere, come l'inizio del Duomo, S. Eligio, di cui rimangono la torre campanaria e il portale gotico-francese; la chiesa di S. Pietro Martire e quella di San Lorenzo; il monastero di S. Pietro a Castello, di cui fu prima badessa la regina Elisabetta d'Ungheria, a cui si deve la ricostruzione di Donnaregina, il convento di S. Martino, ter­minato sotto Giovanna I, nel 1368, al quale lavorarono, come all'attiguo ca­stello di Belforte (S. Elmo) Francesco De Vito, Tino di Camaino, Atanasio Primario, e, per le sculture del chiostro, Pacio fiorentino.

Tra le grandi opere pubbliche, va attribuita a Carlo II la costruzione del porto di mezzo, essendo quello vecchio dell’Arcina divenuto insufficiente all'in­cremento del traffico marittimo; e ope­ra dello stesso re furono il molo grande e il molo piccolo. Per tutti questi lavori si adoperarono le pietre delle cave di Monte Echia e i legnami della Selva mala di Ottaviano. Al porto di mezzo si fecero confluire tutte le strade del quar­tiere commerciale, che si svilupparono a raggiera dalla Loggia dei Genovesi e dalla Rua dei Catalani, alla Loggia dei Marsigliesi e a quella dei Provenzali, che avevano il loro molo a Santa Lucia.

Nel 1305, fu dato inizio alla costru­zione di un nuovo arsenale e un altro ancora ne fece costruire re Roberto, al Carmine, che fu distrutto quando Al­fonso d'Aragona occupò Napoli, nel 1442.

Non mancò, dunque, fervore di opere e di iniziative. Ma che cosa ne pensava il popolo? Non c'è dubbio che, sotto gli angioini e gli aragonesi, i napoletani subirono un profondo mutamento psi­cologico, una depressione morale. Sen­sibili e intuitivi com'essi sono, dovette­ro avere l'impressione di una danza fol­le sopra un tappeto iridescente con sot­to il vuoto.

Anche Napoli ebbe il suo Rinasci­mento, non così splendido e magnifico, forse, come sbocciò e fiorì in tante al­tre città d'Italia, perché a Napoli man­carono i grandi tiranni mecenati dell'ar­te, della poesia, della scienza, che ebbe­ro, invece, Roma, Firenze, Ferrara e molte altre città italiane, e mancarono, anche, quelle condizioni di tranquillità politica, che sono indispensabili alla ci­viltà umana, per iniziare e compiere ogni nuovo ciclo di progresso storico, materiale e spirituale.

Ma il Rinascimento passò, come una ventata fresca di primavera, anche nella nostra città a rinnovarvi uomini e cose. Il segno, anzi, il simbolo più significa­tivo che ne rimanga a Napoli, è l'arco di trionfo, che il genio del Laurana elevò fra le torri frontali del Maschio angioino, in occasione dell'ingresso solenne di Alfonso d'Aragona in città. Questo re incarnò a Napoli lo spirito del Rinascimento; e pur fra le tempe­ste politiche e le insidie militari, che dovè affrontare e superare, durante il suo regno, trovò tempo e modo di ac­crescere la bellezza e il decorso della sua capitale e di influire sull'ingentili­mento dei costumi e del vivere civile dei napoletani. Egli convocò i più fa­mosi architetti, pittori e scultori di Ita­lia, da Firenze, da Milano, da Bologna, finanche dalla Spagna; si circondò di umanisti nostri e stranieri, di poeti, di filosofi, di storici, di scienziati, in modo che la sua Corte non era per nulla in­feriore a quelle dei più rinomati prin­cipi mecenati del Rinascimento italiano, sfolgorante di lusso e di buon gu­sto, mentre la sua capitale si ampliava e si abbelliva, a vista d'occhio, di edifici e di monumenti insigni.

Chi considera quel periodo torbido di lotte, politiche e militari, di anarchia, di atti briganteschi, di miseria, che fu il regno di Giovanna II, ultima dei durazzeschi, non può non essere preso da stu­pore per il rapido mutamento della si­tuazione napoletana, dopo l'avvento al trono di Alfonso d'Aragona. Fu una ve­ra, prodigiosa rinascita. Ma procediamo con ordine.

Grande sovrano della dinastia arago­nese, succeduta a quella angioiana, fu Alfonso il Magnanimo che incarnò il principe rinascimentale arricchendo Na­poli con iniziative culturali e diffon­dendo il gusto dell'arte.

Raffinatezza ed eleganza rinascimenta­le Alfonso dimostrò anche nelle feste sacre e profane, nelle giostre, nelle rap­presentazioni teatrali. Basta ricordar le feste da lui date per la visita dell'impe­ratore di Germania Federico III e del­la moglie Eleonora di Portogallo (1452), che, per dieci giorni consecu­tivi, mandarono in visibilio i napole­tani. Non sappiamo se tutto quanto è stato narrato di esse sia vero.

Le botteghe ricevettero ordine di consegnare agli ospiti del seguito ogni cosa da essi richiesta, sul conto del re. Agli Astroni ci fu una caccia e i cavalli dei sovrani e dei gentiluomini di Corte vennero nutriti di confetti, non di fieno e biade. Fu costruito un padiglione, va­sto quanto un palazzo, per i banchetti, serviti in vasellame d'oro e d'argento di ingente valore. Le fontane, come nella favolosa età dell'oro, versavano, per dieci ore al giorno, non nettare, ma vi­ni pregiati, ai quali poteva bere a gar­ganella chi avesse voluto.

L'ultimo re della dinastia aragonese fu Federico. Dopo molte e travagliate vicende si chiudeva con lui il regno na­zionale di Napoli. Da questo momento la città è sede di un viceregno spagnuolo.

Con la dominazione degli spagnoli, Napoli tocca il punto più basso della sua parabola politica e morale, anche se - come osserva Benedetto Croce, col solito acume di geniale critico della storia — non tutti i mali di Napoli e dei napoletani sono derivati da essi. Ma un fatto è certo: che tra il 500 e il 600 si operò nei napoletani una profonda trasformazione sia esteriore, fisica, che interiore, morale.

Prima essi erano ben diversi, da co­me divennero durante il governo vice-regnale spagnuolo e da come sono oggi; e, a quel tempo, la città cominciò pure a foggiarsi, attraverso demolizioni, tra­sformazioni, abbellimenti, ampliamenti e anche deformazioni, quell'aspetto che non si è più sostanzialmente alterato nonostante le costruzioni dell'età bor­bonica e di quella moderna e contempo­ranea, che ne ha enormemente dilatato le dimensioni e le proporzioni, in super­ficie e in popolazione. Nel 600, la so­cietà napoletana — come educazione ci­vile, costumi, formazione morale, for­ma mentale - non è più quella del glorioso Ducato o del Regno indipen­dente.

Un guizzo dell'antica fierezza lo ve­diamo ancora sprizzare nell'irriducibile avversione del popolo napoletano con­tro l'inquisizione, ma già la sommossa di Masaniello, col suo caratteristico svolgimento farsesco, mossa soltanto da motivi economici, ci dimostra come nes­sun bisogno sentito di partecipazione at­tiva alla vita della città e dello Stato, nessun ideale etico-politico, nessuna aspirazione all'indipendenza e nemmeno alla elevazione sociale entravano più nei propositi e nei finì della sua azione.

A stretto contatto con le soldatesche spagnole, la plebe napoletana, agglome­ratasi nelle zone alte di via Toledo, det­te ancora oggi, i Quartieri, appunto per­ché vi si accasermarono le truppe del dominatore, contrasse tutti i difetti e i vizi caratteristici degli spagnoli: il tur­piloquio, l'arte della menzogna e del­l'inganno, la millanteria, il gusto di sembrare senza essere, l'ipocrisia e la superstizione religiosa, l'altezzosità nel­la miseria, la vanagloria stupida, l'ag­gressione proditoria a scopo di rapina o di vendetta.

