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La “Conquista Regia” (1861)

II Parlamento riunitosi a Torino all'inizio del 1861 era finalmente espressione di un nuovo regno di 22 milioni di abitanti, esteso, esclusa Roma e Venezia, dalle Alpi alla Sicilia. Ma, sostanzialmente, l'« unità » nazionale restava una formula giuridica, per le radicali differenze e divergenze tra regioni settentrionali e meridionali: due diversi livelli socio­economici, due diversi tipi di civiltà.

Pienamente consapevole dei gravi problemi che il governo italiano sarebbe stato costretto ad affrontare con l'annessione dei territori meri­dionali, Cavour non avrebbe voluto sacrificare a questa poco redditizia espansione il piano di tranquillo sviluppo programmato per le regioni centrosettentrionali. La campagna militare nel Mezzogiorno fu quindi più un atto di forza dei garibaldini che una scelta ragionata del partito moderato al governo. Ma della difficoltà dei rapporti con il meridione della penisola si erano resi conto anche i « mille » sbarcati in Sicilia l'11 maggio 1860, scandalizzati dalle sconcertanti reazioni delle masse popolari, così poco sensibili agli ideali del riscatto nazionale. Fatto è che per la quasi totalità delle popolazioni meridionali, termini quali « Italia unita », « pa­tria libera e indipendente » non erano che semplici espressioni verbali. Unica forma di « libertà », intellegibile da una massa abbrutita dal sot­tosviluppo economico e da un asservimenlo sociale ancora feudale, era quella che promettesse l'emancipazione dalla miseria e dalle angherie dei potenti. Confortati sulle prime dai proclami « rivoluzionari » garibaldini, i meridionali credettero di poter identificare il loro concetto di libertà con quello dichiarato dai piemontesi, ma l'alleanza rapidamente instaura­tasi tra aristocrazia terriera meridionale e borghesia conservatrice setten­trionale avrebbe frustrato ben presto ogni loro speranza.

L'atteggiamento verso il Meridione è in questo periodo il banco di prova per gli orientamenti politici dello Stato unitario: mentre nelle in­tenzioni di Garibaldi e dei democratici, protagonisti della « rivoluzione » meridionale, il Sud avrebbe dovuto avere un assetto amministrativo attento alle particolari fisionomie regionali, per Cavour e le forze politiche moderate era irrinunciabile l'immediata ed incondizionata annessione. L'11 ottobre del 1860 il governo otteneva l'assenso del Parlamento ad indire in tutto il Sud gli appositi plebisciti, che, tenuti a 10 giorni di distanza, il 21, si espressero per l'annessione a maggioranza assoluta. La battaglia era così vinta dai moderati, subito preoccupati di improntare la loro politica a prin­cìpi di rigido centralismo. Via via estese ai nuovi territori, nonostante l'opposizione spesso vivace delle popolazioni, le leggi piemontesi imposero al resto d'Italia il sistema giuridico ed amministrativo ricalcato a suo tempo sul modello francese, senza preoccuparsi, come invece sarebbe stato opportuno, di apportare le modifiche necessarie ad integrarlo con gli ordinamenti vigenti nelle altre regioni del paese. « Tanto più che le province meridionali — sosteneva Crispj— erano di gran lunga più progredite di quelle del Nord in materia di codici e di amministrazioni ».

Una soluzione federalistica, come aveva ad esempio proposto il Cattaneo, avrebbe permesso alle diverse esigenze locali di estrinsecarsi libe­ramente ed ai problemi specifici di trovare più facilmente e celermente soluzione. In una prospettiva più moderata, nel 1860 i ministri Minghetti e Farini avevano presentato, ma senza fortuna, un loro progetto di de­centramento amministrativo che prevedeva l'istituzione di sei regioni in rappresentanza degli antichi stati preunitari. Simili iniziative erano però destinate a trovare la più ferma opposizione nella maggior parte degli uomini di governo, consapevoli della estrema debolezza, specie nel Meri­dione, della coscienza nazionale e timorosi di sancire con l'autonomia re­gionale il ritorno alla disgregazione del paese. Di qui gli sforzi del governo per unificare al più presto l'amministrazione nazionale. Ma al di là di ogni comprensibile desiderio di rafforzare la compagine statale, la centralizza­zione assunse caratteri assai gravosi e contribuì a diffondere il convinci­mento che l'unificazione si fosse in sostanza ridotta ad una « conquista » operata dal Piemonte ai danni degli altri stati, prima indipendenti.

Particolarmente le regioni meridionali, caratterizzate da tradizioni assai differenti da quelle piemontesi per le diverse strutture sociali ed economiche, lamentarono la loro subordinazione a Torino. Iniziava aspra ed aperta la polemica del Sud contro il governo, accusato di colonialismo e trascuratezza; critiche ribadite anche da osservatori politici non meri­dionali. Ben lungi dall'aver goduto libertà e floridezza, il regno delle Due Sicilie si era comunque retto fino all'unità su un suo pur precario equi­librio, dove il paternalismo dei Borboni era riuscito ad evitare l'aperto scontento delle popolazioni. Ma l'« annessione » sconvolse questo equi­librio e tutte le contraddizioni del precedente sistema vennero tumul­tuosamente a galla, mentre la politica finanziaria unitaria contribuiva al tracollo dell'economia meridionale. Il sistema tributario borbonico, tra i più miti d'Europa, era stato calibrato infatti sulle esigenze dell'economia agricola locale: ma gli statisti piemontesi, noncuranti del principio che un paese tollera solo il regime tributario più adatto alla sua struttura eco­nomica, trasferirono tale e quale nel Sud, senza alcuna modifica, il loro intricato e gravoso sistema fiscale, colpendo pesantemente la proprietà fondiaria e l'agricoltura.

Prima dell'unificazione inoltre il debito pubblico del regno di Sar­degna era due volte quello del Napoletano e della Sicilia: una legge del­l'agosto 1861, unificando i debiti pubblici, scaricò sul Meridione un onere che non gli competeva, proprio nel momento in cui l'economia del Sud era messa a dura prova dalla caduta dei prezzi nell'agricoltura e nelle industrie artigiane e domestiche. Giova ricordare a questo proposito che non era poi tanto grande, al momento dell'unità, lo scarto tra l'industria del Nord e quella del Sud. Pur immobilistico e senza reali prospettive future, l'apparato industriale creato dai Borboni aveva una sua relativa efficienza, grazie a una idonea politica fiscale. Ma quando la tariffa doganale piemon­tese, estesa nell'ottobre 1860 alle regioni meridionali, abbassò dell'80% i dazi protettivi senza apprestare i provvedimenti necessari a permettere un passaggio indolore da un sistema tributario all'altro, la già asfìttica indu­stria meridionale fu definitivamente travolta.

Accanto a queste specifiche accuse risuonarono frequenti nel primo decennio postunitario i rimproveri per la diffidenza e la superiorità osten­tate dai « conquistatori » nei confronti delle popolazioni del Sud, escluse a priori da appalti, uffici, decisioni operative, tutte monopolizzate da centri direzionali settentrionali.

Il problema era aggravato dalla reciproca ignoranza e ci sarebbero vo­luti decenni per superarla almeno parzialmente. Rinchiusi nel limbo del­l'isolamento borbonico i meridionali avevano ignorato pressoché tutto della comune patria; non diversamente dai concittadini del Nord ancora incapaci, per disinformazione, di soddisfacenti analisi ed interpretazioni della realtà meridionale. Il Mezzogiorno, per la maggior parte di questi « altri » italiani, era sempre l'antico « giardino delle Esperidi » della reto­rica classicista, intristito da un secolare malgoverno ma pronto a rifio­rire, materialmente e spiritualmente, al soffio rigeneratore delle libere istituzioni civili. Un sogno destinato alla più triste disillusione. Ma fin­ché durava, e durò a lungo, avrebbe impedito che i problemi del Mezzo­giorno fossero considerati con ottica realistica, l'unica dalla quale poteva prendere avvio un appropriato programma di riforme.

Tra Reazione e Rivoluzione (1861 – 1866)

Lo scotto da pagare per la fortunosa e frettolosa unificazione nazio­nale fu in buona parte costituito dalle ribellioni e dai tumulti nelle province meridionali, già serpeggianti nel corso del processo unitario, poi proseguiti per più di un lustro.

Per interpretare correttamente il valore e la funzione delle sollevazioni rurali meridionali, che tra il 1860 e il 1866 ondeggiano ambiguamente tra genuini impulsi rivoluzionari e rigurgiti reazionari, bisogna tener conto delle particolari caratteristiche dello strato sociale, nel nostro caso la massa contadina, di cui esse presero vita. Una plebe vessata e sfruttata, prigio­niera del sottosviluppo economico, analfabeta, fortemente influenzata dal clero filoborbonico, non era certo in condizione di poter comprendere, né tanto meno condividere, le istanze liberali e nazionali che muovevano i patrioti del Nord. La sua rivolta — facilmente strumentalizzabile da chiunque sapesse far scoccare la scintilla al momento opportuno — si esprimeva ed esauriva soltanto con esplosioni di furore contro il « padrone » del momento e contro i suoi simboli. Si manifestava col saccheggio delle case benestanti, l'occupazione delle terre, l'incendio del municipio, dei ruoli delle imposte e dei registri catastali. Inefficace quindi e rapida ad esaurirsi.

Ma senza l'appoggio di questa massa tumultuosa difficilmente l'im­presa di Garibaldi nel Sud avrebbe conosciuto il successo che le arrise. La plebe rurale è pronta alla lotta contro il Borbone anche se gridando « viva l'Italia » si richiama a rivendicazioni concrete, all'abolizione dei dazi e delle imposte, alla distribuzione delle terre soprattutto. Le bande di contadini che si pongono al seguito dei garibaldini sono persuase di aver trovato nel « generale » colui che le aiuterà a riscattarsi dalla vecchia classe feudale-borghese. E Garibaldi all'inizio sembrò venir incontro alle loro aspirazioni: il 2 giugno 1860, con decreto davvero «rivoluzionario», ordinava la ripartizione delle terre demaniali mediante sorteggio tra tutti i capifa-miglia contadini che ne fossero sprovvisti. Ma il sogno è di breve durata che presto, conclusasi l'alleanza con i proprietari terrieri locali, saranno i gari­baldini stessi a reprimere severamente il moto insurrezionale contadino, scatenatosi in eccidi e occupazioni di terre. Vengono aboliti i decreti a favore del popolo ed è sciolto d'autorità l'esercito dei volontari meridionali. La disillusione è grande, la reazione immediata: abbandonati i piemontesi, i contadini del Sud tornano ad abbracciare la causa della dinastia borbo­nica, idealizzata nel ricordo, perché intervenga ad eliminare i soprusi attuali. Non più « viva Garibaldi » per le vie e nelle piazze, ma «viva re Francesco».

La ribellione divampa nell'estate-autunno 1860, specie in occasione del plebiscito per l'annessione del Meridione al resto d'Italia (21 ottobre).

Solo alla fine dell'anno il movimento sarà domato, col massiccio intervento dell'esercito per piegare regioni definite da Cavour « la parte più debole e corrotta d'Italia », bisognosa di un rigido governo militare ad ogni segno di eccessiva irrequietezza. Ma la repressione non impedì che migliaia di individui si dessero alla macchia, nel senso letterale del termine, co­stituendo nelle fitte boscaglie, allora estese in vaste zone del Meridione, numerose ed agguerrite bande brigantesche.

Nel triennio 1860-1863 il brigantaggio rappresenta il maggior episodio di ribellismo interno dell'Italia moderna, causato da motivi molteplici, spesso concomitanti, a volte contrapposti. Da un lato fu senz'altro lo stru­mento di cui intendeva servirsi la reazione clericale e borbonica nella spe­ranza di sollevare la popolazione contro gli « invasori » piemontesi e rista­bilire il proprio potere. Ma dall'altro non si può negare che sia stato an­che espressione di genuine istanze popolari. A nuclei primitivi di sban­dati del disciolto esercito borbonico, renitenti alla leva e disertori, ex ga­leotti e semplici avventurieri, si unirono infatti gruppi di contadini spinti alla ribellione dalla ventata rivoluzionaria che aveva scosso l'immobilismo delle plaghe meridionali.

