II mito delle origini di Napoli tramanda
che la sirena Partenope, non essendo
riuscita a sedurre Ulisse con l’aiuto della
sua voce e dileggiata, per questo
insuccesso, dalle sorelle e compagne, Ligea
e Leucosia, si sia buttata in mare e che la
corrente ne abbia riportato il corpo a
riva, sull'isoletta di Megaride, dove poi
sorse il castello di Lucullo, oggi Castel
dell'Ovo.
La più antica e mitica città (di nome
Partenope) si sarebbe estesa probabilmente
dal Monte Echia (Pizzofalcone) verso il mare
di S. Lucia, con davanti l'isoletta di
Megaride (Castel dell'Ovo), raggiungendo la
zona dell'attuale Palazzo Reale.
Storicamente accertata la città greca di
Neapolis occupava un'area assai ristretta,
per i quasi 30 mila abitanti che le si
attribuiscono già nel 421 a.C., dopo
l'invasione sannitica. Era limitata a nord
dall'attuale via Foria, a sud dal Corso
Umberto I, a ovest dalle strade di S.
Sebastiano e di Costantinopoli, ad est dalla
via Colletta e dal Castel Capuano. Vi erano
aggregati dei pagus (villaggi)
suburbani, sviluppatisi specie intorno al
porto, in uno dei quali si trovava la tomba
della sirena Partenope, assai venerata dagli
abitanti. La città, costruita secondo il
sistema di Ippodamo da Mileto, era a pianta
regolare, tagliata ad angoli retti da tre
decumani - le strade longitudinali -
intersecati dai cardini — le strade
trasversali. Il decumano centrale
corrispondeva alla odierna via dei
Tribunali, ad oriente della Porta Capuana;
quello superiore corrispondeva alla via
della Sapienza, dell'Anticaglia (dove si
scorgono ancora gli archi dell'Odeon) e dei
SS. Apostoli, e terminava ad oriente con la
Porta Romana; quello inferiore corrispondeva
a S. Biagio dei Librai e a Forcella, con due
punti terminali: uno a Porta Cumana,
l'altro a Porta Nolana.
Un cardine importantissimo era quello degli
Alessandrini — l'odierna via Mezzocannone —
che vi formavano una colonia, la quale
raggiunse il massimo della sua espansione
sotto Nerone. La regione da essi abitata fu
chiamata
Nìlense
e, a
documento di ciò, esiste ancora, pur dopo
molte restaurazioni, il monumento che gli
alessandrini eressero al fiume Nilo, nel
luogo dove certamente si trovava anche il
tempio della dea Iside. A metà corso
l'agorà, il Foro della Napoli
greco-romana, dove ferveva e pulsava tutta
la vita cittadina, politica, religiosa,
economica.
Vi si adunavano le assemblee del popolo per
eleggere i magistrati e per discutere sulle
questioni preminenti degli interessi
cittadini. Vi sorgevano la Basilica, -
l'attuale S. Lorenzo - la Curia, l’Aerarium,
le scuole, il carcere. Dove oggi è S.
Gregorio Armeno, sorgeva il tempio di
Cerere, divinità adorata dai Napoletani
quale propiziatrice della fecondità dei
campi; il tempio di Apollo sorgeva dove oggi
è S. Restituta; il tempio dei Dioscuri
sorgeva dove è ora la chiesa di S. Paolo
Maggiore, in cui se ne conservano tre
colonne corinzie e i torsi delle statue.
L'imponente gruppo dei templi era
completato da quello in onore di Giove,
dov'è oggi la Cappella del Pontano, e dal
Caesareum o Augusteum, per il culto della
famiglia Giulia, eretto in omaggio
all'imperatore. L'impianto viario e il
complesso monumentale della Neapolis
greco-romana è ancora ricostruibile
ripercorrendo le strade dell'antico Corpo di
Napoli, ove si svolgeva la vera vita
cittadina, della quale il popolo napoletano
conserva usanze tradiziona-lissime che
ancora oggi si riproducono quasi allo stesso
modo. A prova, riporto qui dalla « Napoli
greco-romana » dello storico Bartolomeo
Capasso (Napoli, 1905) la vivacissima
descrizione che egli fa della vita che si
svolgeva nel Foro napoletano, al tempo dei
romani. « Essendo destinato specialmente
al mercato, il Foro era frequentato da tutti
quelli che venivano la mattina ad
approvvigionare la città, e le botteghe più
ricche ed eleganti facevano bella mostra di
sé intorno ad esso. Vi si andava in tutte
le ore del giorno per comperare, per
disbrigare le faccende e incontrare le
persone che si aveva bisogno di vedere. Vi
convenivano cittadini e forestieri, uomini e
donne di ogni età e condizione; vi si
vedevano gli Alessandrini e le persone
venute dal lontano Oriente, che si
riconoscevano dai pendenti che portavano
alle orecchie; i Greci, col pallio, i
sandali e dalla voce sottile; i Romani con
la toga e le scarpe. Nelle tabernae
argentariae o botteghe di affari si
prendeva il danaro ad usura, si compravano
vasi ed oggetti preziosi. In un angolo del
Foro si fermava il venditore di carni cotte.
Era un giovine che aveva davanti un caldaio,
nel quale i pezzi di carne erano tenuti in
caldo dal braciere sottoposto; e dal caldaio
sporgeva il manico di un ramaiuolo, che
serviva a prendere il brodo per unirlo alla
carne. Mentre il venditore rivolgeva la
parola a qualcuno, un giovane gli prendeva
le molle, per scegliere da se stesso il
pezzo di carne, e aggruppati aspettavano
attorno gli altri avventori della cucina
ambulante. Più in là una fanciulla esponeva
in vendita mazzolini di fiori esposti sopra
un tavolo, fichi ed altra frutta raccolta
dentro i panieri. Sedute sul margine del
portico e col capo coperto da un panno
stavano le donne che vendevano erbaggi.
Uomini e donne, che vendevano panni, ovvero
abiti usati, li portavano sulle braccia o
sulle spalle e li dispiegavano a quelli che
si accostavano per comprare. I mestieranti
disoccupati, come i cuochi, i suonatori di
tibie, ed altri passeggiavano o stavano
fermi aspettando un padrone. Si affacciava
sul Foro anche la scuola pubblica. I
fanciulli, seduti sui banchi, con i libri
aperti sulle ginocchia, imparavano la
lezione; intanto una frotta di essi, in
altra parte del Foro, faceva il chiasso:
qualcuno gettava in aria un fico, una pera o
altro frutto, per raccoglierlo con la bocca,
qualche altro sopra una lunga canna fingeva
di andare a cavallo, altri giocavano a pari
e caffo. Altrove una corona di popolo
circondava e guardava a bocca aperta o un
ciarlatano, che ingoiava un'acutissima spada
e la faceva riuscire per sotto; o un
ciurmatore della regione dei Marsi, che
scherzava impavido con grossi serpenti. Si
vedeva sotto i portici un pastillarius a
maneggiare lungamente sopra un banco di
marmo un pezzo di miele, per condensarlo e
farlo divenire bianco; dopo averlo ridotto
in forma cilindrica, lo sbatteva a più
riprese al palo attaccato al banco e così
allungato e assottigliato lo divideva in
piccoli pezzi.
All'aperto, i venditori di castagne al
forno, modo di cuocere le castagne
inventato dai napoletani, o i venditori di
noci e di ceci abbrustoliti, si aggiravano
vantando tra la folla la loro mercé. Questo
era l'aspetto ordinario, questa la vita
quotidiana del Foro della nostra città
»
I napoletani - altra caratteristica
distintiva della loro indole — predilessero
sempre i giochi e i pubblici divertimenti e
si gloriarono dei luoghi splendidi ad essi
destinati. Dietro il tempio ai Dioscuri -
come si apprende da Stazio - c'erano il
teatro coperto - Odeon - e quello scoperto,
dei quali rimangono copiosi avanzi in
laterizi alle Anticaglie. Gli attori
napoletani — come ancora oggi — erano
giustamente
famosi per la
loro bravura e ricercati anche a Roma. Bruto
— ci informa Plutarco - venne di proposito a
Napoli per scritturare l'attore Canuzio per
una serie di recite a Roma. Nerone — come
racconta Svetonio - amò cantare sui
palcoscenici napoletani; e Claudio vi fece
rappresentare una sua commedia in onore di
Germanico.
Oltre a magnifici teatri, Napoli possedeva
un vasto ippodromo e uno stadio,
situati fuori le mura. Vi erano, poi, le
palestre, in cui si esercitavano i corpi per
ringiovanirsi ed illeggiadrirsi. E come si
curavano i corpi, così si dava alimento allo
spirito dei giovani, nelle sale annesse
allo Stadio, ove retori e filosofi
disputavano di scienza, i poeti declamavano
versi, i precettori insegnavano. Benché
fondata dai greci e rimasta a lungo sotto
l'influenza culturale greca, Neapolis non si
ellenizzò completamente, fino a divenire nel
Mediterraneo occidentale quel focolare di
ellenismo che Alessandria d'Egitto divenne
in quello orientale. In questo fu favorita
dalla politica dei Romani che mal
tolleravano, per loro norma di dominio, che
la cultura e il costume greco inquinassero
la romanità integrale del popolo
napoletano. Analizzando, infatti, le
istituzioni politiche della Napoli romana,
ci accorgeremo come siano nel torto quegli
scrittori i quali han creduto di
riscontrare in esse la copia perfetta della
costituzione di Atene.
Ed ora guardiamo questa città nuova
(Neapolis) durante la dominazione romana.
Il paradiso terrestre, che si apre allo
sguardo di chi, fin dai tempi più remoti,
appena doppiate le bocche di Capri, penetra
nel golfo di Napoli e approda, dal mare,
sulle coste, quel paradiso di bellezza e di
fecondità, che meritò alla Campania
l'attributo di felix, non formò mai
la felicità e la ricchezza dei napoletani,
ma, anzi, fu causa della loro infelicità e
della loro povertà. Quelle terre non
appartennero mai ad essi, ma a spietati
invasori e dominatori, che, attratti dalla
pingue preda, se ne impossessarono con la
frode e con la forza, costringendo gli
abitanti dei
luoghi alla servitù e alla miseria. Né i
dominatori si appagarono di ciò; ma i
napoletani, ridotti allo stremo della
povertà, furono ancora da essi crudelmente
offesi e spremuti, spinti a combattere per
altrui interessi, sempre opposti ai propri,
ostacolati in ogni tentativo di elevazione
morale e spirituale. E' questo il motivo
vero per cui l'animo del napoletano è
scettico di fronte alle avventure e teme che
ogni novità piuttosto che giovargli, debba
peggiorare la sua condizione. Scetticismo,
dunque, che - come dicevamo - non è
congenito al carattere dei napoletani, ma è
il triste frutto delle dure esperienze, cui
la storia li ha sottoposti, in ogni epoca.
I Romani, buttatisi presto sulla bella preda
della Campania, di cui fecero l'oasi
preferita per le loro villeggiature, i loro
ozi e i loro piaceri, dopo essersi estesi
fino alle falde del Vesuvio, cominciarono a
guardare con inquieta gelosia alla città di
Neapolis che si sviluppava al centro
dell'arco del golfo, in ottima posizione
strategica. I Romani erano turbati dal
fatto che la città subisse l'influenza dei
forti Sanniti, coi quali avevano più di un
conto da regolare. Meditavano, secondo la
loro prassi del massimo risultato col
minimo sforzo, sul modo migliore per
attrarla nella loro orbita:
la guerra aperta
o il sottile gioco diplomatico. Prevalse il
partito della guerra che vide i Romani
vittoriosi. Da quell'anno Napoli visse
sempre all'ombra di Roma, a cui fu
fedelissima. Conservò un'autonomia
apparente, regolata dal foedus
neapolitanum, che ne rispettò i riti,
gli usi, i costumi e la lingua greca, che
continuò ad esser quella degli atti
ufficiali. E anche quando, nel 90 av. Cr.,
per effetto della lex Julia, Napoli,
città alleata, divenne municipio, non fu
trattata con l'inflessibile durezza con cui
i romani erano soliti trattare tutti gli
altri municipi. Continuò ad esservi
tollerata la cultura greca, le monete
continuarono a portare l'incisione della
testa di Pallade, vi si celebrarono ancora i
ludi lampadici in onore di Par-tenope,
istituiti dallo stratega ateniese Diotimo.
Quella di conservare una parvenza di
libertà ai popoli soggetti, ai quali
effettivamente la toglievano, era arte somma
dei romani. Ma, in realtà, i gravami della
dipendenza da Roma si facevano sentire assai
forti sulla vita dei napoletani: essi
dovevan fornire un pesante tributo di navi
e di marinai per le guerre navali; e se
questo, come acutamente nota Gino Doria,
giovò, in un certo senso, ai napoletani
stessi, che ne trassero buone esperienze
marinaresche da essi sfruttate con vantaggio
nelle guerre successive, è pur vero che
noc-que al loro traffico marittimo
mercantile. Il passivo della dominazione
romana si ripercosse assai gravemente
anche sul morale dei napoletani. Tolse
loro il senso virile della libertà, senza
cui non vi
è dignità; ne fiaccò lo spirito combattivo,
poiché si sentivano protetti per la loro
incolumità dalla potenza romana (come
avvenne contro Pirro, nel 280 av. Cr., e
contro Annibale nella seconda guerra
punica); e si dedicarono ai facili e non
sempre onesti guadagni dell'industria dei
forestieri, che affluivano continuamente
nella città.
Durante l'epoca romana, inoltre, in Napoli,
come in tutte le città viventi sul lusso e
sui piaceri voluttuari dei dominatori,
erano sorte una infinità di industrie, di
commerci, di mestieri al servizio di quel
lusso e di quei piaceri. Le antiche epigrafi
ci danno notizie delle corporazioni
napoletane del lavoro, tra le quali
particolarmente forte era quella degli
architetti e degli edili, che lavoravano
per quei ricchi romani che si venivan
costruendo le loro sontuose ville e terme e
teatri lungo tutto l'arco del golfo, tra
Capo Misene, Baia, Pozzuoli, Lucrino,
Posillipo, e, via via, fino a Pompei, ad
Ercolano, a Stabia. Ville ed edifici, venuti
alla luce negli scavi, meravigliano anche
noi moderni per la
loro arte e per i
conforti che offrivano. Accanto agli
architetti, fiorirono, necessariamente, le
arti sussidiarie: marmorarii, fabbri,
lignarii, ferrarii, aurarii, lanisti,
istruttori e allenatori di gladiatori,
saponarii e unguentarii, tutti riuniti in
corporazioni. Sicché quando, con la
cessazione dei facili lucri della
dominazione romana, i napoletani doveron
provvedere a nuove fonti di guadagno,
poteron riprendere quei mestieri, in cui si
erano allora specializzati. E la vita
corporativa valse a formare in loro il senso
dei diritti e dei doveri dei lavoratori. A
Napoli, nel VI secolo, si ebbero le prime
lotte sindacali quando i saponari insorsero
contro i soprusi del magistrato imperiale
palatino Giovanni, invocando ad arbitro
della loro vertenza nientemeno che
l'intervento di Papa Gregorio Magno.
