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"L’Albergo dei poveri… più in là il liceo Garibaldi"

Entro, come molti altri napoletani, nell’Albergo dei Poveri per la prima volta lo scorso giugno. Sono fra gli spettatori di un adattamento della Tempesta di Shakespeare: fa caldo, è una notte stellata. Gli enormi spazi, un’edicola gotica, inaspettata in un edificio settecentesco, restituiscono l’impressione di attraversare navate medievali. Come se l’utopia illuminista di Maria Amalia e Carlo III nascondesse un cuore da secoli bui: non è forse un’impressione sbagliata, l’Albergo nato per raccogliere tutti i poveri di Napoli alla fine diventò un ghetto dove capibastone comandavano alle donne di prostituirsi e nuove logiche di potere tenevano in scacco la micro società costituitasi nel grande palazzo, una sorta di ospedale non diverso da quello immaginato in «Cecità» da José Saramago dove i ciechi sono sopraffattori di altri ciechi. Dalla prima campata usciamo, seguendo gli attori poiché lo spettacolo è itinerante, in una corte piena di sterpaglie, dove si affacciano finestre restaurate e non, dove crescono alberi e c’è d’improvviso odore di campagna. Un odore di umido e fiori e erba selvatica, un sentore di lucertole e insetti, così strano da annusare in piena città e che doveva essere invece naturale trecento anni fa, quando Napoli, pur enorme, non era una megalopoli e la campagna, la «parula», entrava fra i palazzi dei signori e i vichi della gente. E tutti, noi spettatori, ci guardiamo intorno, anche se seguiamo lo spettacolo, ma è chiaro che c’è curiosità, che siamo come alieni capitati in visita in un mondo nuovo, tanto più inquietante perché è un mondo che abbiamo sempre visto dall’esterno: dai ponti della tangenziale, da Piazza Carlo III, e in cui mai abbiamo potuto entrare. L’Albergo dei Poveri, ridipinto solo nella facciata e parzialmente ristrutturato, ma fastosamente illuminato per il pubblico e le autorità, è come la luna. E noi siamo Neil Armstrong. L’incanto dura poco, un amico mi dice: «Il cortile è stato disegnato secondo un criterio esoterico, se si gira il palco male si perderà il vantaggio di questo schema». La Tempesta ci distrae, i mille occhi ciechi dell’Albergo ci fissano. Piazza Carlo III è, in fondo, l’Albergo stesso. Anche se è il riferimento più vicino per gli autobus che vengono dalla provincia, il perno che precede piazza Garibaldi. È una piazza fantasma, nonostante i giardini, poco frequentati anche al mattino, benché ci siano scuole vicine: in questi giorni, ad esempio, vado per lavoro al liceo Garibaldi. Chiedo ai ragazzi se hanno mai fatto una ricerca sull’Albergo e in effetti mi dicono che no, non è capitato. Anche l’edificio del liceo è una grande struttura con una corte al centro. Nelle strade intorno coesistono mondi paralleli: dietro l’Albergo, ad esempio, c’è via Carlo De Marco, un lato liberty di Napoli del tutto ignoto, anche perché la strada va a terminare in parchi chiusi. Le palazzine costruite fra fine Ottocento e primo Novecento sono poco restaurate, schiacciate dal profilo del ponte della tangenziale che, altissimo, le sovrasta. Statue aggraziate, fiorami, portichetti un tempo affacciati su giardini e anche qui presumibile campagna. La strada sale fino a Capodimonte, costeggia il bosco. Alle spalle c’è l’Arenaccia, ci