Da Roma, dove aveva trovato rifugio ed aiuto, l'ex re di Napoli, Fran­cesco di Borbone, brigava per strumentalizzare a fini eversivi il movi­mento brigantesco, introducendovi i suoi agenti ed allettandolo con elar­gizioni in danaro e la promessa dell'asilo politico in territorio vaticano. Il 1861-62 segna il massimo sviluppo del brigantaggio: Carmine Crocco, capo assoluto delle bande contadine, si proclama generale di re Francesco e inizia una serie di scorrerie in Puglia, Calabria, Basilicata. Ovunque i paesi lo accolgono festanti e la popolazione gli si affianca, quando addirit­tura non lo precede, nell'incendiare municipi e case di proprietari e nel far giustizia sommaria di questi. Il tutto accompagnato dalla celebrazione di solenni Te Deum e da calorose ovazioni all'indirizzo del re Borbone. Né c'è da stupirsene. Al clero i briganti appaiono come i difensori della dinastia legittima e della Chiesa contro le prevaricazioni dei piemontesi, liberali miscredenti, cui non si perdonava di aver voluto introdurre nel Sud la legislazione che secolarizzava i beni ecclesiastici. I contadini, da parte loro, innalzano il brigante a simbolo vendicatore delle tante ingiustizie sofferte per mano dei rappresentanti del potere. Una componente questa che si è mantenuta, tipica del malessere meridionale, fin in epoca mo­derna e può spiegarci la « complicità » delle popolazioni locali con il fuori­legge siciliano o calabrese. Il fenomeno del brigantaggio affondava dunque le sue radici nella disgregazione della società meridionale, come tra l'altro non mancò di far osservare la relazione della commissione parlamentare d'inchiesta, che nel gennaio del 1863 era partita da Genova alla volta di Napoli.

Tra i rimedi a lunga scadenza la relazione suggeriva « la diffusione del­l'istruzione pubblica, l'affrancazione della terra, l'equa composizione delle questioni demaniali, la costruzione di strade, l'attivazione dei lavori pub­blici ». Tutti quei miglioramenti sociali necessari ad elevare la plebe rurale a dignità di popolo cosciente. Ma in attesa che maturassero le misure pro­poste, la commissione d'inchiesta consigliava di insistere con la legge marziale. A questo provvide la legge Pica del 15 agosto 1863, permettendo con lo stadio d'assedio l'occupazione militare dei territori infestati dai briganti. Nel 1866 il brigantaggio è finito come movimento di massa: ma per domarlo si erano dovuti concentrare nel Meridione ben 120.000 soldati, quasi la metà dell'esercito nazionale. Né d'altra parte, vinto il brigantaggio, erano venuti meno i motivi d'ordine sociale ed economico che l'avevano prodotto.

Diretta conseguenza di questo sanguinoso periodo fu l'acuirsi della reciproca diffidenza tra le « due Italie ». Nessuna meraviglia allora se negli anni successivi il Meridione, specie la Sicilia, sarà teatro di periodiche esplosioni di malcontento popolare, spesso abilmente manovrato da cle­ricali e borbonici, contro i rappresentanti dell'autorità governativa.

Ma a queste stesse masse meridionali esasperate guardavano con spe­ranza i primi nuclei di internazionalisti anarchici, indottrinati da Michele Bakunin, il rivoluzionario russo approdato in Italia nel 1864, che aveva trovato numerosi seguaci a Napoli e nel Mezzogiorno. Saranno i contadini dell'Italia meridionale a dare impulso alla rivoluzione sociale in tutta Italia, sostenevano gli anarchici, organizzando sotto le loro bandiere la prima opposizione popolare italiana.

Il Primo Meridionalismo (1861 – 1887)

Superato con la integrazione « fisica » delle regioni meridionali il primo grosso trauma postunitario e portata a compimento con l'acquisto di Roma e Venezia l'unità nazionale, gli uomini che reggono 1 Italia de­vono rimboccarsi le maniche dinanzi alla serie di problemi che affliggono il giovane stato « in rodaggio ». In primo luogo il risanamento del gravis­simo disavanzo della finanza pubblica, dissestata dalle spese per le guerre risorgimentali: il deficit del bilancio tocca le sue punte più alte nel 1866 e solo a partire dal 1869 riuscirà a risalire lentamente la china fino al pa­reggio, con una ferrea politica finanziaria che inasprisce al massimo il sistema fiscale. Tra il 1862 ed il 1880 le entrate dello Stato raddoppiano, ma in proporzione le regioni meridionali sono più delle altre spremute dalla imposizione tributaria.

Il vero grosso problema del Mezzogiorno resta però la questione della terra. Vecchio di duemila anni, appena scalfito dalla soppressione giuridica della feudalità, il latifondo meridionale sembra destinato a ricostituirsi costantemente attorno ai pochi possessori di capitali. Poco serviva infatti dividerlo in lotti da cedere a prezzi moderati ai contadini se questi, sprov­visti dei mezzi necessari per culture remunerative, si vedevano prima o poi costretti a rivenderli. La grande legge eversiva della feudalità aveva spartito nel 1806 più di un terzo del demanio feudale e comunale tra oltre 230.000 contadini: da allora in poi i vari tentativi di quotizzazione della terra si riveleranno, nel volgere di pochi anni, un fallimento.

Il nuovo stato unitario ci riprovò con la vendita dei beni fondiari con­fiscati agli enti religiosi ed alle istituzioni di beneficenza ecclesiastiche. Tra il 1861 ed il 1867 furono incamerati e messi all'asta, divisi in piccole quote, circa un milione di ettari che la legge istitutiva del 1867, per soddi­sfare le esigenze dei contadini poveri desiderosi di acquistare un appezza­mento, prescriveva di cedere a pagamento dilazionato. Ma unico risultato fu quello di favorire i possessori di capitali e di veder conseguentemente ampliato il numero e le estensioni dei latifondi. Inoltre, nella generale corsa all'acquisto delle terre, la classe agiata spese oltre 600 milioni in tutto il Mezzogiorno, danaro distolto da più utili investimenti produttivi per il rammodernamento dell'agricoltura locale. Col fallire dei primi rimedi tentati, si accrebbe da parte di studiosi e politici l'attenzione verso i pro­blemi del Sud. Non sembrava logico, sopiti i tumulti generati dalla unificazione e con tutto l'organismo nazionale in piena attività ed efficienza, che il Meridione continuasse a ristagnare nell'immobilismo del suo sotto­sviluppo. Nasce così la « questione meridionale », intorno alla metà degli anni 70, con la prima saggistica preoccupata di studiare le cause della arretratezza del Sud e di proporre i rimedi. Si levano le prime voci a rivendicare gli interessi, fin qui conculcati, di quelle disgraziate regioni e la loro denuncia, pur se non coglie a fondo i reali termini della questione, serve a darle una coerente impostazione.

Pasquale Villari, maestro di questa prima generazione di meridionalisti ammonisce la borghesia italiana che solo aiutando le plebi meridionali ad uscire dalla loro arretratezza assolverà al suo mandato di classe dirigente e terrà lontano il pericolo di sommovimenti sociali. Leopoldo Franchetti e Sidney Sennino con inchieste svolte dal vivo, delineano le penosissime condizioni di vita delle plebi rurali siciliane, vessate da costumanze feudali e patti di lavoro onerosi. Giustino Fortunato, forse il più preparato « esperto » del tempo sui problemi storici, economici, geografici e sociali del Mezzo­giorno interviene a dissipare il mito di una Italia meridionale naturalmente fertile. Terre aride e coste malariche, fiumare e valli franose, montagne brulle e piane dissestate, ecco la vera natura del Mezzogiorno, ricorda Fortunato. Questo meridionalismo liberale propone gli interventi corret­tivi più idonei alla realtà economica e sociale del Sud, ma non sa indicare le misure radicali indispensabili all'effettiva soluzione dei problemi pro­spettati. Ma pur nel suo prudente riformismo rivolge una critica serrata alla politica governativa, un aperto rimprovero che muove dall'interno stesso del « sistema », anche per avvertirlo che la sua solidità può essere minata proprio dalla questione meridionale.

Già le elezioni del 1865 avevano determinato nel Sud la retrocessione dei candidati governativi della Destra e la parallela avanzata dell'opposi­zione di sinistra, che con le elezioni del 1874 sottolineò ulteriormente la propria affermazione. Dalla Sinistra gli elettori meridionali, per lo più notabili e possidenti, speravano a tutela dei propri interessi, una politica fiscale meno oppressiva e più prodiga di stanziamenti finanziari. Sorretta dunque nel Sud da chi ne attendeva vantaggi personalistici e non riforme sociali a favore della popolazione, una volta al potere la Sinistra liberale non seppe operare sostanziali miglioramenti in quelle regioni. Anzi la politica del « trasformismo » introdotta dalla nuova classe dirigente ricon­fermò il Sud nella propria subordinazione, dopo il patto intercorso tra borghesia settentrionale e ceto proprietario meridionale. Quest'ultimo, dietro promessa di non veder intaccati i propri interessi di classe, offriva al governo la sua collaborazione perché anche nelle province del Mezzo­giorno potesse funzionare l'apparato amministrativo ed estendersi l'in­fluenza politica di chi a Roma deteneva il potere. Mentre il governo è preso dalle sue preoccupazioni di tattica parlamentare, i nodi cruciali della situazione meridionale, questione sociale e problema demaniale, restano irrisolti.

Sul problema della terra in particolare gli studiosi e gli statisti più attenti richiamano l'attenzione della classe dirigente; per un paese come l'Italia, ancora fondamentalmente agricolo era infatti di somma impor­tanza tutelare le sorti dell'agricoltura. Nel 1872 il radicale Bertani, accen­nando in un suo discorso alle spaventose condizioni di vita di gran parte della popolazione rurale italiana, specie meridionale, proponeva una inchiesta parlamentare sulle condizioni di vita dei contadini e sulla situazione dell'agricoltura. Un settore della vita nazionale sul quale, a parte limitati tentativi di indagine pubblici e privati, mai si erano avuti dati rigorosamente scientifici. La commissione parlamentare, messasi al lavoro nel 1877, avrebbe presentato nel 1885 la sua relazione offrendo un quadro non esau­riente ma sufficientemente scoraggiante. All'origine degli squilibri socio­economici del meridione, ribadiva l'inchiesta Jacini, era il problema dei rapporti fondiari: solo un sistema di interventi statali indirizzati alla for­mazione di una classe di piccoli proprietari contadini avrebbe potuto dare l'avvio alla soluzione di tale problema.

Dinanzi alle gravissime difficoltà, dipendenti da una specifica realtà locale, ci si chiedeva anche se non sarebbe stato meglio, nell'interesse delle regioni meridionali, affidare alla loro diretta competenza la respon­sabilità ed i mezzi per coordinare gli interventi più idonei. Si trattava in sostanza di riprendere la proposta delle autonomie locali formulata dal Minghetti e che la negativa esperienza di un ventennio di centra­lismo dimostrava ora più che sensata: troppo preso dalle grandi questioni della difesa nazionale, della politica estera, il Parlamento era infatti portato a trascurare i problemi « periferici ». Ma tale audace proposta parve a molti irrealizzabile : le testimonianze dei meridionalisti pur contrari al centralismo, da Franchetti a Fortunato, negavano infatti l'esistenza al Sud di quella classe media evoluta, indispensabile a far funzionare l'ente regionale. Tratteggiando il quadro della corruzione politica imperante nelle ammini­strazioni sottoposte alle consorterie locali, gli avversari del decentramento, soprattutto il Turiello, indicavano nella autonomia un ulteriore incentivo allo svilupparsi del nefasto clientelismo meridionale. Occorreva al contrario tener ben saldo il potere statale, rafforzarne anzi l'autorità per portare a compimento quelle funzioni che le forze locali del Mezzogiorno avevano fino ad ora dimostrato di non essere in grado di assolvere da sole.  