Verso la fine dell'Impero, Napoli aveva
oltrepassato di molto i 30.000 abitanti e si
era dilatata fino a San Sebastiano e a
Santa Maria La Nova, da una parte, e
dall'altra, oltre San Nicola dei Caserti. E,
fin da quel tempo, ebbe le acque del Serino
e del Bolla.
Simbolicamente, l'Impero, che aveva dominato
e romanizzato la città, già disgregato
dalle invasioni barbariche, agonizzò a
Napoli nella persona dell'ultimo
imperatore, che - per tragica ironia del
destino - portò insieme congiunti i nomi
del grande fondatore dell'Urbe e quello del
grande fondatore dell'Impero: Romolo
Augusto. Egli si spense, infatti, nel 476 d.
Cr., nella villa di Lucullo, ov'era tenuto
prigioniero da Odoacre.
A proposito della denominazione di Castel
dell’Ovo, molte e leggendarie sono le
versioni che se ne danno. La più probabile e
realistica è che essa derivi dalla forma
ovoidale della sua pianta. Molto diffusa è,
poi, la leggenda dell'uovo di Virgilio, il
grande poeta, che era considerato - non
sappiamo bene perché, forse per equivoco
ingenerato dal nome della madre, che si
chiamava Magia - un po’ mago anche lui. Il
poeta, dunque, avrebbe messo un uovo in una
gabbia e lo avrebbe collocato in un angolo
remoto del castello. Naturalmente, era un
uovo incantato, che, fin
quando fosse
rimasto integro, avrebbe garantito la
incolumità dell'edificio. Ettore Imparato,
nella sua «Piccola Storia di Napoli»,
afferma di aver sentito da un tedesco che la
denominazione, più probabilmente, era da
rapportarsi al fatto che l'intonaco del
castello fosse stato impastato con bianco
d'uovo, per renderlo più resistente. Ipotesi
strana, in verità!
Per quanto attiene alla sua storia, vi era,
in antico, una dipendenza della sontuosa
villa di Lucullo, il quale, per
costruirsela, fece tagliare il monte Echia,
all'altezza dell'attuale via Ghiaia,
creando un canale, e, sull'isolotto di
Megaride, innalzò il famoso castello, ricco
di marmi, di statue, scintillante di ori,
con diverse sale da pranzo, pareti con
diversi colori, a ognuno dei quali
corrispondeva un « menu » diverso, secondo
la importanza degli ospiti che riceveva.
Bastava che dicesse ai suoi cuochi: «Oggi si
pranza nella sala rosa, o verde, o
azzurra», e quelli capivano che tipo di cena
dovevano approntare.
Lo stesso Imparato afferma che, fino a
qualche decennio fa, nelle acque intorno al
Castello si rinvenivano ancora pezzi
d'argento e d'oro.
In seguito, vi sorse la chiesa basiliana del
Salvatore. I normanni lo trasformarono in
rocca, ampliata successivamente dagli Svevi
e dagli Angioini. La forma attuale di
fortino circolare l'assume nel 1961.
Nell'interno sono ancora visibili tracce
della villa romana del cenobio basiliano e
dei rifacimenti trecenteschi.
Di questo lungo periodo della civiltà
greco-romana, Napoli conserva molti avanzi
archeologici, il più cospicuo dei quali è da
considerarsi, senza dubbio, il corpo
originario di Neapolis, che si può ancor
oggi, senza troppo sforzo ricostruire
mentalmente, nonostante le brutte
sovrapposizioni edilizie e le
trasformazioni avvenute nel corso dei
secoli. E' ancora possibile individuare i
tre decumani paralleli, e i cardini ad essi
corrispondenti in senso perpendicolare,
seguendo via Tribunali, corrispondente al
decumano centrale, la piazzetta di San
Gaetano, la Chiesa di San Paolo, dove due
colonne corinzie scanalate rappresentano le
vestigia del tempio dei Dioscuri, che
occupava il sito dell'attuale basilica
cristiana, la chiesa di San Lorenzo, e, più
in là, gli archi dell'Anticaglia,
appartenenti alle terme e al teatro coperto
(l'Odeon). Tutto l'insieme costituisce un
grandioso complesso monumentale, che
suggerisce alla fantasia del visitatore
un'immagine suggestiva di ciò che fu, un
tempo, il Corpus di Neapolis.
Avanzi delle mura di Neapolis, di
costruzione greca, consistenti in grossi
blocchi rettangolari di granito, racchiusi,
purtroppo, in una cancellata, si possono
osservare nella piazzetta dell'attuale
cinemateatro Splendore, dove si trova
l'ospedale Ascalesi, allo sbocco di via
Forcella, e in Piazza Bellini, tra
San Sebastiano e via Costantinopoli.
Dette mura solide ed imponenti, di cui non
si conosce l'esatto perimetro, dovevano però
estendersi da Foria a Costantinopoli, a San
Domenico Maggiore, fino all'attuale Corso
Umberto e prolungarsi sino a Forcella e ai
Tribunali, includendo anche nella loro
cerchia Santa Maria La Nova.
I moderni archeologi danno per sicuro che
l'attuale via Forcella e i vicoli
circostanti e quelli che sboccano in essa,
corrispondono esattamente al primitivo
tracciato greco.
Notevoli, per il tipico carattere
architettonico degli acquedotti romani,
sono pure le arcate superstiti in mattoni
rossi, dette, perciò « Ponti rossi »
di un'antica
conduttura d'acqua romana.
Ma, più che nella città, dove il sovrapporsi
tumultuoso e violento di dominazione a
dominazione si accaniva a distruggere e a
cancellare fin le ultime tracce di quanto il
dominatore precedente aveva costruito di
buono, le tracce gloriose e stupende della
civilizzazione greco-romana s'impongono
all'ammirazione del mondo nelle dissepolte
e redivive città di Pompei, di Ercolano, di
Stabia, di Cuma, di Baia, di Pozzuoli, di
Miseno e nei tesori archeologici, raccolti
nel Museo Nazionale, fondato da Carlo III
di Borbone. Opere di scultura, di pittura,
d'architettura, opere di ingegneria
idraulica, di cui non si sa se più ammirare
l'ardimento del genio che le ha create o la
imponenza della mole, la solidità delle
strutture che sfidano il tempo, o la
raffinata eleganza e la suprema grazia che
le ravviva. Il mondo classico rivive
soprattutto a Napoli, città solare, nello
spirito dei suoi abitanti e nel loro culto
della bellezza.
Insieme coi monumenti della classicità
greco-romana, mentre il paganesimo si va
lentamente spegnendo, a Napoli si ritrova
anche la prima fioritura della monumentalità
del cristianesimo, di cui sono antichissimo
documento le catacombe di San Gennaro, che
forano le colline a settentrione della
città. Esse, risalenti al II secolo,
contengono sepolture di martiri in stile
primitivo, vestigia di altari, di cattedre
episcopali, di fonti battesimali, di
epigrafi e presentano un quadro
eminentemente suggestivo ed emotivo, non
solo per chi ha fede nella vita misteriosa,
difficile ed eroica dei primi cristiani.
Generalmente trascurate dal turismo, che
preferisce le aure vivificanti del mare e
dei colli di Napoli, le catacombe
napoletane meritano, proprio per il loro
valore artistico e per ciò che
rappresentano della vita sotterranea dei
primi cristiani, di essere ricordate con
particolare insistenza. Esse si trovano
sotto le pendici di Capodimonte e
penetrano, coi loro misteriosi cunicoli,
nel masso tufaceo, dalle Fontanelle alla
Sanità e dai Miracoli a Miradois.
La più importante (quella che qui ci
limitiamo a descrivere invitando i lettori
a scoprire le altre da sé) è la catacomba
di San Gennaro, che risale al II secolo d.
Cr.. In essa, benché in parte guaste dal
tempo e dall'incuria, si ammirano molte e
belle pitture paleocristiane. In origine,
era una tomba gentilizia, che, man mano
ingranditasi, divenne il cimitero della
chiesa cristiana napoletana. Vi furono
sepolti S. Agrippina, e, nel V secolo, il
martire S. Gennaro. Quando, nel IX secolo,
il principe di Benevento, Sicone, rapì il
corpo del Santo, la catacomba perdette
importanza, finché nel secolo XIII fu
abbandonata e devastata. Consta di due
piani: quello inferiore è costituito dalla
Basilica cimiteriale di San Gennaro, con in
fondo l'altare, e, dietro di esso la
cattedra episcopale. A destra dell'altare,
si vedono due arcosolii con pitture del IX
secolo, raffiguranti vescovi napoletani;
nella cripta, avanzi di mosaici e di
affreschi sulle pareti.
Le catacombe — a giudizio di Ferdinando
Gregorovius — sono gli unici monumenti del
tempo antico posseduti da Napoli, che,
insieme con la strana grotta di Posillipo,
conservino, quasi intatta, la loro struttura
antichissima. I due monumenti sono ambedue
sotterranei: ed è questa, forse, la causa
per cui hanno meno sofferto della
manomissione degli uomini.
Nel trapasso dal paganesimo al
cristianesimo e dal potere degli imperatori
al potere politico dei pontefici, si viene
operando una profonda trasformazione degli
organismi sociali e delle coscienze dei
cittadini. Il Medioevo, dunque, non è più un
periodo di involuzione e di decadenza, ma di
evoluzione, sia pure lenta e faticosa, verso
le concezioni moderne dei diritti dell'uomo
e del cittadino.
Napoli cessa di essere la città del
piacere, il delizioso giardino degli ozi
dei romani, e viene facendosi, a poco a
poco, una coscienza nuova, che si
manifesta in una più virile volontà di
lavoro, sotto lo stimolo di una forte
colonia di ebrei. S'incrementano industrie e
commerci specie con l'Oriente; si
intensifica la coltivazione della terra e
la popolazione sale rapidamente fino a
sfiorare a metà del VII secolo i 40.000
abitanti.
Né, per questo, si trascura la cultura,
che, se non è più quella del tempo aureo
della Napoli greco-romana, è tenuta su dai
monaci basiliani, uno dei cui abati,
Eugipio, è elogiato da Cassiodoro per la
profonda conoscenza della letteratura
classica e di quella cristiana.
La trasformazione fu lenta ma radicale. E
agì in tutti i campi, dalla religione alla
cultura, dalla politica all'arte, dagli
ordinamenti amministrativi alla morale e
alle strutture sociali.
I bizantini mantennero, per un certo tempo,
le istituzioni romane: non per nulla,
infatti, gli imperatori d'Oriente e,
segnatamente, Giustiniano, si consideravano
gli eredi e i continuatori di Roma e
miravano alla riunificazione dell'Impero,
riconquistandone l'Occidente. A Napoli
furono preceduti dai Goti che per il breve
tempo del loro dominio, e per il timore
delle continue minacce dei Longobardi, non
avevano potuto metter mano a nulla: (per
tutto il secolo VI, d'altronde, le
dominazioni si succedettero assai
rapidamente e caoticamente, perché qualcuna
di esse avesse potuto imprimere il proprio
segno all'assetto della città).
Sulla fine del VI secolo, incombevano sui
napoletani i pericoli e le minacce dei
Longobardi, che allargavano sempre più la
loro espansione in Italia. Da Benevento,
essi puntavano direttamente verso il
Tirreno, considerato sbocco naturale della
loro potenza. Nel 581 assediarono Napoli con
esito negativo. Il loro impeto si infranse
contro le possenti mura della città che i
Bizantini avevano avuto fretta di
ricostruire, dopo la distruzione operata da
Teia. Insisterono, però, nell'impresa; e,
nel
592, Arechi di Benevento e Ariulfo di
Spoleto, mossero di nuovo all'assalto e,
forse, dato lo scarso presidio bizantino che
difendeva la città, questa volta sarebbero
riusciti a impadronirsene, se papa Gregorio
I, sostituendosi all'inerte Esarca, non
avesse inviato a Napoli il tribuno Costanze
ad organizzarvi la resistenza del popolo.
Un terzo tentativo, nel 599, fallì
anch'esso. L'intervento di Gregorio I ebbe
un effetto salutare sullo spirito dei
napoletani. Diede loro la coscienza di
valere, sol che ne avessero la volontà, a
provvedere da soli alla difesa della loro
città e della loro libertà, rintuzzando
l'offesa di qualsiasi nemico anche potente.
Tutti i campani, che si sentivano
minacciati nei loro paesi dai Longobardi,
si rifugiarono a Napoli sicuri di trovarvi
valida protezione ed asilo sicuro. Non
solo: ma, per la prima volta nel corso della
loro storia, i napoletani si sentirono fieri
e gelosi della loro indipendenza. Avendo,
infatti, Gregorio I dimostrato di voler
porre Napoli sotto lo scudo protettivo dello
Stato della Chiesa, i napoletani gli si
opposero fermamente. Nelle loro coscienze,
fermentava già qualcosa di quello spirito,
che, nel VII secolo, li rese capaci di
scrivere la pagina più gloriosa della loro
storia: quella del Ducato autonomo.
Sul frontone principale del palazzo reale di
Napoli c'è, nelle statue dei re, la sintesi
pietrificata della storia di Napoli. Manca
- però - la statua che raffiguri il Ducato
Autonomo. Omissione grave, perché, certo,
il monumento avrebbe concorso a far
conoscere al popolo napoletano che non
sempre, lungo il corso della storia, esso
fu assoggettato a dominazioni straniere, ma
ebbe un periodo di gloriosa indipendenza,
durante il quale i napoletani dimostrarono
fierezza, ardimento, spirito di disciplina
civile e capacità di lotta e di vittoria,
confermando l'esperienza storica di Niccolo
Machiavelli, il quale afferma che le
nazioni tanto più danno il massimo di sé
alla cosa pubblica, quanto più sono
consapevoli di difendere la propria libertà.
Quanti napoletani sanno - mi domando — chi
fu quel Cesario Console, al quale è
intitolata una delle più belle vie
cittadine? Io penso che - se ne fossero
richiesti -si troverebbero in un imbarazzo
peggiore di quello in cui si trovò Don
Abbondio di fronte al nome di Carneade. La
scarsa conoscenza della propria storia
contribuisce, purtroppo, a formare quei
complessi di inferiorità che trascinano i
popoli alla decadenza. Perciò, Ugo Foscolo
ammoniva gli italiani allo studio della loro
storia; e con questo fine, io penso, storici
maggiori e minori hanno tenuto a scrivere
la storia di Napoli, e ricordo qui Benedetto
Croce,
Michelangelo
Schipa, Gino Doria, dalle cui opere - lo
dichiaro una volta per tutte - ho tratto,
come da fonti inesauribili, tanti dati e
tante notizie. I quattro secoli del Bucato
Autonomo rivelano tutte le virtù del popolo
napoletano: dall'audacia più ardimentosa
alla prudenza più saggia, messe a servizio
di una politica intesa a preservare
l'indipendenza del piccolo Stato dalle
invasioni straniere e dai pericoli di
disgregazione interna, in un periodo in cui
lotte di razze e di contrastanti
interessi, per
quanto violente, andarono sempre ad
infrangersi, come marosi contro scogliere,
ai piedi delle mura di Napoli. I papi, i
longobardi, i re franchi, gli imperatori
bizantini, i predoni saraceni, il furore
musulmano, tutto si spezza di fronte alla
sapiente politica dei napoletani, che, con
un gioco geniale di alleanze e di ostilità,
ora con la guerra, ora con la pace, con la
scaltrezza e l'astuzia dei trattati, sempre
all'erta, riescono a deludere e a frustrare
le cupidigie di quanti agognano alla bella
preda.