Non è azzardato riscontrare in quel­l'ambiente guasto le origini della camor­ra tristemente famosa. Coi vizi, la de­generazione fisica, oltre quella morale. Spesso, per le strade, i passanti s'im­battevano in cadaveri pugnalati alle spalle, le più volte di soldati spagnuoli; ed era estremamente pericoloso az­zardarsi, di notte, nel dedalo di vicoli di certi rioni malfamati, regno della malavita, la quale giunse a tal punto di temerità nei delitti, che don Pedro di Toledo e il marchese del Carpio ci si misero di punta a reprimerla, ma senza risultati veramente positivi.

Né migliore è il quadro che la sto­ria ci presenta della nobiltà napoletana sotto la Spagna. Spento, in essa, ogni ardore di indipendenza e ogni ambizio­ne di potere si era ridotta a vivere pro­na davanti allo straniero, e, quel che è peggio, si era attaccata fedelmente alla monarchia spagnuola, non certo per de­vozione ma per egoistico interesse. Ari­stocrazia feudale ed eletti dei Seggi tut­ti eseguivano con zelo indecoroso la vo­lontà del dominatore, cercando di trar-ne il maggior profitto, in privilegi e in cariche remunerative, spingendo il lo­ro aperto favoreggiamento per gli spagnuoli sino a persuadere il popolo a starsene tranquillo, se mai avesse avuto qualche tentazione di sommossa. Si finì, così, in una vera e propria gara fra i nobili a chi si rendesse più utile allo straniero; e quelli, fra essi, che veniva­no meglio compensati, destavano la ge­losia degli altri, che, spesso, degenera­va in discordia. E questo, come sem­pre - - secondo la norma romana del « divide et impera » - giovava agli spagnuoli, che avevano le mani nel go­verno viceregnale, molti dei quali, alti ufficiali dell'esercito, funzionari dell'am­ministrazione statale, finanche alcuni vi­ceré, giunti a Napoli poveri in canna, o ricchi decaduti e indebitati fino al collo, contrassero vantaggiosi matrimoni con donne dell'aristocrazia napoletana, sic­ché si stabilì una vera e propria allean­za fra questa e il Vicereame spagnuolo. Ciò acuì l'odio del popolo contro i nobili; e, a pescare nel torbido, ci si mise la classe media, nella lusinga di attrarre a sé la plebe, staccandola definitivamente dall'aristocrazia. Ma se questa era odiata, perché rappresentava l'estremo della ricchezza, la classe privilegiata, che, pur essendo minoranze, comanda­va, il popolo, espressione di estrema miseria, diffidava anche del ceto medio, che, pur di origine plebea, rappresen­tava il ceto degli avvocati e degli appal­tatori delle gabelle, che esso aborriva, per ovvii motivi, in modo tutto parti­colare. Il dominio del popolo sfuggiva, pertanto, sia ai nobili che alla classe media. E ne profittava l'astuta politica spagnuola, che si reggeva barcamenan­dosi fra i tre ordini cittadini: ora blan­diva la nobiltà contro i due ceti infe­riori; ora favoriva lo scatenarsi degli istinti e delle passioni popolari; ora di­mostrava di voler riconoscere il valore del ceto medio, donde traeva quegli zelantissimi appaltatori ed agenti delle ga­belle e delle imposte, che, per un regi­me di spoliazioni fiscali come quello spagnuolo, il più esoso fra tutti, voleva dire sfruttare fino all'osso le risorse eco-nomiche dei popoli soggetti, a vantag­gio, onore e gloria dell'erario di Sua Maestà il re cattolico. Facendo il punto della ingordigia spagnuola, Traiano Boccalini ha scritto: « Ogni vil soldato spagnuolo, che arriva a Napoli ignudo, se ne parte vestito di seta e d'oro ». Figuriamoci, da questo, come se ne par­tivano i capitani!

La povertà di vita spirituale, la carenza di un ideale politico e di una co­scienza nazionale, che caratterizzano l'epoca spagnuola a Napoli, si riscontra, del resto, nella letteratura del tempo. La prima metà del '600 risente ancora dell'influsso rinascimentale, specie in materia religiosa, in cui c'è sentore di riforma, nella propaganda anticattolica di Juan de Valdès e sulla tenace oppo­sizione napoletana all'introduzione del­l'Inquisizione.

Ma è anche nel campo della poesia e della cultura varia, dalla quale è as­sente ogni interesse politico nazionale, che troviamo la conferma dell'indiffe­renza verso ogni forma di attività ci­vile, in cui è caduto lo spirito dei na­poletani. Si segue, infatti, l'andazzo umanistico del Pontano, dal quale non sa staccarsi neppure il genio poetico di lacopo Sannazaro, come non se ne staccano né Pietro Summonte, né altri, e al quale rimangono attaccati anche i poeti (o rimatori che si vogliano stimare) — eccetto, forse, Angelo Di Co­stanze, storico e poeta, in cui si avverte un qualche anelito di patria — e, con lui, il Rota, Luigi Tansillo, Galeazze di Tarsia, Vittoria Colonna, Isabella di Morrà. Formalismo, senza pensiero. Ma il pensiero, senza cura della forma, trionfa con l'avvento di Bernardino Telesio, di Giordano Bruno, di Tommaso Campanella, i tre grandi filosofi meri­dionali, che, col loro genio, scuotono le fondamenta del vecchio mondo cultu­rale, precorrendo Giovan Battista Vico, l'astro maggiore del pensiero napoleta­no, che coi « Principii di una scienza nuova » fa cadere tutto il castello sillogistico di Aristotele e ci dà la chiave per interpretare, in linguaggio moderno, la filologia e la storia delle civiltà universali. Allo stesso modo, un altro genio napoletano, Giambattista Della Porta, si scioglierà dalle formule magiche dell'astrologia per iniziare l'era del­la scienza.

Con la prima metà del secolo XVI, comincia ad affermarsi, a Napoli, anche nel campo delle arti figurative, l'opera di artisti locali, che, progressivamente si liberano dall'influenza di pittori e scultori romani, toscani e lombardi. Pri­mo, fra tutti, il pittore Andrea Sabatini (Andrea da Salerno), che rivela nei di­pinti una robusta grazia raffaelliana; e gli scultori Giovanni Mariliano, (Gio­vanni da Noia) Gerolamo Santacroce, Annibale Caccavello, i due D'Auria. Segue una nuova predominanza di ar­tisti stranieri: Giorgio Vasari, Leonar­do da Pistoia, Marco Pino da Siena, pittori; e Michelangelo Naccarino e Pie­tro Bernini, scultori. Solo sul finire del secolo, si ha una ripresa artistica napoletana, con caratteri di continuità e di originalità, specie in pittura. Quanto all'architettura, essa rimane vincolata a moduli di altre regioni italiane, e, an­che quando il barocco napoletano assumerà una fisionomia propria, risentirà ancora dell'influsso del bergamasco Cosimo Fanzago, che lasciò a Napoli parecchie sue pregevoli opere.

Anche la musica napoletana ebbe, nel '500, i primi indirizzi di scuola locale, nel Conservatorio di S. Maria di Loreto e in quello dei Poveri di Gesù Cristo, istituito, nel 1589, dal frate francescano Marcello Fossataro.

Anche la città si allargò, per la cre­scita della popolazione, salita, ormai, ad oltre 262.000 anime, come risulta da un censimento del 1547. Fu necessaria, quindi, una nuova cerchia di mura, che, iniziata nel 1583 fu terminata nel 1587, per opera del viceré don Pedro de Toledo. La cinta andava da Porta S. Gennaro a S. Maria di Costantinopoli, per via Bellini e l'attuale Piazza Dante, lungo la collina dove ora c'è l'ospedale della Trinità, il Corso, donde proseguiva per S. Lucia a monte e S. Maria Apparente, scendendo, poi, a S. Caterina a Ghiaia (Porta di S. Spirito), salendo a Pizzofalcone e, di là, ridi­scendendo verso S. Lucia a Castelnuovo. Il capolavoro di don Pedro fu, però, via Toledo, aperta nel 1536, una delle più celebri e belle vie del mondo, che, tuttora, costituisce il centro più vitale e la gloria dei napoletani. Lo stesso vi­ceré provvide ad altre strade di colle­gamento, come l'Infrascata, del 1560, che portava all'Arenella e ad Antignano, allora villaggi, donde, attraverso amene campagne, si raggiungeva San­t'Elmo, che fu restaurato tra il 1537 e il 1549. Don Pedro sistemò, inoltre, la viabilità del borgo di Ghiaia, dal pa­lazzo Cellammare fino al Largo Ferrantina, dov'era la villa di Alfonso II d'Aragona, che, per un certo periodo, i viceré scelsero come loro residenza. Dal borgo, si proseguiva verso la chie­sa di Piedigrotta, sorta su un antico tempio e rifatta nel '500, intorno alla quale si celebrava ancora la più folclo­ristica di tutte le feste napoletane e si andava fino a Mergellina, ov'è la casa del Sannazaro, che fece costruire la chiesetta di Santa Maria del Parto - denominazione che ci fa ricordare il suo « De Partu Virginis » - in cui si trova la tomba del poeta.