L’Italia di Crispi e la “Razza Maledetta” (1887 – 1900)

II nuovo corso economico intrapreso dalla classe dirigente e dai governi della Sinistra attorno al 1879, con una serie di interventi diretti a favorire le industrie del settentrione, avrebbe dovuto condurre la nazione al livello dei più sviluppati paesi europei. Si riuscì in effetti ad accelerare il processo di industrializzazione proteggendone artificiosamente lo sviluppo, ma a prezzo di negative ripercussioni negli altri settori economici.

Per i primi venti anni di vita dello stato unitario, nei loro rapporti con l'economia nazionale i vari governi si erano attenuti ai princìpi del libe­rismo, secondo i quali un sano sviluppo economico deve procedere dal basso e fondarsi sulla libera iniziativa dei produttori.

Ma ben presto motivi di prestigio nazionale ed interessi particolaristici fecero preferire il modello economico già attuato in Germania, consistente in una serie di interventi « protettivi » messi in opera dallo Stato a tutela di determinati settori produttivi.

Propugnatore della nuova politica economica fu il gruppo riunito attorno al « Giornale degli economisti », tra cui primeggiava Luigi Luzzatti. Ecco dunque che per proteggere le nascenti industrie dalla concorrenza dei paesi stranieri tecnologicamente più avanzati, nel 1878 gli industriali settentrio­nali, i tessili ed i lanieri tra i primi, riuscirono ad ottenere dal governo tariffe doganali "più alte per tenere lontani dal mercato interno i prodotti stranieri. Misura anche utile, se limitata a brevi periodi, in Italia il « pro­tezionismo » divenne però pratica stabile ed ebbe conseguenze della mas­sima importanza per le sorti dell'economia meridionale. Questa subì in­fatti un ulteriore deterioramento non solo per il rincaro dei prezzi dei pro­dotti industriali « protetti », ma anche perché la maggior parte dei capitali disponibili nel paese furono convogliati verso i più redditizi investimenti nelle industrie del Nord, sottratti quindi all'agricoltura meridionale biso­gnosa di rammodernamento.

Tanto più che, desiderosi di accrescere i propri profitti, gli industriali continuavano a chiedere ulteriore protezione al loro monopolio sul mercato interno. Trattandosi di importanti gruppi di potere, dai quali dipendeva la sua stessa stabilità, il governo cedette e si giunse alle nuove tariffe doga­nali del 1887, che portarono alla denuncia unilaterale da parte italiana del trattato commerciale con la Francia. Stipulato nel 1861 e rinnovato nel 1881, il trattato aveva finora assicurato un ottimo sbocco alla produzione agricola meridionale, che in poco tempo aveva decuplicato la sua esporta­zione di vini, raddoppiato quella dell'olio e triplicato quella degli agrumi. La rottura del trattato, chiudendo all'agricoltura meridionale il suo migliore, e in molti casi il suo unico, mercato, ebbe conseguenze disastrose. Né valse a ristabilire l'equilibrio il dazio sul grano e altri prodotti agricoli che si disse introdotto per « compensare » il Meridione: se ne avvantag­giarono difatti solo i prodotti coltivati al Nord (riso, barbabietole da zuc­chero, canapa) ed i grossi agrari del meridione che, visti incrementati i propri profitti, non esitarono ad esprimere il « favore » del Mezzogiorno per la nuova politica doganale.

Ma il dazio sul grano confinava l'agricoltura meridionale ad una mo­nocoltura estensiva, allontanando ancor più la probabilità che venissero operate le trasformazioni fondiarie necessarie.

Fu dunque l'economia del Meridione a pagare le spese dell'incremento produttivo dell'industria italiana, salito tra il 1881 ed il 1887 del 37%.

A peggiorare la situazione sopraggiungeva in quegli stessi anni la crisi agraria.

Determinata dalle massicce importazioni di grano americano, la crisi arrivava in Italia dopo aver investito altri paesi europei : il prezzo del grano scese del 30% provocando in tutto il settore agricolo un generale crollo dei prezzi. Per l'agricoltura meridionale le conseguenze furono ancor più gravi dato che, per mancanza di capitali, non era riuscita, nemmeno per i prodotti più tipici, quali gli agrumi siciliani, a darsi una struttura capace di produzione competitiva a livello internazionale.

Perfetto interprete del nuovo corso politico italiano, Francesco Crispi era frattanto succeduto nel 1887 ad Agostino De Pretis nella carica di Pre­sidente del Consiglio: la sua svolta autoritaria servì a rintuzzare con estrema durezza la protesta popolare venuta maturando. Ma anche il movimento politico di opposizione aveva frattanto acquistato una sua prima organizzazone e struttura. Nel 1892 il congresso di Genova sancì la divisione tra socialisti ed anarchici: nasceva il « partito dei lavoratori italiani », che nel 1895 avrebbe assunto il nome di Partito Socialista Italiano. Sarà pro­prio il timore del socialismo a favorire il ritorno al potere di Crispi per il suo ultimo ministero.

Anche se non con la medesima rapidità che nel settentrione le masse rurali meridionali, grazie soprattutto all'opera dei primi nuclei socialisti, vengono prendendo lentamente coscienza dell'iniquità del sistema sociale che le opprime. Sale il malcontento popolare, soprattutto in Sicilia, dove la rottura commerciale con la Francia ha praticamente bloccato l'economia locale. I « fasci dei lavoratori », moltiplicatisi in tutta l'isola, svolgono un'opera di troppo capillare propaganda « sovversiva » perché i latifondisti non si rivolgano preoccupati a Crispi, gridando alla prossima « rivoluzione ». E mentre ancora una volta la protesta popolare si esprime nel violento tumulto, il governo organizza una repressione in grande stile che soffoca in breve tempo il movimento.

È questo un episodio esemplare per meglio comprendere l'atteggia­mento di insofferenza e ribellione nei confronti del potere costituito, qua­lunque esso sia, radicatosi da allora in Sicilia più che nelle altre regioni meridionali. All'epoca dei Fasci, per le popolazioni isolane il governo fu solo quella entità lontana ed ostile, che aveva respinto ogni loro legittima richiesta, cedendo ai ricatti della classe agraria decisamente contraria a qualsiasi riforma. Pronto da ultimo, in risposta alle proteste all'invio di 50.000 soldati per ristabilire l'ordine nell'isola, con ampio ricorso alla legge marziale ed ai tribunali militari. Vero è che nello stesso tempo la medesima repressione si esercitava contro i lavoratori in rivolta delle regioni centro-settentrionali, ma solo nel Meridione le contraddizioni della formula di governo in atto si mani­festarono in tutta la loro intensità ed ampiezza.

Ai troppi scontenti, gli statisti ligi agli indirizzi governativi ribatte­vano che, tenuto conto della disperata situazione in cui si trovava il Mezzo­giorno al momento dell'unificazione, era perlomeno da irriconoscenti la­mentarsi dell'attuale trattamento. A risultati del tutto soddisfacenti non si era ancora giunti, ma non era nemmeno mancato un primo decisivo avvio: strade, ferrovie, istruzione scolastica, assistenza sanitaria, prima del tutto sconosciute, ora cominciavano a prospettarsi come possibilità concreta anche per quelle diseredate contrade.

Né mancò chi tentò di giustificare in termini razzisti la persistente inferiorità del Meridione. Col trionfo del positivismo anche per la que­stione meridionale fu elaborata una spiegazione « razionale » e «scientifica»: la « scuola antropologica » di Ferri, Lombroso, Niceforo non esitò a bollare di inciviltà congenita il poveraccio nato per disavventura al Sud, invitan­dolo a starsene tranquillo in attesa del compiersi del ciclo evolutivo che l'avrebbe forse innalzato allo stesso livello dei confratelli settentrionali.

Il Mezzogiorno di Giolitti (1903 – 1914)

Nel 1900 sale al trono Vittorio Emanuele III, nel 1903 Giovanni Gio-litti è per la seconda volta Presidente del Consiglio, carica che, salvo brevi interruzioni, conserverà fino al 1914. Da accorto uomo di governo, Giolitti comprende che, per evitare il ripetersi di un tragico scontro tra l'autori­tarismo conservatore di molti settori della classe dirigente e la crescente protesta delle masse operaie e contadine, è necessario allargare le ristrette maglie del regime liberale con una politica più attenta alle istanze popo­lari. Di conseguenza, non più sottoposte alla violenta repressione degli anni precedenti, le organizzazioni operaie sotto la guida del Partito Socia­lista e del sindacalismo, conoscono in questo periodo un notevole sviluppo.

Camere di Lavoro e diritto di sciopero si diffondono anche nel Mezzo­giorno, dove va sensibilmente maturando la coscienza politica delle masse rurali : in Sicilia con il riorganizzarsi dei contadini nelle « leghe », in Puglia con un movimento particolarmente combattivo. Agli agrari che invocano l'intervento dello Stato a tutela dei loro interessi minacciati, Giolitti risponde che solo con le riforme sarà possibile sanare in parte il malcontento popolare. Privati dell'appoggio governativo nella repressione degli scio­peri, i proprietari terrieri sono spesso costretti a concessioni a favore dei braccianti.

Ma ci voleva altro per spezzare il sottosviluppo meridionale: anzitutto una politica governativa veramente interessata a risolverne le sorti. Le accurate ricerche condotte da Nitti sui bilanci del governo, in rapporto alle finanze regionali ed alla ripartizione delle spese pubbliche, dimo­stravano invece che nel processo di sviluppo nazionale il Mezzogiorno era costretto a sopportare i costi maggiori. Il sistema tributario soprat­tutto determinava gravi sperequazioni a danno del Sud; l'imposta sui terreni, sui fabbricati, sulla ricchezza mobile veniva a colpire con un onere del tutto sproporzionato il contribuente meridionale, il quale d'altra parte non era compensato da un efficace programma di spesa pubblica. Di qui la lunga e sfortunata battaglia dei meridionalisti per una riforma del sistema tributario più rispondente alla diversa configurazione economica delle regioni del paese. E per far sì che canali, strade, lavori di bonifica non si accentrassero esclusivamente nelle regioni settentrionali. « La verità è — sosteneva Nitti — che l'Italia meridionale ha dato dal 1860 assai più di ogni parte d'Italia in rapporto alla sua ricchezza; che paga quanto non dovrebbe pagare ; che lo Stato ha speso per essa, per ogni cosa, assai meno, e che vi sono alcune province in cui è assenteista perlomeno quanto i pro­prietari di terre ». Una politica portata avanti anche negli anni successivi ; si calcola che nel 1910 l'Italia del Nord, con il 48% della ricchezza nazionale, pagasse il 40% delle imposte nazionali, contro il 32% del Meridione che di quella medesima ricchezza usufruiva solo per il 23%.

Al ritardo del Mezzogiorno faceva riscontro il decollo industriale delle regioni settentrionali: tra il 1896 ed il 1908 il saggio di incremento annuale della industria italiana è del 6,7%. Si sviluppano l'industria automobilistica e quella elettrica; dai 100 milioni di kilowattore del 1898 si passa ai 950 milioni del 1907 ed ai 2575 milioni del 1914.