I duchi, infatti, non solo provvedevano alla
difesa della indipendenza di Napoli, con una
politica saggia, coraggiosa e lungimirante,
ma ne incrementavano le industrie, i
commerci, la cultura, le arti, facendone un
centro di civiltà degno di gareggiare con i
maggiori d'Italia e delle altre nazioni.
Un solo punto al passivo di Napoli deve
segnalarsi nel secolo X: la perdita del
primato marittimo, che passò ad Amalfi.
La popolazione di Napoli, nel periodo aureo
della sua storia, era salita a circa 40.000
abitanti. Ma, agli inizi dell’XI secolo,
dovè ridursi intorno ai 30 mila, su per giù
quanti ne contava nell'epoca greco-romana.
La superficie della città era, però,
alquanto più vasta, a giudicare dalla pianta
delle mura, che lo storico Bartolomeo
Capasso fece eseguire per le sue ricerche
topografiche su Napoli medioevale. Si era
ampliata specie a sud, col nuovo Castello,
le chiese e i conventi fuori mura, il campo
Moricino, dove si andarono
stabilendo logge e banchi di mercanti, che
conferirono alla zona quel caratteristico
aspetto di immenso bazar, che ancora
conserva, in piazza del Mercato e
adiacenze.
Il traffico marittimo era assai vivo. I due
porti, l'Arcina, tra l'Immacolatella
Vecchia e la moderna via Depretis, e il
Vulpilum, a Piazza Municipio e
adiacenze, anche quando decadde la
navigazione napoletana di lungo corso,
continuarono ad avere un movimento intenso
di piccolo cabotaggio per le navi che
trasportavano a Napoli i prodotti dei campi
e della pesca, da Gaeta, da Salerno, da
altri punti del golfo.
Una caratteristica della città erano le case
a due piani, circondate da orti e giardini,
che man mano scomparvero, invasi da
fabbriche al tempo di Carlo II d'Angiò. Un
particolare ornamento erano i portici, uno
dei quali, bellissimo, e dal quale si
spaziava su un meraviglioso panorama,
sorgeva intorno al Palazzo dei duchi; ed
altri ne sorgevano in tanti altri punti
della città, che si trasformarono, poi, nei
« tocchi » o « sedili ». La
città era ricca di bagni pubblici, secondo
la tradizione greco-romana, e offriva tante
altre attrattive e comodità, che ne
rendevano amabile e confortevole il
soggiorno. Ma il suo vero splendore
architettonico veniva dalle chiese, le due
più antiche delle quali, Santa Restituta,
già esistente, sotto altro nome, fin dal IV
secolo e la Stefania - così detta perché
ricostruita, nell'VIII secolo, da Stefano
II, dopo un incendio — congiunta alla prima,
costituivano la Sancta neapolitana
ecclesia, la Cattedrale, che un anonimo
agiografo di S. Atanasio paragonò al
Vecchio e al Nuovo Testamento. Santa
Restituta, prima basilica di Napoli,
intitolata al Salvatore, nella
restaurazione angioina del Duomo perdette la
facciata ed alcuni elementi, ricostruiti in
forma gotica e deformati, in seguito, dal
restauro del 1808. Attualmente, è una
cappella del Duomo con 27 colonne antiche,
a tre navate, di cui, quella di destra,
conserva frammenti di un affresco della
scuola del Cavallini; la centrale è stata
affrescata da Luca Giordano.
Di fronte alla basilica c'erano il
battistero e la chiesa di San Lorenzo
Maggiore, antichissima e di somma
importanza artistica, la cui storia è
strettamente collegata non solo alla vita
religiosa, ma agli avvenimenti civili della
città. Sulla facciata, rifatta dal Sanfelice
nel 1742, si vede ancora il bellissimo
portale del 1325. In San Lorenzo G.
Boccaccio si innamorò di Fiammetta, la
figlia naturale di re Roberto, Maria
d'Aquino. Sulla destra, è il convento
francescano con un portale del 400,
sormontato dagli stemmi a colori dei
Seggi, cioè delle rappresentanze dei
varii rioni della città. Vi fu ospite
Francesco Petrarca, nel 1345. Divenuto in
seguito sede del Tribunale di San Lorenzo,
il convento cadde in possesso del Comune di
Napoli, il quale, lo trasformò in uffici e
depositi, che arrecarono ad esso gravi
danni.
C'erano, poi, le quattro basiliche
cattoliche maggiori: S. Giorgio, che la
tradizione vorrebbe fondata da Costantino,
ma, in realtà, è opera di S. Severo e
risale al IV secolo; i SS. Apostoli,
fondata nel 468 dal vescovo Sotero; S.
Maria Maggiore, fondata dal vescovo san
Pomponio, intorno alla metà del VI secolo; e
S. Giovanni Maggiore, anche questa
attribuita a Costantino, ma storicamente
fondata dal vescovo Vincenzo, tra il 555 e
il 560. San Giorgio Maggiore fu rifatta, nel
secolo XVI, dal Fanzago, dopo un violento
incendio.
Tramontato il Ducato, Napoli passò sotto la
guida dei Normanni che già da tempo si erano
insediati in alcune località dell'Italia
meridionale.
Ruggero il Normanno entrò in città nel
settembre del 1140, tra le più festose
accoglienze non solo del popolo, ma dei
nobili, dei cavalieri e del clero che gli
andarono incontro fuori la porta di Capua e
lo scortarono fino all'Episcopio. I
napoletani sono facili agli entusiasmi e
può ben essere che i normanni avessero
scaldata la loro fantasia e il loro
sentimento. Quegli uomini del Nord, che, in
periodo pienamente storico, seppero crearsi
una leggenda epica, con avventure e imprese
quasi incredibili, si conquistarono l'animo
di questa
gente del Sud,
amante delle audacie sensazionali. Tanto più
che Ruggero, il giorno seguente il suo
ingresso in Napoli, volle rendersi conto
dello stato della città, attraversandone le
strade a cavallo e, convocato il popolo nel
castello del Salvatore, parlò affabilmente,
discutendo con esso della libertà e degli
interessi dei cittadini e promettendo buone
cose a tutti per il futuro.
In seguito Ruggero, pur avendo visitato
Salerno, Capua, Gaeta ed Aver-sa, non tornò
più a Napoli. Ma non venne meno alle
promesse e governò con giustizia e saggezza,
senza far sentire alla città il peso del
suo dominio; ne fece duca il figlio Anfuso;
e, morto costui (1144), insignì dello stesso
titolo l'altro figlio Guglielmo, principe di
Tarante e di Capua.
Mantenne in vita, almeno formalmente, gli
antichi ordinamenti giuridici e
amministrativi, ma soppresse ogni autonomia
reale ed ogni avvio alla istituzione di un
libero comune napoletano. Sicché mentre il
Comune si affermava, nell'Italia
Settentrionale, come la nuova forma di
libero regime delle grandi e medie e piccole
città, imprimendo, ovunque, un potente
impulso di vita nuova; nel Sud la
dominazione
degli stranieri
assumeva la forma stagnante del regime
feudale.
Gran politico, ma idolatra della potenza
dello Stato accentratore, Ruggero finse di
rispettare l'autonomia di Napoli,
mostrandosi benigno verso i napoletani e
cattivandosene l'animo con concessioni e
privilegi, come pure fecero i suoi
discendenti, specie Guglielmo II e
Tancredi, verso i quali pure essi si
mostrarono grati e fedeli.
Il re Ruggero morì nel febbraio del 1154.
Gli successe il figlio Guglielmo I, passato
ai posteri - - non sappiamo con quanta
giustizia - con l'attributo di « il Malo ».
Il suo regno fu agitatissimo: contro di lui
si mossero, tutti insieme, papa Adriano IV,
il Barbarossa, l'imperatore di Bisanzio
Emanuele Comneno, i vassalli, sobillati e
guidati dal cugino, conte di Loritello. La
guerra raggiunse il punto cruciale nel
biennio 1155-1156: i bizantini occuparono le
città pugliesi, i vassalli la Terra del
Lavoro e Roberto di Capua si accampò ad
Aversa. Ma Napoli, Salerno ed Amalfi
resistettero, per opera, soprattutto, di
Maione di Bari, sagace consigliere di re
Guglielmo.
Ai re normanni, i napoletani ebbero
occasione di rinnovare le manifestazioni
della loro fedeltà, quando, nel dicembre
del 1176, le feste natalizie furono
rallegrate dall'arrivo della sposa di
Guglielmo II, Giovanna d'Inghilterra,
giunta con una scorta di 25 navi e
accompagnata dall'arcivescovo di Capua,
Alfonso, dal conte di Caserta, Roberto, e da
largo seguito di funzionati siciliani.
Il popolo napoletano ama i contrasti. E
come aveva affibbiato l'epiteto « il Malo »
al padre, così gratificò quello di « il
Buono » al figlio. La storia ci ha mandato
assai poco di lui; Dante lo definisce « il
giusto rege »: e avrà, certo, avuto
i suoi motivi che noi ignoriamo. Non pose
mai piede a Napoli, ma fu a Capua e a
Salerno. Gli successe il nipote Tancredi,
conte di Lecce (1180), ma l'aristocrazia
normanna avrebbe preferito vedere sul trono
la figlia di Ruggiero, Costanza, moglie di
Enrico VI, quella che Dante incontra nel
ciclo della Luna, e della quale fa dire a
Picarda Donati:
« Quest'è la luce della gran Costanza,
che, dal secondo vento di Soave,
generò il terzo e l'ultima possanza
».
Fu l'odio per i tedeschi, fortissimo
nell'Italia Meridionale, ma più in Sicilia,
che fruttò a Tancredi il trono. Costanza
aveva il primato della legittimità; ma era
moglie di un tedesco: perciò fu scartata.
Tancredi, brutto di faccia e basso di
statura rappresentava un'eccezione fra i
normanni. Ma possedeva una mente acuta e
sagace. Egli esordì nel regno, compensando
quanti lo avevano favorito. E Napoli,
specialmente, dove la discordia fra le
classi aveva avuto fine, Sessa e Gaeta
ottennero da lui larghi privilegi tra il
1190-91.
Tancredi considerò Napoli la città a lui più
devota: tanto che, avendo la popolazione di
Palermo dimostrata viva simpatia per
Costanza, egli la fece trasferire a Napoli,
nel castello del Salvatore e ve la ritenne
prigioniera, sotto
la custodia di
Aligerno Cottone, fino a quando, liberata,
per intervento del papa, potè tornare in
Germania.
Enrico VI ebbe ragione della tenace
resistenza di Napoli solo nel 1194. La
flotta sveva, pisana e genovese,
conquistata Gaeta, navigò verso Napoli e
l'imperatore marciò contro la città, alla
testa del suo esercito, dalla parte di
terra.
Tancredi era morto, non vinto. E il regno,
debolmente rette dalla regina vedova
Sibilla, tutrice del figlio minorenne re
Guglielmo III, non era in grado di
resistere. I napoletani, perciò, che già
avevano inviato ambasciatori allo Svevo,
quando questi era ancora a Pisa, gli
aprirono le porte della loro città. E toccò
ad Aligerno Cottone il triste ufficio di
riconoscere l'autorità imperiale. Nello
stesso tempo si sottomisero Ischia, Procida,
Capri. Ma la sottomissione non evitò che
Enrico VI punisse i napoletani, nel modo per
essi più offensivo, l'abbattimento delle
mura, che avevano sempre avuto un ruolo
determinante per la loro difesa. Anche
dopo, le mura furono ricostruite, tanto è
mutevole il corso della storia. Ma per
quell'atto, che essi considerarono
oltraggio, l'odio che già i napoletani
nutrivano contro i tedeschi, si rinfocolò.
Sotto i normanni, nonostante le
inquietudini e le guerre, la città aveva
potuto prosperare nei commerci, anche per il
declino già iniziato di Amalfi, per cui il
porto di Napoli ridiveniva il più trafficato
della Campania. A Napoli, i normanni avevano
il loro fondaco di terraferma più
importante, congiunto con la Dohana.
La popolazione, sulla fine del secolo XII,
oltrepassava -- pare — i 40.000 abitanti,
ma la città non si era proporzionalmente
estesa in superficie. Tuttavia, l'edilizia
dovè pur costruire, in numero più o meno
rilevante, degli edifici, in quello stile
siculo-normanno, di cui ammiriamo una così
ricca fioritura d'arte in altre città del
Mezzogiorno e, specialmente, in Sicilia, ma
di cui nulla avanza a Napoli, quasi per un
singolare destino di alcune civiltà che vi
dominarono, come nessun documento esiste, in
base al quale ci si possa fare un giudizio
esatto sulla cultura del tempo. In Napoli
normanna vivevano — lo sappiamo dalle
relazioni dei viaggi in Italia di Beniamino
Tudela, — 500 famiglie ebraiche, anima del
commercio cittadino, 600 a Salerno, 300 a
Capua. Ma non si sa con certezza se gli
ebrei fossero anche qua confinati nei ghetti
- iudeca
-
benché sussistano ancora una strada e un
vicolo della Giudecca. La denominazione
potrebbe esser derivata dal fatto che gli
ebrei vi svolgevano le loro attività
commerciali, come per la Loggia dei Pisani,
così detta perché quella colonia vi aveva
il suo fondaco.
Napoli non fu mai benigna verso gli Svevi.
Eppure — senza dubbio — molti e grandi
furono i benefici alla città concessi sia da
Federico II che da Manfredi. Valga, per
tutti, la fondazione dello Studio
generale (Università), donde si effuse
tanta luce di dottrina e tanto prestigio e
decoro per la città, oltre ai molteplici
vantaggi morali, intellettuali e materiali,
che Pietro Giannone potè scrivere: « Lo
Studio fece che Napoli si levasse sopra
tutte le altre città e questo fu la pietra
fondamentale onde poi si rendesse metropoli
del regno ».
Facciamo la storia dello Studio, Le
Lettere Generali, che lo istituirono,
sono datate da Siracusa, il 5 giugno 1224.
Pare che ne siano stati ispiratori Pier
della Vigna, secondo alcuni, il beneventano
Roffredo, secondo altri. Nello ottobre dello
stesso anno, lo Studio era già in attività,
ma non si è potuto mai stabilire in quale
edificio della città. E subito si rese
famoso per la valentia dei maestri, che vi
furon chiamati a insegnare, tra i quali
ricordiamo: Roffredo da Benevento, Piero da
Isernia, Bartolomeo Pignatelli da Brindisi,
insegnante di decretali, Matteo da Pisa, di
diritto civile, il grammatico Gerardino, il
filosofo Arnaldo Catalano, morto sulla
cattedra mentre discuteva sulla natura
dell'anima.