sono i Ponti Rossi, ultimo reperto romano fra condomini spaziali e degradati. Dal lato che volge verso la Stazione e il Centro direzionale le strade sono larghe - corso Garibaldi, ad esempio - e piene di negozi con abiti giaguarati e scarpe da ginnastica incrostate di strass. Camminano poche persone nei vicoli che connettono le vie maggiori, così è facile si verifichino fatti orrendi, come l’ultimo che ha occupato i giornali, lo stupro di un bambino a piazzetta Poderico, in pieno giorno. Possiamo immaginare che la faccia del «mostro» che l’ha stuprato non sia diversa dalle facce di tanti diseredati che l’Albergo per qualche anno ospitò, fino a che il Regno non si rese conto che il mastodonte era un capitolo di spesa insostenibile e che a Napoli di poveri, bisognosi e di «mostri» ce n’erano proprio troppi. Dei troppi fantasmi, delle brutte apparizioni che abitano piazza Carlo III, ha reso conto a suo modo qualche anno fa Tahar Ben Jelloun nel romanzo che porta il nome dell’Albergo: una vecchia che abita i sotterranei del palazzo tiene in scacco l’alter ego dello scrittore, venuto a Napoli per un concorso promosso dal sindaco della città fra tutti gli scrittori del mondo. La vecchia chiede allo scrittore: «Che vieni a fare qui? Di che t’impicci?». E lo scrittore una risposta non ce l’ha, anche se il suo sguardo collega la vicina Africa con Napoli in un dialogo che passa per la Stazione centrale, per i banchi dei venditori di borse, di platano, di scarpe, che parlano in wolof, in arabo, in francese. Insomma, a piazza Carlo III il tempo scorre eppure è immobile, come direbbe Aldo Masullo: i nomi dei re che vollero tentare di mettere riparo al disastro urbano della città, impegnando anche le gioie personali (l’Albergo, senza mai essere finito, costò oltre cinquantamila ducati, oggi lo stanziamento previsto per il recupero è di 83 milioni di euro), gli stupratori dell’oggi, i ladri d’auto («Mai parcheggiare qui vicino», dice una professoressa del Garibaldi, «l’attività è continua»), ma anche i ragazzi del Liceo che hanno le facce più pulite e simpatiche che io veda da anni. Ragazzi per cui andare al liceo classico è ancora un’avventura positiva, la speranza di un riscatto, il luogo della cultura e del futuro. Hanno avuto in visita da poco la famiglia di Dario Scherillo, il ragazzo morto per errore durante una sparatoria a Casavatore. Sono rimasti tutti molto colpiti e hanno scritto dei racconti sul blog della scuola. Più d’uno è bello, ma cito fra tutti quello di Sara Castaldi, che fa dire a Dario un attimo prima di morire: «Pasquale avrebbe avuto un figlio con il mio nome e avrebbe vinto la scommessa, si sarebbe sposato dopo due anni; prima di me. Marco e mio padre avrebbero portato avanti l’autoscuola con i miei mobili in faggio, mia madre avrebbe giocato col suo primo nipotino e Maria si sarebbe fidanzata con un bravo ragazzo, adatto a lei. Per quanto riguarda me, avrei potuto fare un’infinità di cose, ma mi limito a vivere attraverso il ricordo della gente, dei giovani, di Sara». Si rinnova nel sorriso di questi ragazzi, nelle aule tranquille e accoglienti del Garibaldi la speranza di piazza Carlo III: Maria Amalia voleva che l’Albergo ospitasse scuole. Non capì che per salvare Napoli tutta la città doveva, e ancora dovrebbe, diventare un’enorme e bella scuola.