L'Italia non è più un paese solamente agricolo: se nel 1900 l'agricol­tura rappresenta il 51,2% del prodotto lordo privato e l'industria il 20,2%, nel 1908 gli indici del rapporto muteranno rispettivamente nel 43,2 e nel 26,1. Di tanta dovizia al Meridione tocca in sorte solo l'impianto siderur­gico dell'Uva a Bagnoli di Napoli, entrato in funzione nel 1905. Dinanzi alla constatazione del perpetuarsi a danno del Mezzogiorno delle spere­quazioni del potere centrale, si ravviva la polemica sulle autonomie locali. Già vedemmo come i meridionalisti conservatori alla Turiello fossero contrari alla autonomia amministrativa del Sud, incentivo a loro dire del più diffuso malcostume politico. In disaccordo con questa teoria Napoleone Colajanni vedeva nel federalismo il mezzo per sottrarre il Meridione alla soffocante burocrazia centrale ed alla conseguente soggezione economica settentrionale. Quanto alle autorità politiche non era mancato chi alla concessione della autonomia locale guardava come ad una sorta di valvola di sicurezza per mettere a tacere le rivendicazioni più urgenti del turbo­lento Sud. « È venuto il tempo di costruire nel regno nuovi organi di go­verno » aveva affermato De Rudinì. Ma anche i meridionalisti più vigorosi e polemici nella difesa degli interessi del Mezzogiorno ponevano sovente in dubbio l'utilità di un affrettato decentramento. Nell'attuale degenera­zione del parlamentarismo, sosteneva Giustino Fortunato, dare l'auto­nomia amministrativa al Meridione, senza risanare Parlamento e Governo, avrebbe significato favorire il proliferare delle consorterie e del cliente­lismo politico. Era prima necessario che il proletariato meridionale evol­vesse, tramite la concessione del suffragio universale, fino a divenir cosciente degli interessi propri non disgiunti da quelli generali del paese. Opinione condivisa da Gaetano Salvemini, federalista acceso dapprima, più tardi meno sicuro dell'effettiva capacità del Mezzogiorno di porre in atto un suo autonomo sviluppo.

Indipendentemente dalla autonomia amministrativa, utile o meno che fosse, tutta una serie di altre cause congiurano contro il « decollo » delle regioni meridionali. Manca nel Sud una classe media, evoluta al punto da saper impostare e reggere una sana amministrazione; mancano i capi­tali privati necessari a ristrutturare più economicamente l'arretrata agri­coltura locale, perché già da tempo assorbiti nell'acquisto dei beni dema­niali quotizzati o investiti in titoli di Stato. I superstiti capitali disponibili, quando non sono oggetto di malversazione, bastano a malapena a riparare parte dei danni causati dai disastri naturali che si susseguono in quegli anni. Le eruzioni del Vesuvio e dell'Etna, nel 1906 e nel 1910, sommergono interi villaggi e distruggono le colture; il terremoto del 1905 in Calabria e quello tremendo del 1908, accompagnato da maremoto, devastano tre­cento Comuni e le città di Reggio e Messina. Lo Stato interviene in ma­niera sporadica ed inefficiente ed inaugura il sistema delle « leggi speciali ». Nel 1904 e nel 1906 con le leggi dirette a migliorare le condizioni dell'agricoltura in Basilicata e in Calabria, nel 1905 con l'inizio dei lavori per la costruzione dell'acquedotto pugliese portato a termine nel 1927. Ma non era con interventi legislativi straordinari, inefficienti e disorganici, che la questione meridionale poteva essere risolta; occorreva una politica globale di riforma sociale, boicottata però dai grandi proprietari terrieri che attra­verso il controllo delle amministrazioni locali e la conseguente influenza sulle elezioni politiche facevano il bello ed il cattivo tempo nel Mezzo­giorno, affiancati dalle organizzazioni mafiose giunte ad inquinare tutti i gangli della vita pubblica locale. Corruzione politica e clientelismo erano d'altra parte favoriti dai metodi di Giolitti, da un lato propenso a soddisfare le più urgenti rivendicazioni popolari, dall'altro convinto che fosse possi­bile realizzare un'autentica libertà di voto solo nelle regioni progredite e capaci di farne un uso maturo. Ecco dunque le manipolazioni della mag­gioranza parlamentare, l'accaparramento dei voti, le vere e proprie prede­terminazioni dei risultati elettorali, che indussero Gaetano Salvemini a ribattezzare Giolitti « ministro della malavita ».

Anche la riforma elettorale del 1912, che introduceva il suffragio uni­versale maschile, pur nel suo innegabile valore di conquista democratica, servì a contrapporre all'opposizione di sinistra i voti governativi delle masse meridionali. I contadini analfabeti del Sud, circuiti o minacciati, andarono il più delle volte ad esercitare il nuovo diritto di voto a tutto vantaggio degli uomini politici graditi al governo. Ma nemmeno questa constatazione sembrò indurre il Partito Socialista ad interessarsi più atti­vamente al problema meridionale, invece di occuparsi esclusivamente delle categorie operaie del Nord. Critica fattasi più serrata quando si ri­levò che, dinanzi all'accentuarsi del protezionismo, il partito preferiva attestarsi su posizioni agnostiche: forse nel timore di contrastare, osta­colando l'ulteriore industrializzazione del Nord, l'incremento di quel pro­letariato industriale che del partito stesso formava la forza. I socialisti dissidenti aderirono alla « Lega antiprotezionista », e Gaetano Salvemini giungerà ad abbandonare il partito per fondare « l'Unità », il giornale che per vari anni sosterrà la causa del Mezzogiorno con lucidità e coraggio. Oltre che nel libero scambio Salvemini credeva nelle possibilità connesse alla politicizzazione delle masse meridionali, destinate a divenire prota-goniste in prima persona della « questione » del loro paese, solo se avessero acquistato una chiara coscienza di classe.

La corruzione ed il clientelismo politico rappresentano forse l'aspetto più umiliante, ma non il più cospicuo dei mali del Sud durante il primo decennio del secolo; altrettanto grave e doloroso segno di miseria e dispe­razione fu l'enorme incremento dell'emigrazione, che raggiunse la vetta più alta, proprio negli anni di maggior progresso del Paese.

Tra i più vistosi fenomeni nella storia dell'Italia moderna l'emigra­zione in massa della popolazione rurale dalle regioni meridionali ha carat­terizzato, negativamente o positivamente, a seconda dei differenti punti di vista, soprattutto gli ultimi decenni del secolo XIX e l'età giolittiana. Ma già nel 1861, secondo l'annuario statistico del periodo, 77.000 italiani risiedevano in Francia, 47.000 negli Stati Uniti, 18.000 in Brasile ed in Argentina. Anche le regioni centro-settentrionali furono interessate al fenomeno (nel 1876 l'85% dell'emigrazione nazionale proveniva dall'Italia del Nord), anzi proprio in quelle province esso aveva preso l'avvio, ma con aspetti e dimensioni assai diverse.

Se l'emigrante settentrionale, il più delle volte, se ne va all'estero in cerca di miglior fortuna, con un suo bagaglio di competenze da far fruttare, quella dei contadini del Sud, sprovveduti, impreparati, quasi sempre analfabeti, è una fuga disperata.

Intorno al 1876 oltre centomila italiani lasciano ogni anno la madre­patria; verso la fine del secolo il fenomeno aumenta di intensità, acqui­stando i suoi caratteri più specifici: interi nuclei famigliari, provenienti in massima parte dalle regioni meridionali, spinti dall'insostenibile situa­zione economica locale, danno vita ad un esodo collettivo verso i paesi d'oltreoceano.

La crisi agraria, che sul finire degli anni '80 aveva riflesso sull'economia meridionale le sue più disastrose conseguenze, contribuì ad incrementare l'emigrazione dalle regioni del Sud, mentre il primo sviluppo industriale del Nord assorbiva la mano d'opera settentrionale in eccedenza rispetto al fabbisogno dell'agricoltura. Al contadino meridionale, avvezzo a cimen­tarsi con la natura avversa, la fame, lo sfruttamento e la sopraffazione, l'« America » appare come una sorta di terra promessa. Un miraggio che vince le difficoltà necessarie per raggiungerlo ed il forte attaccamento ai paesi di origine.

L'America del Sud, in un primo tempo, e poi gli Stati Uniti furono la meta principale dell'emigrazione italiana, in costante crescita per decenni: basti pensare che nel 1927 ben nove milioni erano gli italiani residenti all'estero, di cui tre milioni e mezzo negli Stati Uniti ed un milione e mezzo rispettivamente in Brasile e in Argentina.

Le agenzie di viaggio e le compagnie di navigazione, da parte loro, contribuirono a propagandare le possibilità di lavoro ben remunerato offerte dai paesi esteri; e realizzarono ingenti guadagni con il trasporto degli emigranti, giungendo ad organizzare, in collegamento con gli appaltatori di braccia umane, un vero e proprio traffico di forza-lavoro.

Tra i benefici della corrente migratoria ci fu anzitutto l'afflusso delle rimesse in denaro degli emigranti alle famiglie (500 milioni di lire annue nel periodo immediatamente precedente il 1914); inoltre l'alleggerimento della pressione demografica in regioni sovrappopolate col conseguente rialzo dei salari e un generale miglioramento per i contadini dei contratti agrari. A livello di costume, il contatto con diverse e più evolute forme di convivenza associata portò a notevoli trasformazioni di mentalità, all'alfabetizzazione di molti, ad una maggiore intraprendenza e consapevolezza dei propri diritti.

Ma accanto ai vantaggi coesistevano svariati elementi negativi, e non mancarono di denunciarlo le voci di dissenso levatesi nel paese. Non era con l'emigrazione, sostenevano i suoi critici, che si sarebbero risolti i pro­blemi generali del Meridione, né quelli individuali dei lavoratori sempre prigionieri della loro condizione di sfruttati. Il mito dell'emigrazione, sottolineavano soprattutto i socialisti, era solo un sistema per eludere ed accantonare i precisi impegni che il sottosviluppo meridionale poneva alla classe dirigente. La maggior parte dei meridionalisti liberali, al contrario, dal Franchetti a Giustino Fortunato al Nitti, guardarono di buon occhio l'ingrossarsi della corrente migratoria, ricordando ai suoi oppositori che grazie ad essa migliaia di individui avevano almeno compiuto un passo in avanti sulla via della loro emancipazione. L'emigrazione, oltretutto, rap­presentava un'apprezzabile valvola di sicurezza per l'ordine sociale nel Mezzogiorno: o emigrante o fuorilegge, aveva affermato senza perifrasi il Nitti, questa l'unica scelta per il meridionale desideroso di uscire dalla sua situazione.

Un discorso che avrebbe avuto ben presto un'interessante connessione con le aspirazioni colonialistiche italiane nell'Africa settentrionale, su cui il capitale finanziario e i principali settori imprenditoriali nazionali, alla ricerca di affari lucrosi e di vantaggiose commesse statali, avevano già posto la loro ipoteca. Alibi alle effettive motivazioni imperialistiche della guerra coloniale, conclusasi con il riconoscimento della sovranità italiana su Tripolitania e Cirenaica, furono le infondate asserzioni sulla ricchezza della nuova « terra promessa », pronta ad offrire asilo e lavoro a centinaia di migliaia di emigranti italiani. E non pochi tra gli esponenti democratici Antonio Labriola ad esempio, subirono il fascino del nuovo mito, che altri, come Salvemini, con profondo rigore ed onestà intellettuale, cerca­rono vanamente di sfatare.

Il fenomeno migratorio, pure con minore ampiezza e caratteristiche diverse si è svolto ininterrotto fino ai giorni nostri. Nemmeno il fascismo, che tentò di dirottare nei territori africani dell'« Impero » la sovrabbon­danza di energie umane nazionali, riuscì a sopprimerlo; ma fu l'età giolittiana che vide il massimo espandersi del fenomeno, segno di un profondo e doloroso malessere sociale.