Nonostante tutto, le cose, sul principio,
non dovettero filar bene tanto che
l'imperatore pensò di chiuderlo. Ma cedette
alle suppliche di professori e scolari, che
gli inviarono a Lodi una delegazione. E,
nel 1293, tra altre provvidenze, decretò
che studenti di ogni parte d'Italia e anche
stranieri vi fossero ammessi, ciò che
accrebbe di molto la importanza e la fama
dello Studio napoletano in Europa.
Dopo la morte di Federico II i suoi deboli
successori non lasciarono un ricordo
durevole se si esclude la patetica storia di
Corradino, ultimo rampollo di Casa Sveva che
lasciò la sua testa bionda sul patibolo tra
la folla assiepata in Piazza del Mercato.
Tramontata la Casa Sveva, incomincia la
dominazione angioina di cui primo re fu
Carlo d'Angiò.
I napoletani, sempre avidi di novità,
accolsero festosamente il nuovo re, più per
odio verso gli Svevi che per simpatia verso
di lui, e, a mezzo di Francesco Loffredo,
che, per l'occasione, pronunciò un'ampollosa
allocuzione, gli fecero consegnare le chiavi
della città, in segno di dedizione. Assurta,
così al rango di capitale, Napoli perde la
sua autonomia municipale, ma ci guadagnò
sotto tanti altri punti di vista: l'edili
zia, i costumi, la cultura. Divenne la città
«lieta, pacifica, abbondevole,
magnifica» come la vide Giovanni
Boccaccio. Era cresciuta non tanto di
estensione, quanto di popolazione e nuovi
rioni urbani andavano sorgendo, specie
intorno alla Reggia, trasferita da Castel
Capuano a Castel Nuovo, nei cui pressi
principi e dignitari angioini si costruirono
le loro decorose abitazioni private. Si
iniziò un periodo di tranquillità e di
prosperità, che ridiede alla città solare
l'aspetto ridente, che è proprio del suo
ciclo e del suo mare. Numerose e attive
colonie di provenzali, di catalani, di
fiamminghi, di genovesi, di veneziani, di
pisani ne incrementarono le industrie e i
commerci, specie l'industria della seta; e
un nuovo porto, detto di mezzo,
poiché ubicato fra i due antichi, aumentò il
volume dei traffici marittimi.
Fiorirono, simultaneamente, l'arte e la
cultura, che attrassero a Napoli i più
grandi ingegni dell'epoca, come Tommaso
d'Aquino, che sotto Carlo, vi insegnò
teologia, il Petrarca, che, ospite del
convento di S. Lorenzo, vi descrisse la
peste, che flagellò Napoli nel 1343; il
Boccaccio, che vi alternò studi ed amori, e
tanti altri sapienti, quali Bartolomeo di
Capua, Bartolomei Prignano, che fu papa
Urbano VI, Andrea d'Isernia, Cino da
Pistoia, i quali facevano corona a Roberto
d'Angiò, il « re da sermone » di
Dante.
Dopo Carlo I regnarono Carlo II e Roberto
d'Angiò.
Ai tempi di questo re, la città aveva
cambiato volto: da mediocre città
provinciale era divenuta già una metropoli
europea, con più di 60.000 abitanti.
Ma questa non era che la cornice: ben
diverso era il quadro. Col concentramento
amministrativo nelle mani del governo del
re, i napoletani dovettero ravvedersi e
accorgersi che il regime angioino li aveva
ridotti al lastrico e che il decoro della
capitale non li compensava delle strettezze
fiscali cui eran sottoposti.
Il fiscalismo estremo degli angioini, sempre
cupidi di danaro per la soddisfazione della
loro grandezza, tanto più esosamente gravava
sul popolo, quanto più numerosi erano i
privilegi e le esenzioni. Esenti i nobili e
il clero, esenti i provenzali del regno,
esenti gli scolari e i docenti dello
Studio. Specie nelle province la
pressione fiscale era intollerabile e la
brutalità degli esattori spietata.
Non c'era voce che non fosse tassata.
A riscuotere tutte le gabelle era addetta
una burocrazia particolarmente esperta, cui
nulla sfuggiva. La tesoreria regia
indebitata a fondo verso le banche
fiorentine dei Bardi, degli Acciaiuoli, dei
Bonaccorsi, che ad essa anticipavano grosse
somme, premeva sugli esattori e questi
mettevano i contribuenti al torchio.
Molti forestieri ingombravano la città, vi
occupavano i posti migliori ed erano
protetti e favoriti in tutto: pisani,
veneziani, catalani, marsigliesi,
fiamminghi, alle cui imprese i re d'Angiò
si associarono per bramosia di « mettere
in arca » — secondo l'espressione
dantesca — cioè, di batter cassa con ogni
mezzo, non bastando loro il ricavato delle
tasse, sempre più gravose.
Il Castello del Salvatore, sotto Carlo I,
era diventato un deposito di mercanzie:
sete dell'Acaia, cotone della Siria e della
Calabria, lino della Lombardia. Re Roberto
non doveva poi essere quell'astratto teologo
« re da sermone » se aveva
intrecciato solidi rapporti commerciali con
mercanti borghesi, come i
Cossa, gli
Assante, i Cipolletta d'Ischia, i Buonocore
da Positano!
Ma tutto questo, che, oggi, si chiamerebbe
un « boom » commerciale, non giovava
a migliorare le condizioni economiche del
popolo, che non ne traeva alcun vantaggio,
né diretto né indiretto. La moneta
napoletana era svilita: e ciò provocò una
sommossa popolare, nel 1319, anche per il
dilagare dell'usura, sempre più esosa, alla
quale la piccola gente, stretta alla gola
dalle necessità quotidiane, si vedeva
indotta a ricorrere. Usura, che, a quanto
pare, anche oggi costituisce una delle
piaghe più dolenti di Napoli.
L'arte della lana, più che le altre, vi ebbe
eccezionale sviluppo, al tempo di Carlo II,
per opera dei fiorentini, che, tra il 1308 e
il 1335, vi impiantarono parecchie
fabbriche di stoffe di lana e di pelo di
cammello.
Conseguenza dello sviluppo dell'arte della
lana, fu il fiorire di quelle della
tintoria: a Napoli, a Capua, a Ravello. Ma
quando queste arti avevano raggiunto un
alto livello di perfezione tecnica, cominciò
il loro tracollo, causato, certo, dalla
indiscussa superiorità dei similari prodotti
fiorentini, propagandati anche a Napoli, ma
anche dalle forti tasse che il fisco
angioino impose — more solito
-
sulla tintura.
Nel sessantennio e più tra Carlo I e Roberto
IV (1282-1343), la città, che contava ormai
60.000 abitanti, si estendeva, presso a
poco, così: da Castel Capuano, che rimaneva
metà dentro, metà fuori le mura, la cerchia
urbana seguiva, approssimativamente, questa
direzione: da via S. Giovanni a Carbonara a
Santa Sofia, per Donnaregina fino a Porta
S. Gennaro. Di qua, salendo a Capo Napoli,
incluso Sant'Agnello, ridiscendeva a
Costantinopoli, donde, attraverso Porta
Donnorso (S. Pietro a Maiella) e San
Sebastiano, proseguiva verso la Trinità
Maggiore e la Piazza del Gesù.
Piegava, poi, a gomito, per via Monteoliveto
verso Porta Petraccia (S. Bartolomeo) e
continuava per la strada di Porto, i
Lanzieri, S. Pietro Martire, gli Orefici,
Porta S. Arcangelo, S. Agostino alla Zecca,
la Nunziata, il Supportico dei Caserti e la
Maddalena, tornando a Castel Capuano.
Carlo I mise subito mano alle nuove
costruzioni. Nel 1279, iniziò quella della
nuova Reggia, in Campum oppidi,
presso il porto dei Pisani, su progetto ed
esecuzione di architetti francesi. I lavori
terminarono nel 1282. Ma Carlo I non vi
risiedè mai. L'abitò, invece, Carlo II, che
la completò e vi ospitò papa Celestino V,
colui che fece « per viltade il gran
rifiuto — come dice Dante. E, caso
strano, il gran rifiuto fu fatto
proprio nella stessa sala, da cui uscì,
eletto pontefice, il Papa simoniaco
Bonifacio VIII, lo schiaffeggiato di Anagni.
Intorno alla Reggia — Castel Nuovo - - si
ingrandì il quartiere residenziale con
l'Ospizio Tarentino, del principe
Filippo di Taranto; col palazzo dei
fratelli di Carlo; con la Corte del
Vicario; con le abitazioni di molte
famiglie patrizie, specie di gentiluomini e
gentildonne che prestavano servizio alla
Corte. Ma Carlo II si fece costruire anche
un'altra reggia, la Casa Nova, fuori
le mura, in cui morì nel 1309.
Il fastoso re Roberto abitò in Castel Nuovo:
ma lo ampliò di nuove fabbriche e, nella
Torre bruna, costruì una camera blindata
per il tesoro. Chiamò Giotto e altri artisti
ad affrescarne le due cappelle, sistemò
meravigliosi giardini, nei quali, certo, il
Petrarca passeggiò, meditando, e il
Boccaccio folleggiando con la sua
Fiammetta. Castel Nuovo subì, nei secoli,
parecchie devastazioni e trasformazioni. La
forma, in cui noi lo ammiriamo oggi è quella
del restauro fattone dal conte Municchi, nel
1922-23. La sua fosca storia si intreccia
di leggende ancora più fosche.
Abbiamo già accennato alle grandi
costruzioni sacre dovute agli Angiò - in
primis - Santa Chiara, intitolata, in
origine « Sancti Corporis Christi »
con cui la regina Sancha di Maiorca
immortalò se stessa, e alla quale altre ne
potremmo aggiungere, come l'inizio del
Duomo, S. Eligio, di cui rimangono la torre
campanaria e il portale gotico-francese; la
chiesa di S. Pietro Martire e quella di San
Lorenzo; il monastero di S. Pietro a
Castello, di cui fu prima badessa la regina
Elisabetta d'Ungheria, a cui si deve la
ricostruzione di Donnaregina, il convento di
S. Martino, terminato sotto Giovanna I, nel
1368, al quale lavorarono, come all'attiguo
castello di Belforte (S. Elmo) Francesco De
Vito, Tino di Camaino, Atanasio Primario, e,
per le sculture del chiostro, Pacio
fiorentino.
Tra le grandi opere pubbliche, va attribuita
a Carlo II la costruzione del porto di
mezzo, essendo quello vecchio
dell’Arcina divenuto insufficiente
all'incremento del traffico marittimo; e
opera dello stesso re furono il molo grande
e il molo piccolo. Per tutti questi lavori
si adoperarono le pietre delle cave di Monte
Echia e i legnami della Selva mala di
Ottaviano. Al porto di mezzo si fecero
confluire tutte le strade del quartiere
commerciale, che si svilupparono a raggiera
dalla Loggia dei Genovesi e dalla Rua dei
Catalani, alla Loggia dei Marsigliesi e
a quella dei Provenzali, che avevano il loro
molo a Santa Lucia.
Nel 1305, fu dato inizio alla costruzione
di un nuovo arsenale e un altro ancora ne
fece costruire re Roberto, al Carmine, che
fu distrutto quando Alfonso d'Aragona
occupò Napoli, nel 1442.
Non mancò, dunque, fervore di opere e di
iniziative. Ma che cosa ne pensava il
popolo? Non c'è dubbio che, sotto gli
angioini e gli aragonesi, i napoletani
subirono un profondo mutamento psicologico,
una depressione morale. Sensibili e
intuitivi com'essi sono, dovettero avere
l'impressione di una danza folle sopra un
tappeto iridescente con sotto il vuoto.
Anche Napoli ebbe il suo Rinascimento, non
così splendido e magnifico, forse, come
sbocciò e fiorì in tante altre città
d'Italia, perché a Napoli mancarono i
grandi tiranni mecenati dell'arte,
della poesia, della scienza, che ebbero,
invece, Roma, Firenze, Ferrara e molte altre
città italiane, e mancarono, anche, quelle
condizioni di tranquillità politica, che
sono indispensabili alla civiltà umana, per
iniziare e compiere ogni nuovo ciclo di
progresso storico, materiale e spirituale.
Ma il Rinascimento passò, come una ventata
fresca di primavera, anche nella nostra
città a rinnovarvi uomini e cose. Il segno,
anzi, il simbolo più significativo che ne
rimanga a Napoli, è l'arco di trionfo, che
il genio del Laurana elevò fra le torri
frontali del Maschio angioino, in occasione
dell'ingresso solenne di Alfonso d'Aragona
in città. Questo re incarnò a Napoli lo
spirito del Rinascimento; e pur fra le
tempeste politiche e le insidie militari,
che dovè affrontare e superare, durante il
suo regno, trovò tempo e modo di accrescere
la bellezza e il decorso della sua capitale
e di influire sull'ingentilimento dei
costumi e del vivere civile dei napoletani.
Egli convocò i più famosi architetti,
pittori e scultori di Italia, da Firenze,
da Milano, da Bologna, finanche dalla
Spagna; si circondò di umanisti nostri e
stranieri, di poeti, di filosofi, di
storici, di scienziati, in modo che la
sua Corte non era per nulla inferiore
a quelle dei più rinomati principi
mecenati del Rinascimento italiano,
sfolgorante di lusso e di buon gusto,
mentre la sua capitale si ampliava e si
abbelliva, a vista d'occhio, di edifici e di
monumenti insigni.
Chi considera quel periodo torbido di lotte,
politiche e militari, di anarchia, di atti
briganteschi, di miseria, che fu il regno di
Giovanna II, ultima dei durazzeschi, non può
non essere preso da stupore per il rapido
mutamento della situazione napoletana, dopo
l'avvento al trono di Alfonso d'Aragona. Fu
una vera, prodigiosa rinascita. Ma
procediamo con ordine.
Grande sovrano della dinastia aragonese,
succeduta a quella angioiana, fu
Alfonso il
Magnanimo che incarnò il principe
rinascimentale arricchendo Napoli con
iniziative culturali e diffondendo il gusto
dell'arte.
Raffinatezza ed eleganza rinascimentale
Alfonso dimostrò anche nelle feste sacre e
profane, nelle giostre, nelle
rappresentazioni teatrali. Basta ricordar
le feste da lui date per la visita
dell'imperatore di Germania Federico III e
della moglie Eleonora di Portogallo (1452),
che, per dieci giorni consecutivi,
mandarono in visibilio i napoletani. Non
sappiamo se tutto quanto è stato narrato di
esse sia vero.