Antonella Cilento

da IL MATTINO (pag. 51) di domenica 8 marzo 2009


"Garibaldi's" graffiti

Il Liceo "Garibaldi", e non so se è un fatto positivo, lo ricordo sempre così, oggi come nel '62-'64, abbarbicato sulla sottostante Scuola Elementare: ieri, avvoltoio pronto a slanciarsi sulle prede, ma oggi tanto simile ad una chioccia nella cova dei pulcini.

Di quegli anni, i più belli, comunque, per i giovani di ieri (ma penso che il quinquennio delle Superiori, valido o negativo che possa essere, od essere stato, lasci sempre qualche traccia di sé nella memoria), di quegli anni, dicevo, ricordo...

...i tre al Latino ed al Greco orale segnati sulla prima pagella trimestrale del primo liceo per essere stato sorpreso "non composto", nel tentativo di farmi restituire un taccuino da un compagno all'inizio della prima ora del primo giorno di scuola;

...e, quindi, l'"assurdo ed impietoso" esamino sostenuto a maggio su tutto il programma delle due materie, dal classico alla lettura metrica, dalla letteratura alla sintassi, nel tentativo di "recuperare" una promozione messa in forse solo dal suddetto atto "inconsulto";

...e l'altro esame istituzionale, quello di fine biennio, che vedeva adolescenti imberbi simulare austeri momenti universitari, davanti ad una Commissione di cui faceva parte quel professore del triennio che tanto avrebbe inciso sulla futura vita scolare;

...il "Lei" con cui molti professori ci chiamavano, nel tentativo parossistico di mantenere distanze già... chilometriche;

...le quattordici interrogazioni, in venti giorni, avute in Filosofia, le tredici in Storia, solo perchè, per la supplente di dette materie, avevo il torto di avere un cognome iniziante con la lettera "A" (faceva ogni volta due o tre interrogazioni andando sempre in ordine alfabetico e, quindi, ...);

...lo "sciabordìo" dei bussolotti sulle pareti metalliche di un contenitore di pasticche contro il mal di stomaco, segno per la professoressa di Matematica, che era giunto il momento dell'offerta sacrificale al suo dio;

...il fracasso assordante che facevano dieci, o venti, o trenta chiavi che l'insegnante di Lettere del biennio catapultava sulla cattedra di ferro ogni volta che sentiva un vago parlottare, lontanissimo parente di un attuale discorrere a bassa voce;

...l'1= (e fui tra i migliori) avuto al primo tema liceale quando, dopo un biennio passato tra Virgilio e Manzoni, ci trovammo la traccia "Commentate 'La capra' di Saba": tentammo con reminiscenze zoologiche, ma non ci andò bene;

...le non-spiegazioni di letteratura, le non-traduzioni dei classici (nè c'erano allora "alternative" al Rocci!) da parte di un professore troppo filologo e troppo impegnato a far carriera all'Università;

...la camicia bianca e la cravatta scura: un pò la divisa dello studente del liceo classico di un tempo;

...l'eccezionale abilità e velocità nello scrivere raggiunta, grazie al professore di Filosofia, dopo un triennio di appunti presi dal... libro di testo;

...la spietata aridità della professoressa di Scienze, più fredda e... incomprensibile delle sue materie;

ma anche,

...le domenicali scorribande fatte d'inverno a Roccaraso su "economici" pullmans che a stento avevano la gomma di scorta; ci vedevamo alle cinque del mattino e vestiti alla Fantozzi, con più pigiami sotto la tuta (fittata con gli scarponi al Vomero) affrontavamo le "nevi eterne" ed i relativi disagi: al ritorno era un'ammucchiata di corpi inerti e... doloranti;

   

...le feste "obbligatorie" a casa delle compagne di classe: un momento importante e "sentito" di conoscenza reciproca, con giradischi sempre più lenti e pasticcini a volontà, ma con mamme e nonne sempre sul chi va là;

...la partecipazione non facoltativa alla squadra di rugby della Scuola (vivaio dell'esaltante e scudettata "Partenope"): io, non più alto di un metro e sessanta, mingherlino ed occhialuto!

   

...gli amori che, come funghi, spuntavano improvvisamente, ma che, più dei funghi, velocemente marcivano o eternamente duravano, senza, però, che... i diretti interessati sapessero della "cosa";

...gli affollati bagni della Scuola, destinati ad ospitare tutti i ritardatari della prima ora, occasionali o diplomatico-abusive che fossero le motivazioni, o quelli "sentitisi male" durante un'interrogazione;

...quelle maledette scale fatte da noi, giorno dopo giorno, carichi come ciuchi, con l'unica soddisfazione di vedere anche i "prof" appesantirsi sempre di più, come normali esseri mortali;

   

...gli scioperi; no, "...lo" sciopero, l'unico in cinque anni, dovuto (se ben ricordo) a cinque esploratori italiani precipitati in Congo e divenuti pasto degli indigeni (ma a trant'anni di distanza mi sfugge ancora la "seria" motivazione allora addotta per un evento così raro!);

...i filoni; no, "...il" filone, ed anche sfortunato: tutti ed otto (tanti eravamo di numero i maschi della classe), uscendo da un vicoletto seminascosto di via Foria, incrociammo il Dettatore Maledetto e... furono guai!