Alcuni borghi rimasero fuori le mu­ra, come i Vergini, borgo Avvocata, S. Antonio abate e Loreto.

Nel Seicento molte e originali furono le opere di architettura sorte in Napoli soprattutto per la genialità del Fanzago di cui ancora oggi ammiriamo S. Teresa a Ghiaia, S. Ferdinando, S. Maria degli Angeli alle Croci, S. Maria Egiziaca, la Certosa di S. Martino.

Ma più che l'architettura, fiorì la pittura. E' noto che, nella Napoli sei-centesca, gli influssi della potente arte pittorica di Michelangelo Merisi da Caravaggio, creatore del luminismo italia­no, si fecero sentire su tutti gli artisti dell'epoca. Non passivamente, però. So­prattutto i pittori maggiori, Battistello Caracciolo, Bernardo Cavallino, Mattia Preti, — che dipinse i famosi pannelli della peste del 1656 per le porte della città — pur attingendo spunti e motivi alla grande arte caravaggesca, seppero infondere toni, movenze, espressioni nuove alle loro figurazioni; e così pure Massimo Stanzione, il Fracanzano, Salvator Rosa, che, interpretando il natu­ralismo e il colorismo congeniti ai napotani, precorsero quella transizione dal­la pittura del '600 a quella del 700, che si attua con Luca Giordano e con Francesco Solimena.

Nella seconda metà del Seicento, na­sce anche la musica nel senso tutto na­poletano di quest'arte. Si smette con le imitazioni veneziane e fiorentine; e il teatro di San Bartolomeo, costruito nel 1620, a gara con quello del Palazzo reale, diviene, a partire dal 1651, sotto il viceré d'Onate, il tempio del dramma musicale napoletano, ove si rappresentano le prime opere di Fran­cesco Provenzale e di Alessandro Scar­latti, iniziatori e precursori del nostro Ottocento musicale. I conservatori del­la città preparano le nuove generazioni di musici e di cantanti; e, insieme con essi, sorgono schiere di ballerini, di mi­mi, di scenografi, di vestiaristi, di at­trezzisti, che, a poco a poco, acquistano fama di bravura in tutta Italia e al­l'Estero.

Insieme con le arti, si afferma a Na­poli la nuova cultura. La vita del pen­siero, che si era precedentemente asso­pita, si riaccende alla luce viva della filosofia di Cartesio e dell'illuminismo di Hobbes, che relega in soffitta l'ari-stotelismo e il tomismo, e da inizio a quello che possiamo chiamare il nuovo corso della verità e della ricerca scien­tifica, con una serie di uomini geniali, quali Tomaso Cornelio, il Valletta, Leo­nardo di Capua, l'Ausilio ai quali spet­ta il vanto di avere spianato la via a Giovanbattista Vico. Né, per la verità storica, il nuovo pensiero fu imbava­gliato dal regime viceregnale spagnuo-lo: quantunque i sovrani di Spagna si atteggiassero a strenui difensori del cat­tolicesimo e si fregiassero con orgoglio del titolo di re cattolici, pure, sotto sot­to, si guardavano sempre in cagnesco col potere ecclesiastico, per via delle questioni giurisdizionali, di cui erano gelosissimi. Contro il nuovo pensiero intervenivano solo se sconfinasse in propaganda eversiva politica: per il resto, lasciavano correre.

Non progredirono molto, nel '600, le scienze giuridiche e neppure gli stu­di storiografici, sebbene questi fossero stati avviati, per opera del Capaccio e del Summonte, del Capecelatro e del Parrino, che fornirono molto materiale a Pietro Giannone. Ma avvio notevole ebbero le scienze economiche, per ope­ra del cosentino Antonio Serra, il qua­le meditando sulla miseria delle popo­lazioni meridionali, ne intuì per primo le cause e ne propose i rimedi, dando inizio agli studi per la soluzione di quel­la questione del Mezzogiorno, che, co­me la tela di Penelope, non arriva mai a un compimento definitivo. Trattato da visionario e cacciato in galera dal conte di Ossuna, il Serra è stato piena­mente riabilitato dal giudizio della sto­ria. Le cose del mondo vanno spesso così. Il Leopardi amaramente cantò: « Virtù, viva sprezziam, lodiamo, estin­ta ».

Napoli generosa ha intitolato ad An­tonio Serra l'istituto statale di econo­mia e commercio.

Ed eccoci alla poesia. Il Seicento na­poletano è il secolo di Giovanbattista Marino: poeta, senza dubbio dotatissimo di estro e di senso dell'armonia, di immaginazione anche troppo viva e di virtuosismo coloristico, gran conoscito­re della lingua, ma privo di potenza creativa e di quel freno d'arte, che gli avrebbe risparmiato la ridondante gon­fiezza e vacuità, che i critici gli rimpro­verano e che spesso ha causato la messa in evidenza più dei difetti che dei pregi della sua poesia, collocata in pes­sima luce dai suoi stolidi imitatori: i marinisti. Ma, dal flagello di costoro, la poesia napoletana si redense subito, accostandosi alla vena popolare, con le fiabe del « Pentamerone » e con le « Muse napoletane », di Giovambattista Basile, che si diffusero e piacquero in tutta Italia e in altri paesi d'Europa; e, se pure in grado minore, con la Vaiasseide e il « Micco Spadaro » di Giusep­pe Cesare Cortese e con gli scritti di altri poeti dialettali meno importanti, i quali descrivono tanto realisticamente la vita quotidiana del popolino napole­tano da farcene un quadro assai più chiaro che non tanti libri di storia. Na­turalmente, si scrissero anche opere da buttare al macero, di ogni specie, giu­stamente sepolte senza infamia e senza lode, perché nessuno le lesse, tranne i loro autori.

Intanto, però, lo stato della città pre­cipitava sempre più nel disastro econo­mico. Nel 1648. finanche soldati spagnuoli, detti, forse per questo, bisogni, chiedevano l'elemosina « con gravità spagnuola » come si esprime, umoristi­camente, il cronista. Sommosse, specie di donne, si verificarono al Lavinaio, per il diminuito peso della palata. L'in­flazione monetaria e la falsa monetazio­ne causarono lo svilimento della mo­neta; e i torbidi civili e l'insicurezza sociale ad opera del banditismo (dive­nuto tanto potente che il capo-brigante abate Cesare Riccardi osò imporre pat­ti al viceré per non chiudere completamente le vie, di cui era padrone, al vet­tovagliamento) gettarono la città nella situazione più disperata. Vi si aggiunse­ro le calamità di due terremoti, 1688 e 1692, che fecero vittime e rovine nelle province e in città, dove crollarono la cupola del Gesù Nuovo e la parte ri­manente del portico del Tempio di Castore e Polluce, incorporato nella chie­sa di S. Paolo.

Man mano, poi, che il regime vice-regnale spagnuolo volgeva al tramonto, si vennero acuendo le lotte fra nobili e plebei, che ebbero particolare recrudescenza sotto il viceré Pietrantonio d'Aragona, benemerito - dice il Doria — per miglioramenti edilizi, ma nel­lo stesso tempo spoliatore della città di opere d'arte. Allorché si verificò una gravissima rottura fra la nobiltà e il Viceré, il popolo stette dalla parte del governo. Avvenne, però, che, mentre, a Napoli, il Viceré minacciava fulmini e tuoni contro i nobili, i cui eletti si erano ritirati, per protesta, dall'ammi­nistrazione della città, a Madrid, la regina reggente approvava l'operato dei nobili.