Le botteghe ricevettero ordine di consegnare
agli ospiti del seguito ogni cosa da essi
richiesta, sul conto del re. Agli Astroni ci
fu una caccia e i cavalli dei sovrani e dei
gentiluomini di Corte vennero nutriti di
confetti, non di fieno e biade. Fu costruito
un padiglione, vasto quanto un palazzo,
per i banchetti, serviti in vasellame
d'oro e d'argento di ingente valore. Le
fontane, come nella favolosa età dell'oro,
versavano, per dieci ore al giorno, non
nettare, ma vini pregiati, ai quali poteva
bere a garganella chi avesse voluto.
L'ultimo re della dinastia aragonese fu
Federico. Dopo molte e travagliate vicende
si chiudeva con lui il regno nazionale di
Napoli. Da questo momento la città è sede di
un viceregno spagnuolo.
Con la dominazione degli spagnoli, Napoli
tocca il punto più basso della sua parabola
politica e morale, anche se - come osserva
Benedetto Croce, col solito acume di geniale
critico della storia — non tutti i mali di
Napoli e dei napoletani sono derivati da
essi. Ma un fatto è certo: che tra il 500 e
il 600 si operò nei napoletani una profonda
trasformazione sia esteriore, fisica, che
interiore, morale.
Prima essi erano ben diversi, da come
divennero durante il governo vice-regnale
spagnuolo e da come sono oggi; e, a quel
tempo, la città cominciò pure a foggiarsi,
attraverso demolizioni, trasformazioni,
abbellimenti, ampliamenti e anche
deformazioni, quell'aspetto che non si è più
sostanzialmente alterato
nonostante le
costruzioni dell'età borbonica e di quella
moderna e contemporanea, che ne ha
enormemente dilatato le dimensioni e le
proporzioni, in superficie e in
popolazione. Nel 600, la società napoletana
— come educazione civile, costumi,
formazione morale, forma mentale - non è
più quella del glorioso Ducato o del Regno
indipendente.
Un guizzo dell'antica fierezza lo vediamo
ancora sprizzare nell'irriducibile
avversione del popolo napoletano contro
l'inquisizione, ma già la sommossa di
Masaniello, col suo caratteristico
svolgimento farsesco, mossa soltanto da
motivi economici, ci dimostra come nessun
bisogno sentito di partecipazione attiva
alla vita della città e dello Stato, nessun
ideale etico-politico, nessuna aspirazione
all'indipendenza e nemmeno alla elevazione
sociale entravano più nei propositi e nei
finì della sua azione.
A stretto contatto con le soldatesche
spagnole, la plebe napoletana,
agglomeratasi nelle zone alte di via
Toledo, dette ancora oggi, i Quartieri,
appunto perché vi si accasermarono le
truppe del dominatore, contrasse tutti i
difetti e i vizi caratteristici degli
spagnoli: il turpiloquio, l'arte della
menzogna e dell'inganno, la millanteria, il
gusto di sembrare senza essere, l'ipocrisia
e la superstizione religiosa, l'altezzosità
nella miseria, la vanagloria stupida,
l'aggressione proditoria a scopo di rapina
o di vendetta.
Non è azzardato riscontrare in
quell'ambiente guasto le origini della
camorra tristemente famosa. Coi vizi,
la degenerazione fisica, oltre quella
morale. Spesso, per le strade, i passanti
s'imbattevano in cadaveri pugnalati alle
spalle, le più volte di soldati spagnuoli;
ed era estremamente pericoloso azzardarsi,
di notte, nel dedalo di vicoli di certi
rioni malfamati, regno della malavita, la
quale giunse a tal punto di temerità nei
delitti, che don Pedro di Toledo e il
marchese del Carpio ci si misero di punta a
reprimerla, ma senza risultati veramente
positivi.
Né migliore è il quadro che la storia ci
presenta della nobiltà napoletana sotto la
Spagna. Spento, in essa, ogni ardore di
indipendenza e ogni ambizione di potere si
era ridotta a vivere prona davanti allo
straniero, e, quel che è
peggio, si era
attaccata fedelmente alla monarchia
spagnuola, non certo per devozione ma per
egoistico interesse. Aristocrazia feudale
ed eletti dei Seggi tutti eseguivano con
zelo indecoroso la volontà del dominatore,
cercando di trar-ne il maggior profitto, in
privilegi e in cariche remunerative,
spingendo il loro aperto favoreggiamento
per gli spagnuoli sino a persuadere il
popolo a starsene tranquillo, se mai avesse
avuto qualche tentazione di sommossa. Si
finì, così, in una vera e propria gara fra i
nobili a chi si rendesse più utile allo
straniero; e quelli, fra essi, che venivano
meglio compensati, destavano la gelosia
degli altri, che, spesso, degenerava in
discordia. E questo, come sempre - -
secondo la norma romana del « divide et
impera » - giovava agli spagnuoli, che
avevano le mani nel governo viceregnale,
molti dei quali, alti ufficiali
dell'esercito, funzionari
dell'amministrazione statale, finanche
alcuni viceré, giunti a Napoli poveri in
canna, o ricchi decaduti e indebitati fino
al collo, contrassero vantaggiosi matrimoni
con donne dell'aristocrazia napoletana,
sicché si stabilì una vera e propria
alleanza fra questa e il Vicereame
spagnuolo. Ciò acuì l'odio del popolo contro
i nobili; e, a pescare nel torbido, ci si
mise la classe media, nella lusinga di
attrarre a sé la plebe, staccandola
definitivamente dall'aristocrazia. Ma se
questa era odiata, perché rappresentava
l'estremo della ricchezza, la classe
privilegiata, che, pur essendo minoranze,
comandava, il popolo, espressione di
estrema
miseria, diffidava anche del ceto medio,
che, pur di origine plebea, rappresentava
il ceto degli avvocati e degli appaltatori
delle gabelle, che esso aborriva, per ovvii
motivi, in modo tutto particolare. Il
dominio del popolo sfuggiva, pertanto, sia
ai nobili che alla classe media. E ne
profittava l'astuta politica spagnuola, che
si reggeva barcamenandosi fra i tre ordini
cittadini: ora blandiva la nobiltà contro i
due ceti inferiori; ora favoriva lo
scatenarsi degli istinti e delle passioni
popolari; ora dimostrava di voler
riconoscere il valore del ceto medio, donde
traeva quegli zelantissimi appaltatori ed
agenti delle gabelle e delle imposte, che,
per un regime di spoliazioni fiscali come
quello spagnuolo, il più esoso fra tutti,
voleva dire sfruttare fino all'osso le
risorse eco-nomiche dei popoli soggetti, a
vantaggio, onore e gloria dell'erario di
Sua Maestà il re cattolico. Facendo il punto
della ingordigia spagnuola, Traiano
Boccalini ha scritto: « Ogni vil soldato
spagnuolo, che arriva a Napoli ignudo, se ne
parte vestito di seta e d'oro ».
Figuriamoci, da questo, come se ne
partivano i capitani!
La povertà di vita spirituale, la carenza di
un ideale politico e di una coscienza
nazionale, che caratterizzano l'epoca
spagnuola a Napoli, si riscontra, del resto,
nella letteratura del tempo. La prima metà
del '600 risente ancora dell'influsso
rinascimentale, specie in materia religiosa,
in cui c'è sentore di riforma, nella
propaganda anticattolica di Juan de Valdès e
sulla tenace opposizione napoletana
all'introduzione dell'Inquisizione.
Ma è anche nel campo della poesia e della
cultura varia, dalla quale è assente ogni
interesse politico nazionale, che troviamo
la conferma dell'indifferenza verso ogni
forma di attività civile, in cui è caduto
lo spirito dei napoletani. Si segue,
infatti, l'andazzo umanistico del Pontano,
dal quale non sa staccarsi neppure il genio
poetico di lacopo Sannazaro, come non se ne
staccano né Pietro Summonte, né altri, e al
quale rimangono attaccati anche i poeti (o
rimatori che si vogliano stimare) — eccetto,
forse, Angelo Di Costanze, storico e poeta,
in cui si avverte un qualche anelito di
patria — e, con lui, il Rota, Luigi
Tansillo, Galeazze di Tarsia, Vittoria
Colonna, Isabella di Morrà. Formalismo,
senza pensiero. Ma il pensiero, senza cura
della forma, trionfa con l'avvento di
Bernardino Telesio, di Giordano Bruno, di
Tommaso Campanella, i tre grandi filosofi
meridionali, che, col loro genio, scuotono
le fondamenta del vecchio mondo culturale,
precorrendo Giovan Battista Vico, l'astro
maggiore del pensiero napoletano, che coi «
Principii di una scienza nuova » fa
cadere tutto il castello sillogistico di
Aristotele e ci dà la chiave per
interpretare, in linguaggio moderno, la
filologia e la storia delle civiltà
universali. Allo stesso modo, un altro genio
napoletano, Giambattista Della Porta, si
scioglierà dalle formule magiche
dell'astrologia per iniziare l'era della
scienza.
Con la prima metà del secolo XVI, comincia
ad affermarsi, a Napoli, anche nel campo
delle arti figurative, l'opera di artisti
locali, che, progressivamente si liberano
dall'influenza di pittori e scultori romani,
toscani e lombardi. Primo, fra tutti, il
pittore Andrea Sabatini (Andrea da Salerno),
che rivela nei dipinti una robusta grazia
raffaelliana; e gli scultori Giovanni
Mariliano, (Giovanni da Noia) Gerolamo
Santacroce, Annibale Caccavello, i due
D'Auria. Segue una nuova predominanza di
artisti stranieri: Giorgio Vasari,
Leonardo da Pistoia, Marco Pino da Siena,
pittori; e Michelangelo Naccarino e Pietro
Bernini, scultori. Solo sul finire del
secolo, si ha una ripresa artistica
napoletana, con caratteri di continuità e di
originalità, specie in pittura. Quanto
all'architettura, essa rimane vincolata a
moduli di altre regioni italiane, e, anche
quando il barocco napoletano assumerà una
fisionomia propria, risentirà ancora
dell'influsso del bergamasco Cosimo Fanzago,
che lasciò a Napoli parecchie sue pregevoli
opere.
Anche la musica napoletana ebbe, nel '500, i
primi indirizzi di scuola locale, nel
Conservatorio di S. Maria di Loreto e in
quello dei Poveri di Gesù Cristo, istituito,
nel 1589, dal frate francescano Marcello
Fossataro.
Anche la città si allargò, per la crescita
della popolazione, salita, ormai, ad oltre
262.000 anime, come risulta da un censimento
del 1547. Fu necessaria, quindi, una nuova
cerchia di mura, che, iniziata nel 1583 fu
terminata nel 1587, per opera del viceré don
Pedro de Toledo. La cinta andava da Porta S.
Gennaro a S. Maria di Costantinopoli, per
via Bellini e l'attuale Piazza Dante, lungo
la collina dove ora c'è l'ospedale della
Trinità, il Corso, donde proseguiva per S.
Lucia a monte e S. Maria Apparente,
scendendo, poi, a S. Caterina a Ghiaia
(Porta di S. Spirito), salendo a
Pizzofalcone e, di là, ridiscendendo verso
S. Lucia a Castelnuovo. Il capolavoro di don
Pedro fu, però, via Toledo, aperta nel 1536,
una delle più celebri e belle vie del mondo,
che, tuttora, costituisce il centro più
vitale e la gloria dei napoletani. Lo stesso
viceré provvide ad altre strade di
collegamento, come l'Infrascata, del 1560,
che portava all'Arenella e ad Antignano,
allora villaggi, donde, attraverso amene
campagne, si raggiungeva Sant'Elmo, che fu
restaurato tra il 1537 e il 1549. Don Pedro
sistemò, inoltre, la viabilità del borgo di
Ghiaia, dal palazzo Cellammare fino al
Largo Ferrantina, dov'era la villa di
Alfonso II d'Aragona, che, per un certo
periodo, i viceré scelsero come loro
residenza. Dal borgo, si proseguiva verso la
chiesa di Piedigrotta, sorta su un antico
tempio e rifatta nel '500, intorno alla
quale si celebrava ancora la più
folcloristica di tutte le feste napoletane
e si andava fino a Mergellina, ov'è la casa
del Sannazaro, che fece costruire la
chiesetta di Santa Maria del Parto -
denominazione che ci fa ricordare il suo «
De Partu Virginis » - in cui si trova
la tomba del poeta.
Alcuni borghi rimasero fuori le mura, come
i Vergini, borgo Avvocata, S. Antonio abate
e Loreto.
Nel Seicento molte e originali furono le
opere di architettura sorte in Napoli
soprattutto per la genialità del Fanzago di
cui ancora oggi ammiriamo S. Teresa a
Ghiaia, S. Ferdinando, S. Maria degli Angeli
alle Croci, S. Maria Egiziaca, la Certosa di
S. Martino.
Ma più che l'architettura, fiorì la pittura.
E' noto che, nella Napoli sei-centesca, gli
influssi della potente arte pittorica di
Michelangelo Merisi da Caravaggio, creatore
del luminismo italiano, si fecero sentire
su tutti gli artisti dell'epoca. Non
passivamente, però. Soprattutto i pittori
maggiori, Battistello Caracciolo, Bernardo
Cavallino, Mattia Preti, — che dipinse i
famosi pannelli della peste del 1656 per le
porte della
città — pur
attingendo spunti e motivi alla grande arte
caravaggesca, seppero infondere toni,
movenze, espressioni nuove alle loro
figurazioni; e così pure Massimo Stanzione,
il Fracanzano, Salvator Rosa, che,
interpretando il naturalismo e il colorismo
congeniti ai napotani, precorsero quella
transizione dalla pittura del '600 a quella
del 700, che si attua con Luca Giordano e
con Francesco Solimena.
Nella seconda metà del Seicento, nasce
anche la musica nel senso tutto napoletano
di quest'arte. Si smette con le imitazioni
veneziane e fiorentine; e il teatro di San
Bartolomeo, costruito nel 1620, a gara con
quello del Palazzo reale, diviene, a partire
dal 1651, sotto il viceré d'Onate, il tempio
del dramma musicale napoletano, ove si
rappresentano le prime opere di Francesco
Provenzale e di Alessandro Scarlatti,
iniziatori e precursori del nostro Ottocento
musicale. I conservatori della città
preparano le nuove generazioni di musici e
di cantanti; e, insieme con essi, sorgono
schiere di ballerini, di mimi, di
scenografi, di vestiaristi, di attrezzisti,
che, a poco a poco, acquistano fama di
bravura in tutta Italia e all'Estero.
Insieme con le arti, si afferma a Napoli la
nuova cultura. La vita del pensiero, che si
era precedentemente assopita, si riaccende
alla luce viva della filosofia di Cartesio e
dell'illuminismo di Hobbes, che relega in
soffitta l'ari-stotelismo e il tomismo, e da
inizio a quello che possiamo chiamare il
nuovo corso della verità e della ricerca
scientifica, con una serie di uomini
geniali, quali Tomaso Cornelio, il Valletta,
Leonardo di Capua, l'Ausilio ai quali
spetta il vanto di avere spianato la via a
Giovanbattista Vico. Né, per la verità
storica, il nuovo pensiero fu imbavagliato
dal regime viceregnale spagnuo-lo:
quantunque i sovrani di Spagna si
atteggiassero a strenui difensori del
cattolicesimo e si fregiassero con orgoglio
del titolo di re cattolici, pure,
sotto sotto, si guardavano sempre in
cagnesco col potere ecclesiastico, per via
delle questioni giurisdizionali, di cui
erano gelosissimi. Contro il nuovo pensiero
intervenivano solo se sconfinasse in
propaganda eversiva politica: per il resto,
lasciavano correre.