 

...le feste dei Cento Giorni che, avvenimento da sempre destinato ad incrementare le disseccate finanze degli organizzatori, si ripetevano corso dopo corso, terza dopo terza, legalmente o clandestinamente, fin quasi a ventiquattr'ore dal famigerato Esame di Maturità;

...i pomeriggi, le serate, le nottate, dedicate ad uno studio indefesso, continuo, fatto anche di chili di pasticche di Acutil, da tutti quei pochi fortunati, sopravvissuti alla selezione naturale, destinati ad affrontare l'Esame per antonomasia, l'Esame con quattro prove scritte, l'Esame con i riferimenti obbligatori, l'Esame pur esso selettivo, l'Esame che ancora oggi non riesco a dimenticare.


Al Liceo Garibaldi

Per chi dalla provincia arrivi a Napoli, con il treno, con l'autobus o in automobile, il liceo classico più vicino è il glorioso "Giuseppe Garibaldi", un imponente edificio di tre piani che si affaccia su piazza Carlo III, ma il cui ingresso è situato in via Carlo Pecchia, sfrontatamente ribattezzato dagli studenti irrispettosi  "via Carlo Pacchia“.
Proprio per la facile accessibilità ai provinciali non è mai stato un liceo snob come il Sannazaro, ma molto democratico, accogliendo, sì, i figli del medico di Acerra, dell'ingegnere di Afragola, del professore di Posillipo, del geometra del Vomero o dell'architetto di Pollena Trocchia, ma anche i ragazzi provenienti da famiglie più modeste.
I genitori di questi ultimi, essendosi i loro figli dimostrati promettenti e volenterosi nello studio, una volta facevano mille sacrifici per mandarli a scuola, convinti che l'accostamento al favoloso mondo del liceo classico avrebbe assicurato loro un buon avvenire.
E fu proprio in questo crogiuolo di studenti dalle origini più disparate che, tanti anni fa, fece il suo ingresso anche Paoletta Cannavacciuolo di via Sant'Attanasio, figlia di una coppia che potremmo definire di proletari benestanti, essendo il padre un  carnacottaro 2 col bancone al corso Garibaldi, e la madre un’ ugliarara 3 che aveva ereditato dai nonni una rivendita di olio, olive e capperi nei pressi del liceo.
Dei genitori il personaggio più singolare era sicuramente la madre, un donnone di novanta chili di peso per un'altezza di circa un metro e cinquanta, con una folta peluria scura sul labbro superiore e,
a dare ascolto a certi pettegolezzi, anche intorno al mento.
C'era, infatti, chi asseriva di aver intravisto un giorno, da uno spiraglio lasciato inavvertitamente aperto nel basso dei Cannavacciuolo, la donna seduta, con un largo tovagliolo intorno al collo, la testa reclinata all'indietro, ed il marito armeggiarle intorno con pennello, crema e rasoio nell'inequivocabile atteggiamento di chi si accinge ad eseguire una bella rasatura.
La cosa fu risaputa subito in tutto il quartiere e, dopo un po', ci si cominciò ad interrogare sul perché l'uomo non eseguisse una rasatura completa, eliminando alla consorte anche i baffi, e la spiegazione comunemente data dalla saggezza popolare fu che "alla donna i baffi crescono più velocemente della barba".
In verità il poveretto non riusciva a tenere il passo con la ricrescita della peluria, sicché, di comune accordo con la moglie, aveva deciso di desistere dall'impresa ed arrendersi all'evidenza: effettivamente i baffi crescevano troppo in fretta!
Comunque Paoletta non si lasciò mai sfuggire alcun commento sui baffi materni, né le sue amiche fecero domande al riguardo.
La ragazza fu, dunque, assegnata alla sezione C della quarta ginnasiale, poiché a quei tempi il liceo classico era ancora suddiviso nel biennio del ginnasio e nel triennio superiore.
Inizialmente le compagne di classe arricciarono il naso di fronte alle sue origini ma, ben presto, la bontà e la socievolezza del carattere di Paoletta fecero crollare ogni riserva.
Lo studio della lingua latina e di quella greca si rivelarono, però, un vero e proprio campo minato per la poverina che, con tutta la buona volontà, proprio non riusciva a districarvisi, assimilando queste materie in modo del tutto personale e riducendole a mere barzellette. Per esempio, era convinta che tutte le parole greche terminassero in  os  e tutte quelle latine in  orum, non distingueva un dativo singolare da un nominativo plurale della prima declinazione latina, confondeva i significati dei verbi  e, puntualmente, scambiava i deponenti con la forma passiva.