E' il secolo dei Borboni a Napoli, una dinastia che, si voglia o no, vi la­sciò segni non perituri del suo passaggio. Gli storici disputano ancora sulla funzione politica che i borboni d'Italia si assunsero di svolgere, nel Settecento, nel reame napoletano e Ruggero Mosca­ti, d'accordo col giudizio di Benedetto Croce, di Giustino Fortunato, del Pala­dini e di altri insigni storici, sostiene che la loro azione fu, anche per i loro rapporti con la corte di Roma, positiva, e, nel suo complesso, progressiva, fin quando le due maggiori potenze borbo-niche, Francia e Spagna, sostennero, in Europa, un ruolo di prima grandezza. Ma la loro crisi influì negativamente sulle minori potenze borboniche e, quindi, su Napoli, anche se qui, dopo due secoli, era tornato, coi Borboni, il regno.

Comunque è nel '700 che essa acqui­sta quello splendore di metropoli europeistica, che attrasse e innamorò tanti uomini illustri, visitatori di eccezione, in cerca delle emozioni del bello natu­rale e artistico, come Miguel Cervantes che la esaltò in celebri versi.

Il regno indipendente — ci fa nota­re Gino Doria — la rese emula delle grandi capitali europee: Parigi, Madrid, Londra, Vienna. Io penso che, affer­mando ciò, il più appassionato storico della sua e nostra città abbia voluto in­tendere che Napoli, al pari di quelle capitali, pur cosmopolizzandosi, abbia saputo conservare l'originalità dello spirito della sua gente, che, insieme col fascino della incomparabile bellezza del suo ciclo, del suo mare, della sua terra, e lo splendore della sua arte, costitui­sce una delle attrattive più seducenti per i viaggiatori che vi approdano, co­me al porto del loro desiderio, soprat­tutto uomini di alta levatura artistica e intellettuale.

E questa originalità, come nello spi­rito del popolo, traluce nel pensiero dei geni napoletani, primo fra tutti G. B. Vico, che con la « Scienza nuova » chiu­de il passato e apre le porte dell'avve­nire, alle scienze storiche, giuridiche, filosofiche e filologiche. L'evoluzione dei tempi, le idee nuove, che compiono il loro corso storico fatale, hanno avuto, certo, il loro effetto nella trasformazione di Napoli. Ma le idee nuove — si sa - per imporsi hanno bisogno di un propulsore umano; e questo propulsore umano fu Carlo III, fu il suo ministro li­berale Bernardo Tanucci, il cui maggior vanto fu — come dice il grande storico meridionalista Giustino Fortunato - che « nullum vectigal imposuit ». Non si sarebbe attuato il cosmopolitismo di Napoli, se Carlo III avesse ostacolato il corso delle idee nuove e messo al bando Cartesio, Hobbes, Voltaire e Locke e avesse vietata al suo ministro ogni riforma in senso progressivo. Ingegni, invece, come il Gravina, l'Argento, il De Gennaro, il Filangieri, l'Intieri, il Genovesi, il Brogia, il Galiani, il Doria, il Galanti, il Giannone, il Signorelli, poterono liberamente esporre il loro pensiero d'avanguardia, su tutti i problemi politici, economici, religiosi, mo­rali. Non condivido, perciò, l'opinione del Doria su Carlo III, del quale lo storico tende a diminuire la personalità e a ridimensionare i meriti, che, a mio avviso, non si limitano a quelli edilizi, giacché egli si fece anche promotore del­la cultura e dell'arte. La fondazione del­l'Accademia Ercolanense valse a far sor­gere una schiera di illustri archeologi­; finanche i nobili si convertirono alla cultura ed espressero il Filangieri e il Palmieri. E il clero, ignorante e più dedito agli acquisti di beni terreni che di grazie celesti, e che aveva, perciò, ma­terializzato la fede, tornò agli studi e alla pietà religiosa, di cui divennero esempi luminosi S. Alfonso Maria dei Liguori e Padre Rocco, il famoso cor­rettore del popolo napoletano, per le suppliche del quale Carlo III si decise, nel 1751, a costruire il reale « Albergo dei Poveri » su disegno di Ferdinando Fuga; grandioso edificio, la cui mole noi ancora ammiriamo. Padre Rocco fondò pure l'asilo di Vincenzo della Sa­nità, per le giovani pericolanti; e a lui, preoccupato degli sconci morali, degli agguati, delle rapine e degli assassini, che avvenivano, di notte, nel buio del­le strade, si deve il primo saggio di illuminazione cittadina. Sorsero anche al­tri istituti di assistenza. E per quanto qualche sociologo abbia sostenuto che istituzioni del genere fomentavano l'o­zio e il vagabondaggio, non si può ne­gare che il benefìcio che esse arrecaro­no ai poveri di Napoli fu immensamente superiore agli inconvenienti, che si poterono lamentare.

La cultura si rinnovò, si estese a strati più larghi della società. E, quel che è veramente significativo, specie a Na­poli, dove le donne erano ancora con­siderate a tutt'altro destinate che alla cultura, vi si dedicarono, con entusia­smo e successo, alcune patrizie, anche se costituirono un'eccezione. Si noti che, come nella antica Roma, anche ai tempi di Terenzio, era considerato me­stiere da schiavi, per un nobile, darsi alle lettere e alle scienze, così il fana­tico pregiudizio era ancora vivo nel '700 a Napoli.

Si coltivava, invece, molto la musica, specie quella melodrammatica che trovò il suo tempio nel San Carlo.

Durante i primi anni del suo regno e finché visse Filippo V, Carlo III fu sotto la tutela autoritaria del padre. Tanto che, scoppiata, nel 1749 la guer­ra tra Austria e Spagna e avendo Fi­lippo V, per volere della moglie Elisabetta, inviato un esercito in Italia, im­pose al figlio di rinforzarlo con truppe napoletane. Ma l'Inghilterra spedì una flotta nel golfo di Napoli, e re Carlo fu costretto a ritirarsi dalla guerra, per timore di perdere il regno. Solo alla morte del padre divenne sovrano di fatto e potè manifestare la sua vera per­sonalità. La madre Elisabetta gli fece sposare, a 22 anni, la bellissima quat­tordicenne Maria Amalia di Sassonia, figlia del re di Polonia, ma la cui bellez­za rimase deturpata, più tardi, dal vaio­lo, che le lasciò quella sua caratteristica butteratura. Quando lui e la moglie, al ritorno dalla luna di miele, en­trarono in Napoli, accoltovi festosamen­te, istituì l'ordine di S. Gennaro e fece coniare delle monete d'oro, dette onze, e delle monete d'argento, dette « mezze pezze » donde la parola «pezza» del dialetto napoletano, corruzione di « pe­sos » per dire danaro in genere.

Gli nacque l'erede al trono, Filippo, nel 1747, fra il tripudio suo e della ma­dre. Ma il ragazzo, malaticcio e triste, campò male fino a 30 anni, allorché mo­rì e fu sepolto in Santa Chiara, dove la lapide, apposta al sepolcro, lamenta pa­teticamente che fu anche minorato di mente.

Carlo III fu un uomo di costumi se­veri; forte e sano di costituzione, amava molto la caccia e la pesca. Per questi suoi passatempi, egli fece costruire il parco di Capodimonte, col gran bosco, ricco di cacciagione pregiata, cervi, ca­prioli, cinghiali, fagiani, beccafichi ecc., nel 1735; ricostruì la casina di caccia che già c'era e, poi, nel 1738 la reggia del Medrano, ove sistemò le collezioni d'arte farnesiane e le fabbriche delle fa­mose ceramiche e porcellane, che vi fondò. Anche la regina Maria Amalia fu presa dalle attrattive della caccia, sul­l'esempio del marito.