Non progredirono molto, nel '600, le scienze
giuridiche e neppure gli studi
storiografici, sebbene questi fossero stati
avviati, per opera del Capaccio e del
Summonte, del Capecelatro e del Parrino, che
fornirono molto materiale a Pietro Giannone.
Ma avvio notevole ebbero le scienze
economiche, per opera del cosentino Antonio
Serra, il quale meditando sulla miseria
delle popolazioni meridionali, ne intuì per
primo le cause e ne propose i rimedi, dando
inizio agli studi per la soluzione di
quella questione del Mezzogiorno, che,
come la tela di Penelope, non arriva mai a
un compimento definitivo. Trattato da
visionario e cacciato in galera dal conte di
Ossuna, il Serra è stato pienamente
riabilitato dal giudizio della storia. Le
cose del mondo vanno spesso così. Il
Leopardi amaramente cantò: « Virtù, viva
sprezziam, lodiamo, estinta ».
Napoli generosa ha intitolato ad Antonio
Serra l'istituto statale di economia e
commercio.
Ed eccoci alla poesia. Il Seicento
napoletano è il secolo di Giovanbattista
Marino: poeta, senza dubbio dotatissimo di
estro e di senso dell'armonia, di
immaginazione anche troppo viva e di
virtuosismo coloristico, gran conoscitore
della lingua, ma privo di potenza creativa e
di quel freno d'arte, che gli avrebbe
risparmiato la ridondante gonfiezza e
vacuità, che i critici gli rimproverano e
che spesso ha causato la messa in evidenza
più dei difetti che dei pregi della sua
poesia, collocata in pessima luce dai suoi
stolidi imitatori: i marinisti. Ma, dal
flagello di costoro, la poesia napoletana si
redense subito, accostandosi alla vena
popolare, con le fiabe del « Pentamerone
» e con le « Muse napoletane »,
di Giovambattista Basile, che si diffusero e
piacquero in tutta Italia e in altri paesi
d'Europa; e, se pure in grado minore, con la
Vaiasseide e il « Micco Spadaro
» di Giuseppe Cesare Cortese e con gli
scritti di altri poeti dialettali meno
importanti, i quali descrivono tanto
realisticamente la vita quotidiana del
popolino napoletano da farcene un quadro
assai più chiaro che non tanti libri di
storia. Naturalmente, si scrissero anche
opere da buttare al macero, di ogni specie,
giustamente sepolte senza infamia e senza
lode, perché nessuno le lesse, tranne i loro
autori.
Intanto, però, lo stato della città
precipitava sempre più nel disastro
economico. Nel 1648. finanche soldati
spagnuoli, detti, forse per questo,
bisogni, chiedevano l'elemosina « con
gravità spagnuola » come si esprime,
umoristicamente, il cronista. Sommosse,
specie di donne, si verificarono al
Lavinaio, per il diminuito peso della
palata. L'inflazione monetaria e la
falsa monetazione causarono lo svilimento
della moneta; e i torbidi civili e
l'insicurezza sociale ad opera del
banditismo (divenuto tanto potente che il
capo-brigante abate Cesare Riccardi osò
imporre patti al viceré per non chiudere
completamente le vie, di cui era padrone, al
vettovagliamento) gettarono la città nella
situazione più disperata. Vi si aggiunsero
le calamità di due terremoti, 1688 e 1692,
che fecero vittime e rovine nelle province e
in città, dove crollarono la cupola del Gesù
Nuovo e la parte rimanente del portico del
Tempio di Castore e Polluce, incorporato
nella chiesa di S. Paolo.
Man mano, poi, che il regime vice-regnale
spagnuolo volgeva al tramonto, si vennero
acuendo le lotte fra nobili e plebei, che
ebbero particolare recrudescenza sotto il
viceré Pietrantonio d'Aragona, benemerito
- dice il Doria — per miglioramenti
edilizi, ma nello stesso tempo spoliatore
della città di opere d'arte. Allorché si
verificò una gravissima rottura fra la
nobiltà e il Viceré, il popolo stette dalla
parte del governo. Avvenne, però, che,
mentre, a Napoli, il Viceré minacciava
fulmini e tuoni contro i nobili, i cui
eletti si erano ritirati, per protesta,
dall'amministrazione della città, a Madrid,
la regina reggente approvava l'operato dei
nobili.
E' il secolo dei Borboni a Napoli, una
dinastia che, si voglia o no, vi lasciò
segni non perituri del suo passaggio. Gli
storici disputano ancora sulla funzione
politica che i borboni d'Italia si assunsero
di svolgere, nel Settecento, nel reame
napoletano e Ruggero Moscati, d'accordo col
giudizio di Benedetto Croce, di Giustino
Fortunato, del Paladini e di altri insigni
storici, sostiene che la loro azione fu,
anche per i loro rapporti con la corte di
Roma, positiva, e, nel suo complesso,
progressiva, fin quando le due maggiori
potenze borbo-niche, Francia e Spagna,
sostennero, in Europa, un ruolo di prima
grandezza. Ma la loro crisi influì
negativamente sulle minori potenze
borboniche e,
quindi, su
Napoli, anche se qui, dopo due secoli, era
tornato, coi Borboni, il regno.
Comunque è nel '700 che essa acquista
quello splendore di metropoli europeistica,
che attrasse e innamorò tanti uomini
illustri, visitatori di eccezione, in cerca
delle emozioni del bello naturale e
artistico, come Miguel Cervantes che la
esaltò in celebri versi.
Il regno indipendente — ci fa notare Gino
Doria — la rese emula delle grandi capitali
europee: Parigi, Madrid, Londra, Vienna. Io
penso che, affermando ciò, il più
appassionato storico della sua e nostra
città abbia voluto intendere che Napoli, al
pari di quelle capitali, pur
cosmopolizzandosi, abbia saputo conservare
l'originalità dello spirito della sua gente,
che, insieme col fascino della incomparabile
bellezza del suo ciclo, del suo mare, della
sua terra, e lo splendore della sua arte,
costituisce una delle attrattive più
seducenti per i viaggiatori che vi
approdano, come al porto del loro
desiderio, soprattutto uomini di alta
levatura artistica e intellettuale.
E questa originalità, come nello spirito
del popolo, traluce nel pensiero dei geni
napoletani, primo fra tutti G. B. Vico, che
con la « Scienza nuova » chiude il
passato e apre le porte dell'avvenire, alle
scienze storiche, giuridiche, filosofiche e
filologiche. L'evoluzione dei tempi, le idee
nuove, che compiono il loro corso storico
fatale, hanno avuto, certo, il loro effetto
nella trasformazione di Napoli. Ma le idee
nuove — si sa - per imporsi hanno bisogno di
un propulsore umano; e questo propulsore
umano fu Carlo III, fu il suo ministro
liberale Bernardo Tanucci, il cui maggior
vanto fu — come dice il grande storico
meridionalista Giustino Fortunato - che «
nullum vectigal imposuit ». Non si
sarebbe attuato il cosmopolitismo di Napoli,
se Carlo III avesse ostacolato il corso
delle idee nuove e messo al bando Cartesio,
Hobbes, Voltaire e Locke e avesse vietata al
suo ministro ogni riforma in senso
progressivo. Ingegni, invece, come il
Gravina, l'Argento, il De Gennaro, il
Filangieri, l'Intieri, il Genovesi, il
Brogia, il Galiani, il Doria, il Galanti, il
Giannone, il Signorelli, poterono
liberamente esporre il loro pensiero
d'avanguardia, su tutti i problemi politici,
economici, religiosi, morali. Non
condivido, perciò, l'opinione del Doria su
Carlo III, del quale lo storico tende a
diminuire la personalità e a ridimensionare
i meriti, che, a mio avviso, non si limitano
a quelli edilizi, giacché egli si fece anche
promotore della cultura e dell'arte. La
fondazione dell'Accademia Ercolanense valse
a far sorgere una schiera di illustri
archeologi; finanche i nobili si
convertirono alla cultura ed espressero il
Filangieri e il Palmieri. E il clero,
ignorante e più dedito agli acquisti di beni
terreni che di grazie celesti, e che aveva,
perciò, materializzato la fede, tornò agli
studi e alla pietà religiosa, di cui
divennero esempi luminosi S. Alfonso Maria
dei Liguori e Padre Rocco, il famoso
correttore del popolo napoletano, per
le suppliche del quale Carlo III si decise,
nel 1751, a costruire il reale « Albergo
dei Poveri » su disegno di Ferdinando
Fuga; grandioso edificio, la cui mole noi
ancora ammiriamo. Padre Rocco fondò pure
l'asilo di Vincenzo della Sanità, per le
giovani pericolanti; e a lui, preoccupato
degli sconci morali, degli agguati, delle
rapine e degli assassini, che avvenivano, di
notte, nel buio delle strade, si deve il
primo saggio di illuminazione cittadina.
Sorsero anche altri istituti di assistenza.
E per quanto qualche sociologo abbia
sostenuto che istituzioni del genere
fomentavano l'ozio e il vagabondaggio, non
si può negare che il benefìcio che esse
arrecarono ai poveri di Napoli fu
immensamente superiore agli inconvenienti,
che si poterono lamentare.
La cultura si rinnovò, si estese a strati
più larghi della società. E, quel che è
veramente significativo, specie a Napoli,
dove le donne erano ancora considerate a
tutt'altro destinate che alla cultura, vi si
dedicarono, con entusiasmo e successo,
alcune patrizie, anche se costituirono
un'eccezione. Si noti che, come nella antica
Roma, anche ai tempi di Terenzio, era
considerato mestiere da schiavi, per un
nobile, darsi alle lettere e alle scienze,
così il fanatico pregiudizio era ancora
vivo nel '700 a Napoli.
Si coltivava, invece, molto la musica,
specie quella melodrammatica che trovò il
suo tempio nel San Carlo.
Durante i primi anni del suo regno e finché
visse Filippo V, Carlo III fu sotto la
tutela autoritaria del padre. Tanto che,
scoppiata, nel 1749 la guerra tra Austria e
Spagna e avendo Filippo V, per volere della
moglie Elisabetta, inviato un esercito in
Italia, impose al figlio di rinforzarlo con
truppe napoletane. Ma l'Inghilterra spedì
una flotta nel golfo di Napoli, e re Carlo
fu costretto a ritirarsi dalla guerra, per
timore di perdere il regno. Solo alla morte
del padre divenne sovrano di fatto e potè
manifestare la sua vera personalità. La
madre Elisabetta gli fece sposare, a 22
anni, la bellissima quattordicenne Maria
Amalia di Sassonia, figlia del re di
Polonia, ma la cui bellezza rimase
deturpata, più tardi, dal vaiolo, che le
lasciò quella sua caratteristica
butteratura. Quando lui e la moglie, al
ritorno dalla luna di miele, entrarono in
Napoli, accoltovi festosamente, istituì
l'ordine di S. Gennaro e fece coniare delle
monete d'oro, dette onze, e delle
monete d'argento, dette « mezze pezze »
donde la parola «pezza» del
dialetto napoletano, corruzione di «
pesos » per dire danaro in genere.
Gli nacque l'erede al trono, Filippo, nel
1747, fra il tripudio suo e della madre. Ma
il ragazzo, malaticcio e triste, campò male
fino a 30 anni, allorché morì e fu sepolto
in Santa Chiara, dove la lapide, apposta al
sepolcro, lamenta pateticamente che fu
anche minorato di mente.
Carlo III fu un uomo di costumi severi;
forte e sano di costituzione, amava
molto la caccia e
la pesca. Per questi suoi passatempi, egli
fece costruire il parco di Capodimonte, col
gran bosco, ricco di cacciagione pregiata,
cervi, caprioli, cinghiali, fagiani,
beccafichi ecc., nel 1735; ricostruì la
casina di caccia che già c'era e, poi, nel
1738 la reggia del Medrano, ove sistemò le
collezioni d'arte farnesiane e le fabbriche
delle famose ceramiche e porcellane, che vi
fondò. Anche la regina Maria Amalia fu presa
dalle attrattive della caccia, sull'esempio
del marito.
Il re aveva il senso del grandioso e il
gusto raffinato del bello artistico. Tutto
quello che costruì ne reca, perciò,
l'impronta. Tra l'altro, era felicissimo
nella scelta dei luoghi, dove far sorgere
gli edifici. Il palazzo reale di Capodimonte
e quello di Caserta, con l'incantevole
parco, alle falde di monte Taburno, col
quale volle emulare e superare il castello
di Versailles dei re di Francia e la reggia
di Schonbrun degli Asburgo, affidandosi al
genio del Vanvitelli, perché realizzasse il
suo proposito davvero degno di un grande
monarca, ne sono la prova. Carlo III
ampliò pure il palazzo reale di Napoli e un
altro ne costruì a Castellammare, anch'esso
cinto da bosco per la caccia. Nel 1737, mise
mano al tempio musicale della Napoli
settecentesca, creandovi il « San Carlo
» uno dei più belli e famosi teatri
lirici del mondo. A proposito del « San
Carlo » si racconta un aneddoto, di cui non
si può garantire l'autenticità. Si dice che
il Carasale, costruttore ed impresario del
teatro, si fosse recato ad invitare il re e
la regina, perché si degnassero di
intervenire alla serata inaugurale. E che il
re si fosse lamentato con lui perché non
aveva pensato a un passaggio interno fra la
reggia e il teatro. Il Carasale uscì
mortificato; ma, qualche ora più tardi,
tornò dal re ad annunziargli che il
passaggio interno era stato approntato e
che le loro Maestà potevano, con ogni
comodità, accedere per via interna al
teatro. L'impresario aveva radunato
d'urgenza il maggior numero possibile di
operai e di tecnici; e, una volta scavato il
corridoio, ne aveva tappezzato la volta, le
pareti, il pavimento con arazzi e tappeti,
sicché i sovrani vi passarono come
attraverso una serie di fantasmago-riche
sale, illuminate da torce e candele. A torto
— a me pare - Carlo III è stato accusato di
aver creato a Napoli soltanto un'edilizia di
lusso, per i propri gusti voluttuari. E
l'Albergo dei Poveri? Ma c'è ancora il
grande acquedotto, insigne opera d'arte,
che egli fece costruire nella Valle di
Maddaloni e le cui arcate grandiose
gareggiano, per la arditezza della
costruzione, con quelle degli antichi
acquedotti romani. Un'altra accusa: per le
sue costruzioni, Carlo III si sarebbe
servito di galeotti, di prigionieri e di
schiavi musulmani, senza curarsi, per
risparmiare il danaro dello Stato, di cui
era custode gelosissimo, di giovare ai
disoccupati locali.