Fascismo e Meridione (1914 – 1926)

L'intervento nella prima guerra mondiale pose la classe dirigente di­nanzi al problema di mandare al fronte i milioni di contadini meridionali, che alla guerra non avevano alcun interesse o che a questa si erano dimo­strati apertamente contrari. La promessa di distribuzione di terre si rivelò più persuasiva di qualsiasi altra misura. Per ordine dello Stato Maggiore, ai soldati del fronte fu letta questa dichiarazione del Presidente del Consiglio Salandra: «Dopo la fine vittoriosa della guerra, l'Italia compirà un grande atto di giustizia sociale. L'Italia darà la terra ai contadini, con tutto il necessario perché ogni eroe del fronte, dopo aver valorosamente combattuto in trincea, possa costituirsi una situazione di indipendenza. Sarà questa la ricompensa offerta dalla patria ai suoi valorosi figli ». Ma finita la guerra di tante promesse non sarebbe restata traccia; in compenso le masse contadine — nel Sud come nel Nord — avrebbero subito la vio­lenza e la sopraffazione delle squadre fasciste, sovvenzionate e sostenute da latifondisti ed agrari.

Il 1919 segna il culmine della crisi che nel primo dopoguerra ha inve­stito l'intera società italiana: si susseguono incessanti e sempre più agguer­rite le agitazioni nel mondo del lavoro e il Meridione contribuisce alla lotta generale con occupazioni di terre da parte dei contadini reduci dalla guerra, di nuovo alle prese con l'immutata miseria. Ancora una volta il Partito Socialista, vittorioso alle elezioni nel novembre 1919, appare im­potente di fronte al problema delle masse contadine meridionali, mai come in questo momento chiave di volta per interpretare e correttamente risolvere la realtà sociale del Sud. Proprio in occasione delle elezioni la persistente immaturità politica del Mezzogiorno aveva dimostrato tutto il suo peso con il favore accordato alle liste governative, alla vecchia classe dirigente conservatrice. Col riflusso del movimento popolare e « rivolu­zionario », con il ripiegare delle sinistre indebolite e divise, la inattuata alleanza tra operai del Nord e contadini del Sud propugnata dai demo­cratici più attenti viene realizzata, mutati gli interpreti ed a fini reazionari, tra agrari meridionali e industriali del Nord a sostegno del fascismo nascente. I vecchi gruppi politici locali, privi di contenuto ideale e di un effettivo programma sociale, sono rapidamente assorbiti dall'appa­rato fascista: manca infatti nel Meridione una vera opposizione al re­gime, accettato passivamente come situazione in fondo poco differente dalla precedente. Ma una classe sociale vide tutelati appieno dal fascismo i propri interessi e del regime si fece strenua sostenitrice: la categoria dei grossi agrari, irritati ed intimoriti dalle recenti occupazioni di terre, dagli scioperi agricoli, dalle crescenti « pretese » dei « cafoni ». Per questi ultimi l'avvento del fascismo significò la perdita delle conquiste parziali otte­nute nell'immediato dopoguerra dalle organizzazioni contadine: i contratti collettivi che sopprimevano le prestazioni supplementari e gli iniqui privilegi padronali; i miglioramenti nel trattamento economico, ed in­fine le leggi che riconoscevano ai contadini poveri, organizzati in coo­perativa, il diritto di occupare terre incolte o malcoltivate. Questi nuovi diritti, che avrebbero consentito alle masse rurali migliori condizioni di vita ma che intaccavano i profitti ed i privilegi dei proprietari, vennero dunque soppressi dal fascismo. Fu questo il prezzo che il latifondo del Sud pretese per sostenere il nuovo regime.

Ma anche gli industriali del Nord non avevano da lamentarsi: la poli­tica economica e monetaria del fascismo accentuò il protezionismo a loro favore, dedicando al Meridione, come contropartita, le sue grandi « batta­glie»: l'incremento della cerealicoltura e la bonifica integrale. La «batta­glia del grano » operò una trasformazione nella economia italiana, soprat­tutto meridionale, elevando la produzione annua di questo cereale, di poco superiore ai 40 milioni di quintali nel 1870, fino agli ottanta milioni di quintali del 1939. Dal 1925 al 1935, di conseguenza, fu possibile ridurre del 75% le relative importazioni. Il risvolto della medaglia fu però parti­colarmente gravoso, perché la produzione agricola complessiva si ridusse, svantaggiando a favore della coltura estensiva granaria altre coltivazioni più remunerative.

Fatto è che la « battaglia del grano » fu condotta in vista di più concreti conflitti ; più che al risollevamento della agricoltura italiana mirava ad assicurare il pane alla nazione nella eventuale guerra cui tanto sovente andava il pensiero di Mussolini.

Un certo successo, pur nella limitatezza dei risultati conseguiti nel Meridione, ebbe la politica della bonifica integrale, sotto la direzione del sottosegretario Serpieri, partita con ambiziosi programmi, anche a carat­tere « sociale », ma ben presto ridimensionata per non intaccare gli inte­ressi degli agrari.

Nella sua formulazione la legge garantiva alle società ed ai privati che facessero richiesta di concessioni per lavori di bonifica l'espropriazione dei relativi terreni. Se attuata, questa normativa avrebbe permesso di sferrare un deciso colpo al latifondo meridionale. Ma gli agrari riuniti nel « Comitato promotore dei consorzi di bonifica », messi in allarme dal pericolo degli espropri, insorsero rivendicando la concessione di sussidi che permettessero a loro stessi di dar luogo ai lavori di bonifica. L'appli­cazione della legge, lamentava un documento del comitato, avrebbe grave­mente pregiudicato i proprietari di terreni « che se pur qualche volta sono il frutto di un retaggio ereditario, costituiscono sempre la palpitante testi­monianza di un lavoro di varie generazioni nate e cresciute nell'amore della propria terra ». Di qual genere fosse stato quel « lavoro » non è specificato.

Ma il potere di pressione degli agrari era tale che la concessione delle opere di bonifica alle società finanziarie fu praticamente bloccata. Svilup­pata soprattutto nell'Agro Pontino, per motivi propagandistici, data la vicinanza della capitale, nel Meridione la bonifica integrale non andò oltre la fase delle prime opere pubbliche e non determinò sensibili miglio­ramenti allo sviluppo economico della zona.

Ma agli insuccessi il regime sapeva contrapporre utilmente i suoi miti. Partono a centinaia le famiglie di coloni verso le terre africane dell'Impero, il dono del fascismo al contadino meridionale diseredato. Per chi resta c'è sempre il Duce pronto ad appuntare medaglie sul petto delle madri prolifiche durante le sue ricognizioni pugliesi o lucane.

L'esistenza stessa di una questione meridionale è negata ed i relativi problemi « risolti » a livello di roboante retorica: la statolatria fascista non ammette nemmeno l'accenno agli specifici bisogni regionali, il concetto di « diversità » non garba agli intenti livellatori del regime.

Contrapponendosi al vecchio stato liberale, sempre assente dalla scena meridionale, la demagogia del fascismo recupera però all'ossequio parte della popolazione del Mezzogiorno, avvezza finora al solo bastone, non anche alla carota. È innegabile che, nella sua incolpevole diseducazione politica, il meridionale non guardi con eccessiva antipatia a Mussolini, in cui fa rivivere l'antica immagine del sovrano paternalista.

Ma ecco intervenire la cruda realtà della guerra, in cui il fascismo pre­cipita il paese, a spezzare l'incantesimo.

Parallelamente all'affermarsi del fascismo, le analisi delle correnti politiche democratiche contrappongono, alle falsificazioni ed alla demagogia degli schemi ufficiali, la ben più cruda verità del permanere del sotto­sviluppo meridionale, dell'incancrenirsi delle sue antiche piaghe.

Voci, che pongono chiaramente il problema ed intravedono le sue più logiche soluzioni, destinate però a scontrarsi col periodo meno adatto ad ascoltare, e meno ancora a sperimentare, le loro tesi. Nel generale sfacelo delle istituzioni democratiche che prelude all'instaurarsi della dittatura fascista, e poi col consolidarsi di questa, non è certo sperabile veder realiz­zato ciò che è stato accantonato per tanto tempo.

A qualche interessante risultato approdava nel dopoguerra il pro­gramma portato avanti dal Partito Popolare di don Sturzo, che mirava allo sviluppo della democrazia locale, con l'eliminazione del clientelismo e della corruzione politica, ed alla soluzione della questione demaniale con la divisione del latifondo. Preoccupato di favorire il riscatto delle masse rurali entro una logica riformatrice, il « sindacalismo bianco » del Partito Popolare conobbe notevoli risultati, finché la sua opera non venne inter­rotta dall'avvento del regime. Ma sono i meridionalisti che si riallacciano al Salvemini più risoluto, a formulare le più interessanti prospettive. Fir­matari nel 1924 dell'Appello ai meridionali, apparso sulla « Rivoluzione Liberale » di Gobetti, Guido Dorso e Tommaso Fiore negano la validità delle riforme isolate, degli interventi saltuari con cui il potere centrale era solito concedere di tanto in tanto qualcosa. Secondo loro è necessario invece impostare diversamente tutta la politica governativa, sostituire al prepotere delle vecchie classi dirigenti il decentramento amministrativo e l'educazione politica delle masse, perché, rese consapevoli dei propri diritti, sappiano esprimere la propria classe dirigente, efficiente e demo­cratica, giungendo da sole alle trasformazioni sociali di cui necessitano. Solo così la tanto attesa « rivoluzione meridionale » avrebbe potuto realizzarsi.

In una visione politicamente più avanzata del problema e decisamente rivoluzionaria, Granisci nel 1926 addita al proletariato settentrionale il compito di liberare se stesso dal capitalismo industriale e la plebe rurale meridionale dal blocco agrario. Solo un'alleanza tra i ceti sfruttati avrebbe permesso di sanare la secolare contrapposizione tra le due Italie, al di là delle divergenze espresse dagli egoismi delle classi dirigenti settentrionali e meridionali.

Il Secondo Dopoguerra (1943 – 1950)

1.     L'occupazione dette terre

Una volta crollato il fascismo, nel settembre del '43, pochi giorni dopo l’armistizio, si verificarono in Calabria movimenti spontanei di occupa­zione di terre. Gli antichi latifondi del Marchesato di Crotone. grandi feudi dei Berlingieri, Baracco, Caetani, ecc., venivano invasi da masse di contadini poveri e di braccianti senza lavoro. Poco più di un anno dopo, nel 1945, l'occupazione di terre si estendeva alla Lucania, alla Sicilia, alle Puglie. Già a metà di quell'anno, l’allora ministro dell'Agricoltura, il comunista Fausto Gullo, poteva indicare all'attivo di quel vasto mo­vimento, che riprendeva con maggiore ampiezza e incisività i moti per la terra del primo dopoguerra, l'assegnazione sino ad allora di oltre 170.000 ettari di terra ai contadini meridionali.

Queste lotte nascevano allora più che dalla tradizionale aspirazione dei contadini alla terra, dalla acuta crisi congiunturale post-bellica che si riversava nelle campagne meridionali sotto forma di alti prezzi del grano e dalla farina, di disoccupazione, di inflazione, di penuria alimenta­re generalizzata. per i contadini poveri e per la grande massa dei disoccupati la terra si presentava quindi immediatamente come l'unico « be­ne » in un certo senso a portata di mano, cui aggrapparsi per sopravvi­vere. Questo movimento, nato inizialmente per iniziativa spontanea dei contadini, venne progressivamente appoggiato e guidato dal sindacato unitario — la CGIL era stata ricostituita nel 1944 col Patto di Roma, e comprendeva cattolici, comunisti e socialisti — che si era andato ra­pidamente riorganizzando a livello nazionale e per categorie, e dai partiti i della sinistra. Fu proprio l'intervento consapevole delle forze sindacali, (del PSI e, con più forte presenza organizzata, del Partito comunista a dare a queste lotte un carattere meno primitivo e ad arricchirle di nuovi contenuti rivendicativi. Specie a partire dal '46, la lotta contadina si estese a nuovi obiettivi, sindacali e sociali, che coinvolsero direttamente an­che i lavoratori occupati. Sebbene le occupazioni delle terre rimanessero pur sempre il centro del movimento, la pressione rivendicativa toccò an­che altri aspetti della condizione sociale dei lavoratori meridionali e della lotta di classe nelle campagne. Essa investì l'obiettivo dell'imponibile di mano d'opera da imporre agli agrari nelle singole aziende con i relativi impegni colturali, il controllo sindacale del collocamento nei comuni agri­coli, il rispetto dei salari contrattuali, il miglioramento dei contratti agrari a favore dei coltivatori, ecc..