Il re aveva il senso del grandioso e il gusto raffinato del bello artistico. Tutto quello che costruì ne reca, per­ciò, l'impronta. Tra l'altro, era felicis­simo nella scelta dei luoghi, dove far sorgere gli edifici. Il palazzo reale di Capodimonte e quello di Caserta, con l'incantevole parco, alle falde di monte Taburno, col quale volle emulare e su­perare il castello di Versailles dei re di Francia e la reggia di Schonbrun degli Asburgo, affidandosi al genio del Vanvitelli, perché realizzasse il suo propo­sito davvero degno di un grande mo­narca, ne sono la prova. Carlo III am­pliò pure il palazzo reale di Napoli e un altro ne costruì a Castellammare, anch'esso cinto da bosco per la caccia. Nel 1737, mise mano al tempio musicale della Napoli settecentesca, creandovi il « San Carlo » uno dei più belli e fa­mosi teatri lirici del mondo. A proposito del « San Carlo » si racconta un aneddoto, di cui non si può garantire l'autenticità. Si dice che il Carasale, costruttore ed impresario del teatro, si fosse recato ad invitare il re e la regina, perché si degnassero di intervenire alla serata inaugurale. E che il re si fosse lamentato con lui perché non aveva pensato a un passaggio interno fra la reggia e il teatro. Il Carasale uscì mortificato; ma, qualche ora più tardi, tor­nò dal re ad annunziargli che il passag­gio interno era stato approntato e che le loro Maestà potevano, con ogni co­modità, accedere per via interna al tea­tro. L'impresario aveva radunato d'urgenza il maggior numero possibile di operai e di tecnici; e, una volta scavato il corridoio, ne aveva tappezzato la vol­ta, le pareti, il pavimento con arazzi e tappeti, sicché i sovrani vi passarono co­me attraverso una serie di fantasmago-riche sale, illuminate da torce e candele. A torto — a me pare - Carlo III è stato accusato di aver creato a Napoli soltanto un'edilizia di lusso, per i propri gusti voluttuari. E l'Albergo dei Po­veri? Ma c'è ancora il grande acquedot­to, insigne opera d'arte, che egli fece costruire nella Valle di Maddaloni e le cui arcate grandiose gareggiano, per la arditezza della costruzione, con quelle degli antichi acquedotti romani. Un'al­tra accusa: per le sue costruzioni, Car­lo III si sarebbe servito di galeotti, di prigionieri e di schiavi musulmani, sen­za curarsi, per risparmiare il danaro dello Stato, di cui era custode gelosis­simo, di giovare ai disoccupati locali.

E' probabile che il re si sia valso degli uni e degli altri. Anche per le fabbriche di Capodimonte, lo si incolpa di aver fatto venire maestranze e tecnici dalla Sassonia, la patria della regina. Ma è da ritenere che ciò si sia verificato solo in un primo tempo, finché non si for­marono le maestranze locali. Quell'arte, era del tutto nuova per Napoli. Non va dimenticato, inoltre, che Carlo III com­pì molte opere di pura utilità pubblica: oltre all'« Albergo dei Poveri » e allo acquedotto di Maddaloni, già ricordati, fece eseguire importanti lavori al Molo, aprì le strade della Marinella e di Mergellina, costruì l'edificio dell'Immacola­tella.

E, nel 1757, dette inizio all'emiciclo al largo del Mercatello (l'odierna Piaz­za Dante) su progetto del Vanvitelli, compiuto, poi, da Ferdinando IV, nel 1765. Napoli cambiò volto: ma, per i difetti organici dei suoi successivi ingrandimenti e abbellimenti, a meravi­gliose aree monumentali, come quella — per citarne una — difficilmente ri­scontrabile in altre grandi città, tra piazza Municipio, il Maschio Angioino, la Galleria, il « San Carlo », la reggia del Fontana, la Basilica di S. France­sco di Paola e Piazza Plebiscito, si con­trappongono angusti meandri stradali e case e palazzi oscuri e cadenti, che fan­no lamentare l'assoluta deficienza di un piano regolatore di integrale sventra­mento e ricostruzione, come quello mes­so in opera, con vantaggio enorme per il decorso cittadino, con l'abbattimento di quella fungaia malsana, covo di ma­lavita, che era tutto il vecchio rione fra la Corsea e i Guantai Vecchi. Non si può, dunque, far torto a Carlo III se non costruì secondo un razionale piano regolatore, soprattutto se si consideri che anche oggi, nonostante tutti i progressi delle tecniche edilizie, un pia­no regolatore veramente razionale Na­poli non l'ha, come dimostrano le caotiche costruzioni dei nuovi quartieri re­sidenziali di Posillipo alto e, forse, per un complesso di cause, che non è qui opportuno enumerare, non lo avrà mai. Ma dovunque Carlo III ha costruito ha creato delle zone monumentali, che de­stano l'ammirata attenzione degli stra­nieri e danno luce e gloria alla città.

A Carlo III successe Ferdinando IV, re tipicamente napoletano che si trovò a vivere avvenimenti più grandi di lui, come la Rivoluzione francese e le inva­sioni napoleoniche.

A Carlo III successe Ferdinando IV, che curò molto lo sviluppo della marina napoletana: il primo si dedicò partico­larmente a quella mercantile, il secondo alla marina militare. Si potè formare quella scuola marinaresca napoletana, da cui uscirono insigni uomini di mare, come l'audace e leggendario Capitano Pepe, (il Martinez), distintosi nella lot­ta contro i corsari, l'eroico ammiraglio Francesco Caracciolo, sacrificato dall'odio di Maria Carolina alla vendetta di Nelson, il Bausan ed altri. L'aumento dei commerci marittimi fu enorme, spe­cie per effetto dell'abolizione dei privi­legi di bandiera e l'istituzione di una compagnia di assicurazioni marittime. E la città ne beneficiò.

Il popolo ottenne da Ferdinando IV l'abolizione del monopolio sui tabacchi, con gran giubilo dei fumatori. Ma, in compenso, nel 1774, egli istituì il gioco del lotto — la bonificiata — a cui il popolo napoletano era ed è rimasto appassionatissimo, tanto da avervi creato su tutto un sistema cabalistico, e che rendeva allo Stato oltre 560.000 ducati annui. Arte raffinata di cavar danari al popolo senza farlo strillare.

Carlo III regnò dal 1737 al 1759. Ferdinando IV dal 1759 al 1790; ri­tornò sul trono, dopo la fuga in Sici­lia, nel 1791 e vi rimase fino al 1806. In questo anno, nonostante le sciocche vanterie del generale russo Lascy, divenuto comandante in capo dell'eserci­to napoletano, che aveva promesso al re di umiliare Napoleone, il 14 feb­braio, i francesi giunsero alle porte di Napoli, sicché a Ferdinando e a Maria Carolina non rimase altro da fare che ritornarsene in Sicilia. Pietro Colletta descrive vivamente la confusione e lo sgomento di quelle giornate: « Chi fuggia, chi nascondevasi, chi andava incontro al vincitore ».

Ma Ferdinando IV ritornò ancora a Napoli, dopo il brevissimo regno di Giuseppe Bonaparte (1806-1808) e la avventura, conclusasi tragicamente, di Gioacchino Murat, che vi regnò dal 1808 al 1815, l'anno fatale del tramon­to definitivo dell'astro di Napoleone. Per Ferdinando IV, il tramonto fu pla­cido, ma senza gloria. Dal 1815 al 1825, sopravvisse come l'ombra di se stesso; non fu granché amareggiato dai lutti familiari: la morte del fratello e quella della moglie Maria Carolina, per la quale, anzi, parve tirare un respiro di sollievo, come chi si scarica di un gros­so peso. Ebbe, però, tempo di infamar­si, rinnegando, al convegno di Lubiana coi sovrani della Santa Alleanza, la co­stituzione ch'egli aveva concesso dopo i moti rivoluzionari del 1821 e giurata solennemente sul Vangelo nella chiesa dello Spirito Santo. Morì il 3 gennaio 1825, all'improvviso, a 76 anni di età, dopo 65 di regno. Fu sepolto in Santa Chiara.