E' probabile che il re si sia valso degli
uni e degli altri. Anche per le fabbriche di
Capodimonte, lo si incolpa di aver fatto
venire maestranze e tecnici dalla Sassonia,
la patria della regina. Ma è da ritenere che
ciò si sia verificato solo in un primo
tempo, finché non si formarono le
maestranze locali. Quell'arte, era del tutto
nuova per Napoli. Non va dimenticato,
inoltre, che Carlo III compì molte opere di
pura utilità pubblica: oltre all'«
Albergo dei Poveri » e allo acquedotto
di Maddaloni, già ricordati, fece eseguire
importanti lavori al Molo, aprì le strade
della Marinella e di Mergellina, costruì
l'edificio dell'Immacolatella.
E, nel 1757, dette inizio all'emiciclo al
largo del Mercatello (l'odierna Piazza
Dante) su progetto del Vanvitelli, compiuto,
poi, da Ferdinando IV, nel 1765. Napoli
cambiò volto: ma, per i difetti organici dei
suoi successivi ingrandimenti e
abbellimenti, a meravigliose aree
monumentali, come quella — per citarne una —
difficilmente riscontrabile in altre grandi
città, tra piazza Municipio, il Maschio
Angioino, la Galleria, il « San Carlo », la
reggia del Fontana, la Basilica di S.
Francesco di Paola e Piazza
Plebiscito, si contrappongono angusti
meandri stradali e case e palazzi
oscuri e cadenti, che fanno lamentare
l'assoluta deficienza di un piano regolatore
di integrale sventramento e ricostruzione,
come quello messo in opera, con vantaggio
enorme per il decorso cittadino, con
l'abbattimento di quella fungaia malsana,
covo di malavita, che era tutto il vecchio
rione fra la Corsea e i Guantai Vecchi. Non
si può, dunque, far torto a Carlo III se non
costruì secondo un razionale piano
regolatore, soprattutto se si consideri che
anche oggi, nonostante tutti i progressi
delle tecniche edilizie, un piano
regolatore veramente razionale Napoli non
l'ha, come dimostrano le caotiche
costruzioni dei nuovi quartieri
residenziali di Posillipo alto e, forse,
per un complesso di cause, che non è qui
opportuno enumerare, non lo avrà mai. Ma
dovunque Carlo III ha costruito ha creato
delle zone monumentali, che destano
l'ammirata attenzione degli stranieri e
danno luce e gloria alla città.
A Carlo III successe Ferdinando IV, re
tipicamente napoletano che si trovò a vivere
avvenimenti più grandi di lui, come la
Rivoluzione francese e le invasioni
napoleoniche.
A Carlo III successe Ferdinando IV, che curò
molto lo sviluppo della marina napoletana:
il primo si dedicò particolarmente a quella
mercantile, il secondo alla marina militare.
Si potè formare quella scuola marinaresca
napoletana, da cui uscirono insigni uomini
di mare, come l'audace e leggendario
Capitano Pepe, (il Martinez), distintosi
nella lotta contro i corsari, l'eroico
ammiraglio Francesco Caracciolo, sacrificato
dall'odio di Maria Carolina alla vendetta di
Nelson, il Bausan ed altri. L'aumento dei
commerci marittimi fu enorme, specie per
effetto dell'abolizione dei privilegi di
bandiera e l'istituzione di una compagnia di
assicurazioni marittime. E la città ne
beneficiò.
Il popolo ottenne da Ferdinando IV
l'abolizione del monopolio sui tabacchi, con
gran giubilo dei fumatori. Ma, in compenso,
nel 1774, egli istituì il gioco del lotto —
la bonificiata — a cui il popolo
napoletano era ed è rimasto
appassionatissimo, tanto da avervi creato su
tutto un sistema cabalistico, e che rendeva
allo Stato oltre 560.000 ducati annui. Arte
raffinata di cavar danari al popolo senza
farlo strillare.
Carlo III regnò dal 1737 al 1759. Ferdinando
IV dal 1759 al 1790; ritornò sul trono,
dopo la fuga in Sicilia, nel 1791 e vi
rimase fino al 1806. In questo anno,
nonostante le sciocche vanterie del generale
russo Lascy, divenuto comandante in capo
dell'esercito napoletano, che aveva
promesso al
re di umiliare
Napoleone, il 14 febbraio, i francesi
giunsero alle porte di Napoli, sicché a
Ferdinando e a Maria Carolina non rimase
altro da fare che ritornarsene in Sicilia.
Pietro Colletta descrive vivamente la
confusione e lo sgomento di quelle giornate:
« Chi fuggia, chi nascondevasi, chi andava
incontro al vincitore ».
Ma Ferdinando IV ritornò ancora a Napoli,
dopo il brevissimo regno di Giuseppe
Bonaparte (1806-1808) e la avventura,
conclusasi tragicamente, di Gioacchino
Murat, che vi regnò dal 1808 al 1815, l'anno
fatale del tramonto definitivo dell'astro
di Napoleone. Per Ferdinando IV, il tramonto
fu placido, ma senza gloria. Dal 1815 al
1825, sopravvisse come l'ombra di se stesso;
non fu granché amareggiato dai lutti
familiari: la morte del fratello e quella
della moglie Maria Carolina, per la quale,
anzi, parve tirare un respiro di sollievo,
come chi si scarica di un grosso peso.
Ebbe, però, tempo di infamarsi, rinnegando,
al convegno di Lubiana coi sovrani della
Santa Alleanza, la costituzione ch'egli
aveva concesso dopo i moti rivoluzionari del
1821 e giurata solennemente sul Vangelo
nella chiesa dello Spirito Santo. Morì il 3
gennaio 1825, all'improvviso, a 76 anni di
età, dopo 65 di regno. Fu sepolto in Santa
Chiara.
Napoli e l'Italia Meridionale non
accettarono e subirono passivamente
l'unità italiana. Non solo i cittadini del
Regno delle Due Sicilie e della città di
Napoli cospirarono e combatterono
apertamente per l'ideale nazionale, ma lo
fecero con fede e con spirito di
abnegazione benché convinti che,
sull'altare dell'unità, il Mezzogiorno
d'Italia, che costituiva, con la Sicilia, il
più grande, ricco e bel reame della
Penisola, sarebbe stato chiamato a dare più
che a ricevere e a sacrificare, prima di
tutto, il suo ruolo di regno indipendente, a
carattere nazionale.
Il popolo napoletano odiava la regina Maria
Carolina, l'austriaca, e, per
riflesso, non nutriva eccessiva benevolenza
per Ferdinando IV. Ma odiava più
profondamente i
francesi, teneva, sia pure a suo modo, alla
religione, non era sordo al sentimento di
patria, sia pure campanilisticamente, e,
nella monarchia dei Borboni vedeva non solo
un presidio di indipendenza, ma una
affermazione di nazionalità. Si sfogò,
quindi, con ferocia, nel periodo fra la
vergognosa fuga del re e l'ingresso dei
francesi, contro i liberali, sospetti di
connivenza e di tradimento con essi. E, per
tre giorni, si oppose con le armi alle
truppe di Championnet, con un furore che
trasformò i lazzari in eroi. I
francesi ebbero tali perdite — dice
Vincenzo Cuoco — che, « se al posto di
Championnet si fosse trovato Napoleone,
avrebbe fatto mettere Napoli a ferro e a
fuoco ». Il generale francese si
limitò a imporre
alla città — secondo il costume inaugurato
dalla rivoluzione
— una taglia di
due milioni e mezzo di ducati e una di
quindici milioni alla provincia, da pagarsi,
in mancanza di danaro liquido, anche
in preziosi. Si dice che, ad una
delegazione di napoletani, inviata, per
protestare contro la eccessiva richiesta, a
Championnet, questi avesse risposto, come
l'antico antenato brenno gallico ai
romani: « Guai ai vinti ».
La Repubblica Partenopea fu proclamata nei
primi giorni del 1799. La sua breve, caotica
e difficile esistenza si svolse fra tumulti
e saccheggi, guerriglie fra realisti e
repubblicani, misfatti di briganti e di
lazzari nelle campagne e in città,
l'incredibile caos creato dagli stessi
errori del Direttorio, formato da teorici,
che legiferavano sul modello del Direttorio
francese, quasi che il popolo napoletano -
fa notare il Cuoco
— avesse la
stessa maturità politica e sociale di quello
d'oltr'Alpi. Le diedero il tracollo la
violenta rapida reazione del cardinale
Fabrizio Ruffo, e la resa, dopo eroica
resistenza, dei patrioti a Vigliena,
in seguito ai fatti
solennemente giurati e disinvoltamente
abiurati dal reazionario cardinale, il
quale li consegnò alle vendette infami di
Maria Carolina, di Nelson
e della sua amante Emma
Lyonne, moglie di Hamilton. La tragedia si
concluse con gli ignobili processi e le
esecuzioni di Francesco Caracciolo, di
Domenico Grillo, del Conforti, di tutto il
fior fiore dei repubblicani, di Eleonora de
Fonseca
Pimentel, di
Luisa Sanfelice. Sono fatti a tutti noti,
che appartengono alla storia di tutta la
nazione italiana e aprono il martirologio
del Risorgimento.
Dopo la sfortunata stagione repubblicana si
ebbero i regni napoleonici di Giuseppe e di
Gioacchino Murat.
Nel clima relativamente disteso di questi
due regni si poterono compiere alcune opere
pubbliche importanti. Fu istituito un
Consiglio degli edifici civili, qualcosa
di corrispondente al nostro Genio Civile,
che provvedeva alla organicità dei
programmi di opere pubbliche, in modo che
queste ne risultavano più utili ed
efficienti. La strada, che dal Museo conduce
a Capodimonte, col ponte della Sanità, a cui
fu dato il nome di Corso Napoleone, iniziata
sotto il re Giuseppe, fu terminata da
Gioacchino Murat. Questo re fece anche
costruire il Campo di Marte, ampliare via
Foria, prolungare la via di Posillipo fin
giù a Coroglio e diede piena efficienza
all'Orto Botanico. Sotto di lui,
continuarono anche i lavori già iniziati
sotto Giuseppe Bonaparte, della Specola
Astronomica, disegnata dall'astronomo
Giuseppe Piazzi e modificata da Federico
Zuccari, ma completati solo nel 1819.
Tra le opere educative istituite dai
Napoleonici ricordiamo gli Educandati
femminili, il Conservatorio di S.
Pietro a Maiella, ove vennero riunite
tutte le scuole musicali degli antichi
conservatori napoletani - - (S. Maria di
Loreto, S. Onofrio, Pietà dei Turchini)
—; la Società Reale di Cultura,
divisa in tre Accademie, scienze, arti,
lettere, con un appannaggio annuo di 15.000
ducati. Murat curò, inoltre, la sistemazione
definitiva di Piazza Plebiscito, su un lato
della quale già esisteva, fin dal '700, il
palazzo del Comando Militare; nel 1815, per
amore di simmetria, gli si costruì di fronte
la Foresteria (ora sede della Prefettura).
La Chiesa di S. Francesco di Paola,
prospiciente alla Reggia, fu fatta erigere
per voto da Ferdinando IV, in ringraziamento
del riacquisto del regno. L'architetto
Pietro Bianchi, che la progettò e ne diresse
i lavori, durati dal 1817 al 1846, prese a
modello il Pantheon di Roma e, per il
porticato, utilizzò un colonnato dorico
iniziato da Murat. Sulla piazza, nel 1829,
sorsero le due statue equestri di Carlo di
Borbone, del Canova, e di Ferdinando I, del
Calì.
Un'altra costruzione dell'ultimo periodo
borbonico, fatta sorgere, tra il 1819 e il
1825, allo scopo di riunirvi tutti i
Ministeri, è il palazzo oggi sede del
Municipio Centrale di Napoli, sulla gran
piazza omonima. Sul lato
settentrionale di questa, oltre al
casermone della Gran Guardia, c'era e vi
rimase fino al 1884, il teatro « San
Carlino » sede della commedia dell'arte
napoletana e regno incontrastato della
celebre maschera del Pulcinella. Opera
grandiosa di Ferdinando II, che valorizzò
immensamente la città, fu il Corso Maria
Teresa — oggi Vittorio Emanuele. - Esso si
snoda per due chilometri e mezzo dalla
Cesarea a Piedigrotta; progettato dagli
architetti Alvino, Saponieri, Cangiano,
Gavaudan e Francesconi fu portata a fermine
in un anno, dall'aprile 1852 al maggio
1853. Un rescritto reale vietava che si
costruisse dalla parte del mare; ma,
purtroppo, posteriormente, non è stato più
osservato e la magnifica panoramica ne è
rimasta in parte menomata.
Si era provveduto, così, dal '500 in poi, e
anche prima, a creare un centro cittadino
veramente superbo e degno di ogni grande
metropoli: ma, dietro queste stupende
cortine, restavano (e ancora oggi,
purtroppo, benché il brutto sconcio tenda a
scomparire!) i grossi formicai umani,
agglomerati in rioni sudici dai vicoli
stretti e senza luce, covi di vizio e di
malattie.
Anche Ferdinando II, fece, dunque, qualcosa
di buono; non fu, comunque, quel re
lazzarone, che ci ha presentato
l'iconografia sabauda, secondo la quale così
lo avrebbe definito la moglie, la regina
Maria Cristina, ch'era una Savoia, né un re
inetto. E se la sua politica fu tutta un
cumulo di errori, perché non seppe
comprendere i tempi nuovi, assai saggia fu
la sua amministrazione, che procacciò la
rinascita economica della capitale. Quanto,
poi, alla idea liberale, che gli storiografi
del pie-montesismo propalano di essere stata
a noi importata dal Nord, essa è sorta,
invece, qua, a Napoli e nel Sud, per opera,
soprattutto, dei due Napoleonidi, che, per
primi, si voglia o no riconoscere,
introdussero quell'idea nella legislazione
dei loro regni e si ispirarono al
liberalismo di Stato. Quali e quante non
furono, infatti, le iniziative liberali di
Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat?
L'Istituto di incoraggiamento delle
industrie (1806); la Camera Consultiva
di Commercio (1808); le Società
Economiche della Provincia (1812). E,
per la formazione tecnica artistica e
professionale, la Scuola d'arti e
mestieri (1810); e, un anno dopo, il
tentativo di costituire addirittura i
Consigli delle arti e mestieri, per la
loro conservazione e per il loro sviluppo.
E Ferdinando II, nel biennio 1832-1834,
istituì a Napoli la Compagnia Sebezie per
le Industrie, la Società enologica,
la Società Industriale
Partenopea, la Economica
Commerciale, con un capitale
complessivo e, per quei tempi, ingente, di
cinque milioni di ducati. Nel 1838-1839, il
Banco di San Giacomo, sorto dalla
fusione dei sette antichi banchi napoletani,
si trasformò in Banco di Napoli; e,
nello stesso 1838, si inaugurò il primo
tronco ferroviario, da Napoli al Granatello,
prolungato in seguito fino a Castellammare
e a Caserta.