Queste lotte non furono tuttavia un movimento pacifico e incontrastato. Esse incontrarono un pò in tutte le regioni del Mezzogiorno la reazione 'feroce dei ceti agrari cui si accoppiò la repressione da parte della polizia e dei carabinieri sempre più dispiegata nelle campagne meridionali, specie dopo la rottura del Fronte popolare ad opera della DC e la conseguente esclusione del PCI e del PSI dal governo. Gli eccidi di Portella della Ginestra — dove ad un raduno del 1° maggio, nel 1947, gli uomini del bandito Giuliano spararono sulla folla dei contadini — di Montescaglioso, di Melissa, sono in questi anni i nomi esemplari che segnano i tentativi più brutali, da parte degli agrari e dei governi centristi, di arrestare il movimento popolare nelle campagne meridionali.

2. Gli interventi di riforma agraria

La pressione dei contadini meridionali conseguì comunque dei risultati. Sia attraverso i provvedimenti di Gullo prima e del democristiano Segni poi, sia complessivamente attraverso la « legge stralcio » di riforma fon­diaria del 1950, che comportò insieme ad altre dello stesso anno la crea­zione di « enti di riforma » -- quale ad esempio l'Ente Sila in Calabria — con compiti di assistenza tecnica e finanziaria ai contadini, fu allora av­viata una parziale trasformazione del regime fondiario delle campagne. In tutta l'area meridionale vennero espropriati, in tempi diversi, circa 417.154 ettari di terra in complesso, che vennero assegnati ad ex fittavoli operanti sul latifondo colpito dall'esproprio, a coloni, contadini poveri, braccianti, ecc..

Nonostante però che queste lotte e la conseguente riforma intaccasse in più punti la vecchia struttura agraria meridionale, i suoi risultati finali, da un punto di vista strettamente sociale, furono relativamente limitati. Le terre espropriate e date ai contadini erano in genere le peggiori delle pro­prietà colpite dall'esproprio. I vecchi proprietari, conservarono per lo più il grosso ed il meglio delle loro terre. Al tempo stesso costoro venivano ora a beneficiare dei soldi pagati dallo Stato sotto forma di indennizzo per l'esproprio subito: soldi che, teoricamente, essi avrebbero dovuto impie­gare ora sulle terre rimaste di loro proprietà e che erano le più suscettibili di sviluppo agricolo.

La riforma che avrebbe dovuto formare per un verso la piccola proprietà contadina e per un altro dare impulso al vecchio proprietario, nel tentativo di trasformarlo in imprenditore capitalista, sortì solo in parte i risultati desiderati. Tanta parte della piccola proprietà contadina nata dagli espropri, dopo un certo numero di anni, si trovò ben presto emarginata e in­capace di contrastare, a tutti i livelli, il potere economico e politico degli agrari. Mentre questi ultimi solo in parte e in alcune zone si trasformarono in capitalisti: ma conservarono tuttavia, per lo più, la vecchia mentalità reazionaria del passato.

Qualcosa di nuovo emerse e parecchio di vecchio rimase nelle campagne meridionali: ma la riforma deluse, in complesso, per i limiti in cui fu at­tuata, e per i conseguenti risultati che diede, quanti vi avevano visto la premessa per uno sviluppo autonomo autopropulsivo dell'Italia meridio­nale. Anche se non mancò l'incremento di produzione agricola ricercato dalle forze governative, un effetto comunque indubbio di queste trasforma­zioni avvenute nell'agricoltura fu l'allargamento del mercato meridionale per i monopoli industriali del Nord, quali la Fiat, la Montecatini, ecc, che in un'area agricola meno arretrata che in passato poterono collocare i loro prodotti in macchine agricole, trattori, concimi chimici, fertilizzanti e co­sì via.

Lo squilibrio Nord-Sud entrava in una fase nuova, ma proprio in questo momento rafforzava in modo definitivo il suo carattere autodinamico, che cioè si autoalimenta con lo sviluppo economico generale: più esattamente, con lo specifico modello di sviluppo capitalistico italiano.

3. La Cassa per il Mezzogiorno

Nel 1950, dopo che la CGIL, sotto la guida di Giuseppe Di Vittorio (1892-1957), aveva lanciato a livello nazionale il Piano del lavoro per inca­nalare le rivendicazioni popolari -- soprattutto la vasta domanda di occu­pazione presente allora nel Paese — in un nuovo e organico piano di sviluppo generale, veniva istituita la Cassa per il Mezzogiorno. Nelle inten­zioni del ceto dirigente, dominato dalla DC, il nuovo istituto pubblico do­veva servire a creare le condizioni di carattere infrastrutturale (costruzione di strade, porti, canali, ecc.) perché i privati, cioè gli imprenditori del Nord e del Sud trovassero convenienza a investire nell'Italia meridionale. Attra­verso gli investimenti annuali dello Stato si cominciò così ad attuare con la Cassa quella che gli esperti definirono la fase di « pre-industrializzazione » del Mezzogiorno. Fase che — sempre secondo la periodizzazione dei pro­grammatori — vedrà la propria conclusione nel 1957, quando i progetti di sviluppo assumeranno una direzione più decisamente rivolta all'incremento delle strutture industriali in quanto tali.

In realtà la Cassa, in questa fase, non andò oltre la vecchia logica delle « opere pubbliche »: cioè quella stessa che aveva orientato i governi rifor­misti dell'età giolittiana e, in un certo senso, gli interventi della bonifica fascista. Essa creava fonti di occupazione temporanea di masse senza la­voro: ubbidendo non ad un piano selezionato e orientato rigorosamente alle finalità effettive dell'industrializzazione, ma piegandosi nella sostanza, alle pressioni e agli interessi delle clientele locali e dei vecchi e nuovi gruppi di potere che si erano andati ricomponendo dopo la guerra, specie nelle città. L'intervento straordinario per il Mezzogiorno si incontrava così con gli interessi dei ceti possidenti del Sud: i quali, di fronte al denaro pub­blico, cambiarono solo forma e luogo al loro modo di essere sociale e alla loro iniziativa economica. Essi cioè, per lo più, da semplici percettori di rendita agraria si trasformarono in speculatori edili e finanziari trasferendo definitivamente o parzialmente il loro danaro dalla campagna alla città. Parallelamente, grazie all'istituto della Cassa, incomincia a verificarsi l’as­sorbimento politico da parte della DC dei ceti borghesi meridionali, prima legati ai vecchi partiti reazionari e monarchici: e nello stesso tempo viene in questi anni fondato quel blocco di potere tra gruppi sociali dominanti-DC-clientela popolare-stato imprenditoriale che caratterizzerà la vita pubblica meridionale fino ai giorni nostri.

4. La nuova emigrazione

La mancanza cronica di occupazione nelle città, che si andavano anche gonfiando demograficamente, l'assenza di uno sviluppo industriale (mal sostituito dalle alterne vicende dell’industria edilizia), la crisi in cui cadeva progressivamente la piccola proprietà contadina, costituirono le ragioni di fondo, a metà degli anni '50, della nuova ondata migratoria delle masse lavoratrici meridionali. Dapprima orientata verso le zone industriali dell'Europa, la nuova massa di emigranti andò progressivamente spostandosi verso le regioni del nostro « triangolo », man mano che queste si espande­vano richiamando nuova forza lavoro. Questo grande spostamento di masse dal Sud al Nord del Paese, dalla campagna alla città, che trasferì annual­mente centinaia di migliaia di individui, percorrerà in forme socialmente drammatiche anche il decennio successivo, gli anni '60, e segnerà profon­damente una fase dello sviluppo nazionale.

L'emigrazione meridionale può oggi essere considerata quale uno degli elementi fondamentali della strategia dello sviluppo capitalistico nel dopo­guerra in Italia. Quella strategia di politica economica che gli economisti e i tecnici del ceto politico governativo definirono di « liberalizzazione », e che coincise col libero scambio di merci e forza lavoro a livello interna­zionale in condizioni di mercato favorevoli all'Italia. Soprattutto dopo la sconfitta subita dalla classe operaia e dal movimento sindacale di classe a metà del decennio '50, l'emigrazione meridionale al Nord s'inserisce in un modello di sviluppo determinato che è ad un tempo un fatto politico oltre che economico. Essa infatti assolve al duplice compito di portare forza la­voro a basso costo nella fabbrica, e di comprimere i salari e la combatti­vità della massa operaia già occupata. Si creano così le condizioni politiche ed economiche preliminari del disegno capitalistico di questi anni che por­terà al boom degli inizi del nuovo decennio. Infatti i bassi costi dei pro­dotti nazionali che vengono vantaggiosamente smerciati all'estero — otte­nuti grazie allo sfruttamento intensivo del lavoro vivo dell'operaio e ai bassi salari — si combinano con l'intervento straordinario nel Mezzo­giorno: il quale non frena l'emigrazione, non intacca i nodi strutturali di quella società, ma nel frattempo usa il denaro pubblico per legare nuovi e vecchi ceti al potere politico e al tempo stesso per allargare « artificial­mente » il mercato interno e la domanda di beni dei prodotti capitalistici che non raggiungono i mercati esteri.

5. Nuove problematiche meridionalistiche

La pubblicazione nell'immediato dopoguerra dei Quaderni dal carcere di Gramsci, e segnatamente degli scritti su Il Risorgimento (1950), la nuova lotta sindacale e politica che si era aperta nel Mezzogiorno e insieme i nuovi fenomeni di trasformazione e di abbandono che lo percorrevano, fecero convergere l'attenzione storica e teorica di non pochi intellettuali mi­litanti sui nuovi termini in cui si poneva la questione meridionale. Due studiosi merita ricordare: Emilio Sereni e Manlio Rossi Doria. Il primo, sotto una angolazione marxista e leninista maturata ancor prima della caduta del fascismo, proponeva nel 1947 un suo studio II capitalismo nelle campagne (1860-1900), in cui veniva ricostruita la vicenda dell'agri­coltura nazionale nel primo quarantennio di storia unitaria, e i caratteri particolari della penetrazione del capitalismo italiano in quelle strutture feudali e semi-feudali. Nel suo lavoro, preminentemente storico, Sereni metteva tuttavia qua e là in evidenza la constatazione, e insieme l’idea di fondo che lo ispirava, di quanto la mancata trasformazione fondiaria delle campagne, soprattutto nel Sud, avesse ostacolato l'espansione in senso capitalistico moderno dell'agricoltura. Una tesi questa che era destinata ad incontrarsi e talora anche ad essere, non correttamente, assimilata a quella propria di Gramsci secondo cui una mancata rivoluzione contadina era alle origini del distorto sviluppo capitalistico nazionale. Con Vecchio e nuovo nelle campagne italiane, del 1956, Sereni tracciò un critico bilancio delle trasformazioni avvenute nelle campagne del Paese dai movimenti del dopoguerra ad allora, mettendo in evidenza la nuova subor­dinazione a cui l'agricoltura, specie quella meridionale, veniva a soggiacere nella nuova fase dello sviluppo nazionale: quella del capitalismo monopo­listico e finanziario.