Napoli e l'Italia Meridionale non ac­cettarono e subirono passivamente l'uni­tà italiana. Non solo i cittadini del Regno delle Due Sicilie e della città di Napoli cospirarono e combatterono apertamente per l'ideale nazionale, ma lo fecero con fede e con spirito di abne­gazione benché convinti che, sull'altare dell'unità, il Mezzogiorno d'Italia, che costituiva, con la Sicilia, il più grande, ricco e bel reame della Penisola, sareb­be stato chiamato a dare più che a ri­cevere e a sacrificare, prima di tutto, il suo ruolo di regno indipendente, a ca­rattere nazionale.

Il popolo napoletano odiava la regi­na Maria Carolina, l'austriaca, e, per riflesso, non nutriva eccessiva benevo­lenza per Ferdinando IV. Ma odiava più profondamente i francesi, teneva, sia pure a suo modo, alla religione, non era sordo al sentimento di patria, sia pure campanilisticamente, e, nella monarchia dei Borboni vedeva non solo un pre­sidio di indipendenza, ma una afferma­zione di nazionalità. Si sfogò, quindi, con ferocia, nel periodo fra la vergo­gnosa fuga del re e l'ingresso dei fran­cesi, contro i liberali, sospetti di con­nivenza e di tradimento con essi. E, per tre giorni, si oppose con le armi alle truppe di Championnet, con un fu­rore che trasformò i lazzari in eroi. I francesi ebbero tali perdite — dice Vin­cenzo Cuoco — che, « se al posto di Championnet si fosse trovato Napoleo­ne, avrebbe fatto mettere Napoli a fer­ro e a fuoco ». Il generale francese si limitò a imporre alla città — secondo il costume inaugurato dalla rivoluzione — una taglia di due milioni e mezzo di ducati e una di quindici milioni alla provincia, da pagarsi, in mancanza di danaro liquido,  anche  in preziosi.   Si dice che, ad una delegazione di napo­letani, inviata, per protestare contro la eccessiva richiesta, a Championnet, questi avesse risposto, come  l'antico antenato brenno gallico ai romani: « Guai ai vinti ».

La Repubblica Partenopea fu pro­clamata nei primi giorni del 1799. La sua breve, caotica e difficile esistenza si svolse fra tumulti e saccheggi, guerri­glie fra realisti e repubblicani, misfatti di briganti e di lazzari nelle campagne e in città, l'incredibile caos creato da­gli stessi errori del Direttorio, formato da teorici, che legiferavano sul modello del Direttorio francese, quasi che il po­polo napoletano - fa notare il Cuoco —  avesse la stessa maturità politica e sociale di quello d'oltr'Alpi. Le diedero il tracollo la violenta rapida reazione del cardinale Fabrizio Ruffo, e la resa, dopo eroica resistenza, dei patrioti a Vigliena,  in  seguito  ai  fatti  solenne­mente giurati e disinvoltamente abiu­rati dal reazionario cardinale, il quale li consegnò alle vendette infami di Ma­ria  Carolina,  di  Nelson  e  della   sua amante Emma Lyonne, moglie di Hamilton. La tragedia si concluse con gli ignobili processi e le esecuzioni di Fran­cesco Caracciolo, di Domenico Grillo, del Conforti, di tutto il fior fiore dei repubblicani, di Eleonora de Fonseca Pimentel, di Luisa Sanfelice. Sono fatti a tutti noti, che appartengono alla sto­ria di tutta la nazione italiana e aprono il martirologio del Risorgimento.

Dopo la sfortunata stagione repub­blicana si ebbero i regni napoleonici di Giuseppe e di Gioacchino Murat.

Nel clima relativamente disteso di questi due regni si poterono compiere alcune opere pubbliche importanti. Fu istituito un Consiglio degli edifici civili, qualcosa di corrispondente al nostro Genio Civile, che provvedeva alla or­ganicità dei programmi di opere pub­bliche, in modo che queste ne risulta­vano più utili ed efficienti. La strada, che dal Museo conduce a Capodimonte, col ponte della Sanità, a cui fu dato il nome di Corso Napoleone, iniziata sot­to il re Giuseppe, fu terminata da Gioacchino Murat. Questo re fece an­che costruire il Campo di Marte, am­pliare via Foria, prolungare la via di Posillipo fin giù a Coroglio e diede piena efficienza all'Orto Botanico. Sot­to di lui, continuarono anche i lavori già iniziati sotto Giuseppe Bonaparte, della Specola Astronomica, disegnata dall'astronomo Giuseppe Piazzi e mo­dificata da Federico Zuccari, ma com­pletati solo nel 1819.

Tra le opere educative istituite dai Napoleonici ricordiamo gli Educandati femminili, il Conservatorio di S. Pietro a Maiella, ove vennero riunite tutte le scuole musicali degli antichi conserva­tori napoletani - - (S. Maria di Loreto, S. Onofrio, Pietà dei Turchini) —; la Società Reale di Cultura, divisa in tre Accademie, scienze, arti, lettere, con un appannaggio annuo di 15.000 ducati. Murat curò, inoltre, la sistemazione definitiva di Piazza Plebiscito, su un la­to della quale già esisteva, fin dal '700, il palazzo del Comando Militare; nel 1815, per amore di simmetria, gli si costruì di fronte la Foresteria (ora sede della Prefettura). La Chiesa di S. Fran­cesco di Paola, prospiciente alla Reggia, fu fatta erigere per voto da Ferdinando IV, in ringraziamento del riacquisto del regno. L'architetto Pietro Bianchi, che la progettò e ne diresse i lavori, durati dal 1817 al 1846, prese a mo­dello il Pantheon di Roma e, per il por­ticato, utilizzò un colonnato dorico ini­ziato da Murat. Sulla piazza, nel 1829, sorsero le due statue equestri di Carlo di Borbone, del Canova, e di Ferdinando I, del Calì.

Un'altra costruzione dell'ultimo pe­riodo borbonico, fatta sorgere, tra il 1819 e il 1825, allo scopo di riunirvi tutti i Ministeri, è il palazzo oggi sede del Municipio Centrale di Napoli, sulla gran piazza omonima. Sul lato setten­trionale di questa, oltre al casermone della Gran Guardia, c'era e vi rimase fino al 1884, il teatro « San Carlino » sede della commedia dell'arte napoleta­na e regno incontrastato della celebre maschera del Pulcinella. Opera gran­diosa di Ferdinando II, che valorizzò immensamente la città, fu il Corso Ma­ria Teresa — oggi Vittorio Emanuele. - Esso si snoda per due chilometri e mezzo dalla Cesarea a Piedigrotta; pro­gettato dagli architetti Alvino, Sapo­nieri, Cangiano, Gavaudan e Francesconi fu portata a fermine in un anno, dal­l'aprile 1852 al maggio 1853. Un re­scritto reale vietava che si costruisse dalla parte del mare; ma, purtroppo, posteriormente, non è stato più osser­vato e la magnifica panoramica ne è ri­masta in parte menomata.

Si era provveduto, così, dal '500 in poi, e anche prima, a creare un centro cittadino veramente superbo e degno di ogni grande metropoli: ma, dietro queste stupende cortine, restavano (e ancora oggi, purtroppo, benché il brut­to sconcio tenda a scomparire!) i grossi formicai umani, agglomerati in rioni su­dici dai vicoli stretti e senza luce, covi di vizio e di malattie.