Per quanto riguarda la lingua greca, in particolare, si ostinava ad ignorare le diverse sfumature di significato di uno stesso vocabolo, e fu così che una volta, in una sua traduzione, Didimo il Cieco, noto filosofo cristiano autore, tra l'altro, di uno scritto in tre libri Sulla Trinità, ricco di citazioni delle Sacre Scritture, ed anche di versi di antichi poeti, divenne "Didimo l'Ottuso". Poi ci fu l'episodio clou: un bellissimo  repente  di un brano di Seneca tradotto con un napoletanissimo  all'intrasatto4, squisito vocabolo dell'idioma partenopeo ma completamente inadatto per una versione dal latino in un liceo classico.
La permanenza di Paoletta al liceo Garibaldi fu, pertanto, di breve durata, essendosi rivelata negata per lo studio dei classici, per cui non terminò nemmeno l'anno scolastico, tuttavia superò rapidamente la delusione confortata dalla madre che asserì:
-‘O liceo nun  è fatto per mia figlia!  - ma  era la figlia a non essere idonea allo studio dei classici.
E così Paoletta non andò più a scuola ma cominciò ad aiutare la madre in bottega, però, di tanto in tanto, le ex compagne passavano a salutarla e lei ne era felice.
Impettita andava dietro al bancone, prendeva un foglio di carta oleata, lo avvolgeva in senso trasversale, spingeva il bordo inferiore all'interno del cono ottenuto, tuffava il mestolo forato nella tinozza contenente le olive di Gaeta, ne lasciava colare l'acqua, con solennità le versava nel cono e, offrendolo alle amiche, chiedeva:
-Meglio 'o latinorum o nu cuppetiello 5 d'aulive6?-
-Nu cuppetiello d'aulivos ! - rispondevano in coro le ragazze ridendo.
E, un po' in disparte, rideva anche la madre...sotto i baffi, però.

 

1 ) venditore di frattaglie bollite di maiale

2 ) venditrice di olio

3 ) involucro di carta a forma conica contenente le olive

4) olive

 