Manlio Rossi Doria, che già nel 1944 era stato, insieme a Dorso e ad altri Esponenti del Partito d'azione, uno dei promotori di un importante con­vegno tenuto a Bari sulla questione meridionale, pubblicava poco tempo dopo, nel 1948, la raccolta di saggi Riforma agraria e azione meridionalista. In essa — così come in altri successivi lavori pubblicati nel corso degli anni '50 e '60 — Rossi Doria si faceva allora portatore di una conoscenza viva e diretta della struttura agricola meridionale, mettendone in evidenza i limiti naturali e avanzando proposte di riforma agraria che volevano te­ner conto della multiforme realtà del mondo contadino del Sud. Le sue proposte puntavano cioè ad esaltare nuove forme di proprietà, piccole e medie, in grado a un tempo di rinnovare se stesse e le antiche proprietà borghesi che avrebbero dovuto essere percorse da un nuovo dinamismo. La lottizzazione del latifondo fra i contadini poveri, o la proposta della « collettivizzazione » delle terre gli apparivano, per il mondo agricolo me­ridionale, delle linee di riforma non suscettibili di provocare sviluppo op­pure irreali e impraticabili. Un contributo critico al dibattito tradizionale sulla questione del Mezzogiorno venne dai saggi della studiosa inglese Vera Lutz, pubblicati sulla rivista Moneta e credito nel 1956 e nel 1958, e su Cronache meridionali nel 1962. La sua analisi delle caratteristiche dualistiche dell'economia ita­liana, e in particolare del mercato del lavoro, concludeva con una previ­sione di sviluppo tendenzialmente divaricante.

Su un altro versante si colloca l'azione di Danilo Dolci, che si dedicò a una vasta opera d'indagine sociologica (Inchiesta a Palermo, 1956), e di denuncia « non violenta » delle intollerabili condizioni di vita delle popo­lazioni siciliane.

Un accenno qui merita anche Tommaso Fiore_ autore di Un popolo di for­miche (1951) che riproponeva una forte denuncia delle condizioni della ) società meridionale e in particolare la situazione delle Puglie, che egli aveva analizzato con acutezza nel momento di trapasso dallo Stato liberale al fa­scismo attraverso le colonne di « Rivoluzione liberale » di Piero Gobetti.

Gli anni ‘60

1. Nuova politica e « poli di sviluppo »

Già nel 1953 vi erano stati tentativi da parte del governo volti a incre­mentare alcune iniziative industriali nel Mezzogiorno. La linea fu quella di favorire il finanziamento delle attività industriali meridionali attraverso speciali istituti di credito quali ISVEIMER, l'IRFIS, ecc. Ma fu solo nel 1957 che ebbe inizio quello che fu definito dai « programmatori » il se­condo tempo della politica meridionalistica di parte governativa. Si trat­tava cioè questa volta di un impegno diretto dello Stato a favore dello svi­luppo industriale nel Sud attraverso gli investimenti delle aziende a par­tecipazione statale accoppiati alle agevolazioni creditizie, fiscali, ecc., ai privati che intraprendevano iniziative industriali nel Mezzogiorno. Questa linea di intervento puntò decisamente alla creazione di alcune iso­late aree industriali, privilegiando in questo i grandi complessi di base, siderurgici e petrolchimici. Nuclei industriali di notevoli dimensioni furono allora insediati a Tarante, Brindisi, Gela, Siracusa, ecc. anche coll'implicita convinzione dei programmatori che queste nuove concentrazioni erano oggettivamente destinate a funzionare da « poli di sviluppo » per le aree sociali e geografiche circostanti. Queste ultime, cioè, avrebbero dovuto es­sere spontaneamente coinvolte in un processo generale di industrializza­zione « indotta ».

I  « poli », immisero nuovi capitali, pubblici e privati, nella società meri­dionale e contribuirono indubbiamente a romperne in più punti il vecchio assetto preminentemente agrario. Concentrazioni operaie e nuove forme di occupazione industriale si realizzavano per la prima volta in queste regioni. Tuttavia i poli non provocarono lo sviluppo indotto che si era sperato e l'irradiamento spontaneo della industrializzazione al resto del Mezzogiorno. In realtà, sia nella localizzazione, sia nel tipo di investimento, sia nella scelta del settore, questi interventi ubbidirono essenzialmente agli inte­ressi privati delle industrie del Nord e dei grandi gruppi capitalistici e fi­nanziari: non erano cioè ispirati a una pianificazione organica, industriale e territoriale, dello sviluppo del Sud, ma orientati, nella sostanza, dagli interessi di allargamento e di sviluppo dei settori dominanti del capita­lismo nazionale.

II limite di fondo di questo tipo di strategia dell'industrializzazione fu nella sua caratteristica preminente di aggiunta quantitativa di realtà industriale al Sud agricolo:  senza una profonda modificazione qualitativa del mecca­nismo di sviluppo, che oggettivamente alimentava lo squilibrio Nord-Sud, e che finiva col sottomettere alla sua logica dominante anche questo ten­tativo istituzionale di modificazione.

2. Un nuovo sottosviluppo

II decennio '60 consuma tuttavia un processo di modificazione profonda della società meridionale. Alcune aree come quella di Napoli, di alcune zone della Puglia, della Sicilia orientale, ecc. vanno sempre di più carat­terizzandosi in senso industriale. Cresce relativamente il numero degli ad­detti all'industria, mentre fra il 1961 e il 1971 gli addetti all'agricoltura passano da circa 2 milioni e 800 mila a 1 milione e 700 mila circa. Intere zone delle campagne sono nel frattempo lasciate in abbandono e si svi­luppa con particolare intensità il fenomeno delle migrazioni interne. Lo spo­stamento dalla campagna trasferisce migliaia di famiglie nelle città meridio­nali le cui strutture si gonfiano a vista d'occhio, senza piani regolatori, senza controlli delle Amministrazioni comunali, sotto l'iniziativa sfrenata della speculazione edilizia che in questi anni celebra il culmine delle pro­prie fortune. È anzi in questa fase che i gruppi sociali legati ad essa, sotto la protezione, la connivenza e talora anche l'intreccio col ceto politico diri­gente locale e nazionale, si costituiscono quali nuovi centri di potere nella realtà meridionale.

Nel frattempo, allo stesso modo abnorme in cui si sviluppano le città — senza cioè una minima programmazione territoriale legata ad effettive esi­genze di sviluppo economico — si gonfiano sino alla distorsione i settori del cosiddetto terziario, costretto ad assorbire la domanda di lavoro di una città che cresce su se stessa e non su una reale dinamica di produzione e di sviluppo. È soprattutto la Pubblica amministrazione che a livello occupa­zionale si sostituisce di fatto alle mancate fonti di lavoro nel settore indu­striale e nei servizi. Ed è soprattutto qui che i gruppi dirigenti locali del Mezzogiorno dirottano, attraverso il « filtraggio » clientelare, l'inesauri­bile domanda di occupazione che viene dai ceti proletari e sottoproletari e dai ceti medi. Basti qui menzionare a mo' di esempio — in una situazione generale del Mezzogiorno che pure ha visto aumentare il suo reddito pro­capite sia pure in forme ancor più squilibrate rispetto al Nord — una rilevazione SVIMEZ, relativa alla situazione del reddito meridionale al 1971, che assegna al « reddito » complessivo prodotto nella Pubblica ammini­strazione il 33,5% rispetto a quello nazionale e soltanto il 19,3% per le attività industriali, comprese le attività terziarie private! Il sottosviluppo meridionale cambia dunque volto, dominato com'è ormai dalla realtà della « sovraurbanizzazione », da città gremite di impiegati e di disoccupati. E la fonte dello squilibrio Nord-Sud si rialimenta ora per l'esi­stenza di un ceto medio pletorico e parassita e di altre realtà di interme­diazione e speculative che divorano le risorse prodotte localmente e insie­me quelle « che la collettività trasferisce al Sud per favorirne lo sviluppo ». (P. Saraceno).

3. Il meridionalismo degli anni '60

Non manca in questo decennio l'interesse di singoli e di gruppi per i pro­blemi del Mezzogiorno che ora vengono esaminati, in maniera che si può definire esclusiva, nei loro oggettivi riferimenti con le sorti dello svi­luppo nazionale. C'è ovviamente chi interviene nel dibattito per negare nella sostanza l'esistenza di un « problema dello sviluppo », per affermare cioè che solo un'ulteriore espansione dell'economia del Nord può risol­levare il Sud. Ma nella sostanza la riflessione meridionalistica, con le sue diverse posizioni e collocazioni, non può non registrare i termini sia pur rinnovati di una persistente contraddizione nello sviluppo capitalistico italiano.

Così è ad esempio per Pasquale Saraceno, presidente della SVIMEZ, la So­cietà per lo sviluppo del Mezzogiorno fondata a Roma nel 1946 da stu­diosi privati che ha dato nel corso di questi anni notevoli contributi di conoscenza scientifica della società meridionale, fornendo periodicamente aggiornamenti statistici e di riflessione sui suoi mutamenti interni. Sara­ceno è un acuto osservatore dei meccanismi economici che presiedono al rapporto Nord-Sud e alla sua dinamica ed è stato, fin dal dopoguerra e per tutti gli anni successivi, con posizioni di influenza a livello istituzionale, un sostenitore strenuo della decisività dell'industrializzazione nella solu­zione della questione meridionale.

In una direzione « industrialista », ma animata da umori politici più vivaci e polemici si muove per tutto il decennio la rivista « Nord e Sud ». Ani­mata per lo più da figure come Giuseppe Galasso. storico del Mezzogiorno e della popolazione meridionale, da economisti come Manlio Rossi Doria, da osservatori della realtà meridionale e soprattutto napoletana, come Francesco Compagna, essa aveva pubblicato sul finire degli anni '50 alcu­ni articoli del liberale Rosario Romeo che costituirono per diverso tempo la polarizzazione costante del dibattito meridionalistico. La tesi sostenuta sostanzialmente dallo storico siciliano era - - in netta opposizione alla tesi gramsciana sulla mancata rivoluzione contadina sostenuta in vario modo dalla storiografia marxista — l'asserita necessità, al momento del­la formazione dello Stato unitario e nei decenni successivi, del « sacrifi­cio » dei contadini, soprattutto meridionali: cioè della necessità di com­primere i loro consumi e il loro livello di vita per far sorgere e svilup­pare nelle regioni nel Nord una moderna realtà industriale. La polemica divampò allora su questo problema raggiungendo a volte toni anche molto aspri. Ma essa fu anche occasione di nuovi studi storici sul Mezzogiorno e sulla questione meridionale, contribuendo a creare, al contempo, il nuovo clima culturale in cui viene ripubblicata l'Antologia della questione meridionale, (1962) di Bruno Caizzi, Rosario Villari pubblica II Sud netta Storia d'Italia (1961), la SVIMEZ sistema i « dati statistici sulla questio­ne meridionale » con il volume Statistiche sul Mezzogiorno d'Italia (1861-1960), Saraceno pubblica il suo saggio miscellaneo, La mancata unificazio­ne economica italiana a cento anni dall'unificazione politica ( 1961 ); Romeo aveva dato alle stampe Risorgimento e capitalismo (1959). « Nord e Sud » ovviamente non si identificava con le posizioni del Romeo, ma nella sostanza perseguì una visione tecnocratica dei problemi del Mezzogiorno; fiduciosa cioè che la razionalità tecnica di una buona politica governativa di intervento per l'industrializzazione avrebbero potuto risol­vere positivamente i problemi dello « squilibrio nazionale ». Sempre a livello di gruppo informale o di singolo ricercatore vanno qui almeno men­zionati studiosi quali Nino Novacco, Nicola Cacace, ecc., facenti parte del cosiddetto « Gruppo dei meridionalisti di Bari », che conducono ricorrenti analisi sull'evoluzione dell'attuale realtà meridionale, sia attraverso i ca­nali della SVIMEZ, sia attraverso interventi su « Mondo economico », ecc..