Anche Ferdinando II, fece, dunque, qualcosa di buono; non fu, comunque, quel re lazzarone, che ci ha presentato l'iconografia sabauda, secondo la quale così lo avrebbe definito la moglie, la regina Maria Cristina, ch'era una Sa­voia, né un re inetto. E se la sua poli­tica fu tutta un cumulo di errori, perché non seppe comprendere i tempi nuovi, assai saggia fu la sua amministra­zione, che procacciò la rinascita economica della capitale. Quanto, poi, alla idea liberale, che gli storiografi del pie-montesismo propalano di essere stata a noi importata dal Nord, essa è sorta, invece, qua, a Napoli e nel Sud, per opera, soprattutto, dei due Napoleonidi, che, per primi, si voglia o no ricono­scere, introdussero quell'idea nella le­gislazione dei loro regni e si ispirarono al liberalismo di Stato. Quali e quante non furono, infatti, le iniziative liberali di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat? L'Istituto di incoraggiamento delle industrie (1806); la Camera Con­sultiva di Commercio (1808); le Socie­tà Economiche della Provincia (1812). E, per la formazione tecnica artistica e professionale, la Scuola d'arti e mestie­ri (1810); e, un anno dopo, il tentativo di costituire addirittura i Consigli delle arti e mestieri, per la loro conservazio­ne e per il loro sviluppo. E Ferdinan­do II, nel biennio 1832-1834, istituì a Napoli la Compagnia Sebezie per le Industrie, la Società enologica, la So­cietà Industriale Partenopea, la Econo­mica Commerciale, con un capitale com­plessivo e, per quei tempi, ingente, di cinque milioni di ducati. Nel 1838-1839, il Banco di San Giacomo, sorto dalla fusione dei sette antichi banchi napoletani, si trasformò in Banco di Napoli; e, nello stesso 1838, si inau­gurò il primo tronco ferroviario, da Napoli al Granatello, prolungato in se­guito fino a Castellammare e a Caserta.

Le principali vie di Napoli, Toledo, Ghiaia, il Piliero, furono illuminate a gas, nel 1840. Le fabbriche di tessuti e gli zuccherifici di Sarno, le cartiere del Liri, lo stabilimento di Pietrarsa per le forniture all'esercito napoletano e alla guarnigione austriaca di residenza, che era a carico del governo napoletano, di­mostrano una certa vitalità nel campo delle industrie e dei commerci. Non si vuole con ciò sostenere che industrie e commerci vi fossero molto sviluppati. Ma, se non è attendibile il giudizio degli storiografi borbonici, non è neppure da prendere per verità sacrosanta la conclusione negativa, a cui pervengono quelli ostili miranti a negare anche quel tanto di buono che i Borboni hanno fatto. Le difficoltà complesse di creare nel Sud una grande industria sono an-cor oggi non del tutto superate.

Pessimo era, invece, lo stato finan­ziario di Napoli. Le spese per il solo esercito ammontavano ad oltre 85.000 ducati e si pensi con quanto malanimo il popolo sopportava questo sperpero, per un esercito che non valeva niente e non era sentito da alcuno come presidio della nazione. Si dovè ricorrere nel 1821 a un prestito forzoso di tre milio­ni di ducati con l'imposizione ai com­mercianti e ai ceti abbienti di sottoscri­vere al massimo; e se, nel 1823, fu abolita la scala franca, altri balzelli col­pirono i generi coloniali, il pesce secco e salato, il macinato: imposizione, que­st'ultima, tanto iniqua, da indurre Ferdinando II, quando giunse al trono - ed è tutto dire! — a sopprimerla. E ricordiamo qui, non solo incidental­mente, che la tassa sul macinato ha co­stituito a lungo un incubo per il popolo italiano, che la dovè subire a denti stret­ti, anche dopo l'Unità, quando Quinti­no Sella la ripristinò per riportare al pareggio il dissestatissimo bilancio dello Stato unitario. Altrettanto iniquo fu il dazio sui libri esteri: imposto, questo, forse più per il retrivo spirito reazionario degli ultimi Borboni, nemici della cultura e paurosi delle idee nuove, (Ferdinando II odiava i letterati, scrit­tori e giornalisti, trattandoli, con di­sprezzo, da « pennaiuoli ») che per esi­genze strettamente finanziarie. E fu questo odio per gl'intellettuali uno de­gli errori più gravi di Ferdinando II: che, se non si fosse alienati gli uomini di pensiero e avesse saputo raccoglierli intorno a sé, per farsi da essi consiglia­re, il corso degli avvenimenti politici italiani avrebbe forse preso un altro svolto, in senso favorevole alla sua di­nastia. Preferì, invece, poggiarsi sulla polizia, che accrebbe enormemente di numero e di potere, per la quale si ar­rivò alla spesa enorme di oltre 300.000 ducati annui, senza tener conto che se si arrestano le persone, è pazzesco pre­sumere di arrestare le idee.

In compenso, Napoli, apparentemente, era una città ricca e gaia: e, agli stranieri, che vi affluivano in gran nu­mero, né soltanto comuni mortali, ma uomini grandi, come Stendhal, Dumas, Gregorovius, appariva come la Mecca del piacere, sfolgorante di bellezza, di folclore, di attrattive incomparabili, come i suoi canti, le sue danze, le sue musiche, i suoi usi e costumi, le feste sacre e profane. Pittori e poeti vi tro­vavano fonti inesauribili di ispirazione. Il movimento dei forestieri era tale che non si trovavano posti negli alberghi, nelle locande, nelle pensioni private. Locandieri, camerieri, guide, vetturini, facchini, fabbricanti e venditori di « souvenirs » e di cianfrusaglie, procac­ciatori di clienti alle donne di vita fa­cevano affari, che, onesti o disonesti, mitigavano la miseria delle classi basse del popolo.

La cultura era in piena decadenza. Costretti a fuggire da Napoli tutti i colpiti della rivoluzione del 1820-1821, era toccata la stessa sorte di Vincenzo Cuoco ai poeti Dante Gabriele Rossetti e Alessandro Poerio, che andò a mo­rire nella difesa di Venezia. Fuoriusci­to, per necessità, anche lo storico Pie­tro Colletta. L'Università era dominata dal clero, con insegnanti magari ottimi nelle discipline scientifiche, ma reazio-nari e contrari ad ogni novità. Solo le scuole private, quella di Basilio Può ti, il purista che faceva della dignità e pu­rezza della nostra lingua una questione di prestigio e di sentimento nazionale, e, in grado assai maggiore, quella di Francesco De Sanctis formavano la gio­ventù alla luce delle nuove idee politi­che e morali e alla nuova concezione della filosofìa della storia, che è quanto dire della vita. I loro insegnamenti ac­cesero e mantennero viva la fiaccola del­la fede liberale nel Risorgimento della Nazione Italia, che Dante, Petrarca e Machiavelli avevano preconizzata.

Allontanati da sé gli intellettuali, i liberali e gli scrittori, con a capo Luigi Settembrini, che lanciò la famosa « Pro­testa »; messa in sospetto, per i suoi gu­sti demagogici, l'aristocrazia, che — del resto - - non era più una classe chiusa in sé, nell'orgoglio del sangue e dei pri­vilegi, perché si era venuta abbondan­temente amalgamando con la borghe­sia del commercio e delle industrie, del­le professioni e delle arti; sapendo di aver contro gran parte della borghesia, quella cittadina, perché la più vessata dal fisco; a Ferdinando II — strano, in verità! — rimase attaccato il ceto popolare, se non per affetto al sovrano, che, comunque, era sempre un napoletano, di nascita e di costumi, (come si com­piaceva ostentarlo nei suoi contatti col popolo, con la sua bonarietà alquanto istrionica) certo per odio contro i liberali, dipinti nelle chiese dai preti sanfe­disti come nemici dichiarati di Cristo e della sua religione. Anche tra la bor­ghesia, specie fra quella rurale, che si veniva sostituendo nel possesso della terra ai feudatari, non erano scarse le simpatie per il re, per evidenti ragioni di interesse.

Ferdinando II fu preceduto sul tro­no dal padre Francesco I (1825-30), il quale è rimasto nella storia come il peg­giore re fra tutti i Borboni. Non c'è vizio o difetto che non avesse: maniaco, forse perché luetico, non era del tutto ignorante, ma si comportava sempre da stolto. Furbo, vendicativo, malizioso, falso, si divertiva a giocar brutti tiri ai cortigiani. Si narra che, una volta, ri­tornato dalla Spagna, dove si era re­cato in occasione delle nozze della fi­glia con Ferdinando VII, fingesse di fare dei munifici donativi di oggetti preziosi, per gratitudine, ai cortigiani spagnuoli. Ebbene: quegli oggetti era­no nient'altro che vili cianfrusaglie.