  Racconto premiato al 5° Premio Letterario Internazionale

"Tra le parole e l'infinito", ottobre 2004


Liceo Garibaldi, pilota con la doppia "formazione" di Tiziana Rossi

Lunedì riaprono le scuole in Campania. E tra polemiche e disagi vecchi e nuovi - "caro-libri", cattedre non ancora assegnate ai supplenti, riforme annunciate poi approvate poi ritirate poi "ri-formulate" - le famiglie si interrogano sulla scelta dell'indirizzo di studi intrapreso dai figli. Meglio il liceo, un bagaglio culturale "valido per tutte le stagioni" ma improduttivo ai fini di un'immediata occupazione, o istituti tecnici e professionali, meno formativi sulla carta, ma auspicabilmente più agganciati al mondo del lavoro? La questione è annosa:letteratura-filosofia-storia da una parte e saperi tecnici ed esatti dall'altra sono stati separati da un gap apparentemente incolmabile in Italia. Si è tentato, allora, di innestare una massiccia dose di skill moderne - informatica, potenziamento di matematica e scienze naturali - nel curricolo spiccatamente umanistico della scuola italiana, del liceo classico gentiliano in particolare.
La suggestione di matrice anglofila si è tradotta in un calo costante delle iscrizioni al classico e nella parallela esplosione di liceo scientifico e istituti tecnici. Molti osservatori avanzano un dubbio: è un errore di prospettiva credere che la tradizione possa essere così facilmente - e in modo indolore - dismessa. Se le generazioni in formazione oggi appaiono sempre più afasiche, a disagio rispetto alla costruzione logica dei nessi causali tra fatti e fenomeni, in difficoltà rispetto alla decodificazione dei linguaggi, la colpa è - certo - della televisione cattiva maestra, di internet, della globalizzazione culturale, dei brainframe strutturati dai linguaggi frammentari di sms e scritture digitali. E ogni riforma del sistema formativo che non coniughi inevitabili processi di integrazione e di standardizzazione di saperi e competenze (i portfoli e gli skill profile europei) con il meglio della nostra via filosofico-argomentativa è destinata ad accentuare processi di degradazione culturale.
Il liceo classico napoletano "Giuseppe Garibaldi" ha da tempo imboccato la via della combinazione fruttuosa di vocazione umanistica e attenzione agli altri linguaggi, soprattutto quelli della contemporaneità. La progettualità extracurricolare dello scorso anno scolastico ha visto la scuola aperta al territorio soprattutto nel "Maggio degli eventi", attiva forma di interazione con il territorio. Nel segmento "Pio Monte della Misericordia - Help points", il linguaggio della storia dell'arte si è incontrato con l'insegnamento dell'inglese: durante tutto l'anno gli alunni sono stati formati per fare da guida ai turisti di lingua inglese presenti in città nel Maggio dei monumenti, potenziando la capacità di lettura dell'opera con una padronanza lessicale bilingue.
Il Pio Monte della Misericordia, del resto, è monumento già da tempo "adottato" dal Liceo in un circuito virtuoso di contributo attivo reso alla città e di accresciuto senso di appartenenza nei ragazzi. Altri esempi di integrazione dei linguaggi: il "Laboratorio teatrale", culminato nella messa in scena di una rivisitazione dei "Menaechmi" plautini; la "Conoscenza storica del territorio" (analisi e trascrizione di documenti dell'Archivio di Stato, di quello storico del Comune di Napoli, della Biblioteca nazionale, dell'Istituto campano per la storia della Resistenza); "Riscoprire e creare" - acquisizione di tecniche di scavo archeologico, di modellazione, di decorazione della ceramica. All'insegna dell'interculturalità, poi, il progetto "Educazione alla pace. Mondo arabo e Islam tra immaginazione e realtà", implementato in rete con altre scuole del territorio e della provincia nella comune volontà di fugare l'ombra di uno "scontro di civiltà" che non si sforza di capire le ragioni dell'altro. Un ponte verso il mondo del lavoro, con tanto di formazione a marketing e management, con "Studiare l'impresa. L'impresa di studiare", frutto di una sinergia tra mondo industriale, "Il Mattino" e scuole, mirata ad abbreviare il divario tra mercato del lavoro e formazione.
A completare il quadro le certificazioni europee di lingua inglese, ma anche tornei di pallavolo, attività di educazione al ritmo e al movimento. "Last but not least" il progetto "Qualità", concepito non come mero "guadagno" all'istituzione della certificazione burocratica - nella fattispecie la Uni En Iso 9001:2001 - ma come riflessione interna finalizzata al costante miglioramento del servizio in un'ottica student-centered.


del 15-09-2007 num. 170

 

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Ultimo aggiornamento:  09-03-09