4. Il meridionalismo di massa

Ma accanto all'attività conoscitiva o ideologica di singoli personaggi o di gruppi intellettuali più o meno organizzati, va fatta menzione di un'altra attività « meridionalistica » di ben più vaste dimensioni e di più pro­fonda incisività materiale. Si tratta innanzi tutto di quello che possiamo definire il « meridionalismo di massa » implicito nell'attività del sinda­cato. Esso infatti in Italia, sin dall'immediato dopoguerra, aveva svolto un ruolo specifico ma socialmente rilevante in favore delle masse lavora-trici meridionali: grazie al conseguimento di contratti nazionali per le diverse categorie, l'unificazione normativa e assistenziale, ecc., e tutta una serie di altre conquiste - - strappate grazie soprattutto al maggior peso politico della classe operaia del Nord - - che andavano a beneficio anche della povera e disgregata classe operaia del Sud, contribuendo ad un tempo a migliorare la situazione sociale complessiva del Mezzogiorno. Ma esiste anche un impegno meridionalistico diretto del sindacato, che non è certo meno importante. Proprio agli inizi degli anni '60, in conco­mitanza con la ripresa delle lotte operaie nel Paese, il movimento sin­dacale riprende direttamente la problematica e l'impegno meridionalistico. Nella primavera del '60, la CISL organizza un Convegno sull'azione sin­dacale nel Mezzogiorno per individuare i nuovi compiti del sindacato a dieci anni della politica di intervento dello Stato nel Sud. La CGIL tiene la sua prima Conferenza meridionale nel 1961, in cui vengono messi a punto errori e debolezze del passato e viene ad un tempo compiuto un notevole sforzo di conoscenza e di aggiornamento dei dati nuovi che carat­terizzano la società meridionale. Segue a questa la 2a Conferenza meri­dionale, tenuta a Bari nell'estate del '63 e infine la 3a Conferenza, svoltasi a Palermo nel dicembre del '65. Quest'ultima costituisce un importante passo in avanti nell'elaborazione meridionalistica della CGIL, perché essa coglie con più forza che in passato il legame fra strategia generale del sin­dacato nei confronti delle masse lavoratrici e questione del Mezzogiorno. Nella consapevolezza che « gli aspetti più gravi della situazione italiana investono contemporaneamente, anche se in modo diverso, tutti i lavora­tori italiani » essa punta a concepire i problemi meridionali in una visione sempre meno settoriale e in cui fortemente viene sottolineata « l'unità sostanziale degli interessi e degli obiettivi di lotta dei lavoratori in tutto il Paese ».

Il momento di riflessione e di elaborazione non resta comunque il solo dell'iniziativa meridionalistica del sindacato negli anni '60. Proprio sul finire del decennio, dopo un periodo di serio allentamento nel rapporto fra iniziativa sindacale e problema meridionale, l’impegno unitario delle tre Confederazioni nazionali rilancia con una lotta di massa una fase nuova di intervento del sindacato nel Mezzogiorno. E' la lotta contro le « gabbie salariali », cioè per l'equiparazione dei salari contrattuali del Sud a quelli degli operai di Milano e delle altre regioni del Nord. E una grande rivendicazione di classe e sociale, che unisce veramente il Nord e il Sud nella lotta contro una odiosa discriminazione e nello stesso tempo tende a unificarli su un fatto di principio. Per l'esito vittorioso di quella lotta, che gli operai meridionali intrapresero con straordinaria partecipazione di massa, il sindacato chiamò alla solidarietà di classe il determinante inter­vento dell'intero schieramento operaio dell'Italia settentrionale. Nella stessa dimensione politica di massa va qui collocato l'impegno me­ridionalistico dei partiti della sinistra, del PSI e del PCI. In questo caso il meridionalismo si traduce in una complessa attività intellettuale e pra­tica che unisce all'analisi la proposta politica, alla conoscenza sociologica la divulgazione fra le masse, alla critica dello stato presente della realtà meridionale le indicazioni per l'intervento politico concreto e riformatore. (Per il PCI l'impegno meridionalistico ha anzi costituito un momento spe­cifico di impegno scientifico e culturale, soprattutto con la fondazione della rivista «Cronache meridionali» (1953), che per più di un decennio vide impegnate figure di giovani intellettuali meridionali di sinistra, sti­mati perfino da un avversario polemico quale il vecchio Salvemini). In questi anni la riflessione dei partiti della sinistra sul Mezzogiorno è prevalentemente assorbita dal dibattito in corso sui problemi dell'indu­strializzazione del Sud. È soprattutto l'evidente insufficienza dei poli di sviluppo a trasformare la società meridionale — così come inadeguata a risolvere i problemi dello sviluppo appariva già allora la politica dei socia­listi impegnati, tramite la loro azione di governo, a dotare il Sud di un vasto impianto di infrastrutture industriali e civili — che porta gran parte del movimento operaio ad una critica serrata della politica di inter­vento straordinario e al tipo di strategia sin lì perseguito dalle forze di governo. Le proposte alternative che scaturiscono da questa impostazione sono soprattutto tese al conseguimento di una trasformazione strutturale dell'agricoltura: quale premessa organica e necessaria di un nuovo tipo di industrializzazione, che sia più saldamente legato alla realtà sociale e alle risorse proprie del Mezzogiorno.

Gli anni ‘70

1. La rivolta di Reggio Calabria

I fatti di Reggio del 1970 e degli inizi del 1971 non sono un semplice incidente provocato dalla questione del capoluogo regionale, né il sem­plice parto provocatorio delle squadre neofasciste che imperversarono per mesi in quella città. Il Mezzogiorno era già esploso in più punti e in dif­ferenti realtà sociali: da Isola Capo Rizzuto a Cutro, da Avola a Batti­paglia, esprimendo in forma di rivolta sociale l'intollerabilità di contrad­dizioni che lo sviluppo capitalistico e insieme la sua assenza o insuffi­cienza vi avevano prodotto.

Reggio è la città più grande della Calabria: di quella regione cioè che nel censimento del 1971 ha visto diminuire del 12,4% i propri addetti all'in­dustria rispetto nientemeno che al censimento del 1951! È facile imma­ginare come le contraddizioni abnormi delle città meridionali, già accen­nate nel capitolo precedente, qui covassero in una situazione in cui la miseria dei ceti sottoproletari dei vecchi rioni, il rancore dei disoccupati stanchi di fare i « clienti » dei partiti locali, la frustrazione dei giovani senza prospettive di lavoro avevano da tempo, in modo latente, reso esplo-siva. Lo stesso obiettivo di « Reggio capoluogo », il cieco puntiglio campanilistico che chiamò sulle piazze i diversi ceti della città, sono da soli, nella loro assurdità, la conferma della disperazione sociale e politica cui era pervenuta una intera popolazione. E solo questo può spiegare il suc­cesso di massa dell'inserimento fascista nei moti e la cinica strumentaliz­zazione di notabili locali e dello stesso sindaco democristiano a cui in quel momento non veniva chiesto il conto politico del governo della città in qualità di sindaco e di quello dell'intero Paese in qualità di democri­stiano... E anche vero tuttavia che la debolezza delle organizzazioni di massa del movimento operaio e la perdita di consenso popolare --di cui le rivolte della fine degli anni '60 erano stati « segni » premonitori -- per­misero che le masse popolari reggine ritenuti ormai inservibili i canali tradizionali della lotta politica e rivendicativa per un mutamento della situazione esistente, si siano lasciate trascinare in una rivolta senza sboc­chi e, alla fine, apertamente reazionaria.

2. Sindacato e Mezzogiorno

La lotta vittoriosa per abolire le discriminazioni salariali tra gli operai del Nord e del Sud, favorita sul finire del decennio '60 dai progressi dell'unità sindacale fra CGIL, CISL e UIL, non rimane comunque un capi­tolo isolato dell'impegno meridionalistico di massa del sindacato. Gli stessi avvenimenti di Reggio ripropongono semmai drammaticamente lo acutizzarsi dei problemi meridionali e la necessità di una più approfondita riconsiderazione del rapporto Mezzogiorno-sindacato all'interno delle tre Confederazioni.

Nasce così, sulla spinta dei nuovi fatti politici, la prima Conferenza sin­dacale unitaria sui problemi del Mezzogiorno, che si svolge a Roma nella primavera del 71 e che è accompagnata da una imponente manifestazione di lavoratori confluiti da tutte le regioni d'Italia. Ad essa segue il Con­vegno di Bari del febbraio del 72, in cui il dibattito si concentra essen­zialmente sulla strategia dell'intervento sindacale nel Sud e sulle prospet­tive del suo sviluppo. Ma il momento forse politicamente più signifi­cativo di quest'impegno nazionale del sindacato per il Mezzogiorno è la Conferenza che si svolge proprio a Reggio Calabria, la citta sconvolta dai moti dell'anno precedente, dal 20 al 22 ottobre del 72 e che si conclude con una straordinaria manifestazione operaia — degli operai giunti da tutte le regioni del Paese — per le vie della città. Questa Conferenza, promossa dalla Federazione dei metalmeccanici, dagli edili, e dalla Federbraccianti sarà seguita in dicembre da un convegno per quadri sindacali organizzato dalle tre Confederazioni a Napoli, che ha al centro la messa a punto delle strategie rivendicative da perseguire per lo sviluppo del Mezzogiorno.

Questo insieme di impegni organizzativi, e a un tempo di iniziative a livello di analisi e di elaborazione, segnano un momento assai importante e nella crescita specifica del movimento sindacale in Italia e — per quello che qui ci interessa — nella storia dell'analisi del Mezzogiorno e dell'im­pegno meridionalistico. Nella riflessione del sindacato i problemi attuali della  società meridionale  tendono  ad identificarsi  sempre di più con i problemi dell'intero sviluppo del Paese:  II Sud non è il luogo fisico del mancato sviluppo — presso cui cioè sarebbe sufficiente intervenire con strumenti di puro riequilibrio economico — ma è ad un tempo eletto e funzione di un modo storicamente determinato di produrre la ricchezza, di utilizzare le risorse, di organizzare la vita sociale dell'intera collettività. E nello squilibrio del Mezzogiorno all'interno della generale crisi nazio­nale di questi primi anni 70 è la denuncia oggettiva, per il sindacato, dell'esaurimento di un modello storico di accumulazione, quello fin qui perseguito  dal  capitalismo  italiano  con  l'ausilio  dell'intervento  e  della mediazione statuale. Ma l'elaborazione meridionalistica del sindacato non si ferma né si esaurisce nell'analisi e nella denuncia di quanto di negativo e di distorto è nello sviluppo attuale e nelle sue conseguenze dentro la società   meridionale.   Essa   punta   invece,   contestualmente,   più   che  nel passato, a indicare in positivo le linee alternative da seguire, le cose con­crete da chiedere e da fare. È proprio al Convegno di Napoli che le Con­federazioni elaborano la proposta di un « progetto globale », in cui le indicazioni relative al Mezzogiorno si intrecciano con le proposte concrete di un nuovo modello di sviluppo, perseguibile attraverso le riforme e un nuovo orientamento verso i consumi sociali. Nel documento conclusivo di quel  Convegno  si  dichiara:   « L'azione  per  le  riforme  deve  costituire momento fondamentale della nuova strategia di sviluppo. Non si tratta tanto di proporre un'astratta meridionalizzazione delle riforme, ma di co­gliere in concreto i nessi e le interdipendenze fra la domanda pubblica di case, scuole, ospedali, trasporti e le occasioni di allargamento della base produttiva e quindi dell'occupazione al Sud, di qualificazione e rafforza­mento  dell'intero  apparato produttivo, in seguito  al superamento degli squilibri settoriali e territoriali ».

Nel segno di questa nuova consapevolezza teorica e politica, la vertenza aperta dalla Federazione lavoratori metalmeccanici (FLM) con le Parte­cipazioni statali e l'impegno nelle lotte aziendali degli operai del Nord per nuovi investimenti industriali nel Mezzogiorno rappresentano sino ad ora, con tutti i loro limiti — impliciti soprattutto nella capacità di traduzione di queste indicazioni in termini di orientamento e di lotta nelle organizzazioni meridionali del sindacato — il momento importante e significativo del nuovo meridionalismo di massa degli anni ‘70.

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Ultimo aggiornamento:  31-12-08