Durante il suo quinquennio, le cose del regno andarono alla malora. Lo ri­conobbe, per primo, il figlio Ferdinan­do, nel suo discorso di successione. « Non ignoriamo - disse - esservi piaghe profonde che meritano esser cu­rate ». Qualcosa, infatti, fece. Allegerì l'erario, diminuendo di 180.000 ducati la sua lista civile. Aprì le cacce a lui riservate, permise agli esuli, che glielo chiedessero con supplica, di ritornare in patria, tranne che al generale Carrascosa, da lui considerato un traditore. Rifiutò, invece, di rientrare a quelle condizioni il generale Guglielmo Pepe, perché - disse - « la libertà è incon­ciliabile con i Barboni ». A proposito di libertà, Ferdinando II ne aveva un concetto tutto personale: la confonde­va col patriarcalismo. Diceva, infatti, forse con sincerità: « A fare la felicità dei miei sudditi, basto io ». Ma le sorti dei popoli non possono, dipendere dalla bontà dei principi, come insegnano Ni­colo Machiavelli e Vittorio Alfieri, ma solo dalle conquiste statutarie, le sole che possano rendere sicure le libertà costituzionali. Questo, Ferdinando non volle comprenderlo; e fu, perciò, restio a concedere la costituzione, che, solo sotto l'incalzare degli eventi, concesse, il 10 febbraio 1848, giurandola sul Vangelo, come l'avo Ferdinando I, e, forse, già predisposto a rinnegarla, alla prima occasione. I napoletani andarono in delirio, applaudivano al re anche quelli che non capivano che cosa il re avesse concesso. Ma si venne presto al dissidio, fra Parlamento e Corona, sulla formula di giuramento dei deputati. Il re la trovò troppo giacobina e pretese che fosse modificata. I deputati si op­posero col rifiuto più netto. Il popolo, che si era montato al grido di « Viva la libertà! Viva la Costituzione! » si schierò contro il sovrano. Barricate fu­rono innalzate, a via Toledo, a San Fer­dinando. Da una parte il popolo, dal­l'altra i soldati. La prima fucilata, spa­rata non si sa da chi, fu il fatale se­gnale della mischia atroce. Alcuni stori­ci, come il Paladino, il Fortunato ed al­tri han tentato di negare o, almeno, di diminuire la responsabilità del re negli eccidi del 14 e 15 maggio. Chi ordinò l'uscita in armi degli Svizzeri dalla ca­serma? Furono gli Svizzeri, infatti, a precipitare la situazione, non solo ucci­dendo, ma devastando e saccheggiando. Cataste di morti e di feriti giacquero per le strade, specie a Piazza della Ca­rità, a Santa Brigida, a Toledo. E, (fatto raccapricciante) una parte di quel po­polo, certo la peggiore, che si era mos­so per difendere la libertà, si unì agli Svizzeri nelle rapine, nei saccheggi, nel­le devastazioni. I deputati, che non riu­scirono a oltrepassare i confini, furono arrestati e deportati. I più rappresentativi, Settembrini, Imbriani, Savarese, Poerio, Nisco, Agresti ed altri furono condannati all'ergastolo. Il re prevalse, ma il popolo si era ormai staccato da lui ed egli capì che l'abisso non si sa­rebbe più colmato. La seconda moglie, Maria Teresa, anch'essa austriaca, come Maria Carolina, l'infausta moglie dell'avo Ferdinando IV, dominata da preti e gesuiti intransigentemente reazionari, che, attraverso la regina, dominavano anche il re, lo aizzava alla crudeltà. « Casticate — gli diceva — castìcate ». (Con questo nomignolo « la regina casticate » è passata alla storia).

Ci fu, poi, nel 1856, l'attentato del soldato Agesilao Milano. Il re avrebbe voluto mostrarsi clemente con lui, ma prevalse la cricca della moglie e il po­veraccio — un calabrese - - fu impic­cato. Il popolo applaudì al re! Chi può mai capire la mutevole anima delle masse? Dall'Osanna al « Crucifige » non c'è che un passo. Anche la spedi­zione di Sapri - 1857 - guidata da Carlo Pisacane e dal Nicotera, fallì mi­seramente con la strage di Padula, per il comportamento ostile delle popola­zioni. Ma ormai si avvicinava il triste tramonto dell'ultimo re, veramente ta­le, del regno di Napoli. L'ultima sua gioia fu il fidanzamento del figlio, lo scialbo Francesco II, con Maria Sofia di Baviera. Morì a 49 anni, il 22 mag­gio 1859.

Se mettiamo, sulle due coppe di una bilancia, il bene e il male operati da Ferdinando, la bilancia sta in bilico? Salvatore Di Giacomo, che non fu, certo, un reazionario, ci ha lasciato di Fer­dinando II un ritratto, quale si con­verrebbe ad ogni più grande sovrano. E forse per questo, al gentile poeta di Napoli, Vittorio Emanuele III di Sa­voia rifiutò il laticlavio, giudicandone insufficienti i meriti. Scrive Di Giaco­mo: « Ferdinando II è frugale, solle­cito, laborioso, non cacce, non feste, non corse, ma costruzioni di strade, di edifizi comunali, di lazzaretti, di case per bagni minerali, di prigioni col no­vello sistema penitenziario, di scuole per sordomuti, di ospizi ed asili per in­digenti e orfani, o folli, o reietti; e isti­tuzioni di nuove accademie, nuove cat­tedre, nuovi collegi e licei; e bonifiche di terre paludose, colture di terre bo­scose, edificazioni di ponti di ferro e di fabbrica, fanali a gas, fari alla Flynel, compagnie di pompieri, stipulazioni di trattati di commercio, guardia civica e guardia d'onore. A sue spese ha rifatto la reggia, ove sono profusi meglio di due milioni del suo; con liberalità re­gale ha speso per i palazzi di Palermo, di Caserta, di Capodimonte, di Quisisana ».

Se, a tutto ciò che operò in Napoli e nel regno, si aggiunge il prestigio, che il suo regno godè in tutti gli Stati Europei, tanto che la sua oculata e digni­tosa politica estera seppe attrarre a Na­poli capitali inglesi, francesi, tedeschi, belgi, svizzeri, coi quali si avviarono, in Campania, fonderie, stabilimenti meccanici, tessiture, filature, tintorie, fabbriche di seta, impianti di gas illu­minante; fabbriche di armi e di polveri; cantieri navali; pastifici e industrie dol­ciarie; e poteron rifiorire gli artigianali dei guanti, delle scarpe, delle passama­nerie in oro, della falegnameria, del co­rallo, del cuoio, della carrozzeria e del­la tipografia; io penso che la bilancia del bene e del male si equilibri perfetta­mente. Il giudizio della storia su Fer-dinando II è, dunque, tutto da rive­dere.

Toccò a re Francesco II — 1859-1861 - - il triste compito di chiudere la serie dei re di Borbone a Napoli. Inutilmente egli elargì -- nel 1860 -la terza carta costituzionale al regno. Dopo due rinnegamenti, nessuno gli credette. E fu come una inutile, tardiva inalazione di ossigeno a un agonizzante in exfremis.

All'avvicinarsi di Garibaldi, si ritirò con l'esercito sulla linea del Volturno. Sconfitto, si rifugiò nella for­tezza di Gaeta. E mentre, a Napoli, in­torno all'Eroe-dittatore, mestavano i turbolenti tribuni di Mazzini e i callidi emissari di Cavour, Gaeta, sui cui spal­ti apparve a combattere, impavida co­me un'amazzone, la regina Maria Sofia, la flotta e l'esercito di Vittorio Emanuele II - - quest'ultimo aveva violato lo Stato Pontificio per accorrere veloce­mente a Napoli ad imprimere alla con­quista il marchio sabaudo, cancellando quello autentico garibaldino -- costringevano l'ultima città borbonica alla ca­pitolazione. Francesco II e Maria Sofia, con una ridottissima corte, si imbarca­rono su una nave francese, il 13 febbraio 1861. Sbarcarono a Terracina e proseguirono per Roma. Poi, li coprì l'oscurità. Maria Sofia se ne tornò in Baviera, dove visse fino al 1925. Francesco II morì nel 1894.

 

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Ultimo aggiornamento:  12-11-08