Le principali vie di Napoli, Toledo, Ghiaia,
il Piliero, furono illuminate a gas, nel
1840. Le fabbriche di tessuti e gli
zuccherifici di Sarno, le cartiere del Liri,
lo stabilimento di Pietrarsa per le
forniture all'esercito napoletano e alla
guarnigione austriaca di residenza, che era
a carico del governo napoletano, dimostrano
una certa vitalità nel campo delle industrie
e dei commerci. Non si vuole con ciò
sostenere che industrie e commerci vi
fossero molto sviluppati. Ma, se non è
attendibile il giudizio degli storiografi
borbonici, non è neppure da prendere per
verità sacrosanta la conclusione negativa, a
cui pervengono quelli ostili miranti a
negare anche quel tanto di buono che i
Borboni hanno fatto. Le difficoltà complesse
di creare nel Sud una grande industria sono
an-cor oggi non del tutto superate.
Pessimo era, invece, lo stato finanziario
di Napoli. Le spese per il solo esercito
ammontavano ad oltre 85.000 ducati e si
pensi con quanto malanimo il popolo
sopportava questo sperpero, per un esercito
che non valeva niente e non era sentito da
alcuno come presidio della nazione. Si dovè
ricorrere nel 1821 a un prestito forzoso di
tre milioni di ducati con l'imposizione ai
commercianti e ai ceti abbienti di
sottoscrivere al massimo; e se, nel 1823,
fu abolita la scala franca, altri
balzelli colpirono i generi coloniali, il
pesce secco e salato, il macinato:
imposizione, quest'ultima, tanto iniqua, da
indurre Ferdinando II, quando giunse al
trono - ed è tutto dire! — a sopprimerla. E
ricordiamo qui,
non solo incidentalmente, che la tassa sul
macinato ha costituito a lungo un
incubo per il popolo italiano, che la dovè
subire a denti stretti, anche dopo l'Unità,
quando Quintino Sella la ripristinò per
riportare al pareggio il dissestatissimo
bilancio dello Stato unitario. Altrettanto
iniquo fu il dazio sui libri esteri:
imposto, questo, forse più per il retrivo
spirito reazionario degli ultimi Borboni,
nemici della cultura e paurosi delle idee
nuove, (Ferdinando II odiava i letterati,
scrittori e giornalisti, trattandoli, con
disprezzo, da « pennaiuoli ») che
per esigenze strettamente finanziarie. E fu
questo odio per gl'intellettuali uno degli
errori più gravi di Ferdinando II: che, se
non si fosse alienati gli uomini di pensiero
e avesse saputo raccoglierli intorno a sé,
per farsi da essi consigliare, il corso
degli avvenimenti politici italiani avrebbe
forse preso un altro svolto, in senso
favorevole alla sua dinastia. Preferì,
invece, poggiarsi sulla polizia, che
accrebbe enormemente di numero e di potere,
per la quale si arrivò alla spesa enorme di
oltre 300.000 ducati annui, senza tener
conto che se si arrestano le persone, è
pazzesco presumere di arrestare le idee.
In compenso, Napoli, apparentemente, era una
città ricca e gaia: e, agli stranieri, che
vi affluivano in gran numero, né soltanto
comuni mortali, ma uomini grandi, come
Stendhal, Dumas, Gregorovius, appariva come
la Mecca del piacere, sfolgorante di
bellezza, di folclore, di attrattive
incomparabili, come i suoi canti, le sue
danze, le sue musiche, i suoi usi e costumi,
le feste sacre e profane. Pittori e poeti vi
trovavano fonti inesauribili di
ispirazione. Il movimento dei forestieri era
tale che non si trovavano posti negli
alberghi, nelle locande, nelle pensioni
private. Locandieri, camerieri, guide,
vetturini, facchini, fabbricanti e venditori
di « souvenirs » e di cianfrusaglie,
procacciatori di clienti alle donne di vita
facevano affari, che, onesti o disonesti,
mitigavano la miseria delle classi basse del
popolo.
La cultura era in piena decadenza. Costretti
a fuggire da Napoli tutti i colpiti della
rivoluzione del 1820-1821, era toccata la
stessa sorte di Vincenzo Cuoco ai poeti
Dante Gabriele Rossetti e Alessandro Poerio,
che andò a morire nella difesa di Venezia.
Fuoriuscito, per necessità, anche lo
storico Pietro Colletta. L'Università era
dominata dal clero, con insegnanti magari
ottimi nelle discipline scientifiche, ma
reazio-nari e contrari ad ogni novità. Solo
le scuole private, quella di Basilio Può ti,
il purista che faceva della dignità e
purezza della nostra lingua una questione
di prestigio e di sentimento nazionale, e,
in grado assai maggiore, quella di Francesco
De Sanctis formavano la gioventù alla luce
delle nuove idee politiche e morali e alla
nuova concezione della filosofìa della
storia, che è quanto dire della vita. I loro
insegnamenti accesero e mantennero viva la
fiaccola della fede liberale nel
Risorgimento della
Nazione Italia,
che Dante, Petrarca e Machiavelli avevano
preconizzata.
Allontanati da sé gli intellettuali, i
liberali e gli scrittori, con a capo Luigi
Settembrini, che lanciò la famosa «
Protesta »; messa in sospetto, per i
suoi gusti demagogici, l'aristocrazia, che
— del resto - - non era più una classe
chiusa in sé, nell'orgoglio del sangue e dei
privilegi, perché si era venuta
abbondantemente amalgamando con la
borghesia del commercio e delle industrie,
delle professioni e delle arti; sapendo di
aver contro gran parte della borghesia,
quella cittadina, perché la più vessata dal
fisco; a Ferdinando II — strano, in verità!
— rimase attaccato il ceto popolare, se non
per affetto al sovrano, che, comunque, era
sempre un napoletano, di nascita e di
costumi, (come si compiaceva ostentarlo nei
suoi contatti col popolo, con la sua
bonarietà alquanto istrionica) certo per
odio contro i liberali, dipinti nelle chiese
dai preti sanfedisti come nemici dichiarati
di Cristo e della sua religione. Anche tra
la borghesia, specie fra quella rurale, che
si veniva sostituendo nel possesso della
terra ai feudatari, non erano scarse le
simpatie per il re, per evidenti ragioni di
interesse.
Ferdinando II fu preceduto sul trono dal
padre Francesco I (1825-30), il quale è
rimasto nella storia come il peggiore re
fra tutti i Borboni. Non c'è vizio o difetto
che non avesse: maniaco, forse perché
luetico, non era del tutto ignorante, ma si
comportava sempre da stolto. Furbo,
vendicativo, malizioso, falso, si divertiva
a giocar brutti tiri ai cortigiani. Si narra
che, una volta, ritornato dalla Spagna,
dove si era recato in occasione delle
nozze della figlia con Ferdinando VII,
fingesse di fare dei munifici donativi di
oggetti preziosi, per gratitudine, ai
cortigiani spagnuoli. Ebbene: quegli oggetti
erano nient'altro che vili cianfrusaglie.
Durante il suo quinquennio, le cose del
regno andarono alla malora. Lo riconobbe,
per primo, il figlio Ferdinando, nel suo
discorso di successione. « Non ignoriamo
-
disse - esservi piaghe profonde che
meritano esser curate ». Qualcosa,
infatti, fece. Allegerì l'erario, diminuendo
di 180.000 ducati la sua lista civile. Aprì
le cacce a lui riservate, permise agli
esuli, che glielo chiedessero con supplica,
di ritornare in patria, tranne che al
generale Carrascosa, da lui considerato un
traditore. Rifiutò, invece, di rientrare a
quelle condizioni il generale Guglielmo
Pepe, perché - disse - « la libertà è
inconciliabile con i Barboni ». A
proposito di libertà, Ferdinando II ne aveva
un concetto tutto personale: la confondeva
col patriarcalismo. Diceva, infatti, forse
con sincerità: « A fare la felicità dei
miei sudditi, basto io ». Ma le sorti
dei popoli non possono, dipendere dalla
bontà dei principi, come insegnano Nicolo
Machiavelli e Vittorio Alfieri, ma solo
dalle conquiste statutarie, le sole che
possano rendere sicure le libertà
costituzionali. Questo, Ferdinando non volle
comprenderlo; e fu, perciò, restio a
concedere la costituzione, che, solo
sotto l'incalzare
degli eventi, concesse, il 10 febbraio 1848,
giurandola sul Vangelo, come l'avo
Ferdinando I, e, forse, già predisposto a
rinnegarla, alla prima occasione. I
napoletani andarono in delirio, applaudivano
al re anche quelli che non capivano che cosa
il re avesse concesso. Ma si venne presto al
dissidio, fra Parlamento e Corona, sulla
formula di giuramento dei deputati. Il re la
trovò troppo giacobina e pretese che fosse
modificata. I deputati si opposero col
rifiuto più netto. Il popolo, che si era
montato al grido di « Viva la libertà!
Viva la Costituzione! » si schierò
contro il sovrano. Barricate furono
innalzate, a via Toledo, a San Ferdinando.
Da una parte il popolo, dall'altra i
soldati. La prima fucilata, sparata non si
sa da chi, fu il fatale segnale della
mischia atroce. Alcuni storici, come il
Paladino, il Fortunato ed altri han tentato
di negare o, almeno, di diminuire la
responsabilità del re negli eccidi del 14 e
15 maggio. Chi ordinò l'uscita in armi degli
Svizzeri dalla caserma? Furono gli
Svizzeri, infatti, a precipitare la
situazione, non solo uccidendo, ma
devastando e saccheggiando. Cataste di morti
e di feriti giacquero per le strade, specie
a Piazza della Carità, a Santa Brigida, a
Toledo. E, (fatto raccapricciante) una parte
di quel popolo, certo la peggiore, che si
era mosso per difendere la libertà, si unì
agli Svizzeri nelle rapine, nei saccheggi,
nelle devastazioni. I deputati, che non
riuscirono a oltrepassare i confini, furono
arrestati e deportati. I più
rappresentativi, Settembrini, Imbriani,
Savarese, Poerio, Nisco, Agresti ed altri
furono condannati all'ergastolo. Il re
prevalse, ma il popolo si era ormai staccato
da lui ed egli capì che l'abisso non si
sarebbe più colmato. La seconda moglie,
Maria Teresa, anch'essa austriaca, come
Maria Carolina, l'infausta moglie dell'avo
Ferdinando IV, dominata da preti e gesuiti
intransigentemente reazionari, che,
attraverso la regina, dominavano anche il
re, lo aizzava alla crudeltà. « Casticate
— gli diceva — castìcate ». (Con
questo nomignolo « la regina casticate »
è passata alla storia).
Ci fu, poi, nel 1856, l'attentato del
soldato Agesilao Milano. Il re avrebbe
voluto mostrarsi clemente con lui, ma
prevalse la cricca della moglie e il
poveraccio — un calabrese - - fu
impiccato. Il popolo applaudì al re! Chi
può mai capire la mutevole anima delle
masse? Dall'Osanna al « Crucifige
» non c'è che un passo. Anche la
spedizione di Sapri - 1857 - guidata da
Carlo Pisacane e dal Nicotera, fallì
miseramente con la strage di Padula, per il
comportamento ostile delle popolazioni. Ma
ormai si avvicinava il triste tramonto
dell'ultimo re, veramente tale, del regno
di Napoli. L'ultima sua gioia fu il
fidanzamento del figlio, lo scialbo
Francesco II, con Maria Sofia di Baviera.
Morì a 49 anni, il 22 maggio 1859.
Se mettiamo, sulle due coppe di una
bilancia, il bene e il male operati da
Ferdinando, la bilancia sta in bilico?
Salvatore Di Giacomo, che non fu, certo, un
reazionario, ci ha lasciato di Ferdinando
II un ritratto, quale si converrebbe ad
ogni più grande sovrano. E forse per questo,
al gentile poeta di Napoli, Vittorio
Emanuele III di Savoia rifiutò il
laticlavio, giudicandone insufficienti i
meriti. Scrive Di Giacomo: « Ferdinando
II è frugale, sollecito, laborioso, non
cacce, non feste, non corse, ma costruzioni
di strade, di edifizi comunali, di
lazzaretti, di case per bagni minerali, di
prigioni col novello sistema penitenziario,
di scuole per sordomuti, di ospizi ed asili
per indigenti e orfani, o folli, o reietti;
e istituzioni di nuove accademie, nuove
cattedre, nuovi collegi e licei; e
bonifiche di terre paludose, colture di
terre boscose, edificazioni di ponti di
ferro e di fabbrica, fanali a gas, fari alla
Flynel, compagnie di pompieri, stipulazioni
di trattati di commercio, guardia civica e
guardia d'onore. A sue spese ha rifatto la
reggia, ove sono profusi meglio di due
milioni del suo; con liberalità regale ha
speso per i palazzi di Palermo, di Caserta,
di Capodimonte, di Quisisana ».
Se, a tutto ciò che operò in Napoli e nel
regno, si aggiunge il prestigio, che il suo
regno godè in tutti gli Stati Europei, tanto
che la sua oculata e dignitosa politica
estera seppe attrarre a Napoli capitali
inglesi, francesi, tedeschi, belgi,
svizzeri, coi quali si avviarono, in
Campania, fonderie, stabilimenti meccanici,
tessiture, filature, tintorie, fabbriche di
seta, impianti di gas illuminante;
fabbriche di armi e di polveri; cantieri
navali; pastifici e industrie dolciarie; e
poteron rifiorire gli artigianali dei
guanti, delle scarpe, delle passamanerie in
oro, della falegnameria, del corallo, del
cuoio, della carrozzeria e della
tipografia; io penso che la bilancia del
bene e del male si equilibri perfettamente.
Il giudizio della storia su Fer-dinando II
è, dunque, tutto da rivedere.
Toccò a re Francesco II — 1859-1861 - - il
triste compito di chiudere la serie dei re
di Borbone a Napoli. Inutilmente egli elargì
-- nel 1860 -la terza carta costituzionale
al regno. Dopo due rinnegamenti, nessuno gli
credette. E fu come una inutile, tardiva
inalazione di
ossigeno a un agonizzante in exfremis.
All'avvicinarsi di Garibaldi, si ritirò con
l'esercito sulla linea del Volturno.
Sconfitto, si rifugiò nella fortezza di
Gaeta. E mentre, a Napoli, intorno all'Eroe-dittatore,
mestavano i turbolenti tribuni di Mazzini e
i callidi emissari di Cavour, Gaeta, sui cui
spalti apparve a combattere, impavida come
un'amazzone, la regina Maria Sofia, la
flotta e l'esercito di Vittorio Emanuele II
- - quest'ultimo aveva violato lo Stato
Pontificio per accorrere velocemente a
Napoli ad imprimere alla conquista il
marchio sabaudo, cancellando quello
autentico garibaldino -- costringevano
l'ultima città borbonica alla
capitolazione. Francesco II e Maria Sofia,
con una ridottissima corte, si imbarcarono
su una nave francese, il 13 febbraio 1861.
Sbarcarono a Terracina e proseguirono per
Roma. Poi, li coprì l'oscurità. Maria Sofia
se ne tornò in Baviera, dove visse fino al
1925. Francesco
II
morì nel 